La storia d'Italia in celluloide (fra neorealismo, propaganda e satira) - 4^ parte - La Grande Guerra
Fu una guerra totale. Spinse milioni di uomini in una orrenda macchina della morte e contaminò le coscienze con il veleno della violenza. Coinvolse settanta milioni di soldati di ventotto nazioni. Più che dagli uomini fu governata dalle armi chimiche, dalla potenza devastante dell’artiglieria, dalle navi d’acciaio, dall’impiego di aeroplani, carri armati e sommergibili. Questa fu la Prima guerra mondiale del 1914-18: la
Grande Guerra, come è comunemente chiamata.
due fotogrammi de La guerra d’Italia a 3000 metri (Luca Comerio, 1916)
il lungometraggio contiene le riprese girate sull'Adamello durante alcune azioni di guerra di un reparto di Alpini. Insieme a
La battaglia tra Brenta e Adige e
La presa di Gorizia, è unoi dei principali lungometraggi sulla guerra italiana girati da Luca Comerio, cineasta già noto per le sue produzioni nella Guerra di Libia del 1912.
due fotogrammi de La battaglia tra Brenta e Adige (Luca Comerio, 1916)
Immagini documentarie sul fronte della prima guerra mondiale: l'esercito italiano tra il Brenta e l'Adige; veduta del monte Pasubio e del Monte Cimone; si trasportano truppe e cannoni; in marcia; cannoneggiamento sulle postazioni nemiche; un cappellano militare che dice messa sul campo di battaglia.
due fotogrammi de La Battaglia di Gorizia (Luca Comerio, 1916)
lungometraggio girato da Comerio in occasione di quella che viene considerata la più amara delle conquiste italiane della Grande Guerra. Testimone straordinario della storia d’Italia dei primi 40 anni del ‘900, Luca Comerio antepose sempre ai desideri propagandistici del committente, l’umana pietà che si deve provare di fronte ai caduti di qualsiasi parte.
La fine di un epocaLa prima guerra mondiale è stato il primo conflitto cinematografico della storia. In Italia, tra il 1915 e il 1918 si produssero più di 130 titoli, tra film e documentari. Una cifra ragguardevole, che va inserita nella straordinaria accelerazione del processo di produzione e consumo di immagini che la guerra innescò: giornali di trincea, cartoline, fotografie, manifesti, giornali e libri illustrati. Nella nascente industria cinematografica operavano circa 70 case produttrici, 460 noleggiatori e 1500 sale. Non solo è stata documentata dal cinema (inventato vent’anni prima) durante il suo svolgimento ed è stata poi raccontata da centinaia di film, ma ha anche visto la presenza del cinema come arma strategica: le macchine da presa montate su mongolfiere e dirigibili giocarono un importante ruolo di spionaggio e di intelligence. La nostra conoscenza di quella guerra è duplice, e doppiamente «leggendaria»: da un lato, chi è abbastanza vecchio da aver ascoltato i racconti dei nonni che la combatterono ne ha ricavato una memoria orale, quasi sempre più dolorosa e grottesca che epica; dall’altro, la conoscenza nasce dalle immagini, sia dei filmati d’epoca sia dei film che ad essi si sono sovrapposti, spesso citandoli e riproducendoli con cura filologica. Per altro, già nei diari scritti a guerra in corso, e nella corrispondenza dei soldati, il cinema è spesso un termine di paragone. La Grande Guerra in Italia arriva in ritardo. La prima guerra mondiale, che in realtà fu soprattutto una guerra civile europea, scoppia dopo l’attentato di Sarajevo e l’assassinio dell’Arciduca Francesco Ferdinando d’Austria e di sua moglie Sofia da parte di uno studente nazionalista serbo, Gavrilo Princip (28 giugno 1914). È una sorta di reazione a catena che coinvolge sia le cancellerie sia le opinioni pubbliche europee, ma per il momento non l’Italia. In tutti i paesi il cinema entrò nelle strategie che utilizzarono i mezzi di comunicazione come armi per la vittoria. Le nazioni europee si prodigarono in quest’opera, con lucida consapevolezza sin dall’ottobre del 1914. Il cinema è quindi una spia eloquente di questo processo. In tutti i paesi in guerra si avvertono fenomeni simili: un forte incremento della produzione cinematografica, cui corrisponde un altrettanto consistente aumento del numero degli spettatori; la rapida trasformazione del linguaggio cinematografico che sperimenta l’innesto di spezzoni documentaristici su racconti di finzione; il coinvolgimento di scrittori e di uomini di teatro chiamati a dare lustro alle pellicole, anche solo come testimoni passivi.
locandina del film Sempre nel cor la Patria! (Carmine Gallone, 1915)
E' Il primo film significativo di chiara intonazione pubblicitaria e di amor nazionale ambientato ad Avezzano subito dopo il terremoto del 1915, poiché le case diroccate erano servite al regista per simulare perfettamente le distruzioni dei bombardamenti nelle zone di guerra. Nel film si raccontava la storia di una donna italiana (attrice Leda Gys) che aveva sposato un austriaco, decisa, però, in pieno conflitto mondiale a tornare in patria «quando la diana squilla», così era scritto nella didascalia (non bisogna dimenticare che allora il cinema era muto e i commenti, spesso enfatici, venivano sovraimposti alla pellicola). Dopo varie peripezie, la donna morirà eroicamente sventando una missione anti-italiana affidata proprio al marito.
Propaganda e censuraDurante il conflitto, il cinema ebbe un orientamento più che altro propagandistico, con il fine di coinvolgere emotivamente la popolazione al dramma della guerra e di inculcare tra i valori della vita quatidiana il mito dell'eroe e del valore, elementi che saranno fondamentali pure nella propaganda fascista. Il soldato-simbolo, con il suo eroismo, la sua triste vita privata fatta di addii e di grandi amori e la crudeltà della guerra rimasero difatti protagonisti dell'immaginario collettivo ancora per molti anni. L’uso del cinema per scopi propagandistici lo abbiamo già incontrato nella Guerra coloniale; qui lo scopo è sempre lo stesso: la nazione, unita nel supremo dovere, era chiamata a realizzare la sua missione storica: difendersi dagli attacchi dei nemici esterni e affermare la sua grandezza, dispiegando tutta la politica di potenza di cui era capace. La fiorente industria cinematografica italiana (che nei primi anni del XX secolo era già stata in grado di produrre alcuni kolossal) intuì come la guerra fosse un soggetto perfetto per dei nuovi film. Parallelamente, i sostenitori del conflitto compresero come la proiezione potesse essere un ottimo modo per diffondere solidarietà e sostegno alla causa italiana. Alcune delle pellicole di quegli anni erano rivolte anche a bambini. Questi film si servivano quasi sempre del linguaggio della favola e della comicità. Nonostante la qualità di molti film fosse piuttosto scadente, senza dubbio riuscirono nel loro intento: migliaia di persone accorrevano per vederli e familiarizzarono con parole e concetti come "Patria", "Vittoria", "Terre irredente".
due fotogrammi de La Guerra e il Sogno di Momi (Giovanni Pastrone, 1917)
In una delle frequenti lettere che invia alla famiglia e al piccolo Momi, il papà, combattente al fronte, racconta l’avventura di Berto, un eroico bambino di montagna che salva la madre da un’incursione degli austriaci, correndo a chiedere aiuto alle truppe italiane. Momi rimane molto impressionato e si addormenta sul divano con i suoi pupazzi preferiti, Trick e Track, che, magicamente, insieme ai soldatini, cominciano ad animarsi e man mano scatenano una guerra totale, con attacchi di artiglieria pesante, armi chimiche e attacchi aerei sul paese di Lilliput. L’impeto è tale che finiscono per coinvolgere anche Momi, ancora addormentato, pungendolo con le baionette. Ma la battaglia era solo un sogno. Momi si sveglia e, insieme alla mamma e al nonno, prega per il ritorno del genitore. Diretto da Giovanni Pastrone e dal regista spagnolo Segundo de Chomón che realizzò le sequenze animate tramite la tecnica del passo uno. Queste sequenze fanno de
La Guerra e il Sogno di Momi il primo film italiano d'animazione della storia.
Per quanto riguarda la censura è proprio la Grande Guerra che sancisce i canoni per questa forma di controllo del pensiero collettivo. La guerra vera, quella delle trincee, raramente si affaccia nelle sale cinematografiche. Fu bloccata non solo dalla censura militare ma anche dall’autocensura che registi e produttori esercitarono in nome dei superiori interessi nazionali. D’altronde anche le immagini e le notizie che circolavano sulla carta non sfuggivano al controllo censorio. Il caso estremo è quello delle lettere dei soldati, ispezionate dai censori dell’esercito che cancellavano le frasi che potevano mostrare la realtà della sofferenza. Anche le fotografie e le illustrazioni pubblicate dai giornali furono filtrate: quasi mai i fotografi riprendevano scene di combattimento, semplicemente perché non potevano avvicinarsi alla prima linea. I disegnatori poi si ispirarono alle foto e ai rapporti ufficiali dell’esercito, così che non diedero una rappresentazione reale della guerra. L’episodio che richiamò brutalmente alla triste realtà il popolo italiano ed il Comando Supremo del Regio Esercito, si verificò quando vennero autorizzate delle riprese cinematografiche nelle retrovie più vicine al fronte. Per venti giorni una troupe di operatori poggiò il treppiede della cinepresa sui diversi scenari di guerra - l’Adriatico, il Carso, l’Isonzo, le montagne trentine - fino a realizzare un lungo filmato. Il colonnello Enrico Barone, artefice delle riprese, se ne servì per illustrare una serie di conferenze che tenne in diverse città a favore della Croce Rossa. Era la prima volta che il pubblico italiano vedeva un film “dal vero” sul conflitto in cui era stato coinvolto. La polemica indusse il Comando supremo dell’esercito italiano ad emanare norme dettagliate per i corrispondenti di guerra. Regole severe, autorizzazioni, controlli, obblighi di deposito del materiale di ripresa cominciarono ad agire da filtro tra i registi e gli operatori, da un lato, e la guerra dall’altro. Dietro alle esigenze militari che imponevano la segretezza per non informare il nemico, i comandi si proposero di controllare e orientare il nuovo mezzo di informazione, di cui avvertirono l’importanza ai fini di mantenere alto il morale delle truppe e di rassicurare il paese.
Nel 1916, Comando supremo del Regio Esercito pubblica le “
Norme per i corrispondenti di guerra. Prescrizioni per il servizio fotografico e cinematografico”. Ai fotografi, ai giornalisti, ai cineoperatori era vietato raccogliere e inviare notizie su:
a) la formazione di guerra dell’esercito operante, gli ordini del giorno alle truppe, il numero, forza, dislocazione e movimenti delle unità, gli afforzamenti, i lavori preparatori e gli intendimenti dei comandi e dei comandanti;
b) i Comandi e personale addetto, i servizi e l’organizzazione delle basi;
c) l’armamento e munizionamento delle opere di difesa, la capacità e resistenza di queste;
d) l’efficacia dei mezzi d’offesa nostri e del nemico;
e) lo stato sanitario delle truppe;
f) la potenzialità e stato di conservazione delle strade ordinarie e ferrate;
g) l’entità e dislocazione delle forze avversarie;
h) il numero dei morti e feriti, ed i loro nomi, prima che sia comunicata la lista ufficiale.locandina e fotogramma del film Maciste alpino (Luigi Romano Borgnetto e Luigi Maggi, 1916)
23 maggio 1915. Una troupe dell'ltala-film, tra cui Maciste, sta girando un film in un paesello austriaco ai confini con l'Italia. La guerra sta per scoppiare e la direzione dell'Itala chiede alla troupe di rientrare in patria; il gruppo, però, continua a girare, viene arrestato e condotto in questura. Qui Maciste dà una prova della sua forza, umiliando i carcerieri e riuscendo a far fuggire l'intera comitiva che raggiunge il castello di Pratolungo, dove vive Giorgio Lanfranchi, un patriota che proprio quella notte ha deciso di partire per raggiungere le truppe italiane oltre il confine. Scoperti dagli austriaci, Maciste attira su di sé l'attenzione per consentire ai due Lanfranchi di guidare la comitiva verso il confine italiano. Mentre il vecchio Conte torna al castello con Giulietta, Maciste si riunisce al suo gruppo in Italia e si arruola in un battaglione d'alpini. Gli austriaci tornano intanto al castello e fanno prigioniero il Conte, mentre Giulietta si nasconde con un fedele servitore in una capanna. Intanto il soldato Fritz Pluffer, più volte beffato da Maciste, gli tende continui agguati che vanno regolarmente a vuoto. Da ultimo invia al suo nemico un messaggio, informandolo che il vecchio Conte è stato bastonato e lo sfida a raggiungerlo a quota 2430. Maciste giunge all'accampamento nemico, vi porta scompiglio e torna indietro con tre prigionieri, tra cui Fritz. Suggerisce quindi al comandante una spedizione notturna alla quota 2340, che si conclude con successo. Ritrovato Giorgio Lanfranchi, divenuto tenente degli alpini, insieme decidono di liberare il Conte, prigioniero nel castello. Vi giungono proprio quando gli austriaci hanno scoperto il nascondiglio di Giulietta. Maciste entra nel castello, si sbarazza dei guardiani e libera così il Conte e la ragazza. E' un film girato pressoché in diretta che però, per i suoi toni farseschi e consolatori, diventa «lo specchio concettuale della rimozione integrale (o della tentata rimozione) di ogni brutalità dalla comunicazione della guerra»
due fotogrammi de Cretinetti e la paura degli aeromobili nemici (André Deed, 1915)
Cretinetti si sposa e non potrebbe essere più felice e innamorato della sua giunonica consorte. Proprio il giorno del suo matrimonio, però, legge affisso sul muro un avviso che indica come comportarsi in caso di attacco aereo nemico. La paura che lo assale lo rende fin troppo ligio nell’applicare le indicazioni di sicurezza, provocando guai e incidenti che non solo gli impediranno di godersi la prima notte di nozze ma che provocheranno addirittura il crollo dell’intera casa. Alla fine, i gendarmi si recano da lui con la cartolina di arruolamento e lo portano via di forza, sotto gli occhi costernati della novella sposa. André Deed, interprete di Cretinetti, fu uno dei comici più rappresentativi della ricchissima produzione italiana del genere. La sua specialità era orchestrare situazioni sempre diverse in cui sfogare la sua energia anarchica e distruttrice. In La paura degli aeromobili nemici si aggiunge un finale dal retrogusto insolitamente amaro, in cui gli sposi sono divisi dalla guerra il giorno dopo le nozze anche se l'intento propagandistico del del film era quello di indurre negli spettatori un salutare sghignazzo, utile a scrollare di dosso la paura del nemico.
due fotogrammi di Fantasia 'e surdate (Elvira Notari, 1927
Una fascinosa fioraia offre agli uomini “i fiori del suo giardino e della sua passione”. Giggi si lascia sedurre, ma poi “qualcuno gli ruba l’amore”. Giggi vive con la madre e il fratello Gennariello, che lavora insieme a lui in una bottega. Si innamora di nuovo, stavolta di Rosa, donna esperta e piuttosto scostumata. Anche lei gli preferisce un altro. Giggi, che aveva rubato alla madre i gioielli e il denaro dal fratello guadagnato lavorando duramente, si suicida per la vergogna e la disperazione, lasciando all’amata una lettera in cui le chiede di restituire i gioielli alla madre. Ma Rosa tace della lettera e accusa Gennariello di fratricidio, probabilmente per vendicarsi della famiglia che non l’ha accettata. Il giovane finisce in carcere, “la tomba di tante vite”, e per sottrarvisi parte volontario per il fronte. È di grande effetto la scena nell’accampamento militare in cui i soldati, accompagnati alla chitarra e al mandolino dai commilitoni, iniziano a cantare canzoni dei rispettivi paesi natali. Gennariello viene ferito. Intanto Rosa, che prova rimorso e pietà per l’anziana madre di lui, le consegna la lettera e confessa l’inganno alla polizia. Alla fine Gennariello viene riabilitato. Rosa, la madre e Gennariello si riuniscono sulla tomba di Giggi. Il finale del film si allontana molto dal monologo da cui è tratta la sceneggiatura: nella versione originale, infatti, il protagonista uccide effettivamente il fratello Giggi durante una lite, perché poco prima quest’ultimo aveva colpito la madre che era caduta a terra come morta lanciando un grido. Nel film, invece, Gennariello è innocente ed è anzi un’anima candida, che ha penato come soldato e ha ottenuto una medaglia al valore. Qui si trova in giro un errore riguardante la trama, secondo alcuni Gennariello si farebbe soldato per sfuggire alla prigione, ma nella realtà egli ha già combattuto e la madre ricorda le sue gesta passate proprio ad evidenziare come una persona che ha lottato così nobilmente difficilmente può avere il cuore di uccidere un fratello. Realizzato dalla prima donna regista italiana, il film venne impietosamente stroncato dalla ciritca e disertato dal pubblico.
locandina del film Fiocca la neve (Emanuele Rotondo, 1927)
Il film, tratto dall’omonima canzone di Erminio Neri e Mario Bonavolontà, ha il taglio di un film a episodi, ciascuno dei quali narra le vicende di alcune coppie, diversificate per ceto e per censo, per età è e per condizione, e dei loro traumi dovuti alla chiamata alle armi. La trama toccava delicate situazioni sociali legate alla guerra, alla divisione che ne consegue nelle famiglie, ai guasti causati dalla lontananza di mariti, padri, fidanzati e dalle scelte sbagliate e dal dolore e dalla disperazione che da tutto ciò ne poteva conseguire. Di particolare rilievo è la messinscena e la storia (un vero e proprio topos narrativo e drammaturgico dei film di guerra) dell’episodio del soldato che, tornato cieco dal fronte, trova la fidanzata dedita alla prostituzione. Argomenti invisi alla censura fascista che infatti bloccò il film, realizzato alla fine del 1927, per molti anni fin quando, era ormai il 1931, Emanuele Rotondo non si rassegnò ad apportarvi alcune modifiche e quando il cinema, ormai era già in pieno sonoro. E il reduce cieco, questa volta, non ha più sorprese poiché Ninfa d’oro (questo è il nome della ragazza) torna da lui candidamente pura ed innamorata.
locandina e frammento del film Milizia territoriale (Mario Bonnard, 1935)
Il Cav. Orlandi, impiegato presso un calzaturificio, è del tutto succube e del principale e dei suoi colleghi. Ed anche in famiglia egli è vessato dalla propria dispotica sorella. Ma allo scoppiare della guerra egli è richiamato con il grado di maggiore e ritrova, con il comando, tutta la propria fierezza di uomo. Anzi ha il piacere di vedersi ossequiato dallo stesso industriale, che lo raggiunge nella sua ridotta per pregarlo di voler tenere presso di lui, al sicuro, il proprio figliolo che è stato chiamato alle armi. E' in tale occasione che il Cav. Orlandi riceve la formale promessa di essere avanzato nell'ufficio, a guerra finita, all'ambito posto di capo del personale. La guerra finisce e l'Orlandi ritornato al suo antico impiego, non solo non vede realizzate le promesse fattegli ma, a poco a poco, ritorna alle antiche abitudini di sottomissione, aggravata, ora, dall'amarezza del ricordo di una gloria troppo breve. Ma l'improvvisa comparsa della Martina (una popolana che ha ospitato il comando di tappa nella sua casa) la quale viene a chiedere dal "Signor Maggiore" l'appoggio per ottenere la liquidazione dell'indennizzo di guerra, riaccende i bellicosi spiriti dell'ottimo cavaliere. Egli ritrova sé stesso e in uno scatto, che lo ripaga di tutte le umiliazioni sofferte, dice il fatto suo a quanti, superiori e inferiori, l'hanno tormentato mentre, a braccetto della popolana, abbandona l'ufficio a passo di marcia. In
Milizia territoriale, Bonnard riprendeva l’omonima commedia di Aldo De Benedetti, che ne fu anche lo sceneggiatore, per raccontare di un impiegatuccio, umilmente sottomesso ai suoi superiori, che, fattosi volontario, si riscattava al fronte e acquisiva onore e mostrine. Al ritorno alla vita civile proprio quella dignità conquistata al fronte gli serviva per compiere un atto di insubordinazione a colui che lo aveva sempre umiliato. La guerra fornì a Bonnard il contesto entro cui iscrivere una storia privata, di costume.
Le scarpe al sole (Marco Elter, 1935)
Un veterano della guerra d'Africa, uno sposino e un fidanzato, tutti paesani di un alpestre villaggio, sono chiamati a difendere i confini italiani durante la grande guerra. Episodi di eroismo e di semplice vita di battaglia lumeggiano queste tre semplici figure, che sono seguite attraverso tutta la sanguinante realtà quotidiana della grande guerra. La ritirata e le avanzate, la resistenza e la vittoria finale entrano di scorcio, con la potenza della evocazione vissuta tra le trincee e nei retrovia, in questa epopea dell'ultima guerra d'indipendenza italiana. Dei tre protagonisti il veterano muore eroicamente difendendo il proprio villaggio, gli altri riportano in famiglia e nella vita normale l'eco delle gesta eroiche compiute con la più schietta semplicità. Difficile trovare tracce di propaganda anche nel film Le scarpe al sole del 1935, nonostante i premi che ebbe dal regime. Il regista trasse la trama dal romanzo omonimo di Paolo Monelli. Alla Mostra di Venezia il ministro Dino Alfieri lo premiò con la Coppa del Ministero della Propaganda per essere il film “eticamente più significativo”. La trama, assai semplice, faceva da canovaccio a un galleria di personaggi tipici del mondo degli alpini: i “veci”, reduci della campagna d’Africa, a fianco dei “bocia”, le giovani reclute, con la “morosa” a casa a trepidare, e la “parona” a far prediche ai ragazzi. Era la montagna a rubare la scena alla trincea, mostrando gli scontri tra alpini e Kaiserjäger, le truppe di montagna austriache, in una guerra ad alto tasso di umanità, con uomini che rispettano altri uomini, benché nemici, e rispettano la natura che li chiama a superare difficoltà logistiche estreme. Il regista era rimasto fedele al libro, il primo pubblicato dall’ex capitano degli alpini, e allora giornalista del Corriere della Sera, Paolo Monelli, uno dei più arguti narratori dell’autentica Italia contemporanea. Il libro, edito nel 1921, portava un esplicito sottotitolo:
Cronaca di gaie e di tristi avventure d’alpini, di muli e di vino. Il tono minimalista passò dal libro al film. Era l’elegia dell’antiretorica dell’alpino, l’alpino che non si lamenta mai, al massimo brontola, che va dove glielo ordinano i comandanti, che si inerpica come un camoscio sulle montagne e rischia la vita sotto il piombo nemico. L’alpino mette in conto che gli possa capitare di “mettere le scarpe al sole” che nel loro gergo significa
morire in combattimento.
Passaporto rosso (Guido Brignone, 1935)
Storia di una famiglia di emigranti italiani che si è stabilita in America. La donna che era partita dall'Italia insieme con il padre, morto poi di febbre gialla, era stata salvata dalle perverse arti di un losco tenutario di locali equivoci per l'affetto e per il coraggio di un giovane dottore, emigrato politico; e lo sposa. Dalla loro unione è nato un figlio che, fattosi grande si sente esclusivamente americano, con grande cordoglio del padre. Il dissidio si acuisce quando, con l'entrata dell'Italia in guerra molti figli di italiani partono per donare il proprio sangue alla madre patria. Ed il dottore fa domanda per essere arruolato tra i volontari, poiché il figliolo, che ha nel frattempo sposato, non sente il richiamo ideale della terra degli avi. Ma il giovane, dinnanzi al gesto del padre, comprende finalmente quale è la vera sua nazionalità, derivata a lui dai sacrifici e dalle rinunce dei propri genitori, al disopra di ogni legale naturalizzazione. Parte per l'Europa, lascia la sua giovinezza nella rivendica dei sacri confini italiani. A chiusura il film, che ci ha accompagnato lungo tutta l'esistenza di questi emigranti, ci fa vedere la bimba, figliola postuma del caduto, che riceve, nella divisa di Piccola Italiana, la medaglia al valore guadagnata dal padre.
Passaporto rosso che una frase di lancio presentava come “un contributo alla storia di questi umili sconosciuti emigranti che partirono verso l'ignoto e l'avventura con il ‘passaporto rosso'” e che “raccoglie tutta una serie di realtà proibite in Italia e permesse solo se rappresentate altrove”, vinse la Coppa del Partito Nazionale Fascista al Festival di Venezia del 1935.
13 uomini e un cannone (Giovacchino Forzano, 1936)
Racconta una storia minima ambientata nella Grande Guerra. Il cuore della vicenda si origina quando un obice austriaco di lunga gittata, posto sul confine russo, viene distrutto da tiri stranamente ben diretti e concentrati dei russi. Si pone allora la questione di scoprire chi ne ha rivelato la posizione al nemico. I possibili colpevoli sembrano essere i tredici soldati addetti al cannone. Se il traditore non confessa, all’alba i tredici uomini saranno tutti fucilati. Anche qui, come nella pellicola analizzata in precedenza, gli avvenimenti si svolgono su un “fondale” abbastanza neutro e indeterminato, rivelato solo dalla carta geografica indicante il confine tra Austria e Russia, che appare nelle scene iniziali. La guerra e le sue vicende di sangue sembrano qui elementi del tutto accessori, in quanto i 13 soldati conducono una vita quasi allegra sulla linea del fronte: davanti al loro nascondiglio hanno apposto la scritta “Grand Hotel”, un cartello con il disegno di una sirena indica il bagno, che è in realtà un ruscello in cui ci si lava, ci si rade e si conversa piacevolmente. La dispensa, inoltre, è ben fornita. Nei mesi di guerra, uno dei tredici fanti ha persino imparato a leggere e scrivere, tanto che è ormai in grado di inviare lettere a casa in completa autonomia. Ed in questo contesto tutt’altro che guerresco che si innesca l’episodio della distruzione del cannone e la conseguente ricerca del delatore. Da qui comincia la seconda parte del film, assai più tesa e drammatica, caratterizzata dal serpeggiare del sospetto reciproco e funestata dalla morte di uno dei 13. Ma ecco che il racconto si scioglie in un quasi lieto fine quando viene scoperto il colpevole, che non è uno dei soldati austriaci ma una spia russa. La "guerra lieta" dei nostri, dunque, può continuare. Uscito in Italia nel 1939, il film proponeva un’avventura di taglio spionistico. “Sceneggiatura ricca e varia”, così scrisse il critico Filippo Sacchi sul Corriere della Sera (3 settembre 1936) e possiamo dargli credito: probabilmente era più semplice avvincere il pubblico di quegli anni con tecniche di spy story che alle nostre menti, scaltrite e sature di film di spionaggio, possono far sorridere. Un dettaglio non marginale: come segnalava il recensore, Tredici uomini e un cannone aveva una particolarità eccezionale per il cinema: l’assenza totale di personaggi femminili. Diciamocelo senza pudori: per lungo tempo noi stessi avremmo messo in risalto quello stesso elemento, ossia la mancanza di donne nel cast di un film, come fosse qualcosa di naturale la compresenza dei due sessi nella costruzione filmica.
due delle locandine del film Cavalleria (Goffredo Alessandrini, 1936)
Un ufficiale di cavalleria ama, riamato, la figlia di un nobile piemontese. Ma la ragazza, per salvare il padre dalla rovina finanziaria, si piega a sposare invece un ricco diplomatico austriaco. L'ufficiale si dedica allora appassionatamente all'equitazione e diviene uno dei più celebri cavallerizzi d'Italia. A Roma, alcuni anni dopo, egli incontra la sua antica fiamma e i due starebbero per allacciare una colpevole relazione se le chiacchiere pettegole del mondo, ed un duello che il fratello della donna sostiene per difenderne l'onore, non la persuadessero ad allontanarsi dall'ufficiale. Egli allora, poiché gli muore il cavallo, passa all'aeronautica. Scoppia la guerra e l'ufficiale si distingue eroicamente fino alla morte gloriosa sul campo. Riciclarsi da ufficiale di cavalleria a pilota di aerei e morire in battaglia con la fama di asso dell’aviazione: è questo il plot di
Cavalleria, proiettato la prima volta nel 1936. Il regista Goffredo Alessandrini, che aveva esordito a fianco di Blasetti in
Terra madre (1931), aveva trovato il successo con il cinema dei “telefoni bianchi”. Fu il maestro italiano di quel genere che esibiva storie amorose ambientate nell’alta società, con donne sofisticate avvolte in fruscianti abiti di lamé, la sigaretta con il bocchino tra le dita, e accanto distinti uomini in frac. Immancabile sulla consolle, possibilmente d’art déco, faceva capolino il telefono, per l’appunto bianco, oggetto simbolo della ricchezza. È facile immaginare quanto fosse desiderato da chi andava a vedere quei film e che nella stragrande maggioranza neppure aveva in casa il telefono "popolare", di colore nero. Molti italiani cantavano “se potessi avere mille lire al mese”, e forse neppure sarebbero bastati per permettersi quegli oggetti di lusso. Forse fu il credo fascista che convinse Alessandrini a virare dai telefoni bianchi ai cannoni neri, sporchi di grasso, pur mantenendo la storia in un contesto di buona società, e a sfruttare il mito asettico e superomistico dell’asso del volante, che il fascismo modernizzatore e bellicista stava coltivando. In
Cavalleria l’icona del nuovo eroe, l’asso del volante, si incarnava in Francesco Baracca, abbattuto sul Montello dagli austriaci. Era l’equivalente italiano dell'americano Eddie Rickenbacker, del canadese William Avery Bishop e sopra tutti del tedesco Manfred von Richthofen, il "Barone Rosso".
Piccolo alpino (Oreste Biancoli, 1940)
La dimensione della guerra come gioco è esplicitata sin dalla prima sequenza di Piccolo alpino, in cui, dopo la didascalia “marzo 1915”, si vede il cortile di una scuola pieno di ragazzi che giocano alla guerra utilizzando delle pere cotte come armi, mentre il preside e un professore discutono sulla possibile entrata in guerra dell’Italia. Il sogno del giovane protagonista della pellicola, Giacomino, è di arruolarsi negli alpini, perché ha la passione delle vette e dell’alpinismo. Così per buona parte del film il ragazzino cerca senza successo di entrare nella sua arma preferita, ogni volta rispedito a casa per la giovane età. Alla fine, dopo aver scoperto due spie, riuscirà a diventare la mascotte di un reggimento di alpini in partenza e finirà davvero in trincea. Sorvoliamo sulle sue innumerevoli avventure, allegre e tristi, che termineranno con la consacrazione di Giacomino ad eroe e con la conseguente medaglia d'oro appuntata al suo petto. Il film racconta dunque una vicenda patriottica di formazione dominata dai valori dell'amor di patria, della dedizione ai propri ideali e dello spirito di sacrificio, e in cui «della guerra e delle armi rimane la sensazione dominante del gioco che prepara a prove più impegnative».
Piccolo alpino è tratto da un romanzo, del 1926, di Salvator Gotta, il libro più letto, secondo molti storici, durante il periodo fascista, ad esclusione dei testi scolastici. Con la visione deamicisiana di
Piccolo alpino e delle eroiche gesta di Giacomino Rasi, il cinema del Ventennio chiude definitivamente i conti con la Prima Guerra Mondiale. Il silenzio delle armi sugli schermi è la risposta più giusta all’imperversare del secondo conflitto mondiale.
La Grande Guerra nei film italiani d'appendice degli anni Cinquanta e i film controcorrente dei decenni successiviNel cinema italiano degli anni Cinquanta, la Grande Guerra fa la ricomparsa sugli schermi. Sono questi gli anni del decollo in grande stile dei film sulla guerra e per il definitivo affermarsi di un genere sempre più gradito dalle platee di censo popolare e, comunque, medio-basso. Sono anni nei quali ai successi del neorealismo popolare del cinema italiano si aggiunge quel filone che attinge le proprie storie dagli eventi del primo conflitto mondiale, riprendendone come trame episodi (reali o romanzati). Arriviamo quindi anni ’70, gli anni della contestazione fino all’epoca del revisionismo storico anche cinematografico che partoriscono, pure nel cinema italiano opere di grande levatura, rivelando spesso il
nonsenso della guerra.
Il caimano del Piave (Giorgio Bianchi, 1950)
Lucilla di Torrebruna, ottenuta la licenza liceale, ritorna a San Donà di Piave, dove risiede suo padre, colonnello di cavalleria. Questi le annuncia il suo prossimo matrimonio con una straniera, Helène. La notizia è accolta senza turbamento da Lucilla, lieta della felicità paterna; malgrado questo, la fanciulla dovrà subire la fredda ostilità della matrigna. Mentre l'Italia è in guerra con l'impero austro-ungarico, un giovane triestino, Franco, antico compagno di studi di Lucilla, a lei legato da reciproco affetto, passa oltre le linee austriache e s'arruola nei bersaglieri. Dopo Caporetto, San Donà è occupata dal nemico: la villa dei Torrebruna è sede d'un comando austriaco. Ora Helène rivela il suo vero volto: è una spia austriaca. Franco e il colonnello organizzano lo spionaggio a favore degl'italiani: travestito da contadino, il colonnello va in cerca di notizie, che Franco, passando il Piave, trasmette al comando italiano. In una delle sue esplorazioni, il colonnello è ferito a morte: Lucilla, aiutata da un giovane contadino zoppo, lo sostituirà nella pericolosa missione. Alla fine il giovane contadino viene ucciso: Lucilla, catturata dagli austriaci, è condannata a morte. La salva in extremis la cavalleria italiana. E' questo il primo film italiano del secondo dopoguerra ambientato ai giorni della Grande Guerra. Pone in primo piano l’attività del controspionaggio italiano che, agendo nei territori occupati dagli austriaci, riesce a fornire ai comandi militari le informazioni necessarie per preparare la grande offensiva dell’ottobre del 1918, che porterà alla liberazione di Trento e Trieste e alla fine della guerra. Pellicola dallo stile melodrammatico e attraversata dall'inevitabile storia d’amore, è impreziosita però dall'utilizzo di brani di battaglie tratti da filmati originali dell'epoca e dalla scelta tutta neorealista di impiegare comparse non professioniste, reclutate tra i contadini delle zone dei combattimenti.
Il caimano del Piave è una prova quasi «d’autore» non priva di ambizioni, con una struttura romanzesca che pesca tòpoi narrativi un po’ dappertutto: la scena in cui il colonnello Torrebruna, interpretato da Gino Cervi, torna in incognito nella sua villa occupata dagli austriaci e viene riconosciuto dal cane è addirittura un rimando all’Odissea!
Cavalcata di mezzo secolo (Carlo Infascelli e Luciano Emmer, 1950)
E' tra i film di montaggio degli anni Cinquanta che vale la pena ricordare. Utilizzando spezzoni di cinegiornali, la pellicola ripercorre i principali avvenimenti storici che hanno caratterizzato il nostro paese dall'inizio del Novecento fino al 1950. Riguardo alla Grande Guerra, sono riportate immagini dell’uccisione dell’erede al trono d’Austria a Sarajevo e dello scoppio della guerra; viene quindi illustrata la fase di neutralità dell’Italia, la successiva entrata in guerra e gli eventi del fronte fino alla vittoria finale. Il tentativo di ricostruire un ambiente e un’epoca si risolve in un’antologia di immagini composta in maniera facile e approssimativa. Il commento pone maggiore attenzione alla battuta che ai contenuti storici, entro quindi una superficiale cornice umoristico-anedottica.
Piume al vento (Ugo Amadoro, 1951)
Nel 1917 un reggimento di bersaglieri si ritira verso il Piave. Un ufficiale del reggimento, Stefano, si congeda da Anna Frassoni, figlia del proprietario d'una villa, che verrà requisita dagli austriaci e trasformata in ospedale da campo. Anna e il giardiniere Luigi resteranno in comunicazione con gli italiani, cui segnaleranno notizie militari. Il capitano Von Toeplitz, per far dispetto ai Frassoni, che danno prove di fierezza, porta nella villa la propria amica, la cantante Marta Flores, cui assegna la camera da letto di Anna. Durante la notte, Gennaro, soldato di Stefano, entra furtivamente nella camera e, prendendo Marta per Anna, lascia comprendere lo scopo della sua venuta. Marta però non lo tradisce; ma anzi salva lui e la ragazza. Ritornato con altri due per far saltare un ponte, Gennaro viene catturato; ma Marta riesce a liberarlo. Essa avverte poi i Frassoni dell'imminente offensiva italiana e li accompagna al vicino villaggio. Stefano fa saltare il ponte: s'inizia la battaglia, che costerà gravi perdite agli italiani, ma darà loro la vittoria. Marta, ferita mortalmente da Von Toeplitz, riesce a ferirlo gravemente prima di spirare. Un piccolo patriota, che ha suonato le campane, per festeggiare la vittoria italiana, viene fucilato dal nemico. Altro film di genere spionistico sulla Grande Guerra che, tranne qualche scena di azione ben condotta, risente dell’atmosfera melò che sovrasta il cinema italiano degli anni Cinquanta.
Fratelli d’Italia (Fausto Saraceni, 1952)
A Capodistria, nel 1915, i patrioti si agitano, auspicando l'entrata in guerra dell'Italia: tra i più accesi è Nazario Sauro, capitano della marina mercantile austriaca, il quale, per sottrarsi all'arresto, ripara a Venezia. Quando l'Italia dichiara la guerra alla Monarchia austroungarica, Sauro s'arruola come volontario nella R. Marina ed ottiene d'essere imbarcato, in qualità d'ufficiale di rotta, sul sommergibile "G. Pullino". La sua perfetta conoscenza della conformazione delle coste istriane, gli permette di rendere alla Patria segnalati servigi. Durante una ricognizione, il "Pullino" s'avvicina arditamente ad una base austriaca: la ricognizione ha pieno successo, ma costa la vita a Sergio, giovanissimo mozzo trentino, devoto a Sauro. Sulla via del ritorno, il sommergibile s'arena nei pressi della costa austriaca e vien fatto saltare dall'equipaggio, che tenta di salvarsi, ma viene catturato. Il capodistriano, che milita sotto falso nome, viene riconosciuto ma, fedele agli ordini ricevuti, anche sul patibolo negherà fino all'ultimo di essere Sauro. Un modulo narrativo assai frequentato dal cinema italiano nel raccontare la Grande Guerra, è quello del film biografico sugli “eroi” di quei giorni, così come in questo
Fratelli d'Italia. Caratterizzato da un'impostazione storica superficiale e una precaria realizzazione tecnica, il film è un’opera modesta e trascurabile.
La Nemica (Giorgio Bianchi, 1952)
La duchessa Anna ha allevato, insieme al suo figliolo Gastone, il figlio, che il duca, suo marito, ha avuto da un'altra donna. Prima di morire, il duca ha fatto giurare alla moglie di tener segreta l'origine illegittima di Roberto, che tutti è creduto il figlio maggiore di Anna e del Duca, e da tutti è amato per le sue doti, per la sua generosità. Solo Anna gli è ostile: nel suo intimo ella non sa rassegnarsi a veder il figlio di un'altra usurpare al suo figliolo il titolo e i beni, che a lui soltanto spetterebbero. Due ragazze si contendono il cuore di Roberto: Marta, figlia del notaio di famiglia, e Fiorenza, figlia di un diplomatico. Anna vorrebbe unire Fiorenza e Gastone e Marta a Roberto; ma malgrado gl'intrighi dell'ambiziosa Marta, Roberto e Fiorenza s'amano e si dichiarano il loro amore. Roberto soffre per il contegno ostile della madre, del quale non comprende la ragione. Marta, che conosce i segreti della famiglia, fa capire a Roberto che la sua nascita non è legittima. Roberto, avendo mal compreso l'allusione, affronta sua madre per dirle che l'ama ancor più se è figlio di un di lei illegittimo amore. Anna è costretta a rivelargli che non è suo figlio. Disperato, Roberto parte per la guerra, seguito dal fratello Gastone. Questi viene ucciso: Anna, così duramente colpita, accoglie ed ama ormai come figlio il figliastro, che prima aveva allontanato da sé.
La nemica è un film degno di interesse; il regista riesce a trasportare sullo schermo il periodo della Prima Guerra Mondiale con rara aderenza e buon gusto; in questo senso, i costumi e le raffinate scenografie costituiscono l’anima del film ed hanno il merito di ricreare adeguatamente l’atmosfera di un’epoca, così come ad un quadro è necessaria una cornice che si intoni ad esso e lo completi. Le sequenze finali del film appaiono tra i principali punti di forza di una trasposizione cinematografica per molti versi non priva di una caratura artistica nettamente superiore alla media.
La leggenda del Piave (Riccardo Freda, 1952)
Fedele al registro militar-nazionalistico di moda nei primi anni cinquanta, il film è ambientato in Veneto. Durante la prima guerra mondiale, il conte Riccardo Dolfin vive nel suo castello, nel veneto, con la giovane moglie, Giovanna, ed un figlioletto. La contessa Giovanna è una fervente patriota; mentre il conte non mostra di prendere vivo interesse alle vicende della guerra. Un giorno il conte decide improvvisamente di arruolarsi nell'esercito: la contessa è preoccupata, ma anche orgogliosa per la sua decisione. Il conte Riccardo non intende però di partecipare alla guerra come combattente: s'è arruolato per poter fare nelle retrovie dei loschi affari di forniture. Recatasi a Verona per far visitare il figlioletto infermo, la contessa scopre che suo marito è lì, ingolfato negli affari e nella dissipazione. Dopo una violenta scenata, Giovanna decide di separarsi dal marito. A Caporetto intanto le nostre linee sono state forzate: malgrado i consigli degli amici, Giovanna ritorna col figlioletto al castello, oltre il Piave. Tutto il territorio è invaso dal nemico: un ufficiale austriaco tenta di usare violenza alla contessa, che è salvata dall'intervento di un vecchio servo. Le sventure della Patria hanno scosso profondamente l'animo del conte Riccardo, che domanda d'esser mandato in prima linea, si batte eroicamente ed è gravemente ferito. Finita la guerra, i due coniugi s'incontrano al castello per concordare i termini della separazione; ma quando Giovanna scopre che il marito e mutilato d'ambe le braccia, gli domanda perdono e gli dichiara tutto il suo amore.
La leggenda del Piave è una storia romanzata, sulla base del classico metodo di una rappresentazione del “tema e variazioni”. Anche in questo caso, la vicenda si svolge in ambiente aristocratico, con la nobile protagonista fervente patriota e il marito, inizialmente, losco affarista e opportunista che, alla fine, abbraccia la causa italiana da eroico combattente. Il film di Freda è convenzionale ed approssimativo nei raccordi narrativi tra una sequenza e l’altra; e il dramma familiare sullo sfondo di Caporetto non decolla mai oltre i livelli di una rappresentazione appena sufficiente. Accanto ad altri caposaldi del neorealismo popolare italiano, anche
La leggenda del Piave fa la sua figura tra un pubblico assetato di forti emozioni e di storie strappalacrime: guerra o non guerra, quello che conta (e che fa cassetta) è il dramma d’appendice. E più sono gli ingredienti di “alta tensione”, più il cineromanzo funziona.
Addio, mia bella signora! (Fernando Cerchio, 1953)
Guido, studente universitario, incontra casualmente una sconosciuta, verso la quale si sente vivamente attratto: la trova più tardi in compagnia di sua cugina, che gliela fa conoscere. Apprende così che Cristina, la bella sconosciuta, sta per sposare il conte Riccardo Saluzzo, un maturo colonnello dei bersaglieri. Tale notizia è un fiero colpo per Giulio e l'induce ad evitare ogni ulteriore incontro. Quando nel 1915, l'Italia dichiara guerra all'Austria, il colonnello richiamato in servizio, parte per il fronte. Guido incontra di nuovo Cristina ad una festa di studenti e la passione, che in lui si riaccende, non lascia insensibile la donna. Dopo qualche tempo giunge la notizia che il colonnello Saluzzo è caduto in combattimento: ora nulla più divide i due innamorati, che possono abbandonarsi ai loro sentimenti e decidono di sposarsi, non appena trascorso per Cristina l'anno di lutto. Ma un giorno il colonnello riappare: mutilato degli arti inferiori, egli non è più ormai che un rudere. Cristina cerca di dimenticare l'innamorato per consacrarsi ai propri doveri di moglie; ma il colonnello, resosi conto della situazione, decide d'uccidersi per lasciarla libera. Cristina, scoperto il suo proposito, gli impedisce d'attuarlo e rinuncia per sempre all'amore di Guido, che parte per la guerra. Si arriva al pietismo più spinto quando viene mostrato il povero Gino Cervi (che interpreta un maturo colonnello dei bersaglieri, marito della giovane) privo delle gambe, perse sul Carso.
due locandine del film Di qua di là dal Piave (Guido Leoni, 1954)
"La Mariola" - Durante la guerra, Pasquale, scartato ripetutamente dalla commissione di leva, gira per i villaggi come cantastorie. Dopo l'armistizio dell'8 settembre, catturato dai tedeschi, viene condannato a morte. Il giorno prima dell'esecuzione, dichiara il suo amore a Mariolina, una ragazza di facili costumi, e le chiede di cambiare vita. Pasquale scampa alla morte, lasciando Mariolina, ignara, a piangere sulla sua tomba. Undici anni più tardi, Pasquale è diventato finalmente un soldato e, quando vede uno dei fratelli della ragazza, la tentazione di disertare per non farsi riconoscere è fortissima...
"Angiolina, bella Angiolina" - Mario, scambiato per un suo commilitone, ballerino provetto, viene invitato a casa da Angiolina che, dovendo conseguire il diploma di danza, vuol dargli un saggio della sua abilità. Chiarito l'equivoco, il giovane viene cacciato in malo modo, ma...
"Il povero soldato" - La fidanzata di un caporale, decisa a ottenere qualche ora di permesso per il suo ragazzo, inventa un sacco di bugie, mettendolo in imbarazzo. Soltanto grazie all'intervento del cappellano militare, il soldato riuscirà a evitare i guai.
"Di qua, di là del Piave" - Un colonnello rievoca un'avventura amorosa capitatagli quand'era tenente, al tempo della Prima Guerra Mondiale.
Film a episodi, di cui i primi tre sono brevi e piacevoli commediole narranti le vicende, sentimentali e non, di alcuni soldati e delle loro ragazze: il tono leggero le rende abbastanza riuscite. Il quarto episodio, costruito com'è con i soliti canoni convenzionali della retorica patriottica, chiude invece ingloriosamente questa pellicola, disturbandone tutto l’impianto.
frammento dell'episodio Guerra 1915-1918 (diretto da Pietro Germi) e locandina del film Amori di mezzo secolo (Guido Leoni, 1954), , da cui è tratto
Nell'episodio viene narrata la triste vicenda d’amore di Antonio e Carmela, giovani contadini abruzzesi, sposatisi prima della chiamata al fronte del ragazzo, avvenuta dopo la disfatta di Caporetto. Antonio muore tragicamente in guerra nell'esatto momento in cui nasce suo figlio: i “grandi” fatti della storia sono guardati attraverso le piccole vicende della vita, come in quelle ballate popolari che raccontano una guerra e un’esistenza in poche strofe essenziali, dove i destini della patria non appaiono importanti quanto quello della fidanzata che attende il soldato, e dove lo strazio della nazione in guerra scolora al confronto allo strazio di lasciarsi, di consumare in una fredda trincea la calda età dell’amore. Tutto l’episodio è accompagnato, con insistente discrezione, dai canti degli alpini, usati come malinconico filo conduttore che sembra sottintendere la ribellione dei sentimenti contro la follia del conflitto globale. La guerra, osservata attraverso gli occhi teneri e sperduti dei giovani protagonisti, appare insensata nei suoi obiettivi come nel suo svolgersi: evento incomprensibile e oscuro che esorbita la volontà dei singoli.
due frammenti dell'episodio Purificazione e locandina del film Cento anni d’amore (Lionello De Felice, 1954), da cui è tratto
L'episodio si svolge durante la Prima Guerra Mondiale: un attendente vuol consegnare l'ultima lettera del suo tenente, caduto in combattimento, alla ragazza da lui adorata. Ma, avendo scoperto che la ragazza non era degna di tanto amore, riparte senza consegnare la lettera.
Purificazione è un delizioso bozzetto cinematografico che, pur restando fortemente ancorato alla sua originaria impostazione teatrale (è tratto da un atto unico di Gino Rocca), scorre con la massima naturalezza in pregevoli sequenze. Schizzato con pennellatura di una recitazione di lusso (si pensi al gustoso “duetto” tra Eduardo e Titina; o all’amaro monologo dell’attore prima dell’epilogo), l’episodio, pur restando ai margini della guerra, ne respira le conseguenze proprio dagli atteggiamenti, dallo sguardo, dai tic, dal detto e il non detto della interpretazione del grande attore napoletano. Tratteggiando alla perfezione la figura dell’attendente disilluso, Eduardo in questo non facile ruolo pieno di colore e carattere, senza mai strafare, si dimostra ancora una volta artista di temperamento e di inimitabile talento. E, come suo solito, riesce a fare, anche di una sola battuta, un piccolo capolavoro.
La campana di San Giusto (Mario Amendola e Ruggero Maccari, 1954)
Nel 1917, poco prima dell'offensiva italiana, i patrioti triestini attendono con ansia il giorno della liberazione. Roberto, che ha in moglie Cinzia di Rionero, figlia di un vecchio patriota, viene richiamato alle armi. Non volendo a nessun costo vestire l'uniforme austriaca, Roberto passa il confine con l'aiuto dei patrioti, tra i quali è il cieco Paoletto, cantore di patriottiche canzoni, innamorato di Stella, la sorella minore di Cinzia. La villa di quest'ultima viene in parte requisita dal comando austriaco, che vi alloggia degli ufficiali. Intanto a Roberto, che milita ormai nell'esercito italiano, è affidato il compito di distruggere due trasporti di munizioni nel porto di Trieste. Compiuta l'impresa, Roberto, che è rimasto ferito, riesce a raggiungere la sua villa, nella quale prenderà contatto col patriota Bruno Visentin, entrandovi nella veste di ufficiale austriaco. Un altro ufficiale, il maggiore Von Rudolf, scoperta la presenza di Roberto, se ne serve per ricattare Cinzia, alla quale fa la corte. Interviene tempestivamente Roberto; ma le cose si mettono male per lui e per Visentin. Nel frattempo i bersaglieri italiani sono entrati a Trieste: una fucilata italiana uccide Von Rudolf, che stava per sopprimere Visentin. Una palla austriaca colpisce Paoletto, che muore tra le braccia di Stella. Questa potrà seguire liberamente l'impulso del cuore, che la spinge ad amare Visentin. Melò fra i melò, il film aggiunge alla retorica “patriottarda” tutti gli ingredienti relativi al feuilleton ottocentesco, accumulando disgrazie, vicende complicatissime e accidenti vari, il tutto all'unico scopo di far piangere gli spettatori.
Guai ai vinti (Raffaello Matarazzo, 1954)
Durante la prima guerra mondiale, in seguito ad un improvviso ripiegamento delle truppe italiane, Luisa, moglie di un ufficiale, e la sua giovane cognata Clara vengono sorprese nella loro villa da una pattuglia austriaca e subiscono gli oltraggi e le violenze della soldatesca. La figlia decenne di Luisa, in seguito alle emozioni di quella notte, perde la parola. Le due donne riparano a Verona, dove sono ospiti di una nobildonna e, dopo qualche tempo, Luisa s'accorge con terrore di essere incinta. Suo marito è all'ospedale, essendo stato ferito, e Luisa non ha il coraggio di rivelargli la tragica verità. Disperata, ella tenta di uccidersi: un medico, vedendo in lei i sintomi di un grave perturbamento psichico, acconsente a liberarla del figlio concepito nell'odio e nella violenza. Anche Clara è rimasta incinta; ma il sentimento della maternità è in lei così forte che, benché ami Franco, il suo fidanzato, prigioniero del nemico, ella acconsente a divenire madre. L'avanzata dell'esercito italiano permette alle due donne di tornare alla loro villa; ma Clara è schernita dai paesani, che non le perdonano di avere accettato il figlio dell'invasore. Luisa le fa capire di non poterla più ospitare perché il suo bimbo le ricorda l'onta subita. La povera Clara si rifugia in casa di Teresa, la levatrice, l'unica che si mostri comprensiva. Anche Franco, quando ritorna dopo l'armistizio, benché riconosca la non colpevolezza di Clara, si sente incapace di perdonarle e di accettare il bambino. In preda alla disperazione, la donna vuol lasciare il paese, ma la gente la rincorre schernendola. Mentre cerca di proteggere il suo bimbo Clara, che sta scendendo una scala, perde l'equilibrio e cade ferendosi mortalmente. Franco, pentito, corre al suo capezzale e, alla presenza di Luisa, la sposa in extremis, promettendole di aver cura del bimbo. La lacrimosa vicenda è accompagnata da squilli di fanfare, acclamazioni ai «Savoia!» e penne al vento. Pellicola oggi dimenticata, Guai ai vinti pellicola oggi dimenticata ma curiosissima, a tratti sembra anticipare le suggestioni metaforiche e visive del cinema gotico italiano.
Trieste cantico d’amore (Max Calandri, 1954)
Un sottufficiale americano, d'origine italiana, Jack Grandi, appartenente alle truppe d'occupazione, fa per caso la conoscenza di una bella signorina di Trieste. Tra i due giovani fiorisce l'amore; ma quando la ragazza, ch'è orfana e vive con la nonna, presenta Jack a quest'ultima, la vecchia gentildonna, nell'udire il nome di famiglia del sottufficiale, assume un contegno nettamente ostile. Il padre di Jack, Antonio Grandi, divenuto poi un celebre cantante, si trovava a Trieste durante la prima guerra mondiale, prima dell'entrata dell'Italia in guerra. Incaricato di una segreta missione politica a favore dell'Italia, s'era innamorato della figlia del conte di Sant'Elmo il capo dei patrioti triestini, che preparavano l'insurrezione. Scopertasi la congiura, il conte di Sant'Elmo venne condannato a morte. Antonio era riuscito a fuggire ed aveva poi combattuto contro l'Austria nelle file del regio esercito. Alla contessina di Sant'Elmo s'era fatto credere che Antonio fosse stato il denunciatore di suo padre: costretta ad aborrire chi tanto aveva amato, aveva sposato un cugino austriaco. Avvertito, da un amico di Jack, di quello ch'è capitato a suo figlio, Antonio, che sta cantando a New York, prende l'aereo e vola in Europa. Giunto a Trieste, affronta la nonna, che altri non è che l'antica innamorata: tutto si chiarisce, i due giovani sono felici. La trama comprende insurrezioni, scoperte e condanne a morte, inganni e matrimoni con cugini austriaci e tanto altro: una serie inenarrabile di sentimentalismi ed errori storici che disegnano una grottesca contraffazione della storia di Trieste durante la Prima Guerra Mondiale.
I cinque dell’Adamello (Pino Mercanti, 1954)
Il film trova ispirazione in un fatto di cronaca: il racconto del ritrovamento delle salme di cinque alpini, travolti da una valanga dopo un’audace azione effettuata sull'Adamello durante la guerra del '15-'18. Partecipa alla spedizione un giornalista, figlio di uno dei cinque soldati, socialista come il padre. Film sentimental-patriottico-nazionalista con netta tendenza al bozzettismo, che ricostruisce, a colpi di flashback, la vita dei dinque alpini: una pattuglia comandata dal giovane tenente Piero (un inventore di grandi ambizioni) e composta da Momi, il suo affezionato attendente, un cameriere d'albergo, vedovo con una figlia assai capricciosa, Doschei, un giovane contrabbandiere (la cui conoscenza della montagna si rivela preziosa) innamorato della vivace Mariolina, Pinin, precettore in un collegio, imbevuto di romanticismo dannunziano, e Renato, robusto scalpellino, socialista militante. Cinque uomini che, in mezzo al quotidiano travaglio della disagiata vita del fronte, trovano conforto nel ricordo di un affetto, nella speranza di un migliore avvenire, nella condivisione di un'esperienza. Spunti che, seppure non sempre adeguatamente sviluppati, risultano in vari punti interessanti e non sono del tutto rovinati neppure dal retorico finale risuonante di onori ai caduti, del suono del silenzio fuori ordinanza e di altri simili preziosismi. Il film va probabilmente annoverato tra i pochi accettabili del periodo.
Bella non piangere (David Carbonari, 1955)
Enrico Toti ha un'indole irrequieta che gli impedisce di perseverare in un'occupazione sedentaria. La sua innamorata, Nina, si dà da fare per trovargli un impiego, ma dopo una breve permanenza in un ufficio ministeriale, Enrico si dedica alle corse ciclistiche. Cedendo alle esortazioni di Nina, egli si mette a lavorare alle ferrovie: per salvare un monello egli cade in malo modo e deve subire l'amputazione di una gamba. Per non sacrificare Nina, alla quale non rivela la causa della sua disgrazia, Enrico si stacca da lei Quando nel 1915 l'Italia entra in guerra, Enrico Toti domanda di essere mandato al fronte. In considerazione delle sue condizioni fisiche, la domanda viene ripetutamente respinta, finché il suo desiderio viene esaudito in seguito al diretto intervento del Duca d'Aosta Enrico, che è stato bersagliere ciclista, farà il postino al fronte. Tornato a Roma in licenza, trova Nina sposata e avendo saputo che il marito Fernando la maltratta, gli fa una scenata. La guerra continua implacabile; anche Fernando è richiamato in servizio e, appena arrivato al fronte, viene ferito gravemente. Enrico e Fernando si riconciliano: giunge Nina alla quale il marito, prima di morire, chiede perdono. Durante un violento attacco nemico, Enrico Toti, già colpito una volta, dominando il dolore fisico, continua a far fuoco con la mitragliatrice, finché finite le munizioni, egli sale sulla trincea e scaglia contro il nemico la sua stampella. Colpito nuovamente, Enrico muore, ma sul suo volto brilla un sorriso: è la certezza della vittoria finale. Pellicola caratterizzata da una «sconsolante» ricostruzione storica e infarcita da molta retorica, rappresenta un'opera mediocre anche da un punto di vista strettamente visivo, cui persino gli inserti di spezzoni di documentari di guerra non aggiungono originalità, trattandosi di brani già utilizzati in altre opere cinematografiche.
La canzone del destino (Marino Girolami, 1957)
Claudio Bianchi e Cesare Marini sono fratellastri, ma per carattere e temperamento sono profondamente diversi: Claudio, tipo esuberante, vivace, conquista subito la simpatia di tutti ed ha la passione del canto; Cesare è serio, studioso. Cesare è innamorato di un'amica di famiglia, Elena, che non ricambia il suo sentimento, benché provi per lui molta simpatia. Ella gradisce invece la corte, che le fa Claudio, il quale ignora che Cesare è di lei innamorato. Quando nota che Elena gli preferisce il fratello, Cesare si ritira in buon ordine. Nel 1915, allo scoppio della guerra, Cesare, ufficiale di complemento, viene richiamato ed inviato al fronte; Claudio invece, grazie alle manovre paterne, riesce ad imboscarsi in un ufficio militare. Il comportamento di Claudio costituisce una delusione per Elena, che si arruola come infermiera nella Croce Rossa. Vedendo partire tutti i suoi amici per la zona di operazione Claudio, che sente vergogna e rimorso della egoistica prudenza che lo tiene lontano dal pericolo, domanda di essere mandato al fronte e viene aggregato al reparto comandato da Cesare. Quando viene a sapere che Elena si trova in un ospedaletto da campo vicino alla prima linea, Claudio chiede un permesso per recarsi a salutarla; ma Cesare, non volendo trasgredire gli ordini superiori, glielo rifiuta. Tra i due ha luogo un diverbio; più tardi Claudio trova per caso un diario del fratello, dal quale risulta che Cesare, innamorato di Elena, ha rinunciato a lei per non causare l'infelicità del fratello; mentre la ragazza malgrado la delusione subita per il comportamento di Claudio, non ha avuto il coraggio di infliggergli a sua volta una delusione. Profondamente colpito da questa rivelazione, Claudio, esponendosi al rischio di essere dichiarato disertore, corre da Elena per restituirle la sua parola e rientra in linea appena in tempo per evitare la denuncia. Durante un'azione rischiosa Claudio cade ferito in prossimità dei reticolati nemici, e viene salvato da Cesare che a sua volta riceve una ferita mortale. Finita la guerra la tomba di Cesare è sempre coperta di violette: è il mesto tributo di Elena al ricordo del suo vero amore.
La canzone del destino E' un film senza eccessive pretese, ma condotto con una certa abilità. Buone le canzoni.
La grande guerra (Mario Monicelli, 1959)
Il piantone romano Oreste Jacovacci ha promesso al coscritto milanese Giovanni Busacca di farlo riformare dietro compenso; ma Giovanni è fatto abile e, ormai in divisa, cerca Oreste per dargli una lezione. Tuttavia quando si ritrovano, i due diventano amici e finiscono insieme a Tigliano, un piccolo paese nelle retrovie, dove attendono, di giorno in giorno, di essere mandati al fronte. Nel frattempo Giovanni, avendo incontrato Costantine, una ragazza di facili costumi, si concede qualche distrazione, ma alla fine si trova alleggerito del portafoglio. Giunge il giorno temuto: Giovanni ed Oreste sono mandati al fronte, dove fanno conoscenza di nuovi commilitoni: il tenente ex professore di ginnastica, il soldatino che spasima per Lyda Borelli, il cappellano Bonoglia. Viene il Natale, festeggiato alla meglio; passa l'inverno, si annuncia la primavera; riprendono più vivaci i combattimenti. Oreste e Giovanni, mentre sono di pattuglia, incontrano un soldato austriaco: potrebbero ucciderlo, ma non si sentono di farlo. Poi inizia la battaglia: morti e feriti, attacchi e contrattacchi. Oreste e Giovanni sono incaricati di portare un messaggio, ma mentre si dispongono al ritorno si trovano separati dal loro gruppo. Per ripararsi dal freddo indossano cappotti nemici: scoperti dagli austriaci, vengono considerati spie. Potrebbero salvarsi se consentissero a fornire informazioni sulla missione di cui erano incaricati. Dapprima i due esitano e sono quasi disposti a transigere con la coscienza ma di fronte all'arroganza dell'ufficiale che li interroga, Giovanni rifiuta di parlare e viene fucilato. Oreste segue il suo esempio e subisce la stessa sorte. Il loro sacrificio non è inutile: i loro compagni sono all'attacco e la vittoria non è lontana. A partire dalla fine degli anni Cinquanta, nel cinema italiano si liberano diverse remore e censure politico-culturali sulla valutazione (tra l'altro) degli avvenimenti storici di cui stiamo parlando. Diviene dunque possibile affrontare il tema scottante della guerra da punti di vista differenti e anche di parlare della voglia di pace che esisteva tra i soldati e tra la gente delle classi popolari. Alcuni film si possono dunque finalmente addentrare in una sana e articolata “rivisitazione” del periodo della Prima guerra mondiale, come
La grande guerra che, attraverso una miriade di episodi frammentati e di personaggi a volte anche negativi, mostra la realtà cruda e spesso paradossale della vita dei soldati. I protagonisti di questo grande affresco corale sono due antieroi per eccellenza: Oreste Jacovacci, romano, e Giovanni Busacca, milanese, interpretati impeccabilmente da Alberto Sordi e Vittorio Gassman. I due, nonostante l'indolenza, la furberia e l'ostentata vigliaccheria, sapranno infine morire da “eroi”, più per dignità personale che per un astratto concetto di “amor di patria”. Il campo di battaglia mostrato in questo film è un vero e proprio mattatoio dove i giovani fanti sono mandati all’assalto malnutriti e senza l’appoggio dell'artiglieria, al comando di ufficiali inetti, boriosi o rassegnati. Approccio volutamente antiepico che tuttavia non nega alle scene di battaglia il respiro del grande cinema bellico, con la fotografia dinamizzata dalla profondità di campo e dai virtuosistici movimenti di macchina. La narrazione, alternando sapientemente frammenti umoristici a momenti amari, si presta assai bene a raccontare dal punto di vista del soldato le ambiguità e le barbarie che caratterizzarono quella guerra.
due locandine del film La contessa azzurra (Claudio Gora, 1960)
Ai tempi del cinema muto, il regista Don Salvatore, mentre sta girando un film, è costretto a sospendere il suo lavoro in seguito al dissidio sorto tra lui e Don Peppino, il produttore, affiancato dalla protagonista, attrice già famosa. Il regista però, sostituendo a quest'ultima una ragazza ancora sconosciuta, Teresa, riprende a girare il film e lo porta a compimento. Il lavoro viene proiettato con felice successo e Teresa acquista un certo nome. Di ritorno a Parigi, il regista rivede Teresa, che esprime il desiderio di partecipare ad un grande spettacolo teatrale, finanziato da Don Peppino e diretto da Don Salvatore. Quando nel maggio del 1915 l'Italia dichiara la guerra, Don Salvatore, chiamato alle armi, parte per il fronte. Durante un fugace incontro nelle retrovie, Teresa confessa al regista il suo amore, che viene ricambiato. La guerra li divide: Don Salvatore muore nel corso di una missione. Teresa, rimasta sola con i suoi ricordi, trascorrerà gli ultimi anni in un ospizio. Il regista (figlio del generale degli alpini Carlo Felice Giordana, caduto nel 1916 nel corso di una ricognizione sull'altipiano di Asiago), alle prese con un “feuilleton” su commissione, realizza una gustosa ed elegante rievocazione della Belle Époque napoletana. Le vicende della Grande Guerra restano sullo sfondo (ne vengono mostrate solo le retrovie, oltre alla scena della partenza e della morte del protagonista, non più giovane, andato al fronte insieme ai suoi giovani compagni di teatro), mentre la trama insiste forse un po' troppo sul registro «deamicisiano» della nostalgia.
Il Piave mormorò... (Guido Guerrasio e Vico D’Incerti, 1964)
Il film comincia dall'intervento in guerra dell'Italia (1914) per passare poi in rassegna i fatti più drammatici del lungo conflitto: Montenero, San Michele, Carso, Adamello, Gorizia, Podgora, Trentino, ecc. Seguono poi alcune sequenze dedicate alla traversata dell'Isonzo, quindi l'entrata in Gorizia, la guerra in Cadore, la battaglia della Bainsizza, la rotta di Caporetto, la ritirata sul Piave ed i successivi fatti d'arme, fino alla vittoriosa conclusione di Vittorio Veneto. Non mancano inserti dedicati, oltre che alle truppe di terra, all'attività bellica della marina e dell'aviazione. Si tratta di un film di montaggio che ripercorre le alterne vicenda della guerra italiana, a partire dai giorni dell’Intervento, passando in rassegna i fatti e i luoghi più drammatici del lungo conflitto: Montenero, San Michele, Carso, Adamello, Gorizia, Podgora, Trentino, ecc. Seguono alcune sequenze dedicate agli ultimi anni di combattimenti: la traversata dell’Isonzo, l’entrata in Gorizia, la guerra in Cadore, la battaglia della Bainsizza, la rotta di Caporetto, la ritirata sul Piave, fino alla vittoriosa battaglia di Vittorio Veneto. Non mancano inserti dedicati all'attività bellica della marina e dell’aviazione. Nell'insieme il film mostra molto materiale eccellente, senza però discostarsi da una lettura tradizionale del conflitto, ignorando gli intrighi degli alti comandi, l’incapacità tattica e strategica dei generali, i massacri e la vita inumana trascorsa dai fanti nelle trincee, le folli decimazioni di giovani soldati innocenti, i mutilati e i morti.
due locandine del film La ragazza e il generale (Pasquale Festa Campanile, 1967)
Il soldato Tarasconi, rimasto casualmente in territorio occupato dalle forze austriache dopo la disfatta di Caporetto, fa prigioniero un generale nemico e decide di portarlo ai suoi superiori per ottenere la medaglia d'oro, il premio di mille lire e la desiderata licenza. Intimorito, ma non soggiogato dalla personalità del suo prigioniero, il fantaccino, attraverso le più impensate vicende, lo trascina con sé per monti e vallate. Ma un giorno, vinto dal sonno perde la sua preziosa preda e solo a stento riesce a ritrovarlo aiutato da Ada, una bella e rude contadina che, poco dopo però, con uno stratagemma tenta di liberarsi di lui. Ma, il caso e la fame costringono i tre disgraziati ad una strana collaborazione che si muta insensibilmente in amicizia. Nonostante le difficoltà, con un po' di fortuna e l'aiuto di un somarello, i tre giungono presso le linee italiane. Nell'ultima insidia, un campo di mine, Ada, Tarasconi e l'asino moriranno sotto gli occhi impietositi dell'illustre prigioniero. Il film è una commedia che vuole anzitutto intrattenere. Ne sono protagonisti Tarasconi (Umberto Orsini), un soldato ignorante e affamato, che, per puro caso, cattura sul fronte carsico un generale austriaco (la star internazionale Rod Steiger), e Ada (Virna Lisi), un'attraente contadina costretta spesso ad “arrangiarsi” per sbarcare il lunario. Il soldato, deciso a consegnare il prigioniero nemico al quartiere generale di Udine, accetta l'aiuto della ragazza, entrambi attratti anzitutto (per non dire esclusivamente) dalla ricompensa che avrebbero potuto riscuotere. Un film, dunque, nel quale gli aspetti patriottici sono sovrastati dalla cupidigia e dall'interesse personale dei personaggi che, nel finale, verranno entrambi uccisi da una mina poco prima di raggiungere l'agognato obiettivo. Resta significativo il taglio ideale del film che può essere considerato in qualche modo imparentato con il modello antimilitarista proposto da La grande guerra, volando però assai più basso e delineandosi come un «grottesco bellico» dalle ambizioni forti, che cerca di fare opera di demistificazione nei riguardi della guerra senza però trovare un chiaro accordo tra la dimensione avventurosa, quella psicologica e quella della commedia.
due locandine del film Fräulein Doktor (Alberto Lattuada, 1968)
Durante la prima guerra mondiale, l'Intelligence Service cerca di neutralizzare Fräulein Doktor, una spia al servizio dei tedeschi che, dopo aver rubato ai francesi la formula di un terribile gas, è riuscita a far affondare nelle acque di Scapa Flow la nave che trasportava lord Kitchener, destinato a una importantissima missione bellica. Lo spionaggio inglese cerca di assicurarsi la collaborazione di Mayer, un collega della donna, e lo incarica di ucciderla. Però i servizi segreti tedeschi intervengono, salvano Fräulein Doktor e le affidano un nuovo incarico sul fronte belga: la sottrazione di alcuni piani militari determinanti per l'esito della guerra. Fräulein Doktor compie la sua missione con successo, ma la sua presenza comincia a essere troppo ingombrante per il comando tedesco... Con questo film Alberto Lattuada crea quello che consideriamo (ben consapevoli del diverso - e assai meno rimarchevole - giudizio attribuito alla pellicola da alcuni critici) uno dei più bei film, non solo di genere, sulla guerra del ‘14-‘18. Lavoro dal forte stile visivo, di «bellezza austera e severa» e di «raffinata classicità», svolge con «secchezza storica», su piani simultanei, il racconto delle vicende di Elizabeth Schragmüller (spia tedesca realmente vissuta, operante nel corso della Grande Guerra con lo pseudonimo di "Fräulein Doktor"), fornendo allo spettatore la «didascalità» della Storia, il sentimento moderno del «fatto», l'atroce ambiguità insita nella narrazione di una guerra. Rilevante in tal senso è la sequenza contrassegnata dal riso convulso della donna-spia alla notizia della morte del suo collega, che mostra molto realisticamente la ferocia della contesa bellica; concetto ribadito anche nelle scene finali del film, costruite con eccezionale realismo e perizia tecnica, riprendenti la battaglia di Ypres, con le truppe tedesche che attaccano l'esercito alleato con i gas asfissianti. E' un film «fulgido» dalla «grazia feroce, proterva, di chi non teme l’ombra dei compromessi», non inferiore almeno a quello di George W. Pabst Mademoiselle Docteur sullo stesso personaggio del ’37, a cui fa anche riferimento nella tragica battaglia di Ypres, in cui per la prima volta nella storia vennero impiegati dei gas asfissianti, come ai cavalieri teutonici di Ejsenstein.
I recuperanti (Ermanno Olmi, 1970)
Gianni, finita la guerra, torna al suo paese, dopo aver partecipato alla campagna di Russia. Molte cose sono
cambiate anche in quel villaggio di montagna: i giovani se ne vanno all'estero a cercare lavoro e suo fratello minore sta per partire per l'Australia; suo padre si è risposato e la casa gli è estranea. Solo Elsa, la fidanzata, lo ha atteso, ma per loro due sembra non vi sia avvenire perchè Gianni non ha un posto nè egli ha intenzione di lasciare la sua terra. Con altri uomini si mette a fare il taglialegna, abusivo, ma la legge li ferma. Una sera Gianni incontra un vecchio, chiamato Du, che vive solitario e felice fra le montagne, il quale gli prospetta la possibilità di un buon guadagno. Si tratta di recuperare i residuati della prima guerra mondiale sparsi in quantità sulle montagne: la vendita del materiale ai grossisti che vengono dalla città porta un discreto guadagno. Dapprima scettico ed esitante, Gianni segue le operazioni del vecchio più per fare qualcosa che per convnzione. Poi, affezionatosi a lui e trascinato dal lavoro e dal guadagno si appassiona e ne parla ad Elsa: ma questa non accetta questa soluzione poichè non vuole vivere con il timore continuo di un incidente. E infatti un giorno alcuni giovani "recuperanti" muoiono per lo scoppio di una bomba: il fatto colpisce Gianni che segue il suggerimento di Elsa e va a lavorare in un cantiere edile che si è aperto nella zona lasciando Du di nuovo solo. E' una storia semplice che rende molto bene le atmosfere di un paese dell'altopiano di Asiago subito dopo la seconda guerra mondiale. Personaggi reali, paesaggi stupendi, dura vita di montagna. Molto interessante anche perchè mostra dei luoghi dove la guerra è stata veramente combattuta ed ha lasciato segni profondi.
Uomini Contro (Francesco Rosi, 1970)
Nel corso della prima guerra mondiale, i soldati del generale Leone, dopo aver conquistato, lasciando sul terreno tremila caduti, una cima considerata strategicamente indispensabile, ricevono l'ordine di abbandonarla. Poi l'ordine cambia: occorre che la cima venga di nuovo tolta al nemico. Gli austriaci, però, vi si sono saldamente insediati e la difendono accanitamente con due mitragliatrici. Gli inutili assalti, nemmeno protetti dall'artiglieria, si susseguono provocando ogni volta una strage tra gli attaccanti. Stanchi di essere mandati al massacro da un generale tanto incompetente, quanto stupidamente esaltato, una parte dei soldati inscena una protesta: il generale Leone ordina, come risposta, di punirli con la decimazione. Costretti ad uccidere o ad essere uccisi da uomini come loro, vittime dello stesso mostruoso ingranaggio, i soldati italiani, in gran parte ex contadini, rivolgono la loro fiducia a quei pochi ufficiali - come i tenenti Ottolenghi e Sassu - che giudicano quella e tutte le guerre come inutili stragi. Ma il primo muore, nel tentativo di impedire il massacro dei suoi uomini, mentre Sassu viene condannato alla fucilazione per essersi opposto a un ordine iniquo di un suo superiore.
Uomini contro è una pellicola fondamentale, un'opera che vuole anzitutto dissacrare una certa immagine retorica della Grande Guerra, riportandone in primo piano l'assurdità e l'orrore. La storia, liberamente tratta dal celebre diario di Lussu Un anno sull'altipiano, racconta la presa di coscienza del giovane tenente Sassu, interventista della prima ora, che in seguito matura, attraverso il contatto con i fatti reali dei combattimenti, tra il 1916 e il 1917, una viva opposizione alla guerra. Nelle scene finali, il film si solleva a toni di grandiosità tragica, evocando la follia bellica tramite diverse sequenze di grande effetto emotivo. Rimasta nella memoria collettiva quella che evidenzia la demenza dell'ottuso maggiore Melchiorri il quale, in preda all'ira e all'esaltazione guerresca, ordina immotivatamente la decimazione dei suoi uomini nel corso di una battaglia. Il film termina poco dopo, con la fucilazione del tenente Sassu, reo d'essersi rifiutato d'eseguire l'ordine del Melchiorri, causando la rivolta dei soldati e la conseguente uccisione del maggiore. In questa scena il sacrificio del giovane assume una dimensione epica, con la sua figura che giganteggia vincente in primo piano sul plotone di esecuzione, relegato sullo sfondo.
Il Sergente Klems (Sergio Grieco, 1971)
Klems, un giovane ufficiale tedesco viene fatto prigioniero nel 1918 durante la battaglia di Artois. Per scampare alla morte, cambia la propria divisa con quella di un francese morto e viene mandato in Marocco nella legione straniera. Fatto prigioniero dai marocchini, diserta e decide di combattere al fianco dei ribelli contro i dominatori spagnoli. il film è parte di questa rassegna in virtù dei soli primi nove minuti di pellicola, che rappresentano un piccolo gioiellino incastonato in un film per il resto non troppo originale. La storia principale, ambientata negli anni Venti, ha infatti un preambolo nel 1918, nel corso di una battaglia della Prima guerra mondiale, nell'Artois, quando un ufficiale tedesco, fatto prigioniero dai francesi, scampa alla fucilazione indossando la divisa di un avversario caduto e prendendo l'identità di un soldato della legione straniera, quel Klems che dà il titolo alla pellicola. Interessante la ripresa "a mano" di questa drammatica sequenza in bianco e nero, osservata nella sua interezza attraverso lo sguardo angosciato del protagonista, che vaga inquieto per il campo di battaglia devastato. A questo punto il film diviene a colori e la vicenda si sposta nello spazio e nel tempo, trasportando d'amblais lo spettatore in Marocco, a Guercif, nel 1924. Viene dunque intessuta una trama avventurosa abbastanza godibile ma non particolarmente approfondita, nella quale Klems diserta, decide di sposare la causa dei ribelli contro i dominatori spagnoli e viene infine catturato, processato per diserzione, alto tradimento e spionaggio, e condannato alla fucilazione, pena poi commutata all'ergastolo a vita alla Guyana.
La sciantosa (Alfredo Giannetti, 1971)
Durante la seconda guerra mondiale, Flora Bertuccelli è una matura cantante del café-chantant. Quando le viene proposto di esibirsi davanti ai soldati impegnati al fronte, Flora la considera una valida opportunità per dare una svolta alla sua carriera e vi si getta con entusiasmo. Al suo arrivo, viene accolta da Tonino Apicella, un giovane soldato che da civile era un musicista e che è stato scelto, insieme ad altri, per accompagnarla nelle sue esibizioni. Quando sale sul palcoscenico, però, Flora si trova davanti a soldati mutilati, feriti e stanchi e, commossa, rifiuta di intonare la marcia militare e inizia a cantare "'O surdato 'nnammurato". Lo spettacolo viene interrotto da un bombardamento nemico e Flora e Tonino corrono a mettersi in salvo. La mattina successiva, la coppia sale sull'automobile del comandante, ma sopraggiunge un nuovo bombardamento e Flora d'istinto fa scudo con il suo corpo a quello di Tonino...
La sciantosa è un film per la televisione, trasmesso il 26 settembre 1971 all'interno del ciclo Tre donne, narra la vicenda di Flora (la "sciantosa" del titolo, come venivano chiamate nel teatro napoletano le cantanti di caffè concerto), focosa e sboccata diva in declino, non più giovanissima, dal carattere ardente tagliato sulle caratteristiche recitative della grande Anna Magnani: un insieme di megalomania, vittimismo e volgarità popolaresca, ma anche di fragilità, candore, vigore e umanità. L'incontro con il dolore e i drammi della Prima guerra mondiale, cui viene in contatto nel corso di una tournées per i soldati impegnati al fronte, le provocano una profonda conversione interiore culminante nell'estremo sacrificio quando, mentre stava tornandosene a casa accompagnata dal soldato Tonino Apicella, interpretato da un giovane Massimo Ranieri in grande vena, fa scudo col suo corpo ai colpi di mitraglia indirizzati alla loro auto da un aereo nemico, restando uccisa. Il film di Giannetti è forse un po’ semplicistico nell'affiancare il superficiale mondo del varietà a quello brutale del conflitto, ma risulta molto commovente e sincero: la sequenza del canto di «‘O surdato ‘nnammurato» davanti alla platea dei giovani militari feriti, come la scena in cui Flora assiste i soldati morenti, rappresentano immagini che non si dimenticano facilmente .
fotogramma dell'episodio La piccola vedetta lombarda e locandina del film Cuore ( Romano Scavolini, 1973), da cui è tratto
Il terzo episodio del film
Cuore di Romano Scavolini, del 1973, trasferisce il noto racconto de La piccola vedetta lombarda, tratto dal testo di Edmondo De Amicis, dai giorni delle battaglie per l'unità d'Italia a quelli della Prima guerra mondiale, narrando la triste storia di un giovane pastore che sale sul campanile di un paese abbandonato per ragguagliare una formazione sbandata di cavalleggeri italiani intorno a ciò che succede nelle zone limitrofe. Il piccolo eroe non viene intimorito neppure dalle pallottole nemiche finché, colpito, non precipita e muore.
Porca vacca (Pasquale Festa Campanile, 1982)
Guerra 1915-1918: Barbasini, un cialtrone cantante di balera, ce la mette tutta per farsi riformare, disposto a tutto, fino all'ignominia. Ma sembra proprio che la Patria non possa fare a meno di lui. Con il suo carico di paura e vigliaccate arriva al fronte ma più che gli austriaci, suoi nemici mortali diventano due dritti compari di truffe, Tomo Secondo e Marianna, due contadini che vivono la guerra arraffando. Per un bullo come Barbasini essere fregato da un burino è duro ma essere preso in giro da una ragazza è il colmo. Inizia la guerra privata. Due mondi si scontrano: quello che vive nelle balere e quello astuto dell'"agricolo", ma tra i due è la ragazza che muove i fili dei sentimenti e delle rivalità e delle gelosie: per lei non c'è disfatta, gioca da sola a vivere. Vince con gli italiani, con gli austriaci e con i due cuori teneri e sgomenti di Barbasini e del burino. Ma alla fine la crudeltà della guerra coinvolgerà anche lei: non le servirà più la civetteria, la furbizia: solo i sentimenti sopravviveranno. E' un film caratterizzato da una comicità ruspante, tipicamente lombarda: un bozzettismo caratteristico del regista e del genere (rappresentato assai bene da un attore come Renato Pozzetto), condito da risate grasse e qualche accento malizioso. Il tema della Grande Guerra viene così affrontato in chiave buffonesca ma non senza mordacità, con esiti antieroici e satirici lontanissimi dalla tradizionale retorica della guerra. La pellicola, non compresa dalla critica del tempo né dal grande pubblico, andrebbe probabilmente attentamente riconsiderata.
locandina e fotogramma del film Torneranno i prati (Ermanno Olmi, 2014)
Siamo sul fronte Nord-Est, dopo gli ultimi sanguinosi scontri del 1917 sugli Altipiani. Nel film il racconto si svolge nel tempo di una sola nottata. Gli accadimenti si susseguono sempre imprevedibili: a volte sono lunghe attese dove la paura ti fa contare, attimo dopo attimo, fino al momento che toccherà anche a te. Tanto che la pace della montagna diventa un luogo dove si muore. Tutto ciò che si narra in questo film è realmente accaduto. E poiché il passato appartiene alla memoria, ciascuno lo può evocare secondo il proprio sentimento. Tratto da un racconto il film esce in occasione del centenario della Prima Guerra Mondiale ma il regista vuole che vada in un senso diverso rispetto alle celebrazioni. "Ora celebriamo il centenario di quella guerra, con discorsi e bandiere, ma bisogna sciogliere ancora il nodo dell'ipocrisia e della vigliaccheria. Mi auguro che in queste celebrazioni si trovi il modo di chiedere scusa ai tanti soldati che abbiamo mandato a morire senza spiegare loro perché. Della prima Guerra Mondiale non è rimasto più nessuno di coloro che l'hanno vissuta e nessun altro potrà testimoniare con la propria voce tutto il dolore di quella carneficina. Rimangono gli scritti: quelli dei letterati e quelli dei più umili dove la verità non ha contorni di retorica". E' infatti ad un pastore, Toni Lunardi detto Toni il matto, che Olmi affida la frase che chiude il film "La guerra è una brutta bestia che gira il mondo e non si ferma mai".
La vittoria mutilataQuesta espressione venne coniata da Gabriele D’Annunzio, per definire ciò che l’Italia aveva ricevuto a seguito della Conferenza di pace di Parigi, a Versailles, in cambio di 500.000 caduti e di un milione di «mutilati». La delegazione italiana, guidata da Orlando e Sonnino, si presentò a Versailles con grandi speranze, dettate dal decisivo ruolo che l’Italia aveva avuto nella sconfitta degli imperi-centrali, ma ben presto ci si rese conto che il clima della conferenza di pace non era tra i più favorevoli: i nostri delegati, che si aspettavano, legittimamente, l’applicazione del trattato di Londra del 1915, si scontrarono contro l’ostruzionismo del presidente americano Wilson, poco propenso a riconoscere quanto era stato promesso al nostro paese ed, in particolare, l’annessione della Dalmazia e della città di Fiume, che, nel 1918, si era proclamata italiana. Di fronte alla fermezza di Wilson, Orlando e Sonnino, sdegnati ed irritati, abbandonarono i lavori, un gesto che ebbe conseguenze disastrose poiché, quando si trattò di decidere le sorti delle colonie tedesche, queste furono spartite tra le altre potenze, mentre l’Italia venne ignorata. Il regno di Vittorio Emanuele III si vide riconoscere il Trentino, l’Alto Adige, l’Istria e Trieste, ma non la Dalmazia e Fiume, che sarebbe stata occupata, nel 1919, con un colpo di mano, da una spedizione guidata da D’Annunzio, alla testa dei suoi legionari. L’umiliazione subita dai nostri delegati, a Versailles, creò, nel paese, già debilitato dalla crisi economica post-bellica, un clima di grande frustrazione e irritazione, alimentando la tesi della cosiddetta "vittoria mutilata", di un inutile sacrificio di morte e distruzione, vanificato dal tradimento delle altre potenze vincitrici. Ne sarebbe seguita una situazione di grande instabilità politica, caratterizzata da scioperi e proteste, in cui trovò terreno fertile, soprattutto tra i reduci, desiderosi di rivalsa, il partito fascista di Benito Mussolini, nella sua scalata al potere, culminata nella marcia su Roma del 1922, che diede il via al tragico ventennio.
Edited by drogo11 - 27/12/2020, 14:48