Le stronzate di Pulcinella

RACCONTIAMO NAPOLI E I NAPOLETANI (usi,costumi,tradizioni di un popolo e di una citta')

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sefora1
view post Posted on 23/6/2008, 10:19 by: sefora1
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Un paradiso abitato da diavoli”: questa era l’immagine che la Napoli barocca offriva ai viaggiatori europei che vi arrivavano seguendo il “Grand Tour” d’Italia. Quello che era stato il giardino del Mediterraneo, “Napoli gentile” e luogo di delizie, dopo la rivoluzione di Masaniello (1647-48) aveva svelato un altro volto, quello sulfureo e demoniaco di una parte della popolazione costretta a vivere per strada sotto la minaccia del vulcano Vesuvio e di condizioni di vita disumane. I cosiddetti “lazzari” o “lazzaroni” agli occhi dei viaggiatori apparivano come dei perdigiorno senza far niente, inclini solo a depredare e commettere ogni sorta di delitti. Napoli era del resto alla fine del Seicento la città più popolosa d’Europa dopo Parigi, con oltre 400.000 abitanti. Ma restava la capitale della musica, con i suoi quattro conservatori (nati nel primo Seicento come orfanotrofi), le sue istituzioni musicali prestigiose, le sue invidiate compagini di suonatori e cantanti, i suoi teatri. Basterà pensare ad una città con 500 chiese e cappelle, ognuna delle quali celebrava in musica le innumerevoli feste che quotidianamente scandivano il calendario della città. Ogni chiesa aveva almeno un organista ed un cantore, se non addirittura un complesso di musici al suo servizio. Le voci purissime dei ragazzi che studiavano nei conservatori si univano nelle feste principali a quelle dei cantori professionisti castrati: erano questi gli angeli che Napoli opponeva ai diavoli delle sue strade. La contrapposizione angelo-demonio entrò presto sulle scene teatrali, soprattutto dopo il successo dei melodrammi sacri di Francesco Provenzale (La colomba ferita, 1670; La Fenice d’Avila, 1672). I demoni in questi drammi, in gran voga fino al tardo Settecento, si industriavano in molteplici travestimenti ma sempre erano alla fine sconfitti dagli angeli del paradiso. Fin qui in apparenza non siamo lontani dalla moda imposta dalla controriforma in tutti gli spettacoli legati al sacro nell’Europa cattolica. Ma Napoli anche in questo era atipica, un territorio sfuggente per la chiesa di Roma che vi inviava missionari per catechizzare “las Indias de por aca”. L’ironia che pervade i drammi sacri trova ovviamente risvolti ancor più eclatanti nel campo profano. Le cantate da camera, per esempio, introdussero a Napoli prima che altrove un ingegnoso sistema di parodia di fatti storici e ballate ad essi legate: un caso tipico è il finto lamento “Squarciato appena havea” attribuito a Francesco Provenzale in un manoscritto napoletano, che è esilarante parodia del vero lamento per la morte di Gustavo di Svezia composto a Roma dall’altro musicista meridionale Luigi Rossi.

Con l’avvio del nuovo secolo XVIII, Napoli cambia più volte padrone, senza per questo mutare le proprie abitudini culturali: finisce nel 1707 la dominazione spagnola e inizia quella austriaca, fino a che nel 1734 Carlo di Borbone diviene il primo re di Napoli dopo 230 anni. In questo difficile avvicendamento politico, le sale da concerto dei palazzi nobiliari e soprattutto le scene teatrali della capitale offrono ai visitatori una costante campionatura dei “tipi” della società napoletana. Si comincia con l’avvocato, in napoletano detto “paglietta”, di cui offre una straordinaria caricatura Michelangelo Fagioli, celebre per aver composto la cantata in lingua napoletana La Cilla (1706) considerata il prototipo della successiva commedia buffa. Da quel filone deriveranno gli Intermezzi comici tra i quali si inserisce la scenetta di Graziano e Nella di Giuseppe Petrini. La musica strumentale, negli stessi anni, aveva raggiunto vette di eccellenza grazie alla presenza di maestri di fama internazionale: lo stesso Corelli, principe dei violinisti italiani, fu umiliato in un concerto a Napoli nel 1702 dalla bravura del virtuoso Pietro Marchitelli, primo violino della Real Cappella napoletana. Alcuni nomi di strumentisti sono stati rivelati solo in tempi recenti, tanto che molte composizioni del poco noto Domenico Gallo furono per secoli attribuite erroneamente al grande Pergolesi (come tali utilizzate per esempio da Stravinski in Pulcinella). La lezione scenica della cantata in lingua napoletana restò a lungo un emblema della vita napoletana, e si ritrova ancora nel 1770 nella farsa di Giovanni Paisiello Pulcinella vendicato, autentico riassunto di quella tradizione teatrale. Parallela al comico, tuttavia, restava un’altra tradizione teatrale che da Napoli aveva mosso i primi passi: quella dell’opera seria metastasiana. Pensiamo che la prima opera su testo di Metastasio, La Didone abbandonata, fu messa in musica a Napoli da Sarro e poi da Vinci negli anni ’20 del Settecento. A questa seconda tradizione porge omaggio nello stesso 1770 un altro grande protagonista della musica napoletana ed europea, Niccolò Piccinni, con la sua Didone abbandonata. Ascoltare a confronto questi brani comici e seri, allegri e melanconici, aiuta l’ascoltatore di oggi a rievocare l’eterna contrapposizione tra angeli e demoni del “paradiso” musicale che fu Napoli barocca.

 
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