Le stronzate di Pulcinella

RACCONTIAMO NAPOLI E I NAPOLETANI (usi,costumi,tradizioni di un popolo e di una citta')

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view post Posted on 4/12/2010, 10:52
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Pulcinella291 Forum

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LA STORIA VILLA ROSEBERY (la residenza del Presidente della repubblica a Napoli)

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La proprietà su Capo Posillipo che dal 1897 prende il nome di "Villa Rosebery", ha origine nei primi anni dell'Ottocento. Si deve all'ufficiale austriaco Giuseppe De Thurn, brigadiere di marina per la flotta borbonica, la creazione della proprietà tramite l'acquisto e l'accorpamento, a partire dal 1801, di alcuni fondi terrieri contigui. Nella zona più alta e panoramica, che sarà poi detta del "Belvedere", il conte Thurn fece edificare una piccola residenza con cappella privata ed un giardino; tutto il resto della tenuta fu invece destinato ad uso agricolo, con ampi vigneti e frutteti, e ceduto in affitto a coloni. Nel decennio dal 1806 al 1816, con la momentanea destituzione dei Borbone dal Regno di Napoli ad opera delle truppe napoleoniche, la proprietà del conte Thurn venne confiscata dall'amministrazione francese; fu in seguito acquisita dal restaurato regime borbonico e quindi restituita nel 1817 al conte.
Dopo aver ottenuto un indennizzo per i danni economici causati dal periodo della requisizione, nel 1820 Giuseppe Thurn decise di mettere in vendita la Villa.
Il valore del fondo intanto era in crescita poiché in quegli anni si andava realizzando lungo la collina di Posillipo una lunga strada di collegamento tra Mergellina e Bagnoli: una nuova via progettata per rendere agevolmente praticabile - anche in carrozza - una zona prima impervia e raggiungibile soprattutto via mare.
La strada vi assecondava la tendenza a favorire lo sviluppo della città di Napoli verso occidente secondo i progetti già elaborati da Ferdinando IV di Borbone e attuati in buona parte da Gioacchino Murat. Quando dunque nel marzo 1820 la principessa di Gerace e il figlio don Agostino Serra di Terranova acquistarono la proprietà di Capo Posillipo, la zona si prestava bene ad essere trasformata da fondo prevalentemente agricolo a villa residenziale.
L'uso agricolo, che poteva fruttare rendite non trascurabili, in realtà non fu completamente abrogato, ma alcuni locali prima utilizzati esclusivamente dai coloni vennero ristrutturati per essere convertiti ad uso di residenza e rappresentanza. I lavori di riassetto della tenuta - che prese il nome di "Villa Serra marina" - furono affidati ai gemelli architetti Stefano e Luigi Gasse che intervennero anzitutto sul casino del Belvedere (oggi Palazzina Borbonica), trasformandolo in elegante residenza dei nuovi proprietari, e sul cosiddetto "Casino Gaudioso", una casetta rurale che si trovava nell'estremità meridionale della proprietà che, adeguatamente ampliata e ristrutturata, avrebbe assolto la funzione di grande foresteria. Interventi di minore impegno furono effettuati anche sulle due casine a mare, che restarono tuttavia destinate ai coloni. Sono dunque gli interventi dei Serra a determinare in buona parte l'assetto della villa così come la conosciamo oggi. Morti la principessa e il figlio don Agostino, nel 1857 gli eredi vendettero la proprietà a Luigi di Borbone, comandante della Marina napoletana; da questo momento la villa fu detta "la Brasiliana" in onore della moglie di Luigi, sorella dell'imperatore del Brasile.
Il nuovo proprietario volle far recintare completamente la tenuta, spesso utilizzata per incontri galanti; ne cancellò quindi definitivamente l'originario carattere agricolo sostituendo alle aree coltivate un grande parco alberato, e la dotò di un porticciolo. L'ambiguo comportamento tenuto da Luigi di Borbone nell'estate del 1860, nel momento della crisi del regno di Napoli di fronte all'avanzata garibaldina, causò il suo esilio in Francia e di conseguenza la vendita della "Brasiliana".
La acquistò un facoltosissimo uomo d'affari, Gustavo Delahante, che la tenne fino al 1897 senza tuttavia effettuarvi lavori di particolare rilievo. Il successivo passaggio di proprietà testimonia del sempre maggiore interesse dei forestieri, gli inglesi in particolare, per le residenze della zona di Posillipo.
Il compratore fu infatti, nel 1897, lord Rosebery, eminente uomo politico britannico che nel 1894-95 era stato primo ministro nel suo paese. L'acquisto della villa coincise con il suo temporaneo ritiro dalla vita politica per dedicarsi a tempo pieno agli studi storico-letterari. Villa Rosebery si trasformò quindi in un luogo riservato e appartato, chiuso rispetto alla mondanità della alta società napoletana e viceversa aperto a pochi studiosi e buoni amici del lord inglese. Ma non potendo più contare sui frutti dell'attività agricola ormai dismessa da tempo, la manutenzione della villa era divenuta dispendiosa per lord Rosebery che la frequentava raramente, pertanto l'inglese - che nel frattempo era tornato all'attività politica - decise di disfarsene. Signorilmente si accordò con il governo inglese per una donazione, che fu perfezionata nel 1909.
La villa fu però utilizzata solo sporadicamente come luogo di villeggiatura degli ambasciatori inglesi in Italia, dopo alcuni anni pertanto anche il governo britannico optò per una cessione a titolo gratuito, questa volta allo Stato italiano.
L'atto di donazione che sancì il passaggio della proprietà al nostro Stato fu firmato nel 1932 dall'ambasciatore del Regno Unito e da Benito Mussolini. Diverse proposte di destinare la villa ad uso pubblico non ebbero seguito, fu quindi messa a disposizione della famiglia reale per i soggiorni estivi. Così nel 1934, alla nascita della primogenita del principe ereditario Umberto, la residenza prese il suo nome e divenne "Villa Maria Pia". Dal giugno 1944, nominato Umberto luogotenente del Regno, Vittorio Emanuele III si trasferì nella villa con la consorte Elena: vi rimarrà fino all'abdicazione e alla partenza per l'esilio in Egitto, il 9 maggio 1946. Recuperata dallo Stato italiano dopo un breve periodo di requisizione nel 1946 da parte degli eserciti di occupazione alleati, la villa fu concessa fino al 1949 all'Accademia Aeronautica. Rimase quindi vuota e in abbandono per diversi anni finché una legge del 1957, includendola fra i beni immobili in dotazione alla Presidenza della Repubblica.
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LA STORIA DEL TEATRO SANNAZZARO DI NAPOLI

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Il Teatro Sannazaro (soprannominato Bomboniera di via Chiaia) è un teatro di Napoli.

L'edificio, realizzato su progetto di Fausto Niccolini, venne eretto su un fondo già appartenente ai Padri Mercedari spagnoli ed attiguo alla loro chiesa, su cui il palazzo del nuovo teatro si sarebbe poggiato in aderenza. I padri non gradirono ciò e si opposero alla costruzione, chiedendo infruttuosamente l'intervento dell'allora arcivescovo.Il Teatro Sannazzaro fu edificato lo stesso grazie alla volontà ed alle risorse di don Giulio Mastrilli, duca di Marigliano.

Ubicato in una delle strade più eleganti della città, nel quartiere di Chiaia, venne quindi inaugurato il 26 dicembre del 1874 con La petite Marquise, opera di Henri Meilhac. Nel 1888 fu il primo ad essere illuminato per mezzo di luce elettrica e nel 1889 vide la prima di Na santarella, commedia di Eduardo Scarpetta.Subito il Sannazzaro si impose nel circuito teatrale cittadino proponendo il grande teatro italiano dell'epoca: attori come Eleonora Duse, Virginia Mazzini, Ernesto Rossi, Tina De Lorenzo, Adelaide Negri-Falconi, Ermete Novelli, Ruggero Ruggeri, Emma Grammatica. Nonché commediografi del calibro di Roberto Bracco, Achille Torelli ed Eduardo Scarpetta.
Proprio quest'ultimo concluse qui il suo felicissimo percorso artistico assistendo al puntuale "tutto esaurito" per le sue rappresentazioni. L'ultima sua commedia allestita fu "'O miedeco d' 'e pazze".

Il teatro divenne famoso, ai tempi, anche per aver ospitato l'installazione della prima cabina elettrica del Comune. La potenza era di 10 Kw


Calcarono il palcoscenico del teatro anche Emma Gramatica, Ruggero Ruggeri e altri grandi interpreti. Fino al 1934 ebbe un discreto successo, grazie alle apparizioni dei fratelli De Filippo, poi il declino per diventare un cinema, fino alla nuova inaugurazione del 1971, grazie al progetto di restauro promosso da Nino Veglia e Luisa Conte.
La rinascita del salotto teatrale di via Chiaia avvenne nel 1969, grazie all'energia ed i sacrifici economici di due celebri attori napoletani: Nino Veglia e Luisa Conte. Finanziarono la ristrutturazione del teatro che lo riportarono al suo assetto originario ed il 12 novembre 1971 fu riaperto al pubblico, con la prima di "Annella di Portacapuana" della Compagnia Stabile Napoletana, ovvero la compagine artistica dei due mecenati. Ancora oggi la direzione del teatro è affidata ai loro eredi diretti.
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LA STORIA DEL TEATRO MERCADANTE DI NAPOLI

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Il Teatro Mercadante nasce come Teatro del Fondo, dal nome d’una società militare (Fondo di separazione dei lucri) che, con i proventi confiscati al Disciolto Ordine dei Gesuiti, mise in opera la struttura nel 1777-’78, affidandone la progettazione al colonello siciliano Francesco Securo.
Aperto al pubblico nel 1779 con l’opera di Giovambattista Lorenzi, L’infedele fedele, musicata da Domenico Cimarosa, fu consacrato prevalentemente al genere operistico (“Opera buffa” e “Opera seria”).
Attivamente partecipe dei cambiamenti politici e culturali avviati dalla Repubblica Partenopea nel 1799, fu rinominato “Teatro Patriottico” e inaugurato con la rappresentazione dell’Aristodemo di Monti alla presenza del generale Championnet, acclamatissimo dal pubblico. Successivamente continuò ad ospitare drammi politici, tra cui quello che costò a Cimarosa la possibilità di rimanere a Napoli una volta ripristinata la monarchia.
Con la Restaurazione il Mercadante recuperò la propria vocazione operistica e - specialmente nel periodo in cui fu diretto dall’impresario Domenico Barbaja - accolse musicisti come Rossini, Bellini, Donizetti, Mozart e Verdi.
Nel 1870 il teatro cambiò nome in onore di Francesco Saverio Mercadante, musicista pugliese formatosi a Napoli, e fu oggetto di diversi restauri (al 1893 risale la facciata dell’ing. Pietro Pulli).
Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento diede accoglienza alla grande prosa italiana e internazionale: Adelaide Ristori, Fanny Sadowski, Ermete Zacconi, Eleonora Duse, Sarah Bernardt e Coquelin furono gli acclamati protagonisti di quella fertile stagione, insieme con gli esponenti di punta del teatro napoletano (Antonio Petito, Eduardo Scarpetta, Roberto Bracco), amatissimi dal pubblico.
Con un occhio sempre rivolto alle novità, il Mercadante ospitò nel 1914 una discussa “Serata Futurista” organizzata da Marinetti. Qualche tempo dopo suoi prestigiosi ospiti furono Marta Abba e Luigi Pirandello.
Nel corso dei restauri effettuati tra il 1920 ed il 1938 il soffitto si arricchì d’un pregevole dipinto a tempera raffigurante Napoli marinara di Francesco Galante.
Diretto per circa un triennio da Franco Enriquez, nel 1963 il Teatro chiuse i battenti per inagibilità. Riaprì soltanto dieci anni dopo, quando - passato dal controllo demaniale a quello comunale – fu portato a termine l’ultimo restauro.
Dalla metà degli anni Ottanta vi furono allestiti mostre e diverse rappresentazioni, ma solo dal 1995 in poi il Mercadante ha dato il via a stagioni teatrali regolari ospitando spettacoli, progetti di teatro contemporaneo, videorassegne, teatro scuola, e diventando una realtà culturalmente operativa sul territorio cittadino.
Dalla stagione teatrale 2003-2004 il Mercadante è gestito dall'Associazione Teatro Stabile della città di Napoli.



Il Mercadante oggi




Costituita il 13 settembre 2002 - per iniziativa della Regione Campania, del Comune e della Provincia di Napoli, del Comune di Pomigliano d’Arco e dell’ Istituzione Comunale per la Promozione della Cultura della Città di San Giorgio a Cremano - l’Associazione Teatro Stabile della città di Napoli ha ottenuto il riconoscimento ministeriale di “Teatro Stabile ad iniziativa pubblica” il 23 giugno 2005.
La nascita dell’Associazione è stata la risposta concreta all’esigenza di dotare la città di Napoli e l’intero territorio campano di un’istituzione pubblica di produzione teatrale.
L’Associazione Teatro Stabile della Città di Napoli, che ha la sua sede al Teatro Mercadante, si è candidata, dunque, fin dalla sua fondazione, a divenire il punto di riferimento delle forze creative di questa città, con una particolare attenzione al suo circondario, al territorio regionale e ancora oltre, del teatro a sud, da sempre ricchissimo di talenti, ma cronicamente carente di strutture produttive.
La struttura che l’Associazione ha voluto darsi si fonda su d’un modello creativo e organizzativo nuovo che - agli organi istituzionali del Presidente e del Consiglio d’Amministrazione, del Collegio dei Revisori dei Conti e del Direttore - aggiunge la presenza d’un Comitato Artistico formato da personalità della cultura e del teatro italiano e napoletano: una pluralità di voci quale segno distintivo e identificativo d’una capitale europea della cultura quale Napoli è, a tutti gli effetti, da considerarsi.
Un teatro stabile pubblico, per definizione, deve saper essere aperto alle sollecitazioni provenienti dagli ambienti della tradizione e della ricerca teatrale contemporanea, rendere possibile l’incontro tra le diverse generazioni del teatro, garantire la trasmissione dei saperi e delle esperienze a tutti i livelli del fare teatro, artistico, gestionale, tecnico, formativo ecc., senza perdere mai di vista le esigenze del pubblico, per favorirne la crescita culturale, i motivi di riflessione, intercettarne le esigenze. Deve essere uno spazio aperto alla città e ai suoi abitanti, capace di mantenere vivo il dialogo con quanti hanno frequentato la sala del teatro Mercadante e con tutti coloro i quali vi troveranno motivi d’interesse e necessità di partecipazione

STORIA DEL TEATRO BELLINI NAPOLI

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A Napoli si dice « 'O San Carlo p' 'a grandezza, 'o Bellini p' 'a bbellezza »
(«Il San Carlo per la grandezza, il Bellini per la bellezza

Il Teatro Bellini è un teatro stabile privato di Napoli.

Nel 1864 l'avvocato napoletano barone Nicola Lacapra Sabelli commissionò all'architetto Carlo Sorgente la realizzazione di un teatro in quella che è l'attuale via Bellini, nell'ambito della cosiddetta bonifica delle Fosse del Grano, un piano di ristrutturazione urbanistica della zona comprendente il Museo Nazionale, Port'Alba e il Conservatorio di San Pietro a Majella, dove in quegli stessi anni furono costruite anche l'Accademia delle Belle Arti e la Galleria Principe di Napoli. L'architetto realizzò un teatrino a pianta circolare, con un solo ordine di palchetti e due ordini a loggia continua, capace di ospitare 1200 spettatori; fu inaugurato il 13 novembre 1864 con l'esibizione del Circo Guillaume (della famiglia di Tontolini), e fino al 1869 ospitò soprattutto spettacoli circensi ed equestri e qualche rappresentazione lirica.

Negli anni successivi il barone Lacapra Sabelli, che intanto era stato eletto deputato del Regno nel collegio di Vasto e tralasciò l'avvocatura per fare l'impresario[1], volle ampliare il teatro e sistemarlo per rappresentarvi soprattutto opere liriche, e chiese all'architetto Sorgente di ristrutturarlo ispirandosi all'Opéra-Comique di Parigi. Nacque così un teatro con pianta a ferro di cavallo, cinque ordini di palchi e un ordine a loggia continua, decorazioni di Giovanni Ponticelli, Pasquale Di Criscito e Vincenzo Paliotti, e il ritratto a olio di Vincenzo Bellini di Vincenzo Migliaro, posto tra due figure alate al centro dell'arcoscenico. L'inaugurazione si tenne nell'autunno del 1878 con la messa in scena de I Puritani dello stesso Bellini, cui il teatro fu dedicato.

Il teatro visse anni di grande splendore, ma nel dopoguerra andò incontro ad un inesorabile declino. Nel 1962 vi fu rappresentato l'ultimo spettacolo, un Masaniello con Nino Taranto; l'anno dopo, a quasi un secolo dalla fondazione, chiuse, o meglio diventò un cinema di bassa lega, con i palchi un tempo nobili trasformati in squallide alcove di amori furtivi.

Nel 1986 il teatro fu acquisito da Tato Russo, che ne fece la sede della propria compagnia nell'intento di riportarlo agli antichi fasti. La nuova inaugurazione ci fu nel 1988, con la rappresentazione de L'Opera da tre soldi di Bertolt Brecht, che diede inizio ad una serie di fortunate stagioni teatrali.

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Edited by Pulcinella291 - 6/6/2011, 10:11
 
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view post Posted on 17/12/2010, 11:25
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Il varietà e il teatro macchiettistico napoletano

Il varietà, così come l'avanspettacolo nasce a Napoli verso la fine dell'Ottocento e l'inizio del xx secolo, più semplicemente chiamato Café-chantant, era il periodo della "Belle-epoque" in cui Napoli e Parigi erano le capitali culturali dell'Europa. Chiamato così perché l'esibizioni degli artisti avvenivano nei caffè e sale da tè, il famosissimo "Caflish", poi cominciò ad ampliarsi come spettacolo teatrale vero e proprio, passando non distante dal caffè, alla bomboniera di via Chiaia il " Teatro Sannazaro". Lo spettacolo era suddiviso in due tempi e vari quadri, a secondo dell'esibizioni, nel primo si esibivano ballerine, cantanti, illusionisti e guitti. Nel secondo le vedette più attese le sciantose e soprattutto "le macchiette". In pratica erano degli attori che cantavano in modo caricaturale.

La prima macchietta in assoluto fu il napoletanissimo Nicola Maldacea, celebre attore e canzonettista, il quale si esibì nelle prime riuscite macchiette al "Salone Margherita" con notevole successo, dando alle canzoni un'impressione efficace con la massima spontaneità caricaturale, creando così l'attore che canta.

L'epoca d'oro del "Caffè-chantant" a Napoli coincise con i grandi successi delle più spigliate canzonettiste, tra queste vanno ricordate: "Elvira Donnarumma e Gilda Mignonette.

Due assi della melodiosa canzone e della macchietta, furono senz'altro Pasquariello e Gill. Gennaro Pasquariello si dedicò anima e corpo al "Caffè-concerto" e, quindi al varietà di gran classe affermandosi nei primi anni del novecento al "Salone Margherita". Le sue interpretazioni erano caratterizzate da una tecnica sicurissima e da una sopraffina sensibilità vocale. Armando Gill, nome d'arte di Michele Testa, pur non avendo una voce estesa e una non perfetta intonazione, suppliva a questo con le doti di fine dicitore che ritornelli e finali, caricava di toni comunicativi e pieni di sentimentalismo, strappando applausi a scena aperta.

Altro grande interprete del genere, sempre ad inizio secolo, fu Gustavo De Marco cui Totò si ispirò.

Negli anni trenta i fratelli Guido (la spalla) e Giorgio (il comico), detti Bebè e Ciccio, nativi di Casagiove (Caserta), si presentarono per la prima volta sulla scena, uno in tight e bombetta, l'altro con finto nasone, legato con lo spago dietro la nuca, e enormi baffoni spioventi. Questi erano i Fratelli De Rege. Il primo autoritario e severo, il secondo era balbuziente, tipico idiota, traeva risalto dalla parlantina sciolta del primo e dopo aver raccontato storie inverosimili e dopo una lunga pausa, interrogato, sparava sempre una paradossale risposta scema. Furono insomma i De Rege ad inventare l'ormai popolare frase introduttiva "Vieni avanti cretino".

Nello stesso periodo, nella compagnia dei "De Filippo", venne alla ribalta un'attrice, figura segaligna e voce da militare in pensione: Tina Pica. Figlia d'arte, suo padre Giuseppe fu il grande interprete del popolarissimo personaggio di "Don Anselmo Tartaglia". La Pica non recitava, viveva. Non aveva bisogno d'immedesimarsi in un personaggio, in quanto lei stessa era "Il personaggio".

A cavallo tra gli anni trenta e quaranta, era di usanza che intere famiglie si dedicava al teatro di avanspettacolo, chi faceva il capo-comico, chi la soubrette, la macchietta, il macchinista ed ecc. e spesso erano costretti loro malgrado ad accettare miserevoli scritture anche se bravi teatranti. Tra queste vi era sicuramente la famiglia Maggio, il cui capostipite era Mimì e i suoi sedici figli (di cui sette attori): Enzo, Beniamino, Dante, Icadio, Pupella, Rosalia e Margherita. Beniamino era il più popolare dei fratelli Maggio, tanto che la critica lo considerò una delle più grandi macchiette del teatro napoletano. Però Dante, come attore completo, la stessa critica lo considerava il più bravo dei fratelli, possedeva le doti del ritmo, delle pause, dei tempi giusti, della mimica e di una voce ben modulata. Enzo invece il più grande non riuscì a tenere il passo dei due fratelli. Tra le sorelle la più brava fu certamente Pupella, che si affermò soprattutto come attrice di prosa. Rosalia invece era la più bella delle sorelle, era la soubrette. Invece Icadio morì giovane e Margherita lavorò sporadicamente.

Successivamente vennero alla ribalta altri bravi caratteristi tipo, Pietro De Vico, Franco Sportelli, Ugo D'Alessio ed Enzo Turco e una citazione va fatta anche per altri meno popolari e fortunati, ma altrettanto bravi, i vari Peppino Villani, Nino Milano, Rino Genovese, Marchitiello, Maghizzano, Fregolino, Leo Brandi e Trottolino. Fino a tempi più recenti, ovvero: Rino Marcelli, Giacomo Rizzo, Tommaso Bianco e Vittorio Marsiglia.

Ma su tutti questi spicca il nome del più grande in questo genere: Nino Taranto.

Nino Taranto
Per Interpretare grottescamente le macchiette di "Cioffi-Pisano", Taranto aveva inventato la tipica paglietta dentellata, sforbiciata a tre punte. Debuttò nel varietà a metà degli anni venti, all'età di diciassette anni, bazzicando palcoscenici minori napoletani come cantante comico. Poi nel '36 divenne capo-comico dedicandosi soprattutto all rivista per quasi vent'anni, prima di passare al teatro di prosa vivianesco. I copioni di rivista "marca Taranto" furono dei risonanti successi del dopoguerra in tutta Italia, venivano scritti la maggior parte da autori napoletani, come "Nelli e Mangini" e talvolta da Michele Galdieri. Il suo cavallo di battaglia fu la celebre canzone "Ciccio formaggio". Al suo fianco vi era sempre l'inseparabile fratello minore Carlo, e spesso affiancato da grandi caratteriste quali Tecla Scarano e Dolores Palumbo. La sua ultima compagna di "lavoro" fu Luisa Conte nelle sue ultime interpretazioni al teatro Sannazaro negli anni ottanta.

 
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view post Posted on 30/12/2010, 08:44
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LA STORIA DELA PALAZZO DELLA BORSA DI NAPOLI

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Eretto per ospitare gli uffici della Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura, il palazzo fu costruito nel 1895 e inaugurato nel 1899 su progetto di Alfonso Guerra con fondi donati nel 1861 dal generale Enrico Cialdini, luogotenente del re Vittorio Emanuele II. È preceduto da una scalinata, con ai lati due gruppi di bronzo di Luigi De Luca.
Architettonicamente il palazzo s'imposta come un edificio di gusto neorinascimentale a tre piani, ma la possentezza dei setti murari lo rendono alla vista come un palazzo tozzo e pesante, alleggerito solo dalla presenza di numerose colonne che spaccano il senso dell'imponenza.
L'edificio ospita oggi al suo interno la sede di due banche e ingloba la chiesa di Sant'Aspreno al Porto.L'edificio -la cui realizzazione fu affidata agli architetti Alfonso Guerra e Luigi Ferrara- ha quattro piani; l'ingresso, costituito da due grossi pilastri alleggeriti da due colonne per lato, è anticipato da una bella scalinata, ai lati della quale furono sistemati i gruppi in bronzo dei leoni cavalcati da geni alati.
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Le colonne sostengono il balcone del primo piano, secondo uno schema che si ripete anche al piano superiore, per chiudersi con una lunetta con bassorilievo in corrispondenza del piano attico. Quest'ultimo ha tre finestre per lato, alternate a statue, che hanno anche la funzione di sostegno della cornice terminale.



LA STORIA DELL'HOTEL EXCELSIOR DI NAPOLI


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Con una posizione di assoluto prestigio sulla magnifica baia di Napoli, l'Hotel Excelsior è un edificio di grande interesse storico che offre una meravigliosa vista sul Vesuvio, l'isola Capri e la costiera Sorrentina
Varcare la soglia dell'Hotel Excelsior è come tuffarsi in un passato ricco di tradizioni.Il grande e monumentale ingresso accoglie l'ospite, le porte si chiudono, i rumori della città scompaiono e una calda e raffinata atmosfera lo avvolge.
Il pensiero corre alle vicende che hanno caratterizzato i quasi 100 anni dell'albergo e ai tanti personaggi che vi hanno soggiornato e che hanno influito sulla storia di questo secolo. I suoi saloni sono stati teatro di feste e banchetti destinati ad ospiti di rilievo: Reali, aristocratici, finanzieri, celebrità dell'arte, del teatro, dello schermo e del mondo della scienza non avrebbero mai mancato di soggiornare all'Hotel Excelsior. La Suite Reale è rimasta immutata nell'arredamento; solo il baldacchino del letto è stato eliminato. Le pareti sono rivestite di seta damascata e impreziosite da stampe antiche, l'armadio di pregevole fattura veneziana è dipinto a mano con bordi d'oro zecchino e, su un'antica consolle è posta una specchiera arricchita da fregi sulla quale spicca un'aquila simbolo reale. L'ambiente è suggestivo ed esaltante perché ha assistito intimamente alle vicende di grandi personaggi nel loro quotidiano, è qui che la maschera pubblica veniva abbandonata. Ogni stanza dell'albergo è diversa; arredata con mobili antichi, immersa in un'atmosfera di inizio secolo, ognuna speciale, unica. "Tra le mura di questa grande casa gli ospiti erano come i componenti di una scala musicale piena di note. In alto, nella parte in cui questa scala sfiora l'Olimpo, tanta ricchezza di nomi". Il principe Umberto di Savoia con la famiglia abitò a Napoli per circa dieci anni. All'Hotel Excelsior era di casa, sempre circondato da numerosi ospiti, tra cui anche Eduardo De Filippo che una sera recitò uno dei suoi pezzi: "cravatte signori". Un episodio "sfizioso" accadde durante le feste di Natale, un ospite del Principe richiese una coppia di "zampognari" per fare una sorpresa a Sua Altezza, dopo pochi minuti le sale risuonavano della struggente nenia dei pastori. Era la Belle Èpoque, ogni anno veniva organizzato un prestigioso pranzo al quale partecipava tutta la Napoli che contava e nessuno mancava al "Gran Ballo" di Ida Crimeni. Era il mondo in "Fracchesciasse", parola dialettale per indicare quel vestire di etichetta: gli uomini rigidi in frac e le signore in lungo e scollate. Gli ospiti in un certo senso emulavano gli antichi Romani che venivano a Napoli attratti dal suo dolce clima, dalla sua musica e dalla sua letteratura. Visitatori inconsciamente soggiogati dal popolo napoletano, che rispecchia fedelmente questa città e i suoi evidenti contrasti. "Impossibile dare una definizione del napoletano, del lazzarone, dei senza tetto, dei duellanti delle strade di Napoli, dei pescatori, dei poveri, dei ciarlatani". Questa la risposta di Natale Rusconi, ex direttore dell'Hotel Excelsior, alla giornalista Lilian Langeseth-Christensen che gli aveva chiesto chi fosse il napoletano. Rusconi concluse dicendo: "Amo i napoletani ma non so definirli". Era napoletano lo storico portiere dell'Hotel Excelsior "Peppino" (al secolo cavaliere Giuseppe Esposito, Saragat lo aveva insignito della croce), che raccontava al giornalista Lamberto Sorrentini: "Io mi reputo fortunato quando, ricostruitosi l'albergo dopo la guerra, con solo ventisei anni di servizio fui nominato primo portiere. Voi avete girato intorno al mondo, il mondo invece ha girato intorno a me. Ho molti amici e sono la mia ricchezza, dai quali ogni Natale ricevo carte d'augurio a centinaia e con i più strani francobolli, Paul Getty non mancava mai di spedirmeli". Questo succedeva solo in Italia all'Hotel Excelsior, perché in qualsiasi altro Paese il portiere di un albergo di lusso era un impiegato come un altro. L'elegante sala Partenope ha fatto da cornice ideale per numerosi ricevimenti e pranzi di prestigio. Chef famosi si sono alternati nella direzione delle cucine dell'albergo. Nel maggio del 1972 la rinomata rivista americana Gourmet improntò le pagine centrali sulla città di Napoli, descrivendo i luoghi caratteristici, le abitudini e segnalando l\'Hotel Excelsior come oasi di grande comfort e raffinatezza, proponendo ai suoi lettori alcune famose ricette dell\'albergo: "Sorbet à l'orange" e "Profiteroles au chocolat". "La Terrazza" è il ristorante panoramico dell\'Hotel Excelsior, l'ospite viene stregato dallo scintillante panorama del golfo, dalla bellezza delle isole lontane fino all'estrema punta di Posillipo. Anche i capi di governo delle più grandi nazioni industrializzate del mondo, che si sono riuniti a Napoli nel 1994 per il "G7", vi si sono affacciati. Nel corso degli anni hanno goduto di questo magnifico spettacolo anche personaggi illustri che ritroviamo immortalati nelle pagine in bianco e nero di un'antica e preziosa rivista, i cui articoli confermano come quello di Napoli fosse l'Hotel Excelsior preferito da tutti. "L'Hotel Excelsior" di Napoli è una struttura che raggiunge il più alto grado di ospitalità e in tal modo fa onore al suo nome "Excelsior" che in latino significa "il più alto", offrendo a coloro che hanno l'opportunità di risiedervi, tutte le possibili seduzioni che la natura e la mano dell'uomo hanno prodotto".

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LE VIE E I QUARTIERI DI NAPOLI PERCHE' SI CHIAMANO COSI


ABATE ANTONIO (largo, via ,vico lungo, vico i, vico ii, vicol. s.ant.). Un vero e proprio dedalo di vicoli, occupati per la maggior parte da mercatini ortofrutticoli dove per secoli si è svolta la chiassosa e colorita vita popolare.questa zona chiamata semplicemente ‘o bùvero (il borgo) prende il nome dalla trecentesca chiesa di S. Antonio Abbate con annesso ospedale nel 1370 fondata da Giovanna i d’Angiò. L’ospedale divenne celebre perché curava quello che a allora si chiamava fuoco sacro o meglio (fuoco di S. Antonio). I monaci riuscivano a dare sollievo a questo fastidioso e doloroso herpes con una pomata a base di grasso di maiale che fu ritenuta subito animale caro al santo,ecco perché S.Antonio è rappresentato con un suino a fianco.

ACQUARI (via degli) anticamente tutta la zona intorno a piazza della borsa era ricca di corsi d’acqua, ospitò anche strutture termali, delle quali resta traccia nell’attuale palazzo della borsa

AGNANO (quadrivio e via vecchia) questo nome deriva da un praedium annianum appartenente alla famiglia Annia.

AGNOLELLA (via, vicinale) in quelle zone si coltivava il baco da seta,agnulillo era appunto il nome con cui veniva indicato il baco.

AGOSTINO ALLA ZECCA (via e vico primo) il toponimo deriva dalla Chiesa di S.Agostino alla zecca.

ALABARDIERI (via e vico II) il nome derivava dall’esservi la caserma degli alabardieri i quali formavano un corpo speciale che soleva scortare i monarchi borbonici.

ALDEBARAN (viale) è il nome di una stella.

ALTAIR (via) si riferisce alla stella della costellazione dell’aquila.

AMORE NICOLA (piazza) avvocato e uomo politico casertano (roccamonfina1830-napoli 1894) la piazza chiamata anche i quattro palazzi doveva chiamarsi Agostino Depetris,ma si preferì chiamarla Nicola amore al quale fu dedicata anche una statua che poi fu spostata in piazza vittoria per lasciare quel rettifilo, voluto dall’amore,al percorso della visita di Hitler a napoli.

ANDROMEDA (via) costellazione che rappresenta una donna che ha le braccia distese e i polsi incatenati.

ANNUNZIATA (via) dalla omonima chiesa con annesso ospizio

ANTICAGLIA (via) prende il nome da due archi di epoca romana
ARENACCIA (via) il nome derivava dal fatto che la strada, fangoso torrente in tempo di pioggia, diventava deposito di arene in tempo di siccità.

ARENELLA (piazzetta, salita e via) prende questo nome dalle arene che vi lasciano i torrente delle acque piovane che calano dal monte dei Camaldoli. Sono le stesse ragioni delle voci Arena e Arenaccia salvo le differenze dal diminutivo al peggiorativo.

ARGINE (via e traversa) il toponimo si riferisce alla posizione della strada, che corre parallelamente ad un canale che porta al mare le acque del monte somma.

ARMIERI (via nuova degli) in questa via si trovavano le botteghe degli armieri fino a tutto il rinascimento.

ARTE DELLA LANA (via) l’artigianato tessile ha svolto un ruolo importantissimo a Napoli tanto che gli arabi nell’alto medioevo Chiamavano la città “napoli del lino”.

ASTRONI (cupa e via degli …) tra le varie opinioni emesse sull’origine del toponimo queste ci sembrano le più plausibili: A strunis che sarebbe metatesi di sturnis, per l’abbondanza del luogo di tali uccelli; oppure a strubis pianta locale mentovata da Plinio. Altri pensano a Strioni stregoni o persino al ciclope Sterpe.

AZZIMATORI (vico) il nome viene da i cimatori di lana.

BAGNOLI (piazza, via e via nuova) deriva dal nome della Terma Balneolum ivi esistente e che era così chiamata dalla piccolezza e dalla angustia della sua sorgente.

BANCHI NUOVI (via, largo e vico) prende il nome dai banchi o (logge) dei mercanti che avevano un punto vendita.

BARRETTARI (vico) il temine giusto è parrettari che si riferisce alle parrette (pallettoni) che venivano usate per le balestre
BARRIERA A PIZZO FALCONE (vico) il nome deriva da una cancellata o da uno steccato che tagliava l’accesso alla nuova caserma di pizzo falcone dopo la rivoluzione di Masaniello.

BEVERELLO (calata e molo) il toponimo indica le colline che da Pizzofalcone vanno a mare e che furono dette bibirellum per la notevole quantità di acqua.

BONITO GIUSEPPE (via) nacque a Castellamare di Stabia il I novembre 1707 morì a Napoli ove iniziò la sua via come discepolo di Solimena il 19 maggio 1789. Pittore di corte nel 1751.

BOTTE (vico) il nome dal fatto che pare si usava una botte posta nel luogo per alcuni bisognini.

BRAVO (via del) non è certo, ma pare che il nome derivi da gente di malaffare.

BRECCE A S. ERASMO (via) dalla pavimentazione della strada in napoletano vrecce caiola (discesa) tale nome per i ruderi romani che sono a forma di gabbia (caiola in napoletano)

CALABRITTO (via) dal nome di uno dei tre palazzi di piazza dei martiri.dimora dei duchi di calabritto

CALASCIONE (via) origine incerta nome di una famiglia o nome di uno strumento musicale a corde

CAMALDOLI (cupa e via nuova) deriva dai monaci camaldolesi che nel 1585 vi fondarono un piccolo romitorio.

CAMPAGNARI (vico) “campanari” nelle vicinanze esistevano fonderie di campane

CAMPANE A DONNALBINA (vico) non per le campane,come sopra, ma per la particolarità paesaggistica del campanile della chiesa di donnalbina.

CAMPANE A S. ELIGIO (via) si trovavano botteghe dei fonditori di campane

CAMPI FLEGREI (via e viali) significa campi bruciati dal greco flego brucio.

CAMPIGLIONE (via) vecchia denominazione ufficiosa locale che si riferiva al carattere campestre della zona.

CANALE E CANALONE vicoli e vicoletti di Napoli hanno tali nomi sia per la loro forma stretta e ripida sia perché in altri tempi scoli di acque.

CAPODICHINO (calata, cupa, piazza e via vecchia) l’antica strada che dalla città conduceva a capua e Benevento giunta alla collina prendeva il nome di clivo; arrivata al crinale si chiamava caput de clivo.

CAPODIMONTE denominazione medioevale caput de monte.

CAPPUCCINELLE (vico) erano giovani donne pentite, raccolte in un convento nel quale si applicava la norma cappuccina.

CARITA’ (largo della) il nome deriva dalla chiesa di santa Maria della carità o la Giorgia fondata verso la metà del sec. XVI.

CAVONE (via, vico) in napoletano significa che si apre alle acque che scendono dalla collina

CHIAIA (gradoni, riviera e via) traduzione dal nome playa

CHIANCHE ALLA LOGGIA (vivo e violetto) derivava dalla presenza di macelli.

CHIANCHE ALLA CARITA' (vico) il toponimo ricorda il più famoso dei vicoli con chianche “MACELLERIE”.

CHIATAMONE (via) dal greco Platamon che indica una roccia marina scavata da grotte e tale fu l’aspetto per secoli dell’attuale strada.

CHIAVETTIERI AL PENDINO (gradini e vicoletto) luogo dove c'erano i fabbricanti di chiavi.

CISTERNA DELL’OLIO (via e vicoli I, II, III) nel luogo erano le antiche cisterne per la conservazione dell’olio.

COLLI AMINEI (viale) dalla vite aminea e dal vino amino assai celebrato nell’antichità classica.

CONCERIA (piazzetta, traversa e vico) luogo dove si maturavano e si accomodavano i cuoi per l’uso umano.

COROGLIO (discesa e via) la morfologia del luogo,sembra avere la forma del “curuoglio” che in lingua aulica è quel torciglione di panni arrotolati che le donne appoggiavano sul capo per portare grossi recipienti.

CROCE DI PIPERNO (via vicinale e traversa) la croce fu innalzata nel 1613. Piperno, perché c’era una cava di questo materiale.

CUMANA (piazzetta e via) il toponimo si riferisce alla vicina stazione della ferrovia cumana che da Napoli porta in quei Luoghi che costituivano l’antica Cuma.

CUPA per i napoletani è una strada stretta e incassata.

CUPA DELLE TOZZOLE (strada e vicinale) “cupa” in napoletano vuol dire stradina di campagna “tozzole” significa pezzi di pane raffermo; evidentemente c’era uno scarico domestico dove le bestie andavano a raspare per liberarne appunto le tozzole.

DEMETRIO (vico) si riferisce ad uno scomparso monastero angioino

FERZE AL LAVINAIO (via) la denominazione di “ferze” si riferisce a strisce di tela ruvida che serviva per separare il materasso dalle tavole di legno. Forse in questa zona si mettevano ad asciugare le ferze dopo averle lavate

FIGURARI (vico) presenza di artigiani che costruivano oggetti sacri.

FIGURELLA A MONTECALVARIO (vico) “figurella” in napoletano ha ilSignificato di una immagine sacra nel vico c’è l’immagine di S.Antonio di Padova.

FORCELLA (gradini, piazzetta e via) tale nome vuol riferirsi alla forma della strada che al suo termine assume l’aspetto di una forcella.

FORIA (via, vico I e vico II) sul nome Foria ci sono varie interpretazioni. La prima vuole che si deriva da florita, nome di una villa attinente alle case dei Caracciolo. Altri propendono per Foria da fuori, foraneo, for-via tenendo conto che un tempo la strada era realmente fuori dalla città. Una terza opinione è che dipenda da forino cioè dal palazzo dei principi Forino.

FORMALE (via) con la voce “formale” o “furmale” i napoletani indicavano gli acquedotti e in particolare,quelli che portavano in città l’acqua della bolla o volla detta del carmignano, dal nome del costruttore della condotta.

FURLONE A CAPODIMONTE (località) così detta dal frullone, un attrezzo con il quale si sceverava la farina dalla crusca.

GAVINE (vico) il toponimo trova spiegazione da i numerosi gabbiani”detti in vernacolo gavine” che affollavano la spiaggia.

GIUBBONARI (via) si riferisce agli artigiani che fabbricavano i giubboni.

LAMMATARI (traversa e vico) I lammatari sono in napoletano gli amitari cioè i fabbricanti di amido.

LANZIERI (via) perché vi erano anticamente coloro che facevano lance per i soldati.

LAVINAIO (via e vico rotto) in questo luogo prima dell’ampliazione del 1484 correvano i torrenti delle acque piovane (in napoletano lave).

LORETO (via e vico) questa strada che il popolino chiama tuttora ‘o bùvero ( il borgo ) deriva dalla chiesa e ospedale dedicati a S. Maria di Loreto. La chiesa fu fondata, verso la metà del ‘500, dal sacerdote Giovanni De Tapia che vi aggiunse un conservatorio per fanciulli di ambo i sessi.

LUCIELLA (vico) piccola chiesa dedicata a S.Lucia detta appunto “s.luciella”.

LUDOVICO DA CASORIA (via padre) il vero nome del padre era arcangelo palmentiere (casoria na 1814- napoli 1885) fondò la congregazione del terzo ordine dei francescani ”frati della carità” e denominata anche “frati bigi” per il colore dell’abito dei religiosi.

MAIO DI PORTO (via) deriva da una festa che si svolgeva anticamente il I maggio.

MARANO (via comunale) il nome significa “palude”, si giustifica con lo stato acquitrinoso del luogo.

MARECHIARO (discesa) non deriva dalle acque chiare bensì dalla loro placidezza: mare planum.

MARZANO (via del) detta ache delle "corregge" (finimenti) perchè si tenevano tornei medioevali (giostre). Trae origine da "maricanum" nome di vari praesidium o proprieta' agricole.

MASANIELLO (piazza) il toponimo ricorda Tommaso Aniello (Napoli 1622-1647). Fu protagonista della storia di Napoli nello spazio di un mattino.

MEDINA (via) dal duca Medina de las torres.

MELOFIOCCOLO (sopportico) da un albero un tempo assai comune a Napoli.

MERGELLINA (via, vicoletto, tracersa) si suppone derivi da “mercoglino “ continuo sommergere di pesci.

MERIDIONALE (corso) prende il nome da meridione.

MEZZOCANNONE (via) fu battezzata con questo nome per volontà popolare a causa della fontana fatta costruire da Alfonso II d’Aragona. Si noti che cannone va inteso come cannello di fontana.

MISENO (via) ricorda il famoso trombettiere di Enea.

MOIARELLO (salita) da "moio e muoio" è la dizione dialettale di Moggio, misura agraria (3 moggi corrispondono ad un ettaro.

MONACIELLO (largo) dovrebbe derivare da "Monaciello", lo spirito che corre nella fantasia popolana.

MORTELLE (vico) presenza di piante di mirto disseminate sulla collina.

NOLANA (piazza, via) perché la strada conduceva a nola.

OBBIENTOLO (via vicinale) sarebbe un’alterazione di “abbiento” una forma dialettale che significa trovarsi in pace.

PAGGERIA (rampe) perché vi si trovava una scuola dei paggi di corte detta real paggeria.

PAGLIARONE (contrada) deriva da paglia.

PALLONETTO A SANTA LUCIA (vico) in questo vicolo d’estate si giocava a pallone e alla pilotta.

PALLOTTINARI (piazzetta e vico) erano qui un tempo congregate le botteghe dei fabbricanti di pallini da caccia.

PALMENTIELLO (strada, vicinale, via vicinale) il toponimo si giustifica con la presenza nel luogo di attrezzi per la spremitura dell’uva.

PANETTIERI (vico) questo vico ha ispiratola canzone Carmela di Salvatore Palomba e musicata da Sergio Bruni. La denominazione panettieri è strettamente legata al significato del temine.

PAPARELLE (vico larghetto) deriva dal nome popolare dato dai napoletani alle fangiulle che erano ospitate in un ritiro voluto da aurelio paparo e dalle figlie; da questa famiglia il nome paparelle.

PAPARELLE AL PENDINO (vico) vico immortalato in una popolare canzone napoletana (‘o vico ‘e paparelle nun per dire song’ ‘o rre cummare e cummarelle…….). Il toponimo come sopra.

PARADISIELLO (vico) frate Ignazio Savino fece porre croci per ragioni di fede, per questo motivo il nome Paradisiello.

PARCO MARGHERITA (via della) la strada fu aperta quando Margherita di Savoia era regina d’Italia.

PIGNA (via) in questa strada c’era un pino secolare.

PIGNASECCA ( largo, via e vico) questa zona era un tempo fuori le mura e faceva parte degli orti detti Biancomangiare nel quale vi era un antico albero di pigna (pino) che poi si seccò.

PIZZOFALCONE (via nuova) collina a strapiombo sul mare tanto che poteva essere raggiunta solo dal volo di un falcone.

PLEBISCITO (PIAZZA) il nome fu dato in ricordo della manifestazione di volontà popolare quando il regno di Napoli entrò a far parte dell’Italia unita.

POGGIOREALE dicasi della dimora di Alfonso d’Aragona duca di Calabria.

PONTE DI TAPPIA detto così per un ponte che fu fatto fabbricare dal reggente Carlo Tapia a comodità di passare dalla sua casa grande a quella piccola.

PONTI ROSSI (via) dagli archi superstiti in mattoni rossi, del grandioso acquedotto fatto costruire o da Augusto o più probabilmente da Claudio Nerone, che coprendo un percorso di oltre 92 chilometri convogliava le acque di Serino a Napoli e a Baia, dove serviva al rifornimento della flotta di Miseno.

PORT’ALBA (via) fatta costruire dal viceré Antonio Alvarez de Toledo duca d’Alba.

POSILLIPO (via e rampe) il significato esatto di Posillipo è tregua al dolore. Dal nome della villa di vedio pollione pausylipon.

PURGATORIO AD ARPINO (cotrada) (quart. Poggioreale) il toponimo si riferisce a S.Agrippino, dal volgo detto Arpino.

PURGATORIO A POGGIOREALE (contrada) è da una chiesa del XIX secolo che deriva questo nome.

QUATTROMANI (vico) è il nome di una famiglia.

RAIMO S. (vico) è l’abbreviazione popolare di Erasmo,

SACRAMENTO A FORIA (vico) il toponimo deriva da una piccola edicola con l’immagine del ss. sacramento, che si trovava all’angolo del vicolo.

SANITA’ ( discesa, piazza, ponte, strada e vico) dalla chiesa Santa Maria della carità edificata su disegni di frate Nuvolo tra il 1602 e il 1613.

SANNIO (via) si riferisce al territorio occupato dai sanniti.

SANT' ANTONIO ABATE (vedi Abbate Antonio )

SBREGLIE (vico) le sbreglie sono le foglie esterne della pannocchia di granturco che venivano usati per rimpire i materassi (sacconi). Nel vico forse c’era un deposito di sbreglie.

SCASSACOCCHI (vico) perché si trovavano le botteghe dei sfasciacarrozze dove vendevano ruote, stanghe, mozzi balestre a buon prezzo.

SCOPARI (vico degli) c’erano botteghe che si vendevano scope di sagginne ventagli da fuoco e altro.

SCOPETTIERI (vico) citato anche in una poesia di s. di giacomo, ricorda le botteghe di armaioli.
SOLIMENA (via) Pittore nato in una borgata di Serino nell’Irpinia nel 1657, morì a Barra (Na) nel 1747.

SOSPIRI (vico) il toponimo si spiega con il passaggio obbligato per quella via dai condannati al sopplizio in piazza mercato.

SPERANZELLA (via, fondaco) nome che ricorda la chiesa di s. maria della speranza detta speranzella. Qui c’era la friggitoria di donna Amalia che fece incantare S. di Giacomo: donna amalia ‘a speranzella quanno frie paste crisciute, mena ll’oro int’ a tiella, donna amalia ‘a speranzella.

STADERA A POGGIOREALE (via) posto di pesa pubblica

TARSIA (piazzetta, salita, via) era in questo luogo la magnifica dimora degli Spinelli, principi di Tarsia.

TAVERNOLA (cupa) piccola taverna.

TOFA (vico, vicoletto) è una conchiglia bucata, che soffiandoci esce un suono, serviva ai marinai come richiamo ed avvertimento

TOLEDO (via Roma) fu aperta nel 1536 dal benemerito Viceré Don Pedro de Toledo del quale per 334 anni portò ufficialmente il nome.

TRE CANNOLI (vico) il termine cannoli sta per bocche d’acqua di fontane pubbliche.

TRE RE A TOLEDO (vico) prese il nome da un albergo che forse esisteva già nel cinquecento.

VASTO (rione) da guasto perché Corrado Svevo smantellò i giardini ivi esistenti luogo di caccia per il re e per napoletani.

VERGINI (via) è un plurale maschile. Dagli Eunostidi che adoravano Eunosto, dio della temperanza, deriva il nome di vergini.

VOMERO. In questa zona abitavano tutti quelli che avevano vomeri e buoi ed andavano a lavorare dove venivano chiamati. Nei giorni di festa si divertivano sfidandosi a chi faceva il solco più diritto.

IL CARNEVALE A NAPOLI

Le prime notizie del Carnevale napoletano ci giungono attraverso l'opera di Giovan Battista del Tufo,che era un nobile napoletano che inserì nel suo "Ritratto o modello delle grandezze, delle letizie e meraviglie della nobilissima città di Napoli" una serie di poesie che riguardavano anche il Carnevale napoletano e che facevano riferimento a cavalieri ben vestiti e a piccoli carri.
I Napoletani, un tempo non troppo lontano, erano dediti a dare maggiore risalto al "Loro" personalissimo carnevale settembrino, con i famosi carri allegorici della Piedigrotta, una festa voluta dai regnanti Borboni, e perché no anche da alcuni piatti tipici che si potevano gustare in questo periodo dell'anno. La cucina napoletana carnevalesca è varia, divertente, colorata e va dalla preparazione di alcuni dolci tradizionali alla realizzazione di alcuni piatti davvero unici.

La cucina napoletana di Carnevale


Quando arriva il carnevale Napoli si fa a gara a chi prepara la migliore lasagna. La preparazione e' molto elaborata ed il giorno in cui la si serve diventa una festa e se ne continua a parlare fino al giorno dopo cioe' le ceneri, quando si comincia il "digiuno e l'astinenza".
La preparazione di questo piatto richiede tempo e fatica tanto che, un tempo, il giorno della lasagna diventava un vero e proprio giorno di festa ed al pranzo venivano invitati parenti ed amici. Per seconda e terza portata tipica è la carne mista al ragù. Per questa portata si utilizzano le gallinelle di maiale e le puntine di costata che sono state utilizzate per il ragù che può essere arricchito, soprattutto se vi saranno ospiti per il cenone di Carnevale, anche dalle braciole di maiale di maiale uno dei piatti più prelibati della cucina napoletana.
Fra una chiacchiera ed un'altra arrivano a tavola i fegatini arrostiti ( sebbene siano ottimi anche fritti nella sugna) accompagnati dai deliziosi friarielli. .Dopo questa portata, prima della frutta, in tavola giungeva un trionfo di salumi ancora piuttosto freschi, intoccabili dopo quel giorno fino al Sabato Santo, quando la campane venivano sciolte e suonavano a gloria annunciando la fine della quaresima e la resurrezione di Cristo.
Si giunge così alla frutta ed al gran finale che avviene con l'arrivo a tavola dei dolci accompagnati dal fiabesco sanguinaccio che oggi non è più possibile realizzare come un tempo per il divieto, nel 1992, inflitto ai macellai di vendere il sangue.Tra i dolci carnevalesci della tradizione napoletana vanno ricordati:Gli struffoli, dolce napoletano che viene guarnito con "cannulilli" e "diavulilli" colorati, quasi a voler significare l'innata allegria e il folclore tipici di questo popolo, ai quali, in origine, erano attribuite proprietà energetiche.Le zeppole.che sono un dolce che si ritrova nominato in antichi testi, non solo di cucina, perfino in un "Privilegio"del Viceré di Napoli, Conte di Ripacorsa (siamo nella Napoli dell'800).
Si narra che il giorno di San Giuseppe, che si festeggia il 19 Marzo, i friggitori napoletani si esibivano pubblicamente nell'arte del friggere le Zeppole davanti alla propria bottega, disponendovi tutto l'armamentario necessario.E infine vanno ricordate le deliziose chiacchiere che sono un dolce tipico in tutta l'Italia ma con nomi diversi: in Friuli si chiamano Grostoli, in Emilia Sfrappole, in Veneto Galani, nelle Marche Frappe, Cenci in Toscana, Chiacchiere in Campania. La variante, nelle varie ricette regionali, è costituita dal marsala, o dal vino bianco, o dall'acquavite, o dal liquore all'anice.



Edited by Pulcinella291 - 5/1/2011, 09:14
 
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LA TANGENZIALE DI NAPOLI

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Possiamo affermare che il primo progetto parte oltre 150 anni fa. Con un rescritto del 31 maggio 1853 Ferdinando II di Borbone, così come riportano le fonti storiografiche sull'argomento, stabilisce alcune indicazioni in materia di tutela paesistica per la costruzione di una nuova strada, il cui tracciato a mezza costa, seguendo l'orografia del terreno e cingendo la collina di San Martino, doveva collegare la zona occidentale con quella orientale della città.
Il progetto e la sua realizzazione oggi ci hanno lasciato il Corso Vittorio Emanuale che a pieno titolo è la “Tangenziale” ottocentesca.
Oltre un secolo dopo nasce la Tangenziale - la prima, reale autostrada urbana in Italia - la cui costruzione fu affidata all'Infrasud dall'Anas, con una convenzione firmata il 31 gennaio del 1968, nella quale era prevista anche la gestione della superstrada per trentatre anni da parte della società napoletana. Tutti i lavori, in base alla convenzione, vennero svolti sotto l'alta sorveglianza dell' Anas.
Le date fondamentali della realizzazione sono state:


•8 Luglio 1972 apertura del primo tratto "dalla Domitiana allo svincolo di Fuorigrotta".
•24 Gennaio 1973 apertura del secondo tratto fino al Vomero.
•21 Aprile 1973 apertura dello svincolo dei Camaldoli.
•1 Febbraio 1975 apertura dello svincolo Arenella.
•16 Novembre 1975 apertura barriera di Capodichino.
•30 Marzo 1976 apertura dello svincolo di Corso Malta.
•22 Gennaio 1977 apertura dello svincolo Capodimonte.
•26 Maggio 1992 apertura dello svincolo della Zona Ospedaliera.
La Tangenziale oggi, con i suoi ventuno chilometri di tracciato e ventidue chilometri dei 14 svincoli, consente di collegare le zone ad est con quelle ad ovest di Napoli senza interessare la storica viabilità cittadina: circa duecentosettantamila veicoli in transito ogni giorno ne testimoniano il ruolo dominante nella vita quotidiana dei napoletani. Un'opera, insomma, pensata proprio per essere una parte viva della città e del suo hinterland ed ora raffigurazione emblematica dell’imprescindibile bisogno di movimento napoletano.


IL VOMERO UNA CITTA' NELLA CITTA'

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è uno dei quartieri collinari di Napoli, conta quasi 130 mila abitanti, una vera citta' nella citta'.
Fino alla fine del 1800 il Vomero costituiva una periferia pressoché disabitata e lontana dalla città di Napoli, le sue parti più antiche come il rione Antignano, erano nuclei abitativi rurali, villaggi che sin dai tempi dei Romani sorgevano sulla "Via Puteolis Neapolim per colles" strada che prima dello scavo della galleria di collegamento tra Fuorigrotta e Mergellina costituiva l'unico collegamento via terra tra la zona flegrea e la città. Intorno al II secolo d.C. la strada fu risistemata e chiamata via Antiniana, da cui il nome al rione. Proprio nell'antico villaggio che oggi è il rione di Antignano la tradizione vuole sia avvenuto per la prima volta il miracolo di San Gennaro, tra il 413 e il 431 d.C.

Lo sviluppo abitativo vero e proprio del Vomero ebbe inizio verso la fine del 1800, più precisamente nel 1885, con la fondazione (nell'ambito della legge "per il Risanamento di Napoli") del Nuovo Rione e la progettazione di un tracciato viario a maglia reticolare e schema radiale che applicava i dettami razionalistici in voga in tutta l'urbanistica europea di fine secolo, secondo l'esempio della Parigi del Barone Haussmann (esperienze analoghe nell'urbanistica italiana si riscontrano nei quartieri romani Esquilino e Testaccio). Fin dalla sua realizzazione il Vomero venne concepito come un quartiere residenziale destinato alle classi alto-borghesi: le splendide ville e palazzine in stile tardo Liberty che vennero realizzate in gran numero agli inizi del secolo attorno alla Villa Floridiana e verso l'area di Castel Sant'Elmo e di San Martino costituirono fino alla metà del '900 il tratto distintivo del nuovo quartiere.

Già prima dell'emanazione della legge di Risanamento, inoltre, una banca piemontese, la banca Tiberina, aveva acquistato al Vomero terreni compresi tra San Martino, Via Belvedere e Antignano, con l'intenzione di costruirvi un nuovo quartiere (già Garibaldi, in effetti, aveva pensato alle zone collinari come potenziali nuovo rioni, in cui però egli riteneva si dovesse ospitare il proletariato). La posa della prima pietra da parte di Umberto I e Margherita di Savoia avvenne l'11 maggio 1885, e, il 20 ottobre 1889, il Nuovo Rione venne inaugurato, con l'apertura della Funicolare di Chiaia; cui sarebbe seguita, nel 1891, quella della Funicolare di Montesanto.

Primo esempio di costruzioni di tipo "urbano" furono i "Quattro palazzi" di Piazza Vanvitelli, edificati all'inizio del XX secolo dalla Banca Tiberina.

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Dopo l'inizio dei lavori, tuttavia, la scarsa reattività del mercato (dovute alle difficoltà economiche dell'epoca e ai collegamenti ancora difficoltosi tra la città e la collina) spinse la banca (proprietaria delle aree edificate e delle due funicolari) a cedere nel 1899 i suoi diritti alla Banca d'Italia. Ciò provocò la sospensione per diversi anni delle opere previste dal piano di urbanizzazione (frutto della Convenzione stipulata tra Comune e Banca Tiberina). All'inizio del '900 risultavano dunque realizzati (oltre al tracciato della lottizzazione) esclusivamente una parte degli edifici al centro del Vomero (tra Piazza Vanvitelli, lungo Via Scarlatti e Via Morghen). Tutte le nuove costruzioni erano in stile neorinascimentale, che a Napoli si protrarrà fino al primo trentennio del '900, trascinandosi negli anni i progetti di fine ottocento.

La Banca d'Italia, per recuperare i capitali investiti, decise di vendere gli immobili già costruiti e i terreni, e frazionare gli isolati in piccoli lotti più facilmente vendibili. Conseguentemente, nei primi anni del XX secolo non si ebbe un impetuoso sviluppo urbanistico, ma sorse una edilizia meno intensiva, di villini a due, tre piani, circondati da graziosi giardini; i quali, peraltro, avevano la capacità di valorizzare maggiormente gli aspetti paesistici dei luoghi, rispetto ai grandi edifici umbertini. Il gusto architettonico che caratterizzò il periodo, fino alla metà degli anni '20, fu quello definito liberty unitamente a quello cosiddetto neoeclettico.

L'edilizia dei piccoli lotti proseguì anche nel primo dopoguerra, mentre continuava lo sviluppo delle zone di Via Aniello Falcone e Via Palizzi, e si aprivano scuole prestigiose, teatri, cinema, ristoranti, cliniche, chiese, nonché (per volontà del regime fascista) il nuovo polo sportivo del Littorio,

L'apertura della nuova Funicolare Centrale, nel 1928, facilitando gli spostamenti fra il Vomero e il centro, portò ad un incremento significativo dell'urbanizzazione, che si orientò nuovamente verso i grossi fabbricati, realizzati anch'essi secondo i vari stili allora di moda (dal liberty al neoeclettismo, al primo razionalismo). Il nuovo centro abitato si espanse fino a raggiungere gli antichi villaggi (Vomero Vecchio, Antignano), inglobandoli.

Nel secondo dopoguerra, la sempre più consistente domanda abitativa e la conseguente solita speculazione edilizia degli anni sessanta, che imperversava in tutta Italia e in particolare nel Mezzogiorno ebbe vita facile, soffocarono e spesso soppiantarono le sobrie ed eleganti architetture vomeresi con enormi fabbricati in cemento armato, facendo perdere al quartiere gran parte del suo fascino. Con la scomparsa di quasi tutti i giardini, la distruzione di buona parte del complesso di villini in stile Liberty (colpevoli di "sprecare" troppo spazio), di molte fra le ville più antiche, e perfino di alcuni dei primi fabbricati umbertini, il Vomero si è andato configurando come un qualsiasi quartiere alto-borghese, arrivando ad inglobare l'Arenella e spingendosi fino alle pendici della collina dei Camaldoli, non senza alcuni autentici scempi edilizi, (come la famigerata Muraglia Cinese di Pasquale Ottieri su Via Aniello Falcone, o i palazzi di Via Caldieri).


Via Morghen nell'anteguerra e nel 2008.Attualmente il Vomero è una congestionata zona residenziale con un'alta densità abitativa, che tuttavia conserva fortunatamente ancora molti esempi dell'architettura originaria, che costituiscono un patrimonio per tutta l'architettura italiana. Inoltre è ancora possibile osservare, oltre ai monumenti già citati, costruzioni storiche, quali, ad esempio, alcune delle più antiche ville nobiliari (Villa del Pontano, Villa Belvedere, Villa Regina, Villa Lucia, Villa Haas, Villa Presenzano o Diaz, Villa Ricciardi, Villa Leonetti, Villa Salve) e un antico edificio del dazio borbonico, nel rione Antignano.








Edited by Pulcinella291 - 16/1/2011, 09:59
 
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Il Museo Nazionale di Capodimonte


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Il museo nazionale di Capodimonte è ospitato dalla splendida reggia, sita nell'omonimo parco; è principalmente una pinacoteca, in cui sono raccolte importanti collezioni, come la collezione Farnese e la collezione Borbone. Vi si trovano poi raccolte di oggetti preziosi, di porcellane e di armi, e si è recentemente aggiunta una sezione dedicata all'arte contemporanea.

La celebre collezione di dipinti dei Farnese, giunta a Napoli da Parma per volontà di Elisabetta Farnese, madre di Carlo III di Borbone, include importanti opere di maestri emiliani, veneti e lombardi; una parte di queste è oggi al Museo Archeologico Nazionale, ma il nucleo principale è in questa reggia, dove lo stesso Carlo III volle conservarle. Tra gli autori presenti, si possono nominare il Parmigianino, il Correggio, Tiziano, Agostino Carracci, Giovanni Bellini.

La collezione Borbone è testimonianza del proseguimento della vena collezionista di Carlo III, che vi concentrò opere d'arte provenienti da varie aree meridionali, da monasteri, donazioni o acquisti; si possono citare opere di Simone Martini, di Guido Reni e di Masaccio.

Da altri musei e chiese napoletani giunsero poi a Capodimonte importanti opere di Caravaggio e di Tiziano, e la celebre Tavola Strozzi, rappresentante la Napoli del 1400. Nel museo si trovano poi anche celebri dipinti napoletani del '200/'300, e la collezione De Ciccio: arazzi di Bruxelles, bronzetti, porcellane e l'Armeria, un totale di 1300 oggetti donati al museo nel 1958.
Di recentissima apertura è infine la sezione dedicata all'arte contemporanea, che occupa parte del secondo, e tutto il terzo piano della reggia, con installazioni, tele e fotografie di artisti internazionali.


Museo nazionale di San Martino


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Il museo nazionale di San Martino è ospitato dal 1866 nell'omonima Certosa, sita sulla sommità della collina del Vomero.

Il museo è dedicato alla storia cittadina, e documenta aspetti della società partenopea nelle varie epoche storiche. In particolare, sono presenti piante e vedute di Napoli, e sezioni dedicate al teatro, alle feste e ai costumi.La sezione più caratteristica e celebre è però quella dedicata ai presepi, tra i quali si trova il famoso settecentesco "presepe Cuciniello", unico al mondo per le sue caratteristiche.Da vedere, nella stessa visita, sono la splendida chiesa barocca della Certosa, il Quarto del Priore, i chiostri e i giardini.

Il Museo Archeologico Nazionale di Napoli

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Il Museo Archeologico fu inaugurato nel 1787, sotto il regno di Carlo di Borbone, in un periodo di grande splendore culturale della corte napoletana, culminato nei primi ritrovamenti archeologici a Pompei ed Ercolano. La sede prescelta fu l'ex palazzo degli Studi, edificato alla fine del XVI secolo e che era stato fino al 1680 adibito a caserma di cavalleria.
In quello che è indiscutibilmente uno dei più importanti musei del mondo sono custoditi tutti i reperti di Pompei, Ercolano, Stabia, Cuma e Oplonti, oltre ad importanti collezioni provenienti da altre aree del mondo: nei diversi piani dell'edificio sono ospitate sculture, mosaici, pitture, porcellane, armi, vasi, oggetti di uso quotidiano, monete ed altro ancora.

Fondamentalmente, i due nuclei principali sono rappresentati dalla collezione Farnese, proveniente dai palazzi e dalle ville farnesiane di Roma, e dalla collezione costituita dagli oggetti rinvenuti a Pompei, Ercolano e negli altri siti archeologici della Campania. Di particolare interesse è poi la Sezione Egizia, che raccoglie tra l'altro mummie, sarcofagi e coccodrilli imbalsamati.

Tra le opere più note si possono citare: sculture marmoree quali l'Ercole Farnese, il Toro Farnese e l'Atlante Farnese; i bronzi di Pompei; gli oggetti provenienti dalla Villa dei Papiri di Ercolano; i grandi gruppi marmorei come quello di Orfeo e Euridice; i mosaici, tra cui spicca "La battaglia di Alessandro a Isso", proveniente dalla casa del Fauno di Pompei.

Museo di Palazzo Reale di Napoli


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Il Museo è allestito nel Palazzo che per tre secoli, dal 1600 al 1946, è stata la sede del potere monarchico nell’Italia del sud. Costruito nel 1600-1602 dall’arch. Domenico Fontana, per volontà del viceré Ferrante di Castro, ha subito diversi ampliamenti ad opera dei sovrani che si sono succeduti nella capitale partenopea. Il piano nobile del Palazzo è stato adibito a museo nel dopoguerra, dopo gli interventi di ripristino per i danni causati dai bombardamenti e consta di circa trenta sale, in precedenza destinate a saloni di rappresentanza, tutte riccamente decorate con affreschi e grottesche. Tra gli ambienti più suggestivi del Palazzo si segnalano il Teatrino di Corte, opera del 1786 di Ferdinando Fuga, e la Cappella Reale (1660 – 1668), dove sono esposti arredi e paramenti sacri, tra cui spiccano due bassorilievi in bronzo e agata di Francesco Righetti e un Cristo in avorio della prima metà del ‘600. La collezione si completa con la quadreria della pittura di paesaggio, che spazia dal ‘500 all’800, e della pittura emiliana, che annovera una raccolta di dipinti del ‘600 appartenuti alla famiglia Farnese. Il Palazzo ha mantenuto l’originale arredo barocco e stile impero, sono quindi esposti vasi di porcellana cinese e di manifattura francese e napoletana, argenterie e un preziosissimo orologio musicale di Charles Clay dell’inizio del ‘700.
 
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LA STORIA DELL'AEROPORTO DI CAPODICHINO
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La storia dell'aeroporto di Capodichino comincia all'inizio del secolo scorso; nel 1910 infatti, dove ora sorge l'aeroporto iniziano le prime esibizioni di velivoli sull'allora Campo di Marte, un ampio territorio pianeggiante già impiegato in epoca borbonica come luogo per addestramenti ed esibizioni militari.

Nel 1918 a causa della prima guerra mondiale Capodichino diventa aeroporto militare per difendere la città da attacchi aerei e tre anni dopo nel 1921 l'aeroporto viene intitolato al tenente Ugo Niutta.

Solo nel 1950, l'aeroporto di Capodichino apre al traffico civile e da quella data inizia un continuo sviluppo dello scalo, culminato nel 1995 con la privatizzazione ed un piano di investimenti, per un valore di 145 milioni di euro. Lo stesso anno apre il Terminal 2 per voli charter e nel 2000 Carlo d'Inghilterra inaugura la nuova sala partenze.

Durante la seconda guerra mondiale l'aeroporto viene usato intensamente dall'esercito americano (Air forces) per la Campagna d'Italia. La 12th Air Force lo usa come campo base, stazionando le seguenti unità aeree:

47th Bombardment Group, 22 Mar-25 aprile 1944, A-20 Havoc
79th Fighter Group, Gen-Mag 1944, P-40 Warhawk
33d Fighter Group, 15 Apr-28 Mag 1944, P-47 Thunderbolt
Quando le unità da combattimento furono rimosse, il Comando Aviazione americano iniziò ad usare l'aeroporto come scalo principale per gli aerei da carico e per il transito di aerei e personale di ritorno dalle missioni.[5]

Anche l'Aeronautica Militare Italiana ha utilizzato per molti anni l'aeroporto di Capodichino. Negli anni della Seconda Guerra Mondiale vi è stata basata la 371° Squadriglia Caccia montata su Macchi M.C.202.

Negli anni dell'immediato dopoguerra, Capodichino è progressivamente diventato un importante polo manutentivo della forza armata. Tale periodo comincia il 1 gennaio 1948 con la costituzione, nell'ambito del riassetto organizzativo dell'Aeronautica Militare, del 5° Reparto Tecnico Aeromobili (5° R.T.A.), rinominato in 5º Gruppo Manutenzione Velivoli (5° G.M.V.) a partire dal 1 novembre 1985.
In questo periodo, al reparto sono stati affidati compiti di efficientamento dei Grumman SF-2 Tracker dell'86° Gruppo Antisom (basati a Capodichino tra il 1957 ed il 1973) e di un ampio spettro di velivoli da addestramento, tra cui i T-33 e gli MB-326 della Scuola Volo Basico Avanzato Aviogetti di Amendola. Con la radiazione dell'MB-326 nel 1996, la missione del reparto è stata ridefinita da centro di manutenzione di III livello tecnico a gestione Air Ground Equipment
È stato il primo aeroporto italiano ad essere privatizzato ed è gestito da Gesac, una società controllata dalla britannica BAA (British Autority Airport), società che gestisce anche gli aeroporti di Londra.
È composto da due terminal, di cui uno per voli charter. Il terminal 1 è interessato da una serie di interventi volti a fronteggiare il traffico, incompatibile con le attuali dimensioni dell'aerostazione. I 6 parcheggi , di cui uno (il P3) interamente sotterraneo con accesso diretto al terminal, dispongono complessivamente di 1408 posti auto.
Oltre alla possibilità di raggiungere i maggiori aeroporti italiani come: Roma-Fiumicino, Palermo-Punta Raisi, Bologna-Borgo Panigale, Genova-Sestri Ponente, Milano-Linate, Torino-Caselle, Venezia-Tessera e Trieste-Ronchi dei Legionari, da Capodichino partono voli internazionali diretti alle maggiori capitali europee. Dal 2004 ci sono voli intercontinentali da Napoli e Palermo a New York-JFK con Meridiana fly

 
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LA STORIA DEL BANCO DI NAPOLI

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È stato sempre un argomento di grande interesse quello di determinare la "data di nascita" del Banco di Napoli e tradizionalmente la si fa coincidere con quella della costituzione del Monte e Banco della Pietà nel 1539, ma nuovi studi, svolti dal prof. Domenico De Marco, esperto di Storia Economica ed Accademico dei Lincei e da Eduardo Nappi, che da oltre quarant'anni studia e lavora presso l'Archivio Storico, che hanno retrodatato questa nascita al 1463, avendo ritrovato documenti riguardanti depositi e prelevamenti dalla cassa di deposito della Casa Santa dell'Annunziata. In particolare ricordiamo un prezioso documento "bancario": la restituzione di una deposito da parte della Chiesa e Ospedale dell'Annunziata di 2 once, 18 tarì e 5 grana di carlini d'argento datata 19 marzo 1463. Questo è il primo documento che si dispone per datare l'attività bancaria dei progenitori del Banco di Napoli al 1463.
Dai documenti ritrovati da questi due studiosi, ma anche da altri lavori realizzati nei secoli precedenti, si può affermare che alle origini dell'attività dei banchi pubblici napoletani ci furono le "casse di deposito" delle case sante, tra cui la Casa Santa dell'Annunziata fu la più antica (fin dall'inizio del Trecento una congregazione amministrava la Casa Santa dell'Annunziata di Napoli come un ospedale, con annessa la chiesa; la confraternita intitolata alla Beata Maria Annunziata fu fondata per un voto dei fratelli Scondito, nobili napoletani, per essere scampati alla battaglia di Montecatini (1315), con il fine di innalzare una chiesa e di aprire un ospedale). Ma anche altre istituzioni pie, come il Conservatorio di Sant'Eligio e l'ospedale degli Incurabili, prima che divenissero "banchi", facevano operazioni bancarie.
Quello che possiamo affermare senza ombra di smentita è che Il Banco di Napoli è una delle più importanti e più antiche banche storiche italiane.
Altri sette istituti simili vennero successivamente fondati in Napoli tra il 1587 ed il 1640. Dopo circa due secoli di attività indipendente tra di loro, un decreto di Ferdinando IV di Borbone porta all'unificazione degli otto istituti esistenti in un'unica struttura che viene denominata Banco Nazionale di Napoli.

Seguendo i cambiamenti politici che hanno caratterizzato il XIX secolo a Napoli e nell'Italia meridionale, anche il Banco di Napoli muta denominazione e struttura. Nel tempo sono cambiate anche le sedi della banca che, dall'originaria sede del Monte di Pietà sita in via S. Biagio dei librai in pieno Centro storico di Napoli, a partire dal secolo XIX trova la sua finale collocazione nel nuovo Palazzo del Banco di Napoli in via Toledo.

Passando dal regno dei Borbone a quello di matrice napoleonica, il re di Napoli Gioacchino Murat tenta di trasformare il Banco in una società per azioni analoga alla Banca di Francia e crea il Banco delle Due Sicilie, destinato ad avere le stesse funzioni attraverso la Cassa di Corte e la Cassa dei Privati.

Nuovi cambiamenti avvengono nel 1861 con l'Unità d'Italia, mutamenti che segnano da un lato la nascita della denominazione Banco di Napoli e dall'altro l'espansione dell'istituto, con la creazione di una Cassa di risparmio, successivamente incorporata, e con l'apertura delle prime filiali fuori dall'area meridionale, in particolare a Firenze (1867), Roma (1871) e Milano (1872). Risale inoltre a questo periodo la creazione di una sezione di Credito Agrario, che ebbe primaria importanza nel finanziare lo sviluppo dell'agricoltura nell'Italia meridionale e la sua specializzazione nelle colture viticole ed agrumicole.

Un'altra svolta storica per l'istituto avviene nel 1901, quando viene avviata la prima attività all'estero: un ufficio a New York per agevolare le rimesse degli emigranti, trasformato in agenzia a tutti gli effetti nel 1909.

Dopo essere stato per molti anni anche istituto di emissione, il 6 maggio 1926, a seguito del passaggio della funzione alla Banca d'Italia, assume la qualifica di Istituto di credito di diritto pubblico e anche un maggior ruolo nello sviluppo del Mezzogiorno; in particolare dopo la crisi del 1929 assume un ruolo importante nel salvataggio delle diverse banche locali nel Sud italia. Nel 1931, primo fra le banche italiane, si dota di un Ufficio Studi per seguire l'economia del proprio territorio creando anche una propria rivista, la Rassegna economica, ancora in essere e oggi gestita dall'Associazione Studi e Ricerche per il Mezzogiorno, che ha ereditato il patrimonio informativo e di competenze del vecchio Ufficio studi. Lo status di Istituto di diritto pubblico sarà mantenuto fino al 1991 quando, in osservanza della cosiddetta Legge Amato, viene trasformato in Società per azioni dando origine anche all'Istituto Banco di Napoli - Fondazione, a cui viene trasferito l'importante archivio storico che va dal XV secolo ad oggi.

Negli ultimi anni del XX secolo e nei primi anni del XXI, il Banco di Napoli ha attraversato una fase difficile, con sofferenze pesanti e conseguenti difficoltà finanziarie dovute principalmente alla commistione dei vertici con i poteri politici dell'epoca. A seguito all'azzeramento del Capitale Sociale, la Banca è stata acquistata per una cifra irrisoria (60 miliardi di Lire, circa 30 milioni di Euro) da parte della cordata composta dalla BNL Banca Nazionale del Lavoro e dall'INA Istituto Nazionale delle Assicurazioni. Dopo circa due anni di gestione ulteriormente penalizzante e dai risultati operativi estremamente deludenti, la cordata BNL/INA ha ceduto la Banca al gruppo Sanpaolo IMI, che ha acquistato la proprietà della Banca per una cifra vicina ai 6.000 miliardi di Lire, mutandone la denominazione in Sanpaolo Banco di Napoli S.p.A. e dotandola di un Capitale Sociale di 800.000.000 di Euro. Nel contempo la Bad Bank, istituita per il recupero dei crediti in sofferenza, ha provveduto a rientrare di circa il 94% delle esposizioni che appena 6 anni prima avevano decretato la fine di uno dei più antichi e prestigiosi Istituti di Credito italiani. A seguito delle ultime operazioni societarie di fusione del Gruppo Sanpaolo IMI nel gruppo INTESA, avvenute nel 2006, al Sanpaolo Banco di Napoli è stato demandato il compito di presidiare le quattro regioni meridionali della Campania, Puglia, Basilicata e Calabria. Dall'8 giugno 2007, a seguito di una delibera dell'Assemblea dei soci, la Banca ha nuovamente assunto la denominazione di Banco di Napoli S.p.A.

 
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LA NASCITA DEL GIORNALE IL"ROMA"



Negli anni del risorgimento Garibaldi aveva urlato o Roma o morte , quindi Roma aveva assunto il significato di unita' dopo lunghe battaglie .
A Napoli in quel periodo esisteva il giornale " il Pungolo" si senti quindi il bisogno di un nuovo quotidiano e nei caffe' cominciamo a riunirsi intellettuali e scrittori ma anche ex manovali, come Giovanni Brombeis, che sarà il redattore capo di un nuovo quotidiano: il "Roma" che, evidentemente, sin dal nome, si richiama a quello che appariva come un autentico anelito di libertà.Quando il giornale nacque, Roma era ancora la capitale dello Stato Pontificio. I fondatori erano garibaldini e mazziniani che intendevano lanciare l'ultima sfida risorgimentale per "Roma capitale d'Italia".


Il primo numero esce il 22 agosto 1862, lo dirige Pietro Sterbini, l'editore è un docente universitario: Diodato Lioy. Redazione e tipografia sono al numero 7 di vico Luperano, nel Cavone. A pochi passi da piazza Dante, dove c'è il "Caffè Gallo", che nel 1874 è acquisito dalla nota famiglia "Molaro", già proprietaria di altri locali in piazza del Carmine e al Borgo Sant'Antonio Abate. Ma i giornalisti del "Roma" (al quotidiano collabora anche Mastriani) possono contare anche sul famoso "Caffè Diodati" (amato pure dai redattori de "Il Pungolo") o, più avanti su via Toledo sull'altrettanto celebre "Caffè Corfinio", dove si siedono spesso Ugo Ricci e Ferdinando Russo (che proprio in questo locale realizzerà lo scherzo del "signor Iorio" a Gabriele D'Annunzio).

Un po' più distante, all'altezza di piazzetta Augusteo, c'è poi un altro punto di riferimento, il "Caffè Croce di Savoia", che ha una caratteristica molto apprezzata da insonni e cronisti: non chiude mai.

Nella bella stagione, poi, i giornalisti - del “Roma” come gli altri giornali - si ritrovano ai tavolini del locale che i fratelli Roberto e Mariano Vacca (gli stessi del "Gambrinus") hanno aperto nella Villa Reale di fronte alla Cassa Armonica. Ovvero la sede dei concerti bandistici della domenica, dove si esibiva il grande maestro Raffaele Caravaglios che, come ricorderà lo studioso Erminio Scalera, incantò anche il critico musicale dell'Echo de Paris". A pochi passi dalla Casina che diventerà la sede dell'Ordine dei giornalisti della Campania.
Per decenni il "Roma" è la voce dei garibaldini e dei mazziniani.Quando, il 16 marzo del 1892, esce il primo numero de "Il Mattino" a Napoli si contano ben dieci quotidiani che vendono oltre settantamila copie su una popolazione che conta cinquecentomila abitanti, dei quali sono alfabetizzati poco più di centomila. Ovvero, su dieci persone che sanno leggere, sette comprano un giornale. Il "Roma" è il leader incontrastato con oltre ventimila copie ed una autorevolezza che non sarà mai messa in discussione.

Collaborano al "Roma" sin dal primo periodo firme illustri come quella di Francesco De Sanctis. La storia del quotidiano attraversa le vicende del '900. Negli anni '50 e '60, con la proprietà dell'armatore e sindaco di Napoli Achille Lauro, il "Roma" vive una stagione aurea raggiungendo elevati livelli di diffusione e vendita. Si alternano grandi direttori come Alfredo Signoretti, Alberto Giovannini e Piero Buscaroli. Al "Roma" collaborano anche Leo Longanesi e il filosofo Julius Evola.Dopo la seconda guerra mondiale fu acquistato dall'armatore Achille Lauro. Lauro inviò il tecnico Salvatore Di Salvatore in Germania per acquistare nuove rotative tedesche. Le rotative furono acquistate a Mannheim; Di Salvatore portò a Napoli i nuovi macchinari; altre rotative, di minori dimensioni, furono trasportate sulla nave «Achille Lauro», che funse da tipografia (unica nave in Italia a stampare un giornale). Con Lauro il quotidiano si collocò politicamente a destra.

Nel dopoguerra il Roma fu diretto, tra gli altri, da Alfredo Signoretti (1950-1958), Alberto Giovannini (1958-1972 e 1976-1978), Piero Buscaroli e Piero Zullino; ne fu critico letterario e capo servizio Cultura Francesco Bruno.

Nel 1978 Achille Lauro cedette il giornale, indebitato, al figlio Ercole che, nel tentativo di risanarne i bilanci, decise di abbandonare posizioni politiche di destra e collocare il quotidiano al centro, affidandone la direzione ad Antonio Spinosa. Il tempo di far terminare il praticantato a quattro nuovi assunti (tra cui l'odierno direttore) e dal 2 novembre 1980 il giornale interruppe le pubblicazioni sotto la direzione di Franco Grassi.
Nel novembre del 1981 la più antica testata del Mezzogiorno chiude. Il ritorno nelle edicole, dopo la parentesi dal 1990 al 1993, nel 1996 e il rilancio del "Roma come quotidiano meridionalista è legato al nome di Giuseppe Tatarella.


LA NASCITA DE"IL MATTINO" IL QUOTIDIANO PIU' DIFFUSO IN CAMPANIA-STORIA


Il giornale nasce dopo una serie di fortunate combinazioni. Vediamolo in qualche dettaglio.
Tra Matilde Serao ed Edoardo Scarfoglio , due famosi giornalisti e scrittori napoletani ,non nacque solo un'unione sentimentale, ma anche un sodalizio professionale. Scarfoglio pensava da molto tempo a fondare un proprio giornale quotidiano. Insieme con Matilde realizzò il suo progetto: nel 1885 fondarono il Corriere di Roma. La moglie vi contribuì non soltanto con i suoi scritti, ma anche invitando a collaborare le migliori firme del momento. Tuttavia il giornale non decollò, per la concorrenza del più forte La Tribuna, il quotidiano romano allora più diffuso.
Intanto il Corriere di Roma, che aveva avuto un'esistenza travagliata fin dalla nascita, era molto indebitato. Matilde Serao e il marito non sapevano come fronteggiare la cattiva situazione finanziaria. La fortuna fece loro incontrare a Napoli il banchiere livornese Matteo Schilizzi (che viveva nella città partenopea per questioni di clima), proprietario del quotidiano Corriere del Mattino. Schilizzi propose alla coppia di trasferirsi a Napoli, per continuare la loro avventura al suo giornale. Matilde ed Edoardo accettarono. Il banchiere si accollò i debiti del quotidiano romano (tra le 14.000 e le 15.000 lire) e il 14 novembre del 1887 il Corriere di Roma cessò le pubblicazioni. Poco dopo venne fuso con il Corriere del Mattino, dall'unione nacque il Corriere di Napoli, il cui primo numero uscì il 1º gennaio 1888.
La Serao si buttò a capofitto nella nuova impresa, diventando in poco tempo il dominus in redazione. Chiamò a collaborare al giornale firme prestigiose come Giosuè Carducci e Gabriele D'Annunzio.

Nel 1891 Scarfoglio e la moglie lasciarono il Corriere di Napoli, di cui cedettero il proprio quarto di proprietà ricavando 100.000 lire. Con questo capitale la coppia decise la fondazione di un nuovo giornale, che venne chiamato Il Mattino e uscì con il primo numero il 16 marzo del 1892.
L'orientamento di tale giornale, in passato definito come centrista, gli ha conferito diffusione soprattutto presso ambienti democristiani, socialdemocratici e liberal-democratici di centro-sinistra. Oggi la linea è indipendente e fa de "Il Mattino" una voce autorevole e primo punto di riferimento nell'informazione del Mezzogiorno[senza fonte] come indicano i dati diffusi dall'Audipress
Attualmente, la vendita media giornaliera è di circa 82.000 copie. Negli ultimi anni il giornale ha però subito una perdita netta di oltre 30.000 copie vendute, anche a causa della comparsa sul mercato di altri quotidiani che si occupano in maniera approfondita di Napoli e della Campania, da "Cronache di Napoli" a "Il Denaro", da "Napolipiù" a "Metropolis" per restare nella sola provincia di Napoli.




Edited by Pulcinella291 - 13/3/2011, 12:58
 
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I CAFFE' DI NAPOLI NELLA STORIA DELLA CITTA'


IL CAFFE' CALZONA (da cui fu tratta anche una celebre macchietta)
All'interno della galleria Umberto I°, subito dopo la sua inaugurazione,fu aperto il Caffè Calzona. Divenne famosissimo in citta , , anche per le serate di gala e i luculliani banchetti ufficiali che vi si tenevano. Piano piano divenne anche un caffe' concerto.Era la mezzanotte del 31 dicembre 1899, quando dodici bellissime ragazze, con il loro balletto, un po' osè per quei tempi, salutarono l'Ottocento come il secolo d'oro appena concluso e diedero il benvenuto al neonato Novecento. Ma gli spettacoli di varietà nel Caffè della Galleria non costituivano un avvenimento eccezionale. Erano in programma ogni sera. Il piccolo palcoscenico, posto proprio al centro e rivolto verso via Santa Brigida, fu calcato da personaggi dello spettacolo rimasti famosi. In particolare dalla coppia Scarano- Moretti, cioè il padre e la madre di Tecla Scarano. Gli spettacoli del Calzona avevano un tale successo di pubblico che anche i giornali dell'epoca, spesso, pubblicavano le recensioni. Di solito, i critici dei quotidiani seguivano solo le prime dei lavori in scena nei numerosissimi teatri napoletani. Anche il Caffè della Galleria, per i prezzi particolarmente bassi che praticava e per gli spettacoli gratuiti e di buon livello, era divenuto un punto d'incontro tra le classi ricche e quelle meno abbienti. Con la spesa di soli tre soldini si prendeva il caffè seduti al tavolino e si poteva trascorrere l'intera serata a godersi lo spettacolo; c'era chi, più fortunato, poteva assistere dalle finestre del suo ufficio al primo piano. Era il caso di Matilde Serao, che dalla redazione de "Il giorno", tra uno scritto e l'altro, volgeva volentieri lo sguardo verso il piccolo palcoscenico del Calzona.
Il Caffè, con la sua attività di spettacolo e con il suo pubblico eterogeneo fornì lo spunto a una macchietta, inventata dal cronista mondano del "Mattino", Ugo Ricci. La interpretò l'attore Nicola Maldacea nel vicinissimo Salone Margherita. Nel dialogo si magnificavano le caratteristiche del locale:«In fatto di cafè presentemente, non v'è di meglio d' 'o Cafè Calzona.../Questa è la mia modesta opinione: sempre secondo il mio modo 'e vedè». In realtà, qualcosa di meglio doveva esserci se è vero che piano piano il Calzona perse la parte più consistente della sua clientela in favore di altri locali, in particolare, a beneficio del solito Gambrinus e del Salone Margherita.


IL CROCE DI SAVOIA (caffe' giorno e notte)

Nella piazzetta dove ora si trova il tetaro Augusteo sorse il Croce di Savoia , certamente non all'altezza del famoso Gambrinus o di tanti altri, ma aveva una sua peculiarita':era aperto giorno e notte ed era sprovvisto di porte.
Durante la giornata era frequentato da un pubblico eterogeneo, mentre di notte era preso d'assalto dalla gente di ogni tipo che animava la vita notturna partenopea. Vi si trovavano giornalisti, poliziotti, fornai, qualche prostituta insieme con il suo magnaccia e quanti altri, a notte inoltrata, volevano sedere a un tavolino e sorbire un caffè. Il Croce di Savoia era anche un dormitorio per i viaggiatori di passaggio, che non avevano trovato una sistemazione in albergo o che volevano risparmiare. Col prezzo di una tazzina di caffè, si rannicchiavano sui divani del locale e dormivano fino al levar del sole.


IL CAFFE' VACCA


Aperto a fine Ottocento, non era il classico caffè letterario nè tantomeno un Caffè Chantant. La sua attività era abbastanza simile a quella che, ancora oggi, svolgono gli Chalet della Villa. L'unico giorno di grande affollamento era la domenica, quando le famiglie della media borghesia si riunivano nella Villa Reale per ascoltare i concerti bandistici, alla Cassa Armonica .Prima ci si sedeva ai tavolini del Caffè per un gelato o una bibita, mentre i bambini si divertivano a rincorrersi tra i viali ombreggiati e ben curati, gli adulti, col vestito della festa, ascoltavano la musica di Caravaglios.Durante il resto della settimana, il Caffè Vacca era quasi sempre poco frequentato. Era meta abituale solo di qualche coppietta, in cerca di un po' d'intimità e delle bambinaie che portavano in Villa la prole dei signori. Di tanto in tanto, ai tavolini del Caffè si vedeva anche Salvatore Di Giacomo alla ricerca di un momento di solitudine che certo non sarebe riuscito a guadagnarsi nell'affollatissimo Gambrinus o in qualsiasi altro locale di via Toledo o di Piazza San Ferdinando.Il Caffè Vacca fu distrutto dai bombardamenti, durante l'ultimo conflitto mondiale. Nessuno ha poi pensato di ricostruirlo così com'era.
 
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I Bar di Chiaia e la movida


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E' diventato di gran moda per i giovani napoletani girare o stazionare tra la miriade di localini del quartiere Chiaia, dove , a dire la verita',oltre alla crescente domanda , si puo' anche riscontrare l'efficienza dei gestori.
Questi cosiddetti" baretti" sono diventati luogo dove incontrarsi, bere, mangiare… e conoscersi dove tra una chiacchiera e l’altra, si ascolta musica e si prende qualcosa da bere. Andare ai baretti vuol dire sostanzialmente sfilare su e giù per questi vicoletti, così angusti ma così ambiti dalla Napoli bene: ragazze ben vestite e uomini griffati vagano da un locale all’altro per ammirare e farsi ammirare.Luoghi dove i giovani si sentono a proprio agio,dove si vive la notte e se ne possono respirare le essenze. Atmosfere che avvolgono e coinvolgono e che lasciano sicuramente soddisfatte tutte le aspettative.



Intra Moenia Caffè Letterario di piazza Bellini

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Questo caffè letterario si trova in una delle piazze più suggestive di Napoli. Punto di ritrovo storico della città, Piazza Bellini costituisce un esempio di come a Napoli possano convivere differenti elementi caratteristici della città.

Il caffè letterario Intra Moenia ne costituisce il fiore all'occhiello. Da sempre punto di riferimento per gli amanti della città, Intra Moenia accoglie i suoi ospiti in maniera elegante e sobria allo stesso tempo. L'ideale se si vuole trascorrere un pomeriggio a leggere/scoprire perchè Napoli è una città così controversa sorseggiando un thè.

Intra Moenia è infatti anche una della case editrici storiche della città con la spiccata caratteristica di farsi promotrice di pubblicazioni in cui è contenuta la memoria storica di Napoli e dei napoletani. Insomma è una della tappe da fare se si decide di passare per Napoli. Vero e proprio luogo di aggregazione dove poter leggere, ascoltare musica e dialogare con gli altri frequentatori ed ovviamente sorseggiare una tazza di buon caffè. Oltre alle attività artistiche il caffé offre ai suoi clienti anche buonissimi drink e appetitosi piatti della cucina napoletana.


PER MANGIARE UNA BUONA PIZZA A NAPOLI (le pizzerie storiche)

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Con la denominazione pizza napoletana verace artigianale è stata riconosciuta tra i prodotti agroalimentari tradizionali. Una specialita' che tutto il mondo ci invidia e che tutti dovrebbero assaggiare almeno una volta nella vita.
La peculiarità della pizza napoletana è dovuta soprattutto alla sua pasta che deve essere prodotta con un impasto per pane - ossia completamente privo di grassi - morbido ed elastico, steso a mano in forma di disco senza toccare i bordi che formeranno in cottura un tipico "cornicione" di 1 o 2 cm mentre la pasta al centro sarà alta circa 3 mm. Un veloce passaggio in un forno molto caldo deve lasciarla umida e soffice, non troppo cotta. Ma dove possiamo mangiarla ?
Senza fare offese ad altre pizzerie , perchè come è ovvio che sia, il territorio partenopeo è disseminato di pizzerie storiche che da anni portano avanti l’arte della pizza e ai cui tavoli, orde di turisti (e non solo), si siedono per gustare questa succulenta pietanza,alle pizzerie storiche :

Antica Pizzeria Da Michele dal 1870: (Via Cesare Sersale 1, Tel. 081 5539204) – E’ da 5 generazioni ormai che la famiglia Condurro continua la tradizione del fondatore Michele. Gli ingredienti principe della tradizione qui utilizzati sono ormai da 100 anni gli stessi: farina tipo” 00” di grano tenero, pelati “San Marzano” non concentrati, fior di latte di Agerola, olio di semi, acqua, lievito, sale marino, basilico, origano e aglio.

Pizzeria dal Presidente: (Via dei Tribunali 120. Tel. 081210903) – Il nome della pizzeria è dato dalla celebre visita alla stessa del presidente Clinton, il quale si recò presso di quest’ultima per gustare l’ottima pizza napoletana. Le specialità sono varie e tutte gustosissime: dalla semplice Marinara alla “Lasagna” ( mozzarella, pomodoro, prosciutto cotto, ricotta, formaggio, basilico), dalla Carrettiere (mozzarella, friarielli, salsicce, formaggio) alla “Tarantina” (pomodoro, olive, acciughe, capperi, aglio, origano, basilico). Tutte pizze preparate con ingredienti della tradizione e uniti tra loro sapientemente

Pizzeria Di Matteo: (Via dei tribunali 94. Tel. 081455262) – Nasce nel 1936, ad opera di Salvatore Di Matteo. Ciò che rende famosa questa pizzeria, oltre alla bontà della pizza è l’affabilità’ con cui il personale accogli i clienti che numerosissimi affollano il locale e che volentieri ci ritornano. E’ disposta su due livelli e tra le specialità troviamo, oltre alle ottime e gustose pizze, pizze fritte, arancini di riso e crocchette di patate.

Pizzeria Brandi: (Salita di San’t Anna Di Palazzo 2. Tel. 081416928) – Fondata nel 1780 con il nome originario di “ Pietro…e basta così”. Conosciuta in tutto il mondo per aver dato i natali alla pizza margherita. Oltre quindi alla classica pizza margherita, vi consiglio di assaggiare una delle pizze dedicate agli uomini e donne che hanno reso grande Napoli.Un esempio? La pizza “Donna Sofia”, dedicata a Sophia Loren, preparata con bianchetti, pomodoro e origano. Ottimi anche i primi e i secondi piatti di pesce. Una sosta è quindi obbligata!

Pizzeria Starita: (Via Materdei 27. Tel. 0815573682) – Dal 1901. Nel 1954 questa storica pizzeria offre supporto alle riprese dell’episodio de “L’oro di Napoli”che vede la bella Sophia Loren vestire i panni di una pizzaiola adultera. Negli anni la sua fama è cresciuta sempre più tanto da ricevere nel 2000 i riconoscimenti al Vaticano dal Papa. Questa pizzeria è una vera e propria istituzione.

Pizzeria Sorbillo: (Via Dei Tribunali 32. Tel 081.446643) – Dal 1934 . l successo della pizzeria,conosciuta in tutta Napoli,è dato da due elementi importanti: materie prime di alta qualità e grande maestria d’esecuzione


Pizzeria Trianon Da Ciro

Fondata nel 1923 dai coniugi Leone, la pizzeria prende il nome dal teatro che tempo fa era il luogo in cui si esibivano i migliori artisti napoletani e italiani. In questa pizzeria Totò, Macario e Nino Taranto gustarono la famosa pizza “a ruota del carretto” (per le enormi dimensioni), attratti dall’aroma che giungeva fino al teatro.Napoli – Via Pietro Colletta, 44/46
Secondo molti è la migliore pizzeria di Napoli: sempre aperta e dai prezzi oltremodo competitivi, l’ambiente della Trianon da Ciro è di quelli spartani in cui si può assaporare, e non solo nel piatto, la napoletanità più verace. Impossibile non trovare posto, visti i tre livelli sovrapposti in cui si articola, i tavoli sono ‘comunitari’ (nel senso che se siete in due potrebbero farvi accomodare accanto a una comitiva più numerosa) e apparecchiati con lunghe tovagliate di carta, in ‘tinta’ con le stoviglie che vi arriveranno, però, solo a ordinazione effettuata.



Edited by Pulcinella291 - 8/4/2011, 09:00
 
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IL GIGANTE DI PALAZZO ('O gegante 'e palazzo e la satira dei napoletani)

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Il Gigante di palazzo è un grande torso, originariamente consacrato al culto di Giove, che nel 1668 il viceré di Napoli don Pietro Antonio d'Aragona fece porre in cima alla salita che dalla darsena immetteva in Largo di Palazzo, ovvero nell'attuale Piazza del Plebiscito. Detto chi fosse il Gigante, è il caso, forse, di ricordare che il Palazzo è la reggia voluta da don Fernando Ruiz de Castro, conte di Lemos e viceré di Napoli a sua volta, il quale nel 1600, attendendosi una visita che mai ci fu del re Filippo III, ne commissionò l'esecuzione a Domenico Fontana. Merita memoria il fatto che l'architetto reale la consegnò nel 1602, e cioè dopo solo due anni di lavori.

All'enorme busto marmoreo il nome venne dato perché lo si rinvenne in località Masseria del Gigante durante gli scavi del Capitolium a Cuma e per motivi devozionali non si volle dire al popolo che un tempo c'era chi credeva fosse Giove il più grande degli dei. Certo è che il Gegante 'e palazzo fu per Napoli ben presto e per centotrentotto anni quello che Pasquino fu per Roma e il Gobbo di Rialto per Venezia, ovvero il sito dove si apponevano satire in versi e in prosa all'indirizzo delle autorità costituite. Ingegni occulti le scrivevano e mani misteriose le affiggevano, sfidando nelle notti oscure i posti di guardia che vi erano a presidio.

A farne per primo le spese fu, com'era giusto, lo stesso don Pietro Antonio d'Aragona, ma chi rese involontariamente celebre il Gigante in tutta Europa fu Luis de la Cerda, duca di Medinaceli, che giunto come viceré nel 1695 pensò bene di estirpare alla radice la mala pianta della satira e garantì una taglia di 8.000 scudi d'oro a chi fornisse notizie utili all'arresto degli autori. Ebbene, il giorno successivo, un foglio affisso sul Gigante offrì 80.000 scudi d'oro a chi portasse la testa del viceré in piazza del Mercato.

Non andò poi meglio ai viceré austriaci, tant'è che al conte Alois Thomas Raimund di Harrach, nel 1730, venne sul marmoreo busto indirizzato un couplet di quelli ancora oggi leggibili su banchi e su pareti, scritti dai ragazzi come arma innocua nel rapporto di potere contro il mondo adulto, o ripetuti con delizia dai bambini nelle complicità socializzanti della fase anale.

«Neh che ffa 'o conte d'Harraca?
Magna, bbeve e ppò va caca».

L'ignoto e ingenuo vergatore, non importa se per scelta consapevole del codice basso o per ritorno del rimosso, compendiava nella quotidiana soddisfacibilità di tre primari bisogni personali le uniche preoccupazioni "politiche" del conte.

Prima di lasciare il trono di Napoli a Gioacchino Murat, nel 1808, Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone e re dal 1806, non più sopportando il "napoletano aceto" che lo bersagliava continuamente, invece di metter taglia sugli anonimi autori, se la prese col Gigante, ordinandone il "trasloco" dalla piazza alle scuderie di Palazzo reale. Ma la mattina stessa della "rimozione forzata" si poterono leggere sul busto queste ultime volontà del vecchio Giove: «Lascio la testa al Consiglio di Stato, le braccia ai Ministri, lo stomaco ai Ciambellani, le gambe ai Generali e tutto il resto a re Giuseppe». E tutti intesero quale altra "parte" riservasse argutamente al Bonaparte.

A capa e' zi Vicienze


E' un nostro modo di dire per indicare una persona di bassa considerazione . Ma come nasce questo detto? Eccovelo spiegato.
Noi napoletani siamo famosi nello storpiare termini stranieri , in questo caso trattasi semplicemente della storpiatura dialettale del termine che i
latini usavano per le persone che non venivano censite perchè non
possedevano alcuna ricchezza, le cosiddette "Caput sine censi"




Edited by Pulcinella291 - 4/5/2011, 10:55
 
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"AFFUCIATA" PER I NAPOLETANI
Alle 4 del pomeriggio del Sabato la delusione è profonda, ma alla Domenica mattina la fantasia si rialza, il sogno settimanale ricomincia Il lotto, il lotto è il largo sogno che consola la fantasia napoletana! E’ l’idea fissa di quei cervelli infuocati, la grande visione felice che appaga la gente oppressa, la vasta allucinazione collettiva che si prende le anime:
Cummà ch’è asciuto?
Nun o saccio ancora
E c’or’è?
Song’’e cinche!
Overamente? Neh, ma comm’è ca nun se sape niente?
A strazione avesse cagnato ora?....Cummà!
Dicite!
Aiere int’’a cuntrora me sunnaie nu tavuto e tre pezziente!
Dicite chesto? I’ me sunnaie ccà fore
ca m’erano cadute tutt’’e diente!
Sti suonne overo sò nzipete assaie
E diente! E tre pezziente e nu tavuto
Faccio buon’io ca nun m’è ghioco maie!
A vì loco, a vì loco!
Cummà, ch’è asciuto?
Trentadoie primm’aletto!
Uh e diente!E po'?
Nuvanta!
Uh ‘e pezziente!
Uh sciorta , sciò!



'A POESIA E CICCIO CAPPUCCIO 'O GUAPPO
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D’’o Mercatiello a ‘o Buvero
da o Puorto a lu Pennino
è corza ‘a voce subbeto:
è muorto ‘o signurino
Ciccio Cappuccio , o principe
d’’e guappe ammartenate
ha nchiuso l’uocchie d’aquela
e sule nce ha lassato
Scugnizze e capepuopole,
picciutte e cuntaiuole
chiagnite a tante ‘e lacreme
Ite perduto o sole
Currite belli femmene
sciugliteve ‘e capille
purtatele all’esequie
‘e figlie piccerille!
Chi ve po' chiù difennere?
Senz’isso che facite?
A chi jate a ricorrere
si quacche tuorto avite
Isso sul’isso era abbele
a fà scuntà sti tuorte
Mò chi po' chiù resistere
Ciccio Cappuccio è muorto!
Russo, nquartato, giovane,
pareva justo Urlando
quann’’o verive scennere
miezo San Ferdinando
V’allicurdate o sciopero
pare successo aiere
sul’isso dette l’ordine
e ascettero e cucchiere
E quanno dint’’e carcere
p’o fatto d’’e turnise
isso avette che dicere
cu ‘e guappe calavrise!
Tirate mano. Armateve!
Tenite core mpietto?
E n’abbattette dudece
cu ‘e tavule d’’o lietto
Uommene nun ne nascono
comm’’a Cappuccio ancora
L’aute sò buone a schiovere
Isso vucava ancora
Currite! Mò so portano
Menatele e cunfiette!
Sceppateve, stracciateve
‘e core a dint’’e piette!
Picciutte e capepuopole
scugnizze e cuntaiuole
chiagnite a tant’’e lacreme
ite perduto ‘o sole!

 
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La storia di Gay Odin dove la cioccolata diventa un'arte


E' una cioccolateria artigianale storica con produzione di cioccolato di tutti i tipi, realizzato con antiche ricette e con materie prime di qualità extra. Nelle sue cucine si seguono tutte le regole dell’arte del cioccolato artigianale: ingredienti di ottima qualità, dosi ben precise e niente conservanti.
La bottega è aperta dal 1922 ed è condotta da una famiglia unita che ormai ha trentacinque dipendenti. La dirigenza formata da una unica unità famiglia si associa alle maestranze per ottenere un prodotto ai massimi livelli di qualità partendo dai migliori chicchi di cacao. La fabbrica è talmente un punto di riferimento a Napoli che è stata inserita con decreto del ministro Ronchey del 25/02/1993 tra i monumenti nazionali. Ci si possono trovare macchine d’epoca perfettamente funzionanti insieme a macchinari moderni e le ricette originali del fondatore Isidoro Odin.

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La storia di questa cioccolateria a Napoli vuole che Isidoro trasferì da Alba a Napoli la sua più grande passione conquistando subito l’alta borghesia partenopea. Gli affari andarono subito molto bene e, nel famoso 1922, aprì la sua fabbrica di cinque piani alle spalle di via dei Mille, tra le case dei nobili e dell’alta borghesia che lo stava arricchendo. Col matrimonio con Onorina Gay nacque il marchio Gay Odin e aumentarono i negozi in città. Negli anni ‘60 la proprietà passò in maniera indolore nelle mani di Giulio Castaldi e Isidoro, che non aveva eredi, restò a dirigere fino alla sua morte, avvenuta negli anni ‘70. Il nuovo proprietario investì sul futuro iniziando ai segreti del cioccolato il nipote Giuseppe Maglietta. Quest’ultimo, dopo essersi laureato, prese il timone dell’azienda negli anni ‘80 coinvolgendo man mano la moglie e i suoi figli, cresciuti nel mito delle ricette del fondatore, e mantenendo tutta l’arte dei maestri cioccolatieri. Ad oggi la cioccolateria storica Gay Odin è tappa fondamentale per i turisti golosi e per i napoletani che intendono trattare bene il loro palato.


LE NOBILI FAMIGLIE DI NAPOLI


E' importante sapere che il Patriziato era solo per i maschi delle casate ascritte, che erano titolati “Cavalieri di seggio”, mentre le donne erano nobili “dame di Seggio”. Sedili (o Seggi) erano i consigli medievali della città di Napoli. Istituiti sin dal 1200 erano composti dai rappresentanti delle cosiddette famiglie magnatizie
A) SEGGIO DI CAPUANA (stemma: cavallo d’argento con morso d’oro in campo azzurro):

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1. Caracciolo (antichissima famiglia patrizia, attestata fin dall’epoca ducale, IX sec.) (fiorenti)

2. Caracciolo Rossi (ramo dell’omonima casata, sorto nel XII sec.) (fiorenti)

3. Caracciolo Pisquizi (ramo dell’omonima casata, sorto nel XII sec.) (fiorenti)

4. Capece (antichissima famiglia patrizia, attestata fin dall’epoca ducale, probabilmente discesi dai Cacapece, imparentati con i Duchi di Napoli)

5. Capece Aprano (estinti)

6. Capece Bozzuto

7. Capece Galeota (fiorenti gli omonimi Capece Galeota ascritti dopo abolizione dei Seggi)

8. Capece Latro (famiglia di origine normanna, discesa dai Conti di Alatro, imparentati poi con i Capece, di cui anteposero il cognome e con cui furono confusi) (fiorenti)

9. Capece Minutolo (fiorenti)

10. Capece Piscicelli

11. Capece Scondito

12. Capece Tomacelli (estinti)

13. Capece Zurlo (estinti)



AGGIUNTE:

1. Acerra (d’) (estinti)

2. Acciaiuoli (estinti) (ramo dei Conti di Melfi, originari di Firenze, iscritti al patriziato di Nido nel 1348, poi estinti fra i sec. XIV e XV)

3. Acciapaccio (estinti)

4. Agala; (estinti)

5. Aiello; (estinti)

6. Ajossa (estinti)

7. Alarcon; (estinti)

8. Aquilio (estinti)

9. Arbusto (estinti)

10. Arcella (estinti)

11. Aversana (dell’) (estinti)

12. Barrese (estinti)

13. Barrile (estinti)

14. Boccapianola (estinti)

15. Brancia (estinti)

16. Buccafinghi (estinti)

17. Boncompagni (poi Boncompagni Ludovisi) (fiorenti)

18. Cantelmo (estinti)

19. Cappasanta (estinti)

20. Carbone (estinti)

21. di Capua (estinti)

22. Capuana(o) (estinti); probabilmente ramo collaterale degli omonimi del seggio di Capuana;

23. Cassiano (estinti)

24. Catanei (estinti)

25. Cattaneo Della Volta di San Nicandro (ascritti nel 1718) (fiorenti)

26. Colonna dei Duchi di Zagarolo (linea estinta ma il titolo di patrizio è mantenuto ancora dalle linee di Paliano e Stigliano, v. oltre Seggio di Porto) (fiorenti)

27. Comino (estinti)

28. Coscia (estinti)

29. Crispano (estinti)

30. Dentice del Pesce (dallo stemma con il pesce dentice); ramo dell’antica famiglia patrizia amalfitana che passò in Napoli in età angioina ed ivi entrò nel patriziato locale, ottenendo cariche regie e feudi: il ramo D. del Pesce fu ascritto nel Seggio di Capuana; i D. delle Stelle (dallo stemma con un mezzo leone con tre stelle sotto) nel Seggio di Nido (fiorenti)

31. Imperiali (fiorenti)

32. Evoli (Eboli) (estinti)

33. Faccipecora Capece (estinti) (ramo del casato Capece)

34. Filangieri (di Striano)

35. Filomarino “delle Onde” (estinti)

36. Firrau (o Firrao) (estinti)

37. Frangipane (o Fellapane) (estinti)

38. Franchi (o Franco) (estinti)

39. di Forma (estinti)

40. del Giudice (estinti)

41. Guigliart (Gagliardi) (estinti)

42. Guindazzi (estinti)

43. dell’Isola (o De Insola) (estinti);antica famiglia ravellese iscritta al patriziato locale fin dal XIII sec; in età angioina passarono in Napoli ed un ramo fu patrizio del sedil Capuano (poi estinti); in seguito furono anche feudatari del regno; un ramo della famiglia godè nobiltà anche in Sessa Aurunca; i membri del ramo ravellese, dopo lo scioglimento dei sedili nobili (1800), furono ascritti nel Libro d'Oro di Ravello;

44. di Lagni (de Ligny) (estinti)

45. della Leonessa (estinti)

46. Loffredo (estinti)

47. Mansella(i) (estinti)

48. Mariconda (estinti)

49. della Marra; antica famiglia patrizia ravellese, il cui sontuoso palazzo era posto verso la parte occidentale del palazzo vescovile; già in epoca normanna entrò nella nobiltà feudale del regno divenendo illustre e potente, fino a possedere più di cento feudi, tra cui Serino, Stigliano, Montella e Alliano, con il titolo di Conte (dal 1414), Monterocchetta (con il titolo di Marchese dal 1627), Guardialombarda e Macchia (con il titolo di Duca dal 1611); furono ricevuti nell'Odine di Malta fina dal 1381 e goderono nobiltà anche in Scala, Napoli (Sedile Capuano), Capua, Barletta, Sessa, Somma e Messina; in epoca angioina, insieme ai Rufolo, divennero arbitri delle dogane di Barletta e Trani, accumulando ingenti ricchezze, specialmente tramite il commercio, soprattutto il frumento, anche per contro della Corona; dopo lo scioglimento dei sedili nobili (1800), furono ascritti nel Libro d'Oro di Napoli (Sedile Capuano), mentre i membri del ramo ravellese furono ascritti nel Libro d'Oro di Ravello;

50. Mastaro (estinti)

51. Mazza (estinti)

52. Medici di Ottaiano; ramo dell'antica casata fiorentina che ottenne poi il dominio di Firenze (fiorenti)

53. Mendoza dei Principi di Melito (estinti)

54. Morra (fiorenti)

55. Orsini dei Duchi di Bracciano (estinti)

56. Ottoboni (già Rasponi) (estinti)

57. Pandone (estinti)

58. Pescara di Diano

59. Pesce (estinti)

60. Proculo (estinti)

61. Protonobilissimo (estinti)

62. Revertera (dal 10-10-1717)

63. Ruffo di Calabria (fiorenti)

64. Saracino (estinti)

65. Seripando (estinti)

66. Siginolfo (estinti)

67. de Silva (estinti)

68. di Somma (fiorenti)

69. Tarcello (estinti)

70. Tocco “delle Onde” (estinti)

71. Tortello (estinti)

72. Varavallo(i) (estinti)

73. Virgini (estinti)

74. Vulcano (Bulcano) (estinti); antica famiglia di Sorrento;

75. Zamarella (estinti)



B) SEGGIO DI NILO (poi NIDO) (stemma: cavallo di nero senza morso, in campo d’oro):

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1. Acerra (estinti)

2. d’Acquaviva d’Aragona (estinti)

3. d’Afflitto; una delle più antiche e prestigiose famiglie patrizie ravellesi, attestata fin dal VIII-IX sec. nel ceto dirigente della repubblica amalfitana; partecipò poi al patriziato locale ed alla nobiltà regia già in epoca normanno-sveva; ebbe poi molti feudi (più di cinquanta), di cui alcuni con i titoli di principe duca, marchese e conte; un suo ramo si trasferì a Napoli e fu iscritto al Seggio di Nido; altri rami hanno avuto nobiltà in: Lettere, Castellammare, Benevento, Lucera, Bitonto, Palermo, ecc; infine fu una delle ultime famiglie patrizie ad essere ricordata come tale nel catasto onciario di Ravello del 1755; dopo lo scioglimento dei sedili nobili (1800) furono ascritti nel Libro d'Oro di Ravello; il ramo napoletano fu ascritto nel Libro d'Oro di Napoli, nel Seggio di Nido (1800), così come il ramo D'Afflitto D'Aragona (estinti)

4. Agaldo (di Corbano) (estinti)

5. d’Alagno (estinti); famiglia patrizia di Amalfi, potenti nel XIV sec. alla corte di re Roberto e della regina Giovanna I, patrizi napoletani, furono Conti di Burrello e di Buchianico, imparentati con le famiglie Caracciolo, Carafa, Cripano, Mormile, Piscicelli, Vulcano (estinti)

6. Aldemoresco (estinti)

7. Arcella (estinti)

8. Assanto(i) (estinti)

9. Aufiero (detta anche Offiero ed Alferio) (estinti); antica famiglia ravellese, secondo alcuni autori era addirittura un ramo disceso dai Dauferidi Principi di Salerno (IX-X sec.); fecero parte del patriziato locale e poi della nobiltà regia con Giustizieri di province e capitani regi, ma possedettero anche varie baronie, come Castelpetroso; un ramo della famiglia si ramificò anche in Napoli, dove furono patrizi del Sedile di Nido ed un altro in Salerno, aggregati al Sedile del Campo; dopo lo scioglimento dei sedili nobili (1800) i membri del ramo ravellese furono ascritti nel Libro d'Oro di Ravello

10. d’Avalos d’Aquino d’Aragona (fiorenti)

11. Avezzano (di Tricarico) (estinti)

12. d’Azzìa (estinti)

13. Baldassino (estinti)

14. Barberini (di Sciarra) (estinti)

15. Beccaria (di Pavia) (estinti)

16. Beccadelli di Bologna (estinti)

17. Berlingieri (estinti)

18. di Bologna (Beccadelli di Bologna) (estinti)

19. Bonito, ramo dell’omonima ed antichissima famiglia patrizia di Scala, attestata fin dal XI sec. (estinti)

20. Brancaccio (del Gigliolo, del Vescovo, Imbriachi) (estinti)

21. Cantelmo (estinti)

22. Capano (estinti)

23. Capece (ramo della stessa famiglia di Capuana)

24. Capuana(o) (estinti); probabilmente ramo collaterale degli omonimi del seggio di Capuana e ramo dei patrizi del seggio di Portanova;

25. di Capua (già d’Episcopo, originari di Capua) (estinti)

26. Cardona (di Colisano e Reggio) (estinti)

27. Caracciolo Bianchi; (estinti)

28. Caracciolo Carafa della Spina (ramo dell’omonima casata, sorto nel XIII sec., ma che nel XIV sec. si differenziò con la distinzione “della Spina”) (fiorenti)

29. Caracciolo Carafa della Stadera (vari rami) (fiorenti)

30. de Cardines (estinti)

31. Cavaniglia (estinti)

32. Celano (estinti)

33. Centelles (estinti)

34. Clignetta (de Cligny) (estinti)

35. Diaz Carlone (Diascarlona) (estinti)

36. Dentice “delle Stelle” (dallo stemma con un mezzo leone con tre stelle sotto); ramo dell’omonima ed antica famiglia patrizia amalfitana che passò in Napoli in età angioina ed ivi entrò nel patriziato locale, ottenendo cariche regie e feudi: il ramo D. del Pesce (dallo stemma con il pesce dentice) fu ascritto nel Seggio di Capuana (fiorenti)

37. del Doce (forse ramo dei Capece) (estinti)

38. Doria (di Melfi) (estinti)

39. Feltrino (estinti)

40. Ferramosca (Fieramosca di Ottaviano, prob. Guido fratello di Ettore)

41. Filangieri (del ramo di Candida) (estinti); antichissima famiglia feudale di origine normanna (XI sec.), collaterali dei Sanseverino, furono Signori di Corteimpiano e vari feudi, Signori di Candida (1269).

42. Filomarino “delle Onde” (estinti)

43. Fontanola (estinti)

44. Frezza (estinti)

45. Gaetani dell’Aquila d’Aragona (fiorenti)

46. Galerana (estinti)

47. Gallarati Scotti (estinti)

48. Galluccio (estinti)

49. Gatta (della) (estinti)

50. Gesualdo (estinti)

51. Giron dei Duchi d’Osuna (estinti)

52. Gonzaga (estinti)

53. Grisone, antica famiglia patrizia ravellese, ramo della casata dei Rufolo; il 1° novembre 1419 ebbero dalla regina Giovanna II l'esonero parziale di tasse in Ravello in quanto patrizi, con altre famiglie locali; il loro palazzo di famiglia che avevano in Ravello fu venduto da Teresa (1736), ultima del suo ramo, che si era trasferito a Napoli ed ascritto al seggio di Nido; l'altro ramo ravellese, dopo lo scioglimento dei sedili nobili (1800), fu ascritto nel Libro d'Oro di Ravello; (estinti)

54. de Guevara (estinti)

55. Guindazzi (ramo della stessa famiglia di Capuana)

56. Imbriachi (estinti)

57. dello Iodice (estinti)

58. de Luna (estinti)

59. Malaspina (estinti)

60. Malatesta (estinti)

61. Mastrogiudice (estinti)

62. Mar(r)amaldo (estinti)

63. Milano Franco d’Aragona (fiorenti)

64. Monforte (di Campobasso) (estinti)

65. Monsolino (estinti)

66. Monsori (estinti)

67. Montalto (fiorenti)

68. Montealegre (estinti)

69. Montalbi (estinti)

70. Orsini dei Duchi di Gravina (fiorenti)

71. Pandone (di Venafro) (estinti)

72. Papirio (estinti)

73. Piccolomini (estinti)

74. Pignatelli (fiorenti)

75. Pilvillo (estinti)

76. Polenta (da Ravenna) (estinti)

77. Ricci (o Riccio) (titolo estinto) (estinti i rami patrizi il ramo De Ritiis fu riconosciuto solo Nobile ed è fiorente)

78. Rumbo (estinti)

79. Saluzzo (estinti)

80. Sanframondo (estinti)

81. di Sangro (fiorenti)

82. Sanseverino (estinti)

83. Saracini (o Saraceno) (estinti)

84. Sersale (fiorenti)

85. Solpizio (o Sulpucio) (estinti)

86. Spina (estinti)

87. Spinelli (fiorenti)(estinti rami di Cariati, Laurino, Seminara, San Giorgio, Tarsia)

88. della Tolfa (estinti)

89. Tomacelli (estinti)

90. Toraldo (estinti)

91. Villamarina (di Capaccio) (estinti)

92. Vulcano (o Bulcano) (estinti);



C) SEGGIO DI MONTAGNA (stemma: cinque monti di verde in campo d’argento):

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1. Albissa (estinti)

2. Aleo (estinti)

3. Alneto (estinti)

4. Althann (con residenza in Germania)

5. Alvarez Toledo (dei Marchesi di Villafranca) (fiorenti)

6. Anco (estinti)

7. Aneccio (estinti)

8. Arcamone (estinti)

9. Archinto (estinti)

10. d’Arco (estinti), antica famiglia patrizia amalfitana, che in epoca angioina si trasferì a Napoli, dove fu ascritta al patriziato locale nei sedili di Portanova e Montagna, entrando nella corte reale ed imparentandosi con nobili napoletani, come i Caputo.

11. Arimini (estinti)

12. Baiano (estinti)

13. Balestrieri (estinti)

14. Barbato (estinti)

15. Boccatorto(a) (estinti)

16. Bonifaci(zi) (estinti)

17. Boffa detti “Stendardo” (estinti)

18. Brisaca (estinti)

19. Bruto (estinti)

20. Buteo (estinti)

21. Calanda(i) (estinti)

22. Cannuto (estinti)

23. Caperuso (estinti)

24. di Capua dei Conti di Altavilla (estinti);

25. Caputo (estinti)

26. Carmignano(i) (estinti)

27. Chianula (estinti)

28. Cicalesi (estinti)

29. Cicinelli (estinti)

30. Cicina(i) (estinti)

31. Cimbro(i) (estinti)

32. Cochiola (estinti)

33. Colombo (estinti)

34. Conza (estinti)

35. Coppola, antica famiglia patrizia ravellese; all'epoca di Carlo I d'Angiò passarono anche in Napoli, ascritti ai Sedili di Portanova e Montagna, arricchendosi poi con operazioni finanziarie per re Roberto ed entrando in stretti rapporti anche con i Bardi ed i Peruzzi, emergendo fra le maggiori famiglie di origine ravellese; fecero quindi parte della nobiltà del Regno ed ottenenro molti feudi; un ramo da essi disceso fu reintegrato nei citati sedili napoletani il 22-12-1577; dopo lo scioglimento dei sedili nobili (1800) i membri del ramo napoletano dei Duchi di Canzano furono ascritti al Libro d'Oro del patriziato napoletano nel Sedile di Montagna, mentre i membri del ramo ravellese furono ascritti nel Libro d'Oro di Ravello (fiorenti)

36. Corvisieri (estinti)

37. di Costanzo(i) (estinti)

38. Cotogno (estinti)

39. Crisso (estinti)

40. Cupidino (estinti)

41. Daun (estinti)

42. de Majo (di San Pietro) (e De Majo Durazzo) (estinti)

43. Fagilla (estinti)

44. Faiello (estinti)

45. Falce (estinti)

46. Ferrara(o) (estinti)

47. Francone(i) (estinti)

48. Giontola (estinti)

49. Grassi (estinti)

50. Guibeligni (estinti)

51. Hercules (estinti)

52. Iagante (estinti)

53. Ianara (De Gennaro) (estinti)

54. Iapanto (estinti)

55. Impero (estinti)

56. Iulo (estinti)

57. Lanzalonga (estinti)

58. Maiorini (o Maiorana) (estinti)

59. Mannocci (estinti)

60. Mardones (estinti)

61. Mazza (estinti)

62. Melazi (estinti)

63. Memmoli (estinti)

64. Mendalino (estinti)

65. Miraballi (o Miroballo) (estinti)

66. Moccia (estinti)

67. Monda (estinti)

68. Moscone (estinti)

69. Mugillano (estinti)

70. Mummi (estinti)

71. Muscettola, antichissima famiglia patrizia di Ravello, documentata fin dai sec. X-XI, dove fondarono con altre famiglie ravellesi la Chiesa di san Giovanni del Toro (1018); un ramo della famiglia si trasferì anche a Napoli, dove furono iscritti nel Sedile di Montagna; furono anche nobili feudatari, acquistando il dominio su oltre venti feudi, tra cui Leporano (con il titolo di Principe dal 1624), Melito e Spezzano (con il titolo di Duca) e Picerno (con il titolo di Conte); il 1° novembre 1419 ebbero dalla regina Giovanna II l'esonero parziale di tasse in Ravello in quanto patrizi, con altre famiglie locali; dopo lo scioglimento dei sedili nobili (1800) il ramo napoletano dei Principi di Leporano fu iscritto nel Libro d'Oro di Napoli, mentre i membri del ramo ravellese furono ascritti nel Libro d'Oro di Ravello;

72. Muschetti (estinti)

73. Oliva Grimaldi (ascritti con il solo nome di famiglia: 15/11/1693) (estinti)

74. Origlia (estinti)

75. Orimina (estinti)

76. Pacheco (estinti)

77. Paladino (estinti)

78. Pappansogna (estinti)

79. Pigna (estinti)

80. Pizzo (estinti)

81. Pizzofalcone (estinti)

82. Pizzuto (estinti)

83. Pignone del Carretto (estinti)

84. Poderico (estinti)

85. Pozella (estinti)

86. Quarracino (estinti)

87. Raimo (estinti)

88. Ravaschieri di Satriano (estinti)

89. Retrosa (estinti)

90. Ribera (o De Rivera) (estinti)

91. Rocco (la linea patrizia napoletana è estinta, sussiste la linea principesca Rocco di Torrepadula)

92. Rossi del Leone (estinti)

93. Rossi del Barbazzale (estinti)

94. Sanfelice (estinti rami di Acquavella, di Laurino) (fiorenti)

95. Sanchez de Luna d’Aragona (estinti)

96. Sarno (estinti)

97. Scannacardillo (estinti)

98. Scorciato (estinti)

99. Scrignara(i) (estinti); antica famiglia feudale di Nola (attestata fin dal sec. XIII), passata poi in Napoli;

100. Sforza (estinti)

101. Sicola (estinti)

102. Simia (estinti)

103. Sorgente (estinti)

104. Soto (estinti)

105. Spicciolacascio (estinti)

106. Stella (estinti)

107. Stendardo (d’Estendart) (estinti)

108. Tocco (estinti)

109. Tora (estinti)

110. Toro (de) (estinti)

111. Tosi (estinti)

112. Transo (di)

113. Trofeo (estinti)

114. Verticillo (estinti)

115. Villani



D) SEGGIO DI PORTO (stemma: un uomo selvaggio ricoperto di velli d’oro in campo nero, con un pugnale nudo in mano):

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1. Afflitto (d’) di Trivento (ramo dell’omonimo casato); (estinti)

2. Aguilar de Cordova (estinti)

3. Ayerbo d’Aragona (Principi di Cassano) (estinti)

4. Ajossa (estinti)

5. Albino (estinti)

6. d’Alessandro (estinti)

7. Alopo (Piscopo Alopo) (estinti)

8. Alessandro (estinti)

9. Ambusto (estinti)

10. d’Angelo (estinti)

11. Aragona (estinti)

12. Arcamone (estinti)

13. Atratino (estinti)

14. Aventino (estinti)

15. Benavides (estinti)

16. Borghese (dei Principi di Sulmona) (fiorenti)

17. Bragamonte (estinti)

18. Cacciaconte (estinti)

19. Camerino (estinti)

20. Campeggi (estinti)

21. Capanico (estinti)

22. Capella (estinti)

23. Cardona (de) (estinti)

24. Castagnola (estinti)

25. Cicorino (estinti)

26. Cioffi (estinti)

27. Colonna (di Paliano, originari di Roma) (fiorenti)

28. Correale (estinti) antica famiglia patrizia amalfitana, passò in Napoli in età angioina ed ivi entrò nel patriziato locale, nel Seggio di Porto, ottenendo importanti cariche regie e fu imparentata con i Bozzuto, Capece, Carafa, Mormile, Scrignaro, Sersale, ecc.;

29. Crasso (estinti)

30. Di Gaeta (estinti i rami di Montepagano, San Nicola) (fiorenti)

31. Doria d’Angri (estinti)

32. Druso (estinti)

33. de Dura (estinti); fra le sei antichissime famiglie patrizie del seggio, dette di “Acquaria”;

34. d’Evoli (d’Eboli) (estinti)

35. Ferrillo (estinti)

36. Firrao; (estinti)

37. Fregoso (estinti)

38. Fuso (estinti)

39. di Gaeta (estinti i rami di Montepagano, San Nicola)

40. Gennaro (de) (estinti) e Janari (estinti); fra le sei antichissime famiglie patrizie del seggio, dette di “Acquaria”;

41. Gentile (estinti)

42. Genuzio (estinti)

43. Griffo (estinti)

44. Grimaldi (originari dei G. di Genova, ascritti con il solo nome di famiglia)

45. Guerra (estinti)

46. Harrach (hanno residenza in Germania e Austria)

47. Helna (estinti)

48. Iacobazio (estinti)

49. Iancoletto (estinti)

50. Ianvilla (estinti)

51. Inserra (estinti)

52. Landriano(i) (estinti)

53. Laurentiis (de) (estinti)

54. Lazio (estinti)

55. Loporta del Cardinale (estinti)

56. Macedonio (estinti)

57. Macedonio (di Majone) (estinti); fra le sei antichissime famiglie patrizie del seggio, dette di “Acquaria”;

58. Malabranca (estinti)

59. Manatis (de) (estinti)

60. Mandagoto (estinti)

61. de Mari (estinti)

62. Marinis (estinti)

63. Mazzone (estinti)

64. Mele (estinti)

65. Mileto (di) (estinti)

66. Nissiaco (di Dionisiacco o de Dionisio, ovvero i Denicy) (estinti)

67. Novelletto (estinti)

68. Origlia (estinti)

69. Oringa (estinti)

70. de Ossa (estinti)

71. Pacheco (estinti)

72. Pagano (estinti); ramo dell’antica famiglia originaria di Roccapiemonte e Nocera Inferiore;

73. Palma Artois (estinti)

74. Paparone (estinti)

75. Pappacoda (estinti); fra le sei antichissime famiglie patrizie del seggio, dette di “Acquaria”;

76. Perez Navarrete (estinti)

77. Podietto (estinti)

78. Riario Sforza (di Corleto) (fiorenti)

79. Ruffo di Castelcicala (estinti)

80. Perez Navarrete

81. Scorna (estinti)

82. Scrignara (i) (estinti); ramo dell’omonimo casato patrizio napoletano;

83. Serra (originari di Genova)

84. Severino (estinti)

85. Spinola (estinti)

86. Strambone (estinti); fra le sei antichissime famiglie patrizie del seggio, dette di “Acquaria”;

87. Tuttavilla (estinti)

88. Venato (estinti); fra le sei antichissime famiglie patrizie del seggio, dette di “Acquaria”;

89. Viola (estinti)



E) SEGGIO DI PORTANOVA (stemma: una porta d’oro in campo d’azzurro):


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1. Acebaio (de) (estinti)

2. Acerra (d’) (estinti)

3. Agnese (estinti)

4. Alagona (estinti)

5. Albani (Principi di Soriano); (estinti)

6. Albertis (estinti)

7. Albertini (fiorenti)

8. Amala (estinti)

9. d’Anna (estinti), antica famiglia patrizia originaria di Ravello.

10. Annecchino (estinti)

11. d’Aquino di Caramanico (fiorenti)

12. Arbusto (estinti)

13. Arcamone (estinti)

14. d’Arco (estinti); antica famiglia patrizia amalfitana, che in epoca angioina si trasferì a Napoli, dove fu ascritta al patriziato locale nei sedili di Portanova e Montagna, entrando nella corte reale ed imparentandosi con nobili napoletani, come i Caputo

15. Aponte (estinti)

16. Aufiero (o Offiero); ramo dell’omonimo casato;

17. Atellano (estinti)

18. Basso (estinti)

19. Blanco (estinti)

20. Bolgarelli (estinti)

21. Bonifacio(zio) (estinti)

22. Brissio (estinti)

23. Bruno (estinti)

24. Bulgarelli (estinti)

25. Cafatino(i) (estinti)

26. Camerino (estinti)

27. Cantelana (estinti)

28. Cantelmo (estinti)

29. Capasso (fiorenti)

30. Capasso Torre (estinti)

31. Capella (estinti)

32. Capuano(a) (estinti); probabilmente ramo collaterale degli omonimi del seggio di Capuana e ramo dei patrizi del seggio di Nido;

33. Caputo (estinti)

34. del Cardinale (estinti)

35. Carignani (dal 30-7-1788) (fiorenti)

36. Casamatta (estinti)

37. Castagnola (estinti)

38. Castellino (estinti)

39. Cavalcanti (di Verbicaro) (fiorenti)

40. Cerva (estinti)

41. Cicada (estinti)

42. Cicaro(i) (estinti)

43. Cito Filomarino) (fiorenti)

44. Collalto (estinti)

45. Collemedio (estinti)

46. Comitibus (de) (estinti)

47. Coppola (Conti di Sarno e Principi di Gallicchio); altro ramo dell’omonima ed antica famiglia patrizia ravellese.

48. Costanzi(o) (di) (estinti)

49. Diano (estinti)

50. Edina (estinti)

51. Farafalla (estinti)

52. Farinola (estinti)

53. Flandrino (estinti)

54. Ficerio (estinti)

55. Fogliano (estinti)

56. Fraepane (Frangipane o Fellapane) (estinti)

57. Franco (estinti)

58. Gambe(i)tella (estinti)

59. Gargano (estinti)

60. Gattola (estinti)

61. Gentile (estinti)

62. Gonzaga (estinti)

63. Gorvo (estinti)

64. Griffino (estinti)

65. Grimaldi (Marchesi di Pietra, originari dei G. di Genova, estinti)

66. de Liguori (fiorenti)

67. Lottieri (estinti)

68. Manfrone (estinti)

69. Marolio (di Loreto) (estinti)

70. Massovia (estinti)

71. Marulli (fiorenti)

72. Mastaro (estinti)

73. Mastrilli (di Marigliano) (estinti)

74. Miraballo (o Miroballo) (estinti)

75. Miscino (estinti)

76. Moccia (estinti)

77. Moles (estinti)

78. Monforte (estinti)

79. Monticello(i) (estinti)

80. Monturco (estinti)

81. Mormile (estinti)

82. Nardino (estinti)

83. Novelletto (estinti)

84. Olzina (estinti)

85. Omnibono (estinti)

86. Oringa (estinti)

87. Orlando (estinti)

88. Perlos(as)

89. Petra (fiorenti)

90. Pignone (estinti); ramo dell’omonimo casato patrizio napoletano;

91. Pico (della Mirandola) (estinti)

92. Pitavio (di Crotone) (estinti)

93. Ponte (del) (estinti)

94. Pozzelli (estinti)

95. Pulzina (di Mirabella) (estinti)

96. Ravignano (estinti)

97. Ronchella (o Ranchella) (estinti)

98. Sambiase (di Campana)

99. Sannazzaro (estinti)

100. Sassone (estinti)

101. Scannasorice (estinti)

102. Serignano (estinti)

103. Serra (linea di Cassano e Gerace) (fiorenti)

104. Sforza (estinti)

105. Siscar (o Siscale) d’Aiello (estinti)

106. Sitica (Altemps) (estinti)

107. Stagnasangue (estinti)

108. Tora (estinti)

109. Toso (estinti)

110. Turtello (estinti)

111. Valignani (estinti)

112. Vallone (estinti)



da Giovanni Grimaldi ([email protected])

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bluab
view post Posted on 6/6/2011, 17:05




ma dove le scovi queste notizie! Complimenti veramente!
 
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view post Posted on 6/6/2011, 17:14
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Pulcinella291 Forum

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Molte sono riminiscenze dovute al fatto che ho vissuto per anni con mia nonna la quale mi raccontava molte delle cose che puoi leggere nelle tantissime pagine della sezione , naturalmente rivedute e corrette tramite il web o qualche studio fatto a suo tempo.
 
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212 replies since 27/3/2008, 09:46   173070 views
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