Le stronzate di Pulcinella

La storia d'Italia in celluloide (fra neorealismo, propaganda e satira)

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view post Posted on 18/12/2020, 04:48
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Un film è un documento storico? Può essere utilizzato come fonte per studi storici sul periodo o sull’evento che racconta, o sul momento storico nel quale è stato realizzato? Il cinema è documentazione storica fin dai primissimi film girati alla fine del XIX secolo. I film raccontano sempre due epoche. Una è quella in cui sono ambientati, il contesto storico in cui si dipana la trama. L’altra è quella in cui vengono realizzati. A volte le epoche coincidono, nei film di ambientazione contemporanea. A volte diventano tre. La storia d'Italia passa anche dai film e non solo dai film che la mettono in scena in modo esplicito, dai capolavori del neorealismo alle commedie all’italiana che catturano la realtà con la stessa puntualità di un reportage giornalistico. Ma anche da pellicole che sembrano parlare d’altro, come i film western terzomondisti e sessantottini o alcune serie televisive (Gomorra in primis) che usano la criminalità organizzata come specchio nemmeno tanto deformante di un’attualità politica sconfortante. Cinema d’autore e cinema popolare, film che vanno in profondità e pellicole che divertono in modo leggero ma alludono sempre a qualcos’altro, questa è l'Italia che potrete riconoscere in questi film, raggruppati in alcuni momenti particolari della storia patria e non sempre inseriti seguendo la cronologia degli eventi o di produzione, bensì quel filo logico che li accomuna.

1. Il Risorgimento

Senso (Luchino Visconti, 1954)

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Il migliore film mai fatto in tema risorgimentale. Melodramma sontuoso, tratto da una novella di Camillo Boito, su un amore matto e disperato, quello della contessa Serpieri (Alida Valli) che negli ultimi mesi della Venezia austriaca (siamo nel 1866) perde la testa, la ragione, la dignità, per un bel tenente austriaco carogna (Farley Granger). Da patriota diventerà traditrice dell’Italia. Finale incandescente e terribile con resa dei conti. Intanto, i piemontesi si avvicinano, ma la battaglia perduta a Custoza li fermerà. Anzi, il film si doveva chiamare proprio Custoza, ma non parve bello intitolarlo con una sconfitta. Comunque, nonostante Custoza, Venezia sarebbe passata lo stesso all’Italia, grazie alla guerra vinta dagli alleati prussiani contro l’Austria.

1860 (Alessandro Blasetti, 1934)

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Film celebrativo girato durante il Ventennio da un maestro del nostro cinema. Sceneggiatura nobile di Emilio Cecchi per un racconto epico ma anche fortemente realista che racconta la spedizione dei Mille non attraverso la figura centrale dell’eroe Garibaldi, ma attraverso alcuni personaggi laterali. Il giovane Carmelo viene mandato dai suoi compaesani siciliani, ansiosi di finirla con i Borboni, a Genova a incontrare Garibaldi e sollecitarlo a mettere in piedi una spedizione di reconquista della Sicilia. Così sarà, e al seguito dei Mille garibaldini Carmelo sbarcherà a Marsala e parteciperà alla battaglia di Calatafimi per poi riunirsi ai compagni. Molto meno di propaganda di quanto si possa pensare. Patriottico, ma non appiattito sulla retorica fascista.

La presa di Roma (Filoteo Alberini, 1905)

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Il film è una ricostruzione degli eventi e celebrazione storica della presa di Porta Pia, del 20 settembre 1870, momento fondante della nazione italiana. Suddiviso in sette quadri: 1. Il parlamentario Generale Carchidio a Ponte Milvio. 2. Dal Generale Kanzler – Niente resa!. 3. Al campo dei bersaglieri – All’armi!. 4. L’ultima cannonata. 5. La breccia a Porta Pia – All’assalto!. 6. Bandiera bianca. 7. Apoteosi.
Il viene proiettato nel piazzale di Porta Pia il 20 settembre del 1905, di sera, girato in quello stesso anno dal pioniere del film nazionale, Filoteo Alberini. Quest'opera segnò l’avvio dell’industria cinematografica italiana. L’opera fu realizzata da Alberini in vista delle celebrazioni dei 35 anni della presa di Roma da parte dei bersaglieri del Re.

Viva l’Italia (Roberto Rossellini, 1961)

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Per il centenario dell’Unità d’Italia – era il 1960 – in piena clima celebrativo si commissionò a uno dei maestri riconosciuti del nostro cinema, Roberto Rossellini, questo film sull’impresa garibaldina dei Mille, fino al ricongiungimento a Teano con Vittorio Emanuele e la fuga dei Borboni da Napoli. Solo che Rossellini sceglie volutamente un tono basso, non celebrativo, antieroico e antiepico, e ci presenta cronachisticamente la grande storia patria nel suo farsi quotidiano. I padri d’Italia sono visti come uomini qualunque alle prese con piccoli problemi qualunque. Garibaldi è un signore anziano e acciaccato che fatica a salire a cavallo. Non piacque per niente, né alle autorità preposte alle celebrazioni né al pubblico che disertò le sale. Non bastarono le scolarescehe obbligate a vederlo in massa a farne un successo. Me lo ricordo come uno spettacolo lento e qua e là anche piuttosto sciatto, con un Renzo Ricci-Garibaldi completamente miscast, e chissà perché quello che mi è rimasto meglio in mente sono i capelli rossi di Tina Louise, giornalista americana incaricata dal suo direttore di seguire l’impresa di quel visionario di Garibaldi. Oggi andrebbe rivisto, ammirandone soprattutto la sobrietà e il dimesso appoccio realista di Rossellini. Il regista aveva pensato inizialmente a un altro titolo per la pellicola: Paisà 1860, ma destò diverse polemiche e così fu cambiato poco prima della presentazione.

Il Gattopardo (Luchino Visconti, 1963)

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Dal romanzo postumo (1958) di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: mentre nel 1860 Garibaldi e le sue camicie rosse avanzano in Sicilia, Tancredi, nipote del principe don Fabrizio di Salina, si arruola volontario e si fidanza, col consenso dello zio, con Angelica, figlia di un nuovo ricco. Dopo essere andato, come tutti gli anni, nella sua villa di campagna a Donnafugata, il principe dà un ballo nel suo palazzo di Palermo dove l'aristocrazia festeggia la scongiurata rivoluzione. Splendida e fastosa illustrazione del passaggio della Sicilia dai Borboni ai sabaudi e della conciliazione tra due mondi affinché "tutto cambi perché nulla cambi", è un film sostenuto dalla pietà per un passato irripetibile che ha il suo culmine nel ballo, lunga sequenza che richiese 36 giorni di riprese. Nel Gattopardo si racconta la storia di un contratto matrimoniale. La bellezza di Angelica data in pasto alla voracità di Tancredi. Ma Angelica non è soltanto bella; ella sa bene di che pasta è fatto un tale contratto di matrimonio, e l’accetta, anche se quello che a prima vista sembra dominare è soltanto un purissimo sentimento d’amore. E anche Tancredi non è soltanto cinico e vorace: riverberano in lui, già all’inizio della deformazione e della corruzione, quei lumi di civiltà, di nobiltà e di virilità che l’immobilità feudale ha cristallizzato e cicatrizzato senza speranza di futuro nella persona del principe Fabrizio. Dietro il contratto matrimoniale di Angelica e Tancredi si aprono altre prospettive: quella dello Stato Piemontese, che nella persona di Chevalley viene quasi a far da notaio e a mettere il sigillo al contratto; quella della nuova borghesia terriera, che nella persona di don Calogero Sedara richiama il duplice conflitto dei sentimenti e degli interessi quale Verga lo delineò in modo memorabile in Mastro Don Gesualdo, ch’io considero il più autentico progenitore del sindaco di Donnafugata; quello dei contadini, oscuri protagonisti subalterni e quasi senza volto, ma non per tanto meno presenti; quella della sopravvivenza contaminata, anacronistica, ma cionondimeno ancora operante, delle strutture e del fasto feudali, colti a mezzo tra la stagione della loro inarrestabile decadenza e l’intromissione nel loro tessuto di corpi estranei (don Calogero, gli ufficiali piemontesi, gli stessi garibaldini) che, ieri respinti, vengono oggi sopportati e assimilati.

Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato (Florestano Vancini, 1972)

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Il primo film revisionista della spedizione garibaldina e, per estensione, di tutto il Risorgimento. Erano gli anni post-68 e, nella generale ridiscussioni di valori, gerarchie e idee, si revisionò anche l’immagine consegnata ai libri di storia dell’Unità d’Italia. A Bronte, città dell’interno catanese alle falde dell’Etna, nella Sicilia appena conquistata-liberata da Garibaldi, ci fu una rivolta contadina contro il nuovo potere, ci furono saccheggi e sedici uomini vennero uccisi. Il Generale mandò Nino Bixio come suo plenipotenziario incaricandolo di rimettere ordine. E ordine fu. Pocesso ed esecuzioni capitali, alcune palesemente ingiuste come sarebbe emerso da ricerche storiografiche successive. Bronte ci avverte che il Risorgimento non fu innocente. Si può essere più o meno d’accordo con questa re-visione, ma il film di Vancini va riconosciuto come una robusta ricostruzione, anche se faziosa, di una pagina fino ad allora oscurata di storia patria. Il film, girato in esterni a Sveti Lovrec (San Lorenzo) in Croazia con la partecipazione alle riprese della popolazione locale, trae ispirazione da una novella di Giovanni Verga.

Camicie rosse (Goffredo Alessandrini, 1952)

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Grande affresco nazional-popolare con malcelate ambizioni gramsciane-lukacsiane di lettura della Storia, come voleva la politica culturale picciista di allora. Dirige Goffredo Alessandrini, regista del ventennio autore di film di propaganda del regime come Luciano Serra pilota e Giarabub ma prontamente smarcatosi nel dopoguerra dal suo passato, e trova sul set come protagonista assoluta nella parte di Anita Garibaldi la ex moglie Anna Magnani, nel frattempo diventata la Grande Attrice Italiana. La Magnani si impossessa letteralmente del film (interviene anche sulla sceneggiatura) e lo trascina a sè espopriando il protagonista Raf Vallone, che è Garibaldi. Di lui il film racconta il tentativo, dopo il fallimento della mazziniana repubblica romana del 1849, di dirigersi con un manipolo di fedelissimi verso Venezia nel tentativo di appiccare lì il fuoco insurrezionale e patriottardo. Ma lo inseguono borbonici e austriaci, a Ravenna muore Anita, ed è costretto a rinunciare all’impresa. Il film, pencolante tra patriottismo (tendenza destra) e populismo (tendenza sinistra), è uno spettacolone riuscito solo a metà. Ma la storia della sua realizzazione è straordinaria e più interessante dello stesso film. C’è Alessandrini che, come si è detto, ritrova sul set la ex moglie Magnani. Ma a un certo punto per motivi misteriosi lascia il set e viene sostituito per le scene che ancora mancano dall’assistente alla regia Francesco Rosi, un ragazzo che si sarebbe fatto valere. E a trasformare il film in qualcosa di leggendario c’è anche Luchino Visconti che interviene a girare la morte di Anita. Firmano la sceneggiatura Sandro Bolchi, Renzo Renzi e Enzo Biagi! Straculto. Anche conosciuto come Anita Garibaldi, a rimarcare la centralità del personaggio della Magnani.

Arrivano i bersaglieri (Luigi Magni, 1980)

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Roma è ormai caduta nelle mani delle truppe di Vittorio Emanuele. È il 20 settembre 1870, attraverso la breccia di Porta Pia sciamano i bersaglieri. È la fine del potere temporale del Papa. In un palazzo nobiliare c’è il patriarca Don Prospero (Ugo Tognazzi), fieramente antisavoiardo, che non sa che il figlio si è però arruolato di nascosto nei bersaglieri. Intrighi, amori e passioni si mescolano agli avvenimenti che stanno cambiando la faccia di Roma da papalina a italo-piemontese, c’è chi rimane ancorato al passato e chi se ne smarca pensando al domani. Un gioco che coinvolge la moglie di Don Prospero, Olimpia (Ombretta Colli: cult!) e Don Alfonso (Vittorio Mezzogiorno), ufficiale borbonico a Roma per combattere i piemontesi e che ora si ritrova sconfitto e bisognoso di riposizionarsi nella nuova Italia. Godibile, anche se non all’altezza dei capolavori di Luigi Magni.

Noi credevamo (Mario Martone, 2010)

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Accolto con molto scetticismo alla Mostra di Venezia del 2010, si è rivelato invece inaspettatamente un buon successo al box office. Tre ore in cui, grazie anche a un’ottima sceneggiatura, si riescono a raccontare decenni di storia risorgimentale senza annoiare, tenendo conto soprattutto del punto di vista del Sud rispetto al grande processo di unificazione nazionale. Tre amici del Cilento salernitano, disgustati dal dominio borbonico, passano alla carboneria e relative congiure. Il film si dipana seguendo i loro destini e inglobando man mano altri pezzi di storia patria (le molte rivolte mazziniane abortite, la diaspora in Europa di di tanti patrioti, la discesa in campo del Piemonte, le spedizioni garibaldine) fino a che Unità d’Italia è fatta, anche se a costo di molte delusioni e speranze tradite. L’ultima parte, mettendo in scena la repressione post-unitario del brigantaggio meridionale da parte dei soldati venuto dal Nord, sposa certa vulgata corrente secondo cui il Piemonte si comportò da conquistatore e da colonialista nei confronti del Sud, e che forse lì si stava meglio quando si stava peggio, cioè sotto i Borboni. Ma sono incrinature che non lesionano un film bello e importante, benissimo recitato da un gruppo di attori perfetti nei loro ruoli.

Allonsanfàn (Paolo e Vittorio Taviani, 1974)

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È finita l’avventura di Napoleone, che tante speranze di cambiamento aveva acceso in Europa. Il Congresso di Vienna ha riportato il vecchio ordine, la Rivoluzione e Bonaparte vengono rimossi, è Restaurazione. L’aristocratico lombardo Fulvio Imbriani, già ufficiale napoleonico, torna a casa dalla prigionia in Austria e deve fare i conti con le disillusioni, la fine dei sogni e delle utopie. Ma non tutto è spento. I compagni di una setta segreta lo convincono a unirsi a loro in una spedizione al Sud che mira a innescare una rivolta contro i Borboni. Sarà un massacro. Ricorda, questo film di Paolo e Vittorio Taviani, i tentativi insurrezionali nel Meridione dei fratelli Bandiera e più tardi di Carlo Pisacane. La rievocazione di quel clima e di quei giorni è in Allosanfàn figurativamente, visivamente perfetta. Ottimo cinema, quello dei Taviani, anche se dimenticato e finito nel cono d’ombra. Qui c’è un cast stellare, a partire dal protagonista Marcello Mastroianni, però troppo maturo per il personaggio e decisamente miscast. E poi Lea Massari, Mimsy Farmer, Laura Betti. Allosanfàn, italianizzazione dell’inizio della Marsigliese, è il nome dato al protagonista dai suoi compagni. Trascinante e giustamente celebre la marcia “Rabbia e Tarantella” di Ennio Morricone, ripresa pure da Tarantino in Inglorious Basterds (ma tutta la colonna sonora di Morricone è una meraviglia).

Ferdinando uomo d'amore (Memè Perlini, 1990)

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In un remoto castello siciliano – siamo nel 1869 – vive una baronessa che in spregio al nuovo potere venuto dal Piemonte, potere che lei nostalgica borbonica odia con tutte le forze, continua a parlare solo in lingua napoletana rifiutandosi di pronunciare anche una sola parola di italiano, lingua degli invasori. Intorno a lei si muovono la serva Gesualda e il prete del paese. Finchè non irrompe nelle loro vite il giovane, tenebroso, bello e demoniaco Ferdinando, destinato a far innamorare tutti e a sconvolgere gli equilibri preesistenti. Tratto da un dramma di Annibale Ruccello, il commediografo napoletano che nei pochi anni della sua esistenza riuscì a scrivere alcune memorabili pièces, il film – attraverso la figura di Ferdinando che tutto rivoluziona – allude non solo all’eros e alla sua carica sovvertitrice, ma anche agli sconvolgimenti che gli stranieri piemontesi portarono al Sud. Memorabile Ida De Benedetto, torva baronessa borbonica che non vuole parlare italiano.

Un garibaldino al convento (Vittorio De Sica, 1942)

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Importante, se non altro perché è uno dei primissimi film – il quarto per l’esattezza – di Vittorio De Sica regista, fino ad allora più famoso come attore brillante e star del cinema dei cosiddetti telefoni bianchi. Una commedia con tenui increspature drammatiche in cui la Grande Storia è vista attraverso le piccole vicende di due ragazze che scoprono un garibaldino ferito rifugiato nel loro collegio, lo curano, lo proteggono dai borbonici in attesa che arrivi l’amico Nino Bixio a salvarlo, naturalmente una se ne inamorerà. Un piccolo film perfetto, già con l’inconfondibile grazia di De Sica. Con Leonardo Cortese e Carla Del Poggio e Maria Mercader, futura seconda moglie di De Sica.

Piccolo mondo antico (Mario Soldati, 1941)

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La ricca nonna marchesa che vive sul lago di Lugano (sponda italiana della Valsolda) è un’austriacante dura, che vede di malocchio i ragazzi patriottardi che vogliono unirsi ai piemontesi e liberare il Lombardo-Veneto. Solo che il nipote Franco è proprio uno di quei patrioti, oltretutto sposa Luisa contro i voleri della potente nonna, e viene diseredato. Seguono drammi e melodrammi familiari, intrecciati all’Italia che si va formando tra battaglie, repressioni e cospirazioni. Tratto da un classico di Antonio Fogazzaro, il film di Mario Soldati è una meraviglia, strepitosamente fotografato, girato con gusto squisito e gran cultura, e certe scene, come l’ascesa al santuario sotto la pioggia, sono indimenticabili. Con Alida Valli e Massimo Serato gran coppia di protagonisti. Forse il film risorgimentale che amo di più insieme, a Senso, che peraltro molto deve a Piccolo mondo antico (a partire dall’attrice protagonista).

Le cinque giornate (Dario Argento, 1973)

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L’unica escursione di Dario Argento fuori dai recinti del thriller-horror, e già questo lo rende memorabile. Stravagante film che ricostruisce le cinque giornate di Milano anti-Radetsky attraverso due figure di popolani che un po’ assistono, un po’ partecipano senza capire, un po’ vengono travolti dagli avvenimenti. Ma l’intento – eravamo in pieno clima di contestazione quando fu girato il film – era quello di leggere quella rivolta antiaustriaca come un’anticipazione e parente stretta dei moti giovanili studenteschi del Sessantotto. La sceneggiatura è cofirmata addirittura da Nanni Balestrini, allora uno dei guru del pensiero e della cultura movimentista. Naturalmente il film sta tutto dalla parte dei due popolani – Adriano Celentano e Enzo Cerusico – contro i borghesi, anti o filoaustriaci che siano. Oggi indigeribile, col suo miscuglione di moti patriottici e lotta di classe, ma interessante come reperto d’epoca. Un Risorgimento come al cinema non s’era mai visto e non si sarebbe più visto.

Nell'anno del Signore (Luigi Magni, 1969)

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Nella plumbea Roma papalina del 1825, in piena Restaurazione, due carbonari sono condannati a morte. Intorno si affollano figure e figurine di quel mondo pontificio cristallizzato e fuori dal tempo, eppure sotterraneamente percorso da scosse di cambiamento. C’è il ciabattino dietro cui si nasconde Pasquino, fustigatore di costumi papali e non solo, ci sono gli uomini delle milizie pontificie, c’è la giudìa del ghetto, attraverso la quale capiamo parecchio di come erano trattati a quel tempo e in quella città gli Ebrei (il ghetto di Roma fu l’ultimo in Europa a essere abolito). Nell’anno del Signore fu l’esordio alla grande come regista di Luigi Magni, che piazzò questo suo primo film in testa agli incassi dell’anno. Un successo stellare, anche grazie agli interpreti: Nino Manfredi, Alberto Sordi, Claudia Cardinale, Enrico Maria Salerno, Robert Hossein.

Vanina Vanini (Roberto Rossellini, 1961)

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Il Senso di Roberto Rossellini, che purtroppo non ebbe la stessa fortuna del film di Visconti. Le analogie sono forti, anche qui c’è una storia tormentata di amore e tradimenti e sullo sfondo un’Italia in preda alla convulsioni patriottico-unitariste. Tratto da un racconto delle Cronache italiane di Stendhal, Vanina Vanini racconta di una nobildonna nella Roma papalina del 1829 che si innamora di un carbonaro rifugiatosi nel suo palazzo. Quando lui se ne parte per fomentare ribellioni e insurrezioni in quel di Ferrara, lei gelosa lo seguirà e, sentendosi trascurata dall’adorato rivoluzionario, denuncerà i suoi compagni onde averlo tutto per sè. Ma finirà malissimo, con lei sola e abbandonata e lui al patibolo. Meraviglioso melodramma che però non è nelle corde di Rossellini, il quale gira senza accensioni nel suo stile asciutto, rigoroso e minimale, per niente melodrammatico appunto. Ne esce qualcosa che oggi ci appare uno strano e sfuggente oggetto filmico, una specie di docu quasi antropologico sulla Roma pontificia, con un approccio simile a quello che lo stesso Rossellini avrebbe più tardi adottato in La presa del potere di Luigi XIV. Purtroppo allora fu un disastro. Annunciato come un capolavoro, a Venezia venne accolto da urla e sghignazzi, e Sandra Milo, che per puntare alla Coppa Volpi come migliore attrice non si era fatta doppiare, fu fischiata e sbeffeggiata e chiamata da allora Canina Canini. Le ci volle poi Fellini per uscire dal lazzaretto in cui i critici l’avevano confinata. Disastro epocale, uno dei più clamorosi e pittoreschi del cinema italiano. Ma il film è pur sempre un film di Rossellini, dunque merita di essere rivisto e riconsiderato al di là della cattiva fama che si porta dietro.

Il brigante di Tacca del lupo (Pietro Germi, 1952)

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Quel genio di Germi capì prima di tutti gli altri che il Risorgimento e l’Unità d’Italia potevano anche essere raccontati in un altro modo e da un altro punto di vista. Molto prima di Bronte di Vancini e di altri revisionismi cinematografici lui gira, 1952!, questo muscolare, epico film sul brigantaggio meridionale. Siamo nella Lucania post-unitaria del 1869, la regione è in fiamme, percorsa dalla ribellione antipiemontese, antistatalista, anche ambiguamente nostalgico-borbonica dei briganti. Da una parte c’è il capitano dei bersaglieri Amedeo Nazzari (un’icona, un monumento del nostro cinema popolare) che vorrebbe intervenire manu militari a sedare la rivolta e riportare l’ordine, dall’altra c’è il commissario ex borbonico Saro Urzì che invita al compromesso, alla mediazione, alla mano morbida. Il tutto girato con l’energia rabbiosa di Germi, che qui esplicitamente si rifà al western di John Ford. Grande film sul Sud e sul suo eterno scontento. Attuale, attualissimo.

Quanto è bello lu murire acciso (Ennio Lorenzini, 1975)

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Opera prima e unica di Ennio Lorenzini, regista che sarebbe scomparso nel 1982 in un incidente. Il film allora piacque molto, raccolse parecchi premi e ottenne anche un discreto successo nel circuito d’essai. Titolo preso da una ballata popolare del Sud riarrangiata da Roberto De Simone e che già stabilisce le coordinate in cui si inscrive la vicenda del film. Che è la spedizione del 1857 di Carlo Pisacane, del suo sbarco a Sapri con un manipolo di 300 uomini, con l’intenzione di attizzare la fiamma della rivolta antiborbonica. Finì tragicamente, come sappiamo. Pisacane e i suoi furono trucidati, prima che dalle milizie borboniche dalla popolazione locale. Anche perché della spedizione facevano parte un bel po’ di galeotti liberati a Ponza e prontamente arruolati da Pisacane, che anzichè suscitare entusiasmi patriottici terrorizzarono gli abitanti di Sapri. Lorenzini rilegge la vicenda con la sensibilità politica degli anni Settanta, l’epoca nella quale gira il film, e vede in Pisacane il leader di una rivoluzione contadina e popolare abortita, una sorta di Che Guevara mancato del Sud. Stefano Satta Flores è il protagonista.

Casa Ricordi (Carmine Gallone, 1954)

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Cavalcata lunga un secolo, l’Ottocento, della più famosa casa di edizioni musicali, dalla fondazione a Milano in era napolenica fino al primo Novecento con Puccini. Gran bella idea, che ci sonsente di vedere l’editore e i suoi musicisti all’opera, gente che di nome fa Donizetti, Bellini, Verdi. Proprio attraverso Verdi la vicenda di Casa Ricordi si intreccia con il Risorgimento. Patriota il musicista di Parma lo era al punto da musicare un’opera che alludeva all’oppressione degli italiani e alla loro riscossa, Nabucco, con quel Va’ pensiero che oggi molti vorrebbero come Inno nazionale (però l’orazione di Benigni a Sanremo pro-Mameli ha reso ancora più remota la possibilità di quanto già non fosse). Viva V.E.R.D.I. era diventato anche lo slogan degli anti-austriaci milanesi, acronimo per Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia. Dirige (il film) Carmine Gallone. Fosco Giachetti è Verdi, Paolo Stoppa è Giovanni Ricordi, Marcello Matroianni fa il tormentato Donizetti.

La pattuglia sperduta (Piero Nelli, 1954)

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Piccolo film semidimenticato. Un cult da recuperare. Un gruppo di soldati piemontesi si ritrova disperso dopo la guerra finita male del Piemonte contro gli Austriaci nel 1849 e vaga nel gelo, tra la nebbia e le risaie del vercellese cercando di ritrovare i propri compagni. Film scabro, rigoroso, di austerità tutta piemontese e giansenista, più bressoniano che rosselliniano, che in tutta evidenza vuol rileggere il Risorgimento mostrandolo attraverso la vita e il sacrificio degli ultimi, di chi sta in basso, dei soldati qualunque, che combattono e muoiono per una Grande Storia che passa al di sopra delle loro teste. Film antieorico e antiepico, con una forte intenzionalità politica (il regista e alcuni interpreti venivano dalla Resistenza). Film, anche, sul disorientamento e lo spaesamento, il che lo rende qualcosa di molto moderno. Prodotto da un giovane Franco Cristaldi, che poi sarebbe diventato uno dei costruttori del nostro grande cinema degli anni Sessanta. Musica composta appositamente per il film da Goffredo Petrassi, ed è un altro buon motivo per ritrovare La pattuglia sperduta.

Eran trecento… (La spigolatrice di Sapri) (Gian Paolo Callegari, 1952).

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Melodramma popolar-nazionale e nazional-popolare come usava in quei primi anni Cinquanta, dove il Risorgimento si mescola a passioni e amori contrastati. Ricostruzione molto, molto romanzata dello sbarco di Carlo Pisacane a Sapri nel 1857 e dei fatti che lo precedettero in terraferma, Eran trecento… vede il nobile lucano Volpintesta che lotta segretamente contro i Borboni, mentre la sua amata Lucia viene insidiata dal filo-borbonico Don Franco. Non resta che aspettare lo sbarco di Pisacane, per togliere di mezzo sopraffattori e soprusi, e fare giustizia e fondare un nuovo ordine: ma sappiamo come è andata a finire. Con Rossano Brazzi, allora star del cinema italiano e americano, Antonio Cifariello, Franca Marzi, Paola Barbara, Luisa Rivelli. Raro, quasi invedibile. Da confrontare con Quanto è bello lu murire acciso di Ennio Lorenzini del 1975, che tratta sempre di Pisacane, ma con un approccio agli antipodi del film di Callegari.

I Vicerè (Roberto Fenza, 2007)

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Il film che Roberto Faenza ha tratto nel 2007 dal grande romanzo tardo ottocentesco-verista di Federico De Roberto, anticipatore di molti temi che si ritroveranno poi nel più celebre Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Sotto la lente di De Roberto (e di Faenza) c’è la famiglia siciliana degli Uzeda, discendente dei vicerè di Spagna, colta nell’arco di tre generazioni, mentre intorno il destino della Sicilia e dell’Italia cambia. Si incomincia con la caduta dei Borboni, si finisce con un Uzeda trasformista che entra nel parlamento dello stato unitario. Poderoso affresco, quello di De Roberto, che Faenza riesce a restituire solo in parte. Ma il suo film è encomiabile per il coraggio con cui affronta temi desueti e trascurati nel cinema italiano di oggi. Frase da ricordare: “Ora che l’Italia è fatta dobbiamo farci gli affari nostri”. Con Lando Buzzanca nella parte del patriarca, più Alessandro Preziosi, Cristiana Capotondi, Guido Caprino e una ritrovata Lucia Bosè. Uscito nei cinema (e subito sparito), poi trasmesso da RaiUno in due parti.

‘Il tamburino sardo’, episodio di ‘Altri tempi’ (Alessandro Blasetti, 1952)

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All’inizio degli anni Cinquanta Alessandro Blasetti gira questo film che diverrà la matrice di tutto il successivo cinema italiano a episodi, un format destinato a essere replicato infinite volte. Altri tempi si articola in otto episodi diversi (con un nono che li lega), tutti ispirati però alla novellistica italiana dell’Ottocento. Se Il processo di Frine, con una prorompente Gina Lollobrigida e un inarrivabile Vittorio De Sica (che nei panni di un avvocato conia per lei il termine “maggiorata fisica”), resta il più famoso, va ricordato qui Il tamburino sardo, riproposizione e illustrazione di uno dei racconti patriottici riuniti nel libro Cuore di De Amicis. La storia è nota: durante la prima guerra di Indipendenza del 1848 dei Piemontesi contro gli Austriaci, un ragazzino, arruolato come tamburino, viene inviato da una pattuglia rimasta isolata a Custoza a chiedere soccorso ai carabinieri stanziati a Villafranca. Nel corso della missione verrà ferito, riuscirà lo stesso a consegnare il messaggio ma dovrà pagare il suo atto di coraggio con l’amputazione della gamba. Con un giovanissimo Enzo Cerusico.

… correva l’anno di grazia 1870 (Alfredo Giannetti, 1972)

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Attenzione, c’è Anna Magnani, e con lei Marcello Mastroianni, un’accoppiata che vale la visione a prescindere. Uno dei quattro film che – idea meravigliosa, visti i risultati che ne derivarono – Alfredo Giannetti girò per conto della Rai nel 1972 per celebrare Anna Magnani, protagonista-mattatrice che da un film all’altro incarna quattro figure di donne in momenti cruciali della storia italiana. Stavolta siamo nella Roma 1870 ancora per poco papalina, mentre già i bersaglieri sono alle Mura e manca poco alla breccia di Porta Pia. Magnani, in un ruolo su misura per lei, è una popolana alla testa di una rivolta di donne che vogliono liberare i mariti, amanti, parenti detenuti nella carceri pontificie, molti per motivi politici. C’è anche Osvaldo Ruggeri, a quel tempo sentimentalmente legato alla Magnani.

In nome del Papa Re (Luigi Magni, 1977)

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Luigi Magni è il regista del nostro cinema che più tempo e passione (e film) ha dedicato alla Roma papalina e post-papalina, con le storie a intreccio di popolani, nobildonne, nobiluomini, prelati, carbonari e altri ribelli di vario tipo. Un vero e proprio genere cinematografico legato indissolubilmente al suo nome, e da lui aperto nel 1969 con Nell’anno del Signore. In nome del papa Re è, a detta di molti, il suo migliore insieme al capostipite Nell’anno del signore. Girato nel 1977, presenta un Nino Manfredi mattatore assoluto nei panni di un prelato nella Roma 1867 di Pio IX già minata da dissensi e attentati, e prossima al tracollo. Scoppia una bomba in una caserma di soldati francesi filopontifici, incomincia la caccia alla cellula rivoluzionaria che ne è responsabile. Don Colombo (Manfredi) scopre che uno dei ragazzi presi di mira dalla polizia è suo figlio, nato da una lontana relazione con un’aristocratica. I tentativi di salvare il ragazzo si mescolano a un ritratto della città in preda alle convulsioni di fine regime, con una repressione che sa essere ancora efficiente e feroce. Ma il film allude, con i suoi attentatori in clandestinità, anche all’Italia di quei violenti anni Settanta in cui venne girato.

In nome del popolo sovrano (Luigi Magni, 1990)

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Stavolta la Roma che Luigi Magni ricostruice sul set è quella della Republica mazziniana-garibaldina tra 1848 e 1849, quando i tanti patrioti accorsi si illusero che il potere temporale del Papa Re fosse finito per sempre. Ma intervennero i francesi, allora sostenitore di San Pietro, a spazzare via le speranze di cambiamento. Fu la primavera di Roma, e finì nel sangue e nella repressione. Il film, girato nel 1990, esibisce una folla di personaggi maggiori e minori, di protagonisti e figure collaterali, tutti divisi tra filorivoluzionari e nostalgici dell’alleanza di trono e altare. Domina il patriarca Alberto Sordi. Accanto a lui Luca Barbareschi e Elena Sofia Ricci. Nino Manfredi è il capopolo Ciceruacchio.

La Tosca (Luigi Magni, 1973)

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Più Victorien Sardou che Puccini, questo film che Magni gira nel 1973 e che è soprattutto un vehicle per la diva della commedia all’italiana Monica Vitti, qui ovviamente nel ruolo del titolo, mentre il pittore Caravadossi è un (allora) emergente Luigi Proietti. C’è nella vicenda, come i melomani ben sanno, un carbonaro antipapalino di nome Angelotti che, amico di Cavaradossi, inguaierà quest’ultimo e pure la povera Tosca che del pittore è innamorata persa. Finirà malissimo. Il potere pontificio e antirivoluzionario è incarnato dall’abietto Scarpia, manipolatore e ingannatore di Tosca, qui interpretato da un serpentesco Vittorio Gassman. Il film soffre di un’oscillazione non risolta tra il registro drammatico e quello della commedia, verso cui inevitabilmente lo porta la presenza di Monica Vitti.

Li chiamarono… briganti! (Pasquale Squitieri, 1999)

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Controverso, maledetto, oscurato film di Pasquale Squitieri del 1999 che, presentato a Venezia tra fischi e imbarazzi, ha avuto una breve uscita nei cinema per poi sparire definitivamente. Film che nel tempo ha acquisito lo status di culto, soprattutto tra i sostenitori del revisionismo risorgimentale, i neoborbonici, coloro che ritengono la conquista del Sud da parte dei piemontesi uno smacco e la definitiva rovina del Meridione. Perché Li chiamarono.. briganti sposa appieno queste tesi, senza se e senza ma, del resto Pasquale Squitieri lo conosciamo, non è regista di chiaroscuri e sfumature, lui taglia con l’accetta, niente vie di mezzo. E qui non brilla per sottili distinguo nel raccontare con afflato epico l’incredibile storia del lucano Carmine Crocco che, nel Meridione post-unitario, raccoglie i contadini insoddisfatti e sfruttati, li unisce a ufficiali borbonici, sanfedisti e nostalgici vari dell’ancien régime e muove militarmente contro gli occupanti piemontesi. Piaccia o meno Squitieri, si concordi o no con la sua posizione – tutta dalla parte di Crocco celebrato come eroe delle resistenza sudista contro i colonialisti venuti dal Nord – la storia raccontata dal film è formidabile. Si può eccepire, e c’è moltissimo da eccepire sullo stile approssimativo e rozzo di Squitieri, e sul suo livore antirisorgimentale. Ma non si può non seguire Crocco nelle sue imboscate, nelle battaglie, nella conquista di città e villaggi, nelle alleanze, nella sconfitta. Un film che non mi trova d’accordo, ma che difendo e che vorrei rivedere, almeno in tv, almeno in dvd. Con Enrico Lo Verso nella parte del brigante-capo Crocco, Claudia Cardinale, Franco Nero, Lina Sastri, Carlo Croccolo, E, motivo di straculto, con Roberta Armani, la nipote di re Giorgio e sua delfina. Doveva essere il suo lancio al cinema, rimase un episodio.

Anita. Una vita per Garibaldi (Aurelio Grimaldi, 2007)

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Chi l’ha visto? È un film clandestino, un film-samizdat, presentato in qualche proiezione random qua e là per l’Italia però mai uscito nelle sale e mai apparso in tv. Eppure qualcuno lo adora come un cult, et pour cause. Produzione italo-brasiliana del 2007, vede difatti alla regia quell’Aurelio Grimaldi che è il più pasoliniano di tutti i registi italiani in attività, quello che più cita l’estetica e la poetica, i temi e le passioni del regista di Accattone e dell’autore di Ragazzi di vita. Per intenderci, Grimaldi è quello che ha girato film radicali ed estremi di visioni sottpoproletarie, Le bottane, La discesa di Aclà a Floristella, Nerolio (tre episodi della vita e degli amori di un poeta-regista molto somigliante a Pasolini). Certo, è anche l’uomo che ha girato Il macellaio con Alba Parietti, ma con quel curriculum come si fa a non aver voglia di vedere la storia di Anita Garibaldi by Grimaldi?






(dal web)

Edited by drogo11 - 18/12/2020, 19:18
 
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La storia d'Italia in celluloide (fra neorealismo, propaganda e satira) - 2^ parte - L'avventura coloniale in Africa



colonialismo



L’avventura coloniale in Africa dell’Italia si concentra in due zone e due periodi ben distinti: alla fine dell’Ottocento nel Corno d’Africa (Eritrea, Somalia ed Etiopia) ed in Libia (1912); nel 1935/36 nuovamente nel Corno d’Africa (quelle che sono state chiamate le guerre coloniali fasciste).

Il Corno d'Africa
L’Italia si dedica alle guerre coloniali in ritardo rispetto agli altri paesi europei (soprattutto Inghilterra e Francia) perché fino al 1870 era stata impegnata nelle guerre per realizzare l’unità d’Italia. Quando volgiamo la nostra attenzione ai paesi africani "resta ben poco" e le terre più ricche sono già state accaparrate. Nel tempo le mire colonialiste italiane si svilupperanno verso due obiettivi principali: l'Africa Orientale e la Libia. L'avventura coloniale italiana in Africa trova origine quando, nel 1882, la compagnia genovese di navigazione Rubattino acquista i diritti di navigazione del porto di Assab per lo scalo delle proprie merci (sulle coste di quella che oggi è l'Eritrea). Poiche però il porto non si dimostra molto redditizio, la compagnia ne decide la vendita; si tratta di poche capanne in una zona assai umida. Il porto viene comprato dal Regno d'Italia che così acquisisce il suo primo territorio coloniale.
Quella che sembra essere il sogno di una facile conquista, subisce un brusco risveglio con il primo imprevisto: nel 1887, dalle zone costiere cerchiamo di entrare verso il centro della regione ma i nostri fortini, presso DOGALI, vengono assaltati e noi veniamo sonoramente sconfitti con la morte di ben 500 uomini: fu uno sconcerto e un'onta terribile (per la prima volta un esercito europeo veniva sconfitto da un esercito africano di popoli considerati sottosviluppati). Nonostante i vari tentativi di riprendere in mano la situazione, posti in essere negli anni successivi, nel 1895 gli Italiani partendo dall'Eritrea, superano l'altopiano e si spingono verso l'interno dell'Etiopia, conquistando temporaneamente ADIGRAT, MACALLE' e soprattutto l'importante città di ADUA (non sono comunque terre fertili, servono più che altro per aumentare la nostra fame di gloria!).
Nel 1896 arriva la controffensiva degli Etiopi che avanzano lentamente, anche per permetterci la fuga; comunque nella battaglia di Adua cadono più italiani che in tutte le guerre di indipendenza messe assieme (furono 1600 morti) Le guerre coloniali ottocentesche si concludono con questa guerra; la situazione è una situazione di stallo che andrà avanti fino all'avvento del Fascismo in Italia e la definitiva creazione dell'Impero, con la sua Africa Orientale Italiana, nel 1936.
L’impero coloniale italiano nel Corno d’Africa, comunque, non durerà a lungo perché durante la seconda guerra mondiale, gli Inglesi riconquisteranno la zona (1941 battaglia di Amba Alagi), scacciando gli Italiani e rimettendo sul trono Haille’ Selassie’ che, intanto, se ne era andato in esilio proprio in Inghilterra. Gli inglesi attaccheranno sia da nord (Sudan) che da sud (Kenya). Gli italiani, che sono impegnati su altri fronti europei, ormai sono mal equipaggiati e non riescono a difender le frontiere. Questa operazione si collega con le vicende più generali delle guerre africane nella zona del Nord Africa, che vedono coinvolti da una parte Italiani e Tedeschi, dall’altra gli Inglesi e, in un secondo tempo, anche gli Americani (operazione Torch).

Buona parte della produzione cinematografica legata alla conquista dei territori dell'Africa Orientale, si sviluppa in forma documentaristica, la cui produzione è andata quasi del tutto perduta. Tra il 1911 e il 1912 tutte le maggiori case di produzione italiane si impegnano a fondo nel tentativo di avvalorare la ragioni dell'intervento militare con la produzione di film a soggetto di vario genere, ma tutti mirati a sostenere più o meno esplicitamente la legittimità della guerra in corso. In alcuni casi il riferimento alle vicende belliche è diretto: sono ambientati nel teatro di guerra ed esaltano da un lato l'eroismo e il coraggio dei soldati italiani e dall'altro denunciano le angherie e i crimini dell'odiato nemico turco. D'altro canto la cinematografia italiana non mancherà di enfatizzare l'efferatezza degli Ottomani, proponendo sugli schermi vicende storiche del passato che testimoniano l'eterno conflitto tra l'occidente cristiano e l'impero turco. Quando poi, nel prosieguo del conflitto, risulterà evidente il sostegno all'esercito turco da parte di alcune tribù arabe di Tripolitania e Cirenaica, l'idea di giustificare la guerra in corso come l'inevitabile epilogo di un ancestrale scontro di civiltà si consoliderà ulteriormente. A suffragio di questa tesi vengono realizzati film dai toni esplicitamente razzisti che demonizzano la cultura araba e musulmana, spacciando il tentativo di colonizzazione italiana come una doverosa esportazione del progresso e della cristianità. La pianificazione propagandistica in favore della guerra prevede il coinvolgimento di tutte le classi sociali e di tutte le fasce di età e a questo scopo la cinematografia nazionale attua una disseminazione delle tematiche belliche anche nel genere comico e nella filmografia dedicata ai ragazzi. A partire dagli anni '20, inizia la produzione di film spesso legati all'aspetto propagandistico della nascente dittatura. La fiction in quegli anni si impegna a diffondere a livello di massa l’immaginario dell’Italia imperiale e fascista. Sono film ambientati in Africa (ovviamente ricostruita a Cinecittà) e ripropongono del continente un’immagine esotica, seduttrice, ma infida e pericolosa.

alcuni frammenti dei documentari dedicati all'esperienza italiana in Africa Orientale

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Jungla nera (L'esclave blanc) (Jean-Paul Paulin, 1934)

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Protagonista del film, ambientato come precisato dai titoli nella Somalia italiana, ai confini dell’impero del Negus, è il giovane Georges, fedele segretario di un attempato proprietario colono, rigido e malaticcio. Il vecchio viene raggiunto improvvisamente dalla giovane figlia Simone che, introdotta da Georges al fascino esotico della colonia, finisce ben presto per innamorarsi del prestante tuttofare. Quando il padrone scopre i due insieme, in uno scatto d’ira obbliga Georges a lasciare la piantagione. L’uomo, che frequenta familiarmente gli indigeni, si fa ospitare in una capanna dove vive una giovane coppia, formata da Nour e dall’attraente Faye. Prostrato dall’abbandono forzato di Simone, Georges trova consolazione tra le braccia di Faye, che lo segue in una capanna ai bordi del fiume, dove i due si sistemano, con l’aiuto di un bimbo del villaggio che chiude questa sorta di famiglia coloniale. Venuta a conoscenza della nuova vita di Georges, che ormai si è adattato allo stile di vita e alle abitudini della popolazione locale, Simone cerca inutilmente di dissuaderlo dal continuare a degradarsi, confondendosi con gli indigeni. Nel frattempo, il padre deve sedare una ribellione di nomadi, che mettono a ferro e fuoco i villaggi della regione e le sue piantagioni. Nour, che già una volta aveva attentato alla vita dei due fuggitivi, con l’aiuto di altri del suo villaggio rapisce la ex-compagna e la uccide, punendola per l’adulterio. Georges si avventura nel villaggio in cerca di vendetta ma viene circondato, legato a un albero e costretto ad assistere a una minacciosa danza dei pugnali destinata a terminarsi col suo sacrificio. Il bimbo adottato dai due, tuttavia, avvisa Simone del pericolo corso da Georges e la ragazza corre in suo soccorso, assistita dalla guardia indigena del padre, liberandolo. Ricompostasi, la coppia riprende le redini della piantagione, assicurandogli un prospero successo.


Il cammino degli eroi (Corrado d'Errico, 1936)

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Film documentario "ufficiale" sulla guerra d’Etiopia, fu premiato con la Coppa del Partito nazionale fascista alla Mostra del cinema di Venezia del 1936 come miglior film patriottico. Realizzato con spezzoni documentari dell’Istituto Luce e teso a dimostrare la superiorità tecnologico-militare dell’Italia, in realtà il lungometraggio mostra, più che la guerra, la fase preparatoria, lo sbarco delle truppe e infine l’operosa avanzata italiana in territori irrealmente vuoti e spopolati, dove l’operosa alacrità del nostro esercito costruisce strade, ponti e ferrovie. Gli africani fanno la loro comparsa soltanto nella scena finale: sorridenti contadini intenti a coltivare, assieme agli italiani, una terra finalmente "pacificata".


Il grande appello (Mario Camerini, 1936)

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Un italiano che ha da cinquanta anni lasciato la patria, per correre dietro all'avventura e alla ricchezza, è tenutario di un albergo a Gibuti. Qui, durante la guerra italo-abissina, riceve la notizia della morte di una donna da cui ebbe un figlio. Egli parte per raggiungere questo figlio che si trova in Africa Orientale, radiotelegrafista presso un cantiere in prima linea. Una volta in presenza del ragazzo gli offre di condurlo con sé a Gibuti per reggere la ricca azienda; ma il giovane comprende che il padre fa anche del contrabbando di armi in favore degli abissini e rifiuta energicamente, scacciandolo. Intanto avviene un improvviso assalto delle bande scioane che saccheggiano il cantiere e feriscono gravemente il giovane telegrafista. Il padre ritorna solo a Gibuti, sconvolto da quanto ha veduto. Poiché non può impedire il contrabbando, si unisce alla carovana che trasporta le munizioni e durante la battaglia, fa saltare il deposito sacrificando la propria vita e facilitando la vittoria italiana. Il Grande Appello faceva parte di una trilogia che va dal 1936 al 1938, composta da Sentinelle di bronzo e da Luciano Serra pilota. Erano tre film realizzati per celebrare la conquista dell’Etiopia da parte dell’Italia. Il progetto fu voluto da Luigi Freddi, direttore generale della cinematografia dal 1934.


Scipione l’Africano (Carmine Gallone, 1937)

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Tra i primi colossal prodotti in Italia, è sicuramente il più imponente per scenografie e scene di massa che impiegano, tra l’altro, 2000 cavalieri, 10.000 fanti e 30 elefanti. Concepito alla vigilia dell’aggressione all’Etiopia, il film celebra le conquiste dell’Italia fascista in Africa, facendone risalire le origini a quelle dell’antica Roma. Esplicito l’intento propagandistico che giustappone palesemente la figura di Publio Cornelio Scipione, mitico condottiero romano salvatore della patria contro i cartaginesi, a quella di Mussolini, fondatore dell’Impero. Nella scena finale l’eroe, facendo scorrere tra le mani il grano africano, afferma: «Buon grano e fra poco, con l’aiuto degli dei, ci sarà la semina», evocando così uno dei temi dell’autarchia, resa necessaria dalle sanzioni internazionali in seguito all’aggressione italiana all’Etiopia. Presentato a Venezia, dove ottiene la Coppa Mussolini per il miglior film italiano – doveva rappresentare agli occhi del regime la glorificazione del progetto imperiale di Mussolini, realizzando un perfetto parallelismo tra Impero romano e Impero fascista. Innanzitutto, l’Impero inteso come “pacificazione” e come vendetta per una grave sconfitta subita (Canne come Adua). In secondo luogo, la doppia faccia della politica coloniale fascista: espansionismo e imperialismo in politica estera; demagogia ruralista e demografica in politica interna (il grano, la famiglia). Infine, l’aspetto esotico della conquista, con connotazioni esplicitamente sessuali nell’immagine della regina numida Sofonisba che ammalia con la sua sensualità e che è insieme desiderata e disprezzata, come minaccia dell’istinto e dello stato di natura alla cultura e alla civiltà. Una presenza femminile che turba l’ordine imperiale, alla quale si può al massimo concedere, come a Cleopatra, l’onore di una morte fiera, da regina.


Luciano Serra pilota (Goffredo Alessandrini, 1938)

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Nel 1921 Luciano Serra, un reduce della Grande Guerra appassionato di aviazione, parte per l'America convinto di poter realizzare i suoi sogni, lasciando a casa del suocero la moglie e il figlio. Dieci anni dopo, Luciano non ha combinato nulla di buono, ma quando viene a sapere che suo figlio Aldo, ormai adolescente, vorrebbe entrare all'Accademia Aeronautica, si riempie di orgoglio e decide di tentare la rischiosa traversata dell'Oceano. Il volo però si rivela un fallimento e di lui si perde ogni traccia. Nel frattempo Aldo, diventato ufficiale, partecipa alla guerra d'Africa e, durante un'azione pericolosa, viene ferito ed è costretto a un atterraggio di fortuna in Abissinia. Sarebbe la fine se un valoroso aviatore, ormai anziano, non sacrificasse la sua vita per salvarlo. E Aldo non sa che dietro quel volto c'è proprio suo padre... Condensato di tutti i temi della mitologia fascista, il film fu proposto come argomento di riflessione nelle scuole italiane e Walter Molino ne curò la riduzione a fumetti. Certamente il film più efficace e riuscito della cinematografia fascista di propaganda coloniale, venne premiato con la Coppa Mussolini alla Mostra del cinema di Venezia del 1938.


Sotto la Croce del Sud (Guido Brignone, 1938)

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Un giovane ingegnere si reca nell'Africa Orientale Italiana per dirigere alcuni lavori di bonifica. Una equivoca coppia di levantini, che si è arbitrariamente installata nella concessione, per l'intervento dello stesso ingegnere ottiene la gestione dello spaccio. Ma la donna, con le sue esotiche seduzioni, porta il disaccordo nel gruppo di lavoratori italiani, mentre l'uomo si dedica allo smercio clandestino degli alcoolici. Dopo alcune peripezie e un tentativo di furto da parte del levantino, i due sono allontanati e l'ingegnere, che stava per cadere nella rete tesagli dalla donna, ritorna con animo sereno al lavoro. E' il film che mostra più apertamente il nesso tra discorso coloniale e discorso sessuale nel cinema fascista, in cui il regista fa interagire il riferimento ai generi cinematografici con un preciso discorso ideologico (la condanna del meticciato). Sotto la croce del sud punta alla spettacolarità e all’intrattenimento popolare attraverso il riferimento a generi cinematografici in voga e di stampo internazionale: il film avventuroso d’ambientazione esotica (la fattoria, la giungla, gli indigeni, le sabbie mobili, le miniere, i “pionieri” italiani) e il melodramma (la storia d’amore impossibile tra Paolo, un onesto colono, e Mailù, un’ambigua femme fatale). La barriera razziale si rivela nel film insormontabile, trasponendo sullo schermo in maniera simbolica l’orientamento sempre più razzista che il regime aveva assunto. Ma è la confusione razziale il pericolo più grave e più temuto, perché più difficile da definire e da controllare, e così il vero “nemico” nel film è rappresentato dall’identità birazziale di Simone e Mailù, personaggi negativi che dovranno espiare il proprio peccato originale.


Sentinelle di bronzo (Romolo Marcellini, 1939)

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Narrazione romanzata dell'incidente di Ual-Ual. Mentre l'esercito abissino avanza verso le cabile fedeli dell'Italia, il comandante di un fortino italiano, a conoscenza delle forze superiori del nemico, avverte i capi delle cabile stesse che si ritirino. Questi però non ubbidiscono e, travolti e razziati dalle truppe abissine, si rifugiano nel fortino. Il capitano deve allora sostenere l'impari lotta. In breve egli è al termine delle munizioni; ma l'eroismo di un sergente, che era stato incaricato di trasportarne un nuovo prelevamento, riesce all'ultima ora a rovesciare le sorti della battaglia che si conclude con la rotta degli abissini. Sentinelle di bronzo è l’unico film dedicato al valore delle truppe indigene al soldo italiano, che combattono eroicamente in un fortino assediato dagli etiopici, salvando il presidio e la popolazione civile bianca che vi si è rifugiata.


Abuna Messias (Goffredo Alessandrini, 1939)

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Prima di tornare di nuovo in Abissinia, il cardinale Massaia cerca di ottenere gli appoggi necessari dal governo piemontese. Benché il suo progetto suscita l'interesse del conte di Cavour, il Gabinetto non stanzia i fondi e il missionario parte ancora una volta da solo per l'Africa, affidandosi alla Provvidenza. Accolto alla corte del re Menelik, il cardinale inizia a organizzare la sua missione e a ramificare la sua opera benefica in tutta Europa. L'Abuna Atanasio, capo della Chiesa Copta, cerca in ogni modo di ostacolarlo e di ottenere la sua espulsione dal paese. Poiché però Massaia ha l'appoggio di Menelik, a Atanasio non resta che ricorrere all'imperatore facendo scoppiare una guerra intestina. Al cardinale non resta che lasciare l'Etiopia per far finire il conflitto, ma la sua predicazione non è stata vana... Attraverso la figura di Massaja emerge il ruolo pacificatore e civilizzatore dell’Italia in una terra infelice, arretrata e dilaniata da intrighi e lotte per il potere, una terra dove il dominio italiano è legittimato dall’alto livello culturale, politico e morale di cui è portatore.


Piccoli naufraghi (Flavio Calzavara, 1939)

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Durante la guerra etiopica, tredici ragazzi decidono di andare in Africa imbarcandosi clandestinamente su un mercantile. Ma, a causa della fitta nebbia, l'imbarcazione naufraga. Saliti su una scialuppa, i giovani riescono a raggiungere una piccola isola deserta, dove si organizzano in una piccola comunità in attesa di essere trovati. Dopo qualche tempo, sull'isola arriva un veliero e i membri dell'equipaggio incaricano i ragazzi di trasportare a terra delle casse, piene di armi e munizioni per gli abissini. Alla fine di un duro scontro, i giovani riescono a impadronirsi del veliero e a dirigersi verso l'Italia. Basato sull'interpretazione di 13 piccoli attori esordienti, è uno dei pochissimi film per ragazzi realizzato dalla cinematografia italiana degli anni trenta e risente del clima di propaganda legato all'invasione italiana dell'Etiopia; interessante esperimento del cinema del Ventennio, la cui storia anticipa in parte la vicenda de "Il signore delle mosche" di Golding.


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La Libia (un'invenzione italiana)
Tre province molto diverse: Cirenaica, Tripolitania e Fezzan. Molti non sanno che la Libia non è uno Stato al pari di molti altri dell'Europa. In realtà la Libia è più un agglomerato di tribù e culture differenti fra loro che uno Stato composto da una sola nazionalità: quest'ultimo, semmai, era l'obiettivo che si poneva di raggiungere Gheddafi, quando prese il potere nel 1969 con una rivoluzione.Storicamente la Libia nasce come "esperimento politico" del colonialismo italiano dopo che le tre province di Cirenaica,Tripolitania e Fezzan erano state strappate al dominio ottomano. Tre province, vissute ciascuna per conto proprio sotto il dominio turco,vennero improvvisamente aggregate in una sola colonia. Di queste tre province, fu la Cirenaica quella che diede effettivamente del filo da torcere al colonialismo italiano, al punto che Mussolini rischiò quasi di mandare in bancarotta lo Stato italiano a suon di operazioni militari, reticolati nel deserto e quant'altro. Venne anche usata l'iprite, in violazione degli Accordi di Ginevra che la stessa Italia aveva sottoscritto anni prima, e si calcola che almeno il 10% della popolazione libica d'allora sia stata trucidata.In effetti la Libia è una "terra di mezzo", a metà strada fra il Maghreb (composto da Tunisia, Algeria, Marocco) e l'Egitto. Storicamente e culturalmente, la Tripolitania è una propaggine della Tunisia, il Fezzan dell'Algeria e la Cirenaica dell'Egitto. Sono quindi due mondi diversi che gli italiani vollero fondere in uno soltanto.

Anche in Libia, l'avventura coloniale italiana si divide in due periodi storici: la conquista del 1911 - 1912 con le prime deportazioni e la riconquista fascista (1922 - 1932)

L'invasione della Libia avvenne alla fine del 1911 e si concluse nel 1912. Essa è ricordata con il nome di "guerra italo- turca" perchè le province della Tripolitania, della Cirenaica e il Fezzan erano in mano all'Impero ottomano ma che nella vulgata popolare è nota come guerra, o campagna, di Libia. La firma del trattato di pace di Losanna nel 1912 pose formalmente fine alla guerra italo-turca, ma non concluse affatto le ostilità. La guerra italo-libica proseguì sotto altre forme: non più un conflitto regolare tra due fronti, bensì una guerriglia. Le ambiguità contenute nel testo del trattato di pace, che lasciava all’impero ottomano la sovranità su Tripoli e consentiva all’Italia di fondare le proprie rivendicazioni territoriali sul diritto italiano, produsse l’effetto di consentire alla popolazione libica di considerare il sultano la propria guida spirituale e politica, nonostante l’occupazione italiana. Le resistenze mostrate dai libici, soprattutto in Cirenaica, raccolte attorno all’ordine della Senussia di Sayyid Ahmed ash-Sharif, proseguirono fino allo scoppio della prima guerra mondiale e, in parte, continuarono anche dopo la sua conclusione. Nel 1915, durante la «grande rivolta araba», gli italiani avrebbero perso tutti i territori conquistati ed avrebbero conservato soltanto alcuni porti, dopo una frettolosa e disperate ritirata che era costata diecimila morti.
Con l’avvento al potere del Fascismo un obiettivo dichiarato fu quello di “riconquistare la Libia”, in quanto dal 1915 (Grande rivolta araba) il possesso italiano si limitava ad alcuni porti sulla costa, mentre all’interno la guerriglia non ci aveva permesso di prendere pieno possesso della regione. Uno dei leader della guerriglia era Omar Al Mukthar. Obiettivo delle operazioni non fu solo la "pacificazione del paese", cioè la definitiva sottomissione delle tribù locali. Si voleva altresì scacciare le popolazioni dalle zone costiere onde far spazio ad insediamenti di coloni italiani». La ferocia e la preponderanza delle truppe italiane portarono nel 1931 alla cattura ed all'esecuzione di Al Mukthar. Con la sua uccisione e la deportazione di circa centomila persone in quindici campi di concentramento che secondo i vertici poloitico-militari italiani dovevano «ospitare» le popolazioni della Cirenaica che si erano dimostrate più vicine alla resistenza, la “pacificazione della Libia” poteva dirsi conclusa: iniziava il periodo di dominio fascista, che durò sino al 1942 quando, con le sconfitte militari della II guerra mondiale, l’Italia abbandonò definitivamente l’Africa.

La cinematografia dedicata a questa parte del colonialismo italiano è accomunata dalla necessità di ricreare l'identità italiana, sfruttando come trait d'union il mondo antico e il mito romano che in particolare svolgono un ruolo strategico rispetto alle aspirazioni nazionaliste di aristocrazia e borghesia in un momento in cui lo stato italiano di recente fondazione (nel 1911 si festeggia il cinquantenario dell’unità nazionale) coltiva ambizioni espansionistiche nel bacino del Mediterraneo. Ambizioni che raggiungono l’apice nella guerra italo turca che tra il settembre 1911 e l’ottobre 1912 vedrà impegnata l’Italia contro l’Impero Ottomano e che si concluderà con la conquista della Cirenaica e Tripolitania. Da qui l’interesse del cinema italiano per Cartagine e l’Africa settentrionale, ripreso nel periodo del Ventennio fascista. Il cinema di propaganda di quegli anni, aveva la lo scopo di plasmare le menti del popolo italiano, perché questo arrivasse a identificarsi con l’ideologia stessa del regime, creando quindi una realtà ed una coscienza univoca confluente nell'immaginario di massa dell'epoca. Nel contempo, l’impresa coloniale fascista viene esaltata come l’opera civilizzatrice del popolo italico nei confronti dei selvaggi etiopi, che grazie a noi, ricevono benessere e progresso. Con la guerra d’Etiopia del 1935-36 la produzione cinematografica, allineata agli imperativi politico-morali dell’imperialismo fascista e alle sue mitologie, s’impegna a sostegno dell’impresa anche se non si assiste al profluvio di opere realizzate in occasione del conflitto italo-turco. Del resto il precipitare degli eventi (la guerra civile spagnola, l’invasione dell’Albania e poi il secondo conflitto mondiale) avrebbero di lì a poco travolto il fascismo e, con esso, il sogno imperiale che aveva nutrito. Invero dopo l’entrata in guerra, il processo che porterà l’Italia a perdere tutte le sue colonie sarà così rapido e mortificante che la cinematografia dell’epoca non ebbe né il tempo né la voglia di occuparsene.


due frammenti di "Raggio di luce" (Episodio della presa di Tripoli) (Cines, 1911)

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Il film è ambientato a Tripoli dove una ragazza italiana, Maria, viene rapita e rinchiusa nell’harem di un ricco pascià fino a quando i marinai italiani, tra cui è arruolato il fidanzato della ragazza, sbarcano nella città africana. Il raggio di luce evocato dal titolo è quello delle navi italiane che appaiono di notte nel mare di Tripoli in una scena resa suggestiva dall’imbimbizione blu intenso. E dopo il tuonare dei cannoni, il finale è dedicato alla bandiera italiana che sventola vittoriosa: Maria viene liberata e Tripoli conquistata. Dal film traspare, inoltre, l’utilizzo della tematica religiosa nella propaganda che rappresentava la guerra anche come possibilità di espansione del cattolicesimo a discapito dell’islamismo.

La presa di Zuara (Luca Comerio, 1912)

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Il film narra uno degli ultimi episodi della guerra italo-turca, la conquista della città di Zuara, attraverso i suoi momenti salienti: lo sbarco sulla costa, avvenuto il 5 agosto 1912, l’avanzata dei soldati tra le dune, l’alzabandiera, la lunga marcia verso l’oasi nella quale si nasconde la città, l’occupazione e il rientro delle truppe vittoriose. E' ritenuto tra i film più rappresentativi e visivamente più belli fra quelli girati in quegli anni.


Cabiria (Giovanni Pastrone, 1914)

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Catana (Catania) III secolo a.C. L’eruzione dell’Etna provoca la distruzione della città. La piccola Cabiria, figlia di Batto, trova scampo sulla spiaggia con la nutrice Croessa. Ma pirati fenici le catturano e le portano a Cartagine. Cabiria, insieme ad altri bambini, sta per essere sacrificata al dio Moloch dal sacerdote Khartalo, ma viene salvata da Fulvio Axilla e dal suo schiavo Maciste. Denunciati dall’oste Bodastoret, presso la bettola del quale si erano rifugiati, i tre riescono a fuggire. Maciste consegna Cabiria a Sofonisba, figlia di Asdrubale e promessa sposa di Massinissa, re di Numidia, ma viene poi catturato e incatenato a una mola. Nel frattempo Annibale, il condottiero cartaginese, varca le Alpi, mentre Asdrubale stringe alleanza con Massinissa. Ma quando costui si allea con i romani, Sofonisba è costretta a rinunciare alle nozze. Passano dieci anni, Sofonisba ha sposato il re punico Siface e ora regna con lui su Cirta. Fulvio partecipa all’assedio di Siracusa, assiste alla distruzione della flotta romana ad opera degli specchi ustori di Archimede trova scampo a Catana, dove è accolto da Batto. Convinto che Cabiria sia ancora viva, Fulvio torna a Cartagine su una delle navi della flotta di Scipione, libera Maciste dalla mola e i due fuggono nel deserto, ma vengono fatti prigionieri, condotti a Cirta e qui imprigionati. Cabiria ormai è cresciuta ed è la serva favorita di Sofonisba, che l’ha ribattezzata Elissa. Asdrubale impone però alla regina di riconsegnarla a Khartalo affinché porti a termine il sacrificio per salvare le sorti di Cirta, ora assediata dall’esercito romano di Scipione. Ma ancora una volta Maciste salva Cabiria. Catturata di nuovo, è data per morta finché Sofonisba, prima di avvelenarsi, non confessa a Fulvio e a Maciste che la ragazza è viva. I tre, finalmente riuniti, si imbarcano per l’Italia; Cabiria e Fulvio si abbracciano, scoprendosi innamorati. Realizzato a Torino tra il 1913 e il 1914 da Giovanni Pastrone, Cabiria è senza dubbio il più celebre film del cinema muto italiano e uno dei grandi miti culturali del Novecento. Sotto molti aspetti viene considerata una pellicola che ha avuto un ruolo non secondarionel ridisegnare l’identità italiana, traslando la guerra in Libia nelle guerre puniche nel momento in cui il Regno d’Italia stava per entrare nella Prima guerra mondiale. Concepito nel 1912, durante e subito dopo la conclusione del conflitto con la Turchia, la scelta di collocare la narrazione all’epoca della seconda guerra punica presente ovvi punti di contatto con la vittoria italiana e la conseguente annessione delle colonie libiche. Si può dire quindi che Cabiria rappresenta l’apoteosi delle tendenze nazionalistiche del genere storico, anche per via della scelta di coinvolgere D’Annunzio. L’intreccio è infatti costruito sulla vittoria dell’antica Roma sulla Repubblica africana che le contendeva il dominio del Mediterraneo. Inoltre, i personaggi cartaginesi sono tutti caratterizzate in modo estremamente negativo.


Kif Tebbi (Mario Camerini, 1928)

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Ambientata alla vigilia della guerra italo-turca del 1911-12, è la storia di Ismail, arabo europeizzato che al ritorno in patria sperimenta la difficoltà del reinserimento nell’ambiente retrogrado e violento della Libia Ottomana. Anche il suo amore per Mnè è contrastato da un sultano alleato dei turchi che gli rapisce la fidanzata e la violenta. Alla vigilia dello sbarco italiano, che Ismail vede con favore, viene arrestato e recluso nel forte di Kassarmuth, ma il bombardamento del forte da parte degli italiani gli consente di fuggire e ritrovare Mnè: l’arrivo vittorioso degli italiani riesce a liberarlo restituendogli anche l’amore, mentre sul forte di Kassarmuth la bandiera con la mezzaluna viene ammainata per lasciare il posto a quella italiana.



La sperduta di Allah (Enrico Guazzoni, 1929)

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Tratto dal romanzo di Guido Milanesi del 1929, narra la vicenda di Neschma, araba libica che, dopo una burrascosa prima notte di nozze, fugge dalla casa dello sposo che le è stato imposto contro la sua volontà. Grazie alla legge islamica, Neschma ottiene il divorzio, ma non può contrarre altri matrimoni ed è costretta a vivere sola, per questo oggetto del disprezzo sociale (in tal senso è "sperduta"). L’incontro con l’italiano Ugo Albertenghi e la nascita di un figlio la riconsegna alla pienezza della vita, ma il padre di Neschma si vendica sul bambino, uccidendolo. Neschma allora denuncia il padre presso le autorità coloniali accusandolo di cospirazione anti-italiana. Questa catena di odi, di vendette e di delitti fanno comprendere ad Albertenghi la distanza che separa il suo mondo da quello islamico, al punto da indurlo a lasciare l’amante araba per sposare una donna inglese. La didascalia finale del film esplicita inequivocabilmente per lo spettatore il senso del racconto: «Lui ha finalmente capito che non poteva sposare una donna che non è della sua razza».


Lo squadrone bianco (Augusto Genina, 1936)

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Un ufficiale italiano cerca di sanare le proprie ferite d’amore facendosi trasferire nel deserto libico. Considerato un inetto dal suo Capitano avrà modo di dimostrare il proprio valore combattendo la ribellione araba, riuscendo così anche a fortificare il proprio carattere e a ‘sposare’ la causa coloniale. Il film viene finanziato dal governo perché esalti, in coincidenza con la guerra d’Etiopia, il valore e l’impegno civilizzatore italiano. La forza de Lo squadrone bianco sta tutta nella sapienza con cui Genina lavora per sottrazione e per astrazione, costruendo un dramma che dagli stilemi noir iniziali si trasforma in un film epico sulla forza redentrice del deserto. Genina oppone spazialmente e simbolicamente due mondi: la decadenza del bel mondo femminile, urbano e alto borghese (rappresentato dalla fidanzata del protagonista), e la rigenerazione offerta dal deserto e dalla vita coloniale fatta di dovere, sacrificio e cameratismo maschile. Una contrapposizione resa da una serie di opposizioni dialettiche che danno una forma circolare al film: notte/giorno, interno/esterno, buio/luce, mondo femminile/mondo maschile, città/deserto, amore passionale/amicizia virile. Lo squadrone bianco riprende il topos della legione straniera (una delusione amorosa che conduce il protagonista verso terre lontane) e lo porta all’eccesso, mostrando la sublimazione della passione amorosa attraverso la redenzione offerta dalla conquista coloniale. La struttura simbolica del film narra in realtà una doppia storia di passione, morte e resurrezione: simbolica per il tenente Ludovici (che seppellisce il suo passato e rinasce a nuova vita attraverso le prove affrontate nel deserto) e reale per il capitano Santelia (che veglia “paternamente” sulla redenzione del giovane compagno, cui lascerà in eredità con la sua morte un esempio eroico da seguire). Una storia d’amore virile in terra coloniale, accentuata dall’astrazione con cui viene raffigurata l’idea del nemico, quasi più interiore che realmente esistente.


Bengasi (Augusto Genina, 1942)

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Racconta quattro storie di dolenti eroismi privati durante l’assedio britannico a Bengasi controllata dai soldati italiani. Girato a Cinecittà durante la guerra e con mezzi notevolissimi, nonostante le palesi esigenze propagandistiche, il film sembra tentare anche un’onesta riflessione, priva di ogni forma di spettacolarità, sul significato della guerra. Il film si conclude con le truppe italiane che rientrano nella città abbandonata dagli inglesi, ma, per ironia della sorte, quando venne proiettato nelle sale italiane, Bengasi era nuovamente in mano inglese e l’Italia aveva perduto le sue colonie. Il film ebbe un’accoglienza alquanto fredda, nonostante recensioni positive e due premi a Venezia (la Coppa Mussolini per il miglior film italiano e la Coppa Volpi a Fosco Giachetti, come migliore attore), anche perché uscì nelle sale quando la città era ormai stata riconquistata dagli inglesi. Ma l’aspetto più interessante di Bengasi è l’attenzione del regista per le figure femminili, come sottolineato dal cartello iniziale del film, dedicato alle donne.
Bengasi rappresenta l’altra faccia di Sotto la croce del sud, essendo l’unico film coloniale a mettere in scena le donne italiane in AOI, tanto decantate dalla propaganda quanto assenti sugli schermi e nella vita politica. La terra coloniale è considerata come un diverso tipo di spazio, con profonde implicazioni per le “donne moderne”: ostacolate in patria, ma mitizzate nella terra di frontiera coloniale. Anche se, nella realtà, alla donna viene riservato un ruolo tradizionale, di moralizzazione, e la sua presenza nelle colonie viene invocata per impedire la relazione sessuale tra i coloni italiani e le indigene e dunque l’incrocio tra le razze. Questa contraddizione del ruolo femminile in colonia è portata all’estremo da Genina, per cui, dietro l’apparente preminenza dei protagonisti maschili, sono le donne ad essere le vere eroine del film. Il cap. Berti obbliga la moglie Carla, che non vuole, a lasciare Bengasi, ma nel tragitto il figlioletto viene ferito a morte. L’ufficiale Filippo, una spia al servizio degli italiani, convince la giovane ricercatrice chimica Giuliana a sposarlo, ma viene arrestato dagli inglesi. Una vecchia contadina torna alla sua fattoria con il figlio cieco e scopre che gli inglesi gli hanno ucciso il marito. La giovane prostituta Fanny si redime rischiando la vita per un soldato ferito, che le promette di sposarla al ritorno in Italia. Queste quattro storie di eroismo al femminile corrispondono a diverse tipologie femminili in colonia: la donna “moralizzatrice”, moglie e madre (Carla e la vecchia rurale); la “donna nuova”, dedita, come l’uomo nuovo, al dovere e alla patria e “asessuata” (Giuliana); la donna perduta, che si redime per amore (Fanny). In tutti i casi, il femminile viene addomesticato, rinchiuso nell’eterno ruolo di madre o subordinato all’autorità maschile. Ma un’atmosfera cupa e fredda, di morte, domina tutte e quattro le storie, e se le parabole femminili sono improntate al sacrificio, all’espiazione e all’attesa, sono gli uomini – legati indissolubilmente alla guerra – ad essere feriti, arrestati, uccisi.
Genina sembra sposare, approfondire e infine superare il genere coloniale: il melodramma viene usato come veicolo di propaganda e di accettazione dei ruoli sociali previsti dal regime per le donne, ma insieme come denuncia dell’impossibilità di indossarli fino in fondo. Nell'Italia della disfatta bellica, Bengasi con Giarabub, rappresentano i due film dedicati alle campagne dell’Asse in Nordafrica ed entrambi ottennero una grande popolarità nel paese.


Giarabub (Goffredo Alessandrini, 1942)

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Racconta l’eroica resistenza dei soldati italiani assediati dagli inglesi nell’oasi libica di Giarabub, dopo che la prima offensiva inglese aveva spazzato via la 10ª armata di Graziani e prima che l'intervento di Rommel salvasse per qualche tempo gli italiani dal disastro. La propaganda fascista ne fece un mito, il più importante di tutta la Seconda guerra mondiale: servizi sui giornali e alla radio, cartoline, manifesti. Il film si inserisce in questa esaltazione e la canzone con cui inizia – La sagra di Giarabub di Mario Ruccione, lo stesso autore di Faccetta nera – diventò così popolare da restare impressa, anche nel dopoguerra, nell'immaginario di una generazione. Dopo la guerra, come accadde con il resto della mitologia fascista, anche di Giarabub non si parlò più, la sua storia fu dimenticata e restò patrimonio quasi esclusivo di pochi nostalgici o di quanti, almeno una volta nella vita, avevano sentito cantare la canzone del soldato che dice: «Colonnello, non voglio pane, voglio piombo pel mio moschetto». In Giarabub, ormai l’atmosfera è cupa e dimessa. Nonostante l’eroismo dei soldati italiani e degli ascari, il sentimento prevalente è quello della dedizione sacrificale: una sorta di immolazione collettiva, l’atto estremo che segna, come anche nella realtà, la fine dell’Impero. Ancora una volta è fondamentale nel film il rapporto paterno, o un suo surrogato, rappresentato dall’amore e dalla dedizione del superiore nei confronti dei suoi sottoposti: ma qui sono i figli a morire per primi, dando l’esempio ai padri (reali e simbolici). Come nei film precedenti, inoltre, troviamo un personaggio femminile irrilevante ai fini narrativi, ma che serve a rafforzare e a “raddoppiare” la dinamica di redenzione e di immolazione messa in atto dagli uomini. Dolores, la focosa prostituta interpretata dalla Duranti, si “converte” di fronte alle atrocità della guerra e si trasforma in un’amorevole crocerossina, riacquistando la sua identità perduta. Giarabub, riprendendo i temi dell’amore eterosessuale sublimato, del surrogato paterno e della redenzione maschile come separazione dell’eroe dal femminile, non fa che rivelare in filigrana, nel contesto della fine imminente dell’Impero, l’altra faccia del desiderio coloniale: la morte.


Tripoli, bel suol d'amore (I quattro Bersaglieri) (Ferruccio Cerio, 1954)

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Alberto viene dal paese a Roma per prestar servizio nei bersaglieri. Da principio deve sopportare i continui rimbrotti del burbero maresciallo Locuzzo e le beffe di tre commilitoni, che fanno la corte alla bella Maria, figlia di un altro maresciallo, e considerano Alberto un incomodo concorrente. Ma alla fine i tre devono riconoscere che Alberto è riuscito a conquistare il cuore della fanciulla e fanno la pace. Quando il reggimento parte per la Libia, Maria non può sopportare la lontananza dell'innamorato e del padre e s'arruola tra le crocerossine, insieme a Nadia, una ballerina innamorata di Renato, uno dei tre amici di Alberto. Alberto e i suoi compagni sono inviati a presidiare un fortino, contro il quale si scatena l'attacco degli arabi. Questi prendono di mira una colonna della Croce Rossa, della quale fanno parte Nadia e Maria. La colonna è sottratta a stento alla strage: Nadia, ferita mortalmente, celebra in extremis il suo matrimonio con Renato. Gli arabi lanciano un furibondo assalto contro i bersaglieri asserragliati nel ridotto, la situazione sembra ormai disperata; ma all'ultimo momento il suono festoso della fanfara annuncia, l'avvicinarsi dei liberatori. Alberto e Maria potranno guardare con serena fiducia l'avvenire. La trama all'inizio si ispira neanche troppo velatamente al romanzo I tre moschettieri di Alessandro Dumas padre per poi svilupparsi in una storia completamente diversa.
 
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view post Posted on 23/12/2020, 10:59
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Pulcinella291 Forum

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Com'è tuo solito, amico mio, un topic degno di nota per la sua minuziosità e per la meticolosità della ricerca.
Grazie !

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view post Posted on 23/12/2020, 22:25
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La storia d'Italia in celluloide (fra neorealismo, propaganda e satira) - 3^ parte - Dalla belle époque alla Grande Guerra



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La Belle époque, cioè “i bei tempi”, è il periodo compreso tra il 1880 e gli inizi della Prima Guerra Mondiale, un periodo di pace e benessere generale. Questa espressione esprimeva la contrapposizione tra un periodo di libertà e un periodo in cui si perse la libertà. La Belle Époque indicava la vita brillante nelle grandi capitali europee, le numerose esperienze artistiche, il divertimento della popolazione e un totale miglioramento della vita quotidiana.
L’Europa viveva in un clima di euforia generale, c’era un clima di spensieratezza, di ottimismo e di fiducia nel progresso che aveva favorito la ripresa della crescita industriale ed economica che coinvolse anche le classi meno abbienti. Si crearono nuove occupazioni nel campo impiegatizio e dei servizi, e anche le donne iniziavano ad accedere al mondo del lavoro.
Fu un periodo di pace apparente, che nascondeva questioni insolute pronte a riesplodere anche con violenza c’erano infatti molte tensioni internazionali, dovute alla concezione imperialistica che le potenze europee avevano della politica estera.
La Belle Époque finì di colpo nel 1914, con la Prima guerra mondiale. L’epoca del positivismo, della fiducia nel progresso e nello spirito dell’uomo, finì schiacciata dai suoi stessi frutti, quei ritrovati della scienza che adesso venivano messi al servizio della distruzione.
La belle époque in Italia soffre della profonda trasformazione che sta vivendo uno stato appena nato e che deve darsi un nuovo ruolo internazionale e una nuova dimensione sociale.
È con fatica che possiamo chiamare belle époque un periodo che in Italia si apre – alla fine dell’Ottocento – con la disastrosa aspirazione a diventare una potenza coloniale e si traduce in una serie di umilianti sconfitte militari a Dogali in Abissinia (1887), ad Amba Alagi (1895), a Macallè (1896) e, soprattutto, ad Adua (1896).
Il secolo si chiude con lo scandalo della Banca Romana (1893) – guarda caso, fatto di intrecci tra politica, banche e speculazione edilizia – con il coinvolgimento di Giovanni Giolitti, che sarà chiamato “ministro della malavita” dal severo Salvemini, ma anche – a suo modo – protagonista di uno dei rari momenti “riformisti” della politica italiana nei primi due decenni del Novecento. In questi anni, la Chiesa cattolica, dopo le durezze del non expedit, che proibiva ai cattolici italiani di partecipare alla vita politica del Regno, e del Sillabo di Pio IX, scopre la sua dottrina sociale grazie alla enciclica Rerum Novarum (1891) di Leone XIII, che si apre e si interroga sulla nuova modernità (pur condannando socialismo e liberalismo).
Chi governa questa tumultuosa trasformazione pensa si debba usare il pugno di ferro nei confronti degli italiani. Francesco Crispi, siciliano, ex mazziniano, ex garibaldino, ex deputato della Sinistra, che è succeduto a Depretis come capo del governo, vuole fare come Bismarck, e pensa che sia prioritario reprimere i primi movimenti socialisti e le rivendicazioni contadine dei Fasci siciliani, proclamando lo stato d’assedio (1894).
Dopo poco tempo, nel 1898, il generale Antonio di Roudinì, che a sua volta ha da poco sostituito Francesco Crispi alla guida del governo italiano, fa schierare a Milano le truppe comandate dal generale Bava Beccaris per fermare con cannonate ad alzo zero, provocando decine di morti, una pacifica manifestazione di popolo. Bava Beccaris sarà decorato al valore dal Re Umberto I, che sarà assassinato dall’anarchico Gaetano Bresci, il 29 luglio del 1900.
Questo è lo scenario nel quale si svolge un pezzo della nostra belle époque.
Ma cosa ci racconta e cosa ci mostra il cinema su questo pezzo di storia italiana, così difficile, confuso e ormai privo di epica risorgimentale?
Per trovare dei film che provano a raccontare questo periodo – apparentemente più opaco – dobbiamo aspettare il cinema del nostro secondo dopoguerra che non sempre ne fornisce un ritratto gioioso e spensierato.


L'albero degli zoccoli (Ermanno Olmi, 1978)

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Tra l'autunno 1897 e l'estate 1898, quattro famiglie vivono in una cascina della Bassa Bergamasca. Tra i componenti di questa comunità esiste un profondo legame spirituale e culturale che li porta a vivere insieme cose belle e cose tragiche, avvenimenti ordinari e avvenimenti straordinari. Quando si tratta di versare al severo Mesagiù, il padrone della fattoria, i due terzi dei prodotti, cercano tutti di barare per guadagnare pochi chili di farina. Quando la bella Maddalena va sposa a Stefano, tutti fanno corona al matrimonio stramattutino e tutti accolgono gli stessi quando tornano da Milano con il bimbetto adottato. Insieme uccidono il maiale; separano i contendenti; ascoltano i racconti dei vecchi; ricevono il parroco, don Carlo: prendono parte alle funzioni religiose e alle sagre paesane. Tutti godono per la miracolosa 'guarigione' della vacca della povera vedova Runk. Menek è il bambino di sei anni che, unico della fattoria, frequenta la scuola. Un giorno torna a casa con uno zoccolo rotto. Papà Batistì lavora nascostamente per tutta la notte a intagliargliene uno nuovo. Ma si è servito di un albero tagliato abusivamente. Il padrone lo caccia e tutti gli amici osservano sgomenti e impotenti la sua partenza con la famigliola verso l'ignoto e la miseria. E' il capolavoro dell'unico regista italiano che abbia saputo affrontare la condizione operaia o contadina non come un teorema sociale, ma come un rapporto fra uomo e uomo. E anche l'unico con cui gli attori naturali ( che in altri film di radice neorealistica parlano con la voce dei doppiatori o recitano battute scritte) sono protagonisti a pieno titolo e in prima persona. Molti di noi (in senso antropologico: tutti) abbiamo avuto un avo contadino: seguendo Olmi in questo viaggio nell'ade possono ravvisare care sembianze.


Policarpo, ufficiale di scrittura (Mario Soldati, 1959)

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Diretto da Mario Soldati, vincitore del premio quale miglior commedia al 12° Festival di Cannes, “Policarpo, ufficiale di scrittura” è una divertente commedia tratta dal romanzo La famiglia De’ Tappetti pubblicato nel 1903 da Luigi Arnaldo Vassallo, noto anche con lo pseudonimo di “Gandolin”. Protagonista della pellicola è Policarpo De’ Tappetti (Renato Rascel) un modesto impiegato ministeriale della Roma umbertina, preciso e diligente al punto da attirarsi le antipatie del proprio capo ufficio, il cavalier Cesare Pancarano di Rondò (Peppino De Filippo) borioso aristocratico convinto di essere imparentato con la dinastia dei Savoia, il quale spende molto denaro in ricerche genealogiche che confermino ciò. I rapporti tra i due subiscono una svolta quando le rispettive famiglie si incontrano durante una passeggiata al Pincio; in questa circostanza il figlio di Pancarano, Gerolamo (Luigi De Filippo) si innamora della figlia di Policarpo, Celeste (Carla Gravina) la quale – seppur restia – alla fine decide di fidanzarsi con lui per via dell’insistenza dei genitori che vedono di buon occhio un eventuale matrimonio tra i due. Dal canto suo Pancarano non è favorevole alla storia, in quanto vorrebbe per suo figlio una donna appartenente quanto meno al “gran mondo” se non aristocratica. A tal proposito quindi, fa riavvicinare Edelweiss (Trini Montero) ballerina di café-chantant, al figlio, col quale aveva già avuto in passato una relazione. Il piano del padre ha successo: mentre è a Ostia con la figlia di Policarpo, infatti, Gerolamo vede passare la sua ex in costume da bagno, finendo col ritornare con essa. Dal canto suo Celeste si fidanza con Mario Marchetti (Renato Salvatori) un meccanico che le insegna a scrivere a macchina; dopo un’iniziale opposizione, Policarpo acconsente alla fine al fidanzamento tra i due. I problemi per il nostro protagonista, però, non sono finiti: l’adozione da parte del Ministero delle macchine da scrivere, infatti, mette nei guai il povero Policarpo che si vede costretto a dover imparare ad usare il nuovo mezzo per non perdere il posto di lavoro. Il giorno dell’inaugurazione del nuovo strumento, alla presenza del Ministro, Policarpo – con sorpresa di tutti – sfoggia una grande abilità dattilografa, digitando con grande maestria il celebre coro tratto da Il Conte di Carmagnola di Alessandro Manzoni, «S’ode a destra uno squillo di tromba…». Il finale vede il cavalier Pancarano ricevere una triste notizia: non solo suo figlio si è sposato con Edelweiss, ma le ricerche genealogiche fatte per suo conto sui propri antenati, dimostrano che un proprio avo era chiamato “Biancamano” non perché era nobile o imparentato con i Savoia, ma per via del suo lavoro di imbianchino. Il film si chiude con le due famiglie, quella di Pancarano e di Policarpo, che si ritrovano – ormai “amiche” – al Pincio per trascorrere una domenica tutti insieme. E' uno di quei rari film che non si vedono più, ma che ci raccontano, con una punta di ironica nostalgia, quel periodo burocraticamente grigio della formazione dello stato e della società italiani. Tratto dal libretto di un giornalista satirico, Luigi Arnaldo Vassallo (detto Gandolin) che risale al 1903, racconta una piccola e faticosa modernizzazione dentro la burocrazia umbertina di fine secolo: l’introduzione della macchina da scrivere al posto di inchiostro, pennino e bella calligrafia. E così, che nella piccola Italia della belle époque si viveva felici e contenti, o quasi.


I Compagni (Mario Monicelli, 1963)

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Torino, fine Ottocento. Sono in migliaia a lavorare nell’industria tessile vicino a p.ta Susa, orari e condizioni di lavoro massacranti, quattordici ore ogni giorno ed una breve pausa di mezz’ora per mangiare quel poco per pranzo. A fine turno gli operai arrivano stremati, stanchi, assonnati per il lavoro alienante e ripetitivo così gli incidenti, gli infortuni sono all’ordine del giorno. Dopo l’ennesimo operaio che ci rimette una mano, i colleghi stremati e stanchi di accettare quelle condizioni decidono di presentare all’Ingegnere (Mario Pisu) le loro lagnanze. Ma ci vuole qualcosa di più clamoroso, eclatante ed efficace ma agli smarriti lavoratori manca una guida comune che indichi loro la via. Ed ecco che dal nulla compare il prof. Sinigaglia (Marcello Mastroianni) in fuga da Genova dove la Questura lo sta ancora cercando. Il professore arringa la folla di operai con oratoria convincente e persuasiva, spingendoli a scioperare ad oltranza per ottenere risultati concreti. La lotta è dura, i sacrifici enormi, ci si aiuta a vicenda improvvisando collette che ovviano alla mancanza di casse mutua o altri istituti assistenziali, la lotta operaia è solo all’inizio. E' il racconto di una dura lotta operaia a Torino, che a tratti ricorda lo “sciopero delle lancette”, che innescò le occupazioni delle fabbriche di Torino nel biennio rosso (1919-1920) e le prime agitazioni operaie tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento. Il cliché è piuttosto consueto: un lungo sciopero per rivendicazioni salariali e sicurezza sul lavoro trascinato dalla retorica sincera ed appassionata di un insegnante socialista “agitatore di professione” (Sinigaglia - Marcello Mastroianni) che sfocia in violenze e con la polizia che spara sugli operai. E’ la storia di una difficile e dolorosa maturazione di classe, ma è anche la storia della sconfitta di un nascente proletariato, sempre incerto tra i grandi ideali e le rivendicazioni piccole e concrete.


Metello (Mauro Bolognini, 1969)

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Rimasto orfano, il giovane Metello trova lavoro come muratore nel cantiere di un ex operaio che ha rinnegato il suo passato di stenti adeguandosi allo sfruttamento capitalistico del lavoro. Durante il funerale di un collega, Metello si scontra con la forza pubblica, intenta a far rispettare il divieto di esporre bandiere anarchiche, e viene arrestato. Uscito di prigione, abbraccia gli ideali socialisti partecipando allo sciopero generale proclamato per ottenere aumenti salariali. Lo sciopero si rivela lungo e infruttuoso e tra gli operai inizia a serpeggiare il malcontento. Quando un gruppo di questi decide di ripresentarsi al lavoro, per impedirglielo, Metello e altri si gettano in un furioso corpo a corpo con i gendarmi. La vittoria sindacale è vicina, ma la morte di uno degli operai segnerà tristemente il futuro di Metello. Tratto dall’omonimo romanzo di Vasco Pratolini pubblicato nel 1955, che compone sull’argomento una trilogia che voleva essere “Una storia italiana”, racconta quasi la stessa storia negli stessi anni. Questa volta siamo a Firenze, quando gli operai acquistano una prima “coscienza di classe”, uscendo dal primo anarchismo per avvicinarsi al movimento socialista, che sembra offrire una prospettiva più solida e concreta, più “scientificamente” determinata. Anche qui ci sono lotte operaie, la tentazione del crumiraggio, i “caporali” che decidono chi lavora e chi no, il carcere, i morti negli scontri con la polizia. Questa volta sembra che gli operai possano vincere, anche se le lotte sociali continueranno in tutta Italia fino al primo grande sciopero generale – che qualcuno pensava fosse premessa della rivoluzione – del 1904. Metello - Massimo Ranieri, alla fine, mette la testa a posto – come ha promesso alla sua compagna Ersilia (una indimenticabile Ottavia Piccolo) – e conclude: “perciò ho stabilito che il passato bisogna scordarselo, ce lo portiamo dietro ma non ci si deve pensare. I morti che ci hanno fatto del bene si ricompensano guardando in faccia i vivi. Ci si dovrebbe semmai più ricordare dei loro sbagli che delle loro cose indovinate. È coi vivi che siamo alle prese.”


Morte a Venezia (Luchino Visconti, 1971)

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Venezia, 1911, il famoso compositore Gustav von Aschenbach giunge al Lido per un periodo di risposo in seguito a una crisi cardiaca. Qui incrocia la bellezza efebica di un giovanissimo polacco, Tadzio, che soggiorna nello stesso hotel di Gustav assieme alla famiglia. Il musicista se ne infatua immediatamente. Nel frattempo, in città scoppia un’epidemia di colera che le autorità cercano di tenere nascosta. L’azione si svolge nel 1911 durante la Belle époque, in una Venezia frequentata da una borghesia oziosa; le immagini crepuscolari della città preannunciano la fine di un mondo, l’epidemia del colera simboleggia la guerra che si avvicina. Inframmezzata da pochi dialoghi, “Morte a Venezia” si svolge con lentezza; molto spesso Visconti riprende i luoghi nella luce radente dell’alba. Lontana dagli stereotipi, Venezia non è più la città gioiosa e sgargiante del Carnevale, ma quella grigia, fredda e soffocante, sprofondata nella nebbia.


Fatti di gente perbene (Mauro Bolognini, 1974)

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Il 2 settembre del 1902, in una casa patrizia di Bologna, fu trovato ucciso con tredici pugnalate il conte Francesco Bonmartini veneto e clericale. Il caso venne affidato al giudice Stanzani che si orientò verso un delitto per rapina, attribuito a Rosita Bonetti cameriera della contessa Linda Murri. Ma nove giorni dopo, il suocero Augusto Murri, medico di fama internazionale e libero pensatore, si presentava alla polizia e dichiarava che responsabile della morte era suo figlio Tullio, avvocato e consigliere comunale socialista che, a causa della sorella, aveva avuto un violento alterco con il cognato e alla fine era stato costretto a ucciderlo per legittima difesa. L'inquirente ordinava l'arresto, oltre che della Bonetti, del dott. Pio Naldi amico di Tullio, del dott. Carlo Secchi, amante di Linda Murri e della contessa. Tullio Murri si costituiva spontaneamente. Nel processo celebrato a Torino nel 1905 la pubblica accusa sosteneva l'omicidio premeditato compiuto da Tullio con la collaborazione degli altri e dietro istigazione della sorella; e otteneva condanne di trenta o dieci anni. Qui, in particolare, abbiamo un tracciato di una torbida storia della Bologna dei primi anni del ‘900, una scavatura sui personaggi e sulla storia stessa che lascia il segno, un intrigo familiare di sentimenti nascosti e spesso ibridi, svolti in maniera davvero cinematografica. Bolognini non ci fa mancare un’ambientazione che riesce a introdurre l’atmosfera necessaria al racconto.


Ninì Tirabusciò la donna che inventò la mossa (Marcello Fondato, 1970)

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Maria Sarti, una giovane romana che recita in piccoli teatri all'aperto, sogna di diventare una vera attrice di prosa. Dopo alcune infelici esperienze - dapprima con un attore di varietà poi in una compagnia di napoletani che recitano Shakespeare in dialetto - è costretta dalla fame a improvvisarsi cantante in un cabaret di Napoli. Inventrice della "mossa" - un movimento d'anca che manda in visibilio un pubblico di provinciali - Maria scandalizza i benpensanti e subisce un processo per oscenità dal quale esce assolta. Trasferitasi poi a Torino, diventa il richiamo della "buona società", fa innamorare di sé un giovane ufficiale e sfida a duello una dama dell'aristocrazia. Sempre in cerca del vero amore - s'era innamorata al principio della carriera di Antonio, un povero pianista di idee socialiste, poi emigrato in America - Maria si unisce infine a un gruppo di futuristi, salvo abbandonarli, delusa, per ripetere, di fronte ai soldati in partenza per il fronte, la "mossa" che l'a resa celebre. Ispirandosi alle tragicomiche vicende dell'autentica sciantosa Maria Campi, l'elegante Marcello Fondato disegna un divertente e garbato ritratto dell'Italia del primo novecento, lasciando timidamente sullo sfondo le lotte di classe.


Puccini e la fanciulla (Paolo Benvenuti, 2008)

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1908. Giacomo Puccini è nella villa di Torre del Lago insieme alla moglie Elvira e alla figlia di lei, Fosca. Il maestro è fervidamente impegnato nella composizione di una nuova opera ma, per distrarsi un po' dal lavoro, ogni giorno si reca allo chalet di Emilio Manfredi, un rustico ritrovo sospeso su palafitte, dove passa il tempo bevendo, fumando e giocando a scopone, servito dalla bella Giulia, figlia dell'oste. Un giorno, Fosca viene scoperta in atteggiamenti intimi con il suo amante, Guelfo Civinini, librettista di Puccini, dalla cameriera Doria. Fosca inizia a tenere d'occhio la domestica per accertarsi che mantenga il silenzio, e dalle sue attente osservazioni emerge una certa complicità tra Doria e Puccini. Fosca mette al corrente della cosa sua madre Elvira che, a sua volta, decide di spiare il marito e viene così a scoprire che questi ha una relazione con una giovane donna. Elvira è convinta che la ragazza in questione sia la stessa Dora e, dopo averla cacciata di casa, si impegna a rovinarle la reputazione. In realtà la giovane è un'altra ma Doria, per il peso del disonore, prende una drammatica decisione. Una ricerca meticolosa, avvincente e sorprendente durata sei anni, quelli impiegati da Paolo Benvenuti e i suoi allievi della scuola di cinema Intolerance per scoprire un mistero centenario sulla figura del grande compositore toscano Giacomo Puccini: è Puccini e la fanciulla, prodotto in collaborazione con la Fondazione Festival Pucciniano e la Mediateca Toscana Film Commission. In cartellone fuori concorso alla 65esima Mostra di Venezia, insieme al filmato inedito Un giorno con Puccini – Torre del Lago, 1915, ritrovato dallo stesso regista toscano in due scatole di biscotti durante le ricerche, Puccini e la fanciulla riconsegna al pubblico un grande regista, atipico nel panorama italiano, un autore di grande sapienza formale e rigore morale, che al Lido – e al cinema – mancava dal 2003 con Segreti di Stato. Benevenuti ha indagato sul suicidio di Dora Manfredi, la cameriera della famiglia Puccini, da sempre ritenuta l’amante del Maestro, sulla base di un’intuizione sul legame tra arte e vita: i personaggi femminili dei libretti assomigliavano alle donne frequentate dal musicista nella sua vita. “Volevamo provare l’esattezza della nostra ipotesi: la Minnie de La Fanciulla del West non era ispirata alla cameriera Doria Manfredi, ma alla cugina di lei, Giulia, una ragazza bella, forte, indipendente, locandiera e cacciatrice a Torre de Lago: era lei l’amante di Puccini”. Frutto di una rocambolesca dimostrazione, Puccini e la fanciulla è stato realizzato dal regista con la fondamentale collaborazione della moglie, Paola Baroni curatrice delle musiche, tratte dallo spartito per pianoforte de La Fanciulla del West, che si fondono alla perfezioni con l’habitat sonoro del lago di Massaciuccoli: il risultato è una magnifica sinfonia audio-visiva, con camera, luci, musica e rumori che elevano il film dalla cronaca, dall’indagine storico-biografica, nei territori del cinema tout court. Sono molte le inquadrature, le prospettive e le ombre che rimagono sulla retina dello spettatore, e che rimarranno.


Mio Dio, come sono caduta in basso! (Luigi Comencini, 1974)

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La marchesina Eugenia di Maqueda, allevata dalle suore, orfana di madre e separata fin dall'infanzia dal padre donnaiolo che vive a Parigi, sposa Raimondo Corrao. Proprio quando la coppia sta per consumare il matrimonio, Eugenia riceve una lettera del padre che le rivela che anche Raimondo è suo figlio. I due decidono di vivere insieme e comportarsi da fratello e sorella. Dopo il viaggio di nozze a Parigi, Eugenia e Raimondo tornano in Sicilia. Qui, mentre Raimondo si dedica alle letture dannunziane e parte per servire la patria nelle guerre libiche, Eugenia si dà alle opere pie. Ma le pulsioni erotiche della marchesa, accentuate dalle letture di moderni romanzi d'amore, trovano sfogo nell'autista toscano Silvano Pennacchini. Rimasta vedova a causa della guerra mondiale, Eugenia ritrova Silvano e rimane tra le sua braccia plebee. Non privo di idee e di intellettualistico rigurgito di motivi, questo film alla retorica dannunziana dei dialoghi unisce una accurata ambientazione liberty e dei personaggi da 'feuilleton', con l'intento di satireggiare tutta una concezione di vita propria della provincia dei decenni della 'Belle époque'. La contrapposizione tra D'Annunzio e del Da Verona alla natura sicula (ambiente e persone), è l'elemento più succoso di questa ardita operazione.


Senilità (Mauro Bolognini, 1962)

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La monotona esistenza di Emilio Brentani - un impiegato triestino che vive con la sorella Amalia - viene interrotta da Angiolina, una giovane popolana di cui Emilio s'innamora. Ma, sia per la differenza di età e di carattere e per la fondamentale amoralità della ragazza che passa da un'avventura all'altra, l'amore dei due è reso difficile da continui litigi, scene di gelosia e reciproca incomprensione. Amalia Brentani, a sua volta, s'innamora di Stefano Balli, uno scultore amico di Emilio; ma la donna, stanca e delusa, accortasi di non essere riamata si avvelena lentamente con l'etere. Emilio, dopo la morte della sorella e dopo essere stato abbandonato da Angiolina, con la quale ha avuto un ultimo, penoso ed umiliante incontro, resta disperatamente solo, sulle soglie di una precoce senilità sentimentale. Senilità ripercorre il libro (1898) di Italo Svevo (Ettore Schmitz, 1861-1928) falsificandolo in parte: infatti il regista sposta la vicenda, l’amore impacciato ed impossibile di Emilio Brentani (Anthony Franciosa) per l’imprevedibile e vitale Angiolina (Claudia Cardinale), dalla Trieste di fine Ottocento alla fine degli anni Venti del Novecento (1927). Ma la Trieste borghese e neoclassica, che Svevo aveva descritto “sotto l’Austria”, il film ce la fa vedere qualche decennio dopo (e ancora quasi identica nei nostri anni Sessanta) rassomigliare sempre a sé stessa. Guardare Trieste, in questo momento, non è irrilevante perché è diventata la città “cara al cuore” di tanti italiani (che ancora non sanno bene dove sia collocata e pensano che sia la capitale del Friuli). Trieste, in quegli anni, era stata un “laboratorio di modernità”, secondo la definizione di Claudio Magris e secondo quanto pensavano gli “irredentisti democratici” ispirati da Gaetano Salvemini, come Scipio Slataper e Gianni Stuparich, volontari in guerra; Trieste che l’Italia non seppe capire ed utilizzare per la modernizzazione culturale, sociale e politica del Paese.


Amore e ginnastica (Luigi Filippo D'Amico, 1973)

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Educato in seminario, Simone Celzani, orfano, vive presso lo zio commendatore e si sdebita fungendo da amministratore nel palazzo di proprietà del congiunto. In uno degli appartamenti abitano due insegnanti amiche: Elena Zibelli e Maria Pedani. Quest'ultima, proveniente da Brescia, insegna ginnastica e lotta allo scopo di far riconoscere all'educazione del fisico grandi virtù civiche e morali. Elena, segretamente innamorata di Simone, si indispettisce quando scopre che egli invece è preso dal fascino di Maria. D'altra parte, alla Pedani si indirizzano anche le poco contegnose richieste di Alfredo Berti, anch'egli abitante nel palazzo. Decisa a seguire la sua missione senza legami matrimoniali, Maria rifiuta i due spasimanti che, tuttavia, si sfidano a duello, che sfuma però per un provvidenziale intervento. Mentre Elena avvicina qualche altro uomo e l'amica si rende nota nell'ambiente scolastico e cittadino, Simone tenta goffamente di avvicinare le discipline ginniche. Quando, con la testa rotta, pensa che tutto sia perduto, la Pedani - reduce dal successo in un congresso - gli getta le braccia al collo coprendolo di baci. La vena ironica insita nella novelletta deamicisiana avrebbe meritato maggiore evidenza. Il film, pur non mancando di gustosi bozzetti e di personaggi caricaturali, sembra indulgere troppo a un'atmosfera di nostalgia e di rimpianto per la Torino fine-secolo e la qualcosa genera incertezze e scompensi tonali. La ginnastica, allora, era vista come un elemento fondamentale per la crescita psicofisica dei giovani italiani, che dovevano imparare a muoversi, a correre, a marciare (i maschietti sarebbero diventati tutti soldati del regio esercito) per essere più sani e pronti a sacrificarsi per la patria. Ma bisognava anche insegnare a leggere e a scrivere a un popolo di analfabeti, perché lo richiedeva la modernità e perché bisognava avvicinare i giovani alla letteratura fondante per la nostra identità nazionale. A parte queste considerazioni, l'opera merita una segnalazione positiva per la delicatezza nel tratteggio dei sentimenti e delle figure femminili.


Nuovomondo (Emanuele Crialese, 2006)

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Sicilia. Inizi del Novecento. Una decisione cambierà la vita di una famiglia intera: lasciarsi il passato alle spalle e iniziare una vita nuova nel Nuovo Mondo. Salvatore vende tutto: la casa, la terra, gli animali, per portare i figli e la vecchia madre dove ci sarà più lavoro e più pane per tutti. Una sottile e allo stesso tempo fitta atmosfera di mistero avvolge l’intero viaggio. Dai riti prima della partenza, alle cure che Donna Fortunata, la madre di Salvatore, riserva agli abitanti del villaggio affetti da strane patologie, riconducibili ad arcane presenze e spiriti, che da sempre accompagnano la vita dei contadini siciliani. Esseri viventi che convivono con le anime dei morti, non sempre soddisfatte delle decisioni dei vivi: perché abbandonare la propria terra, per andare a vivere in un posto che non appartiene, non è mai appartenuto e non apparterrà mai alla propria famiglia? Salvatore vede e sente presenze inquietanti, ma non ha paura: fanno parte della sua vita di sempre, sono segni che lui sa leggere perfettamente. Salvatore, è uno delle migliaia di emigranti italiani che misero in gioco tutto. Non è un eroe, è un uomo semplice, non va in cerca di grandi fortune, né di gloria, ma è guidato da una lucida consapevolezza che lo spinge ad affrontare il lungo e pericoloso viaggio attraverso l’oceano, per giungere a New York agli albori del XX secolo. Un lavoro e una casa per i suoi familiari sono il suo unico obiettivo. Nuovomondo è la storia di una fuga, di una speranza e anche di un sogno, con quelle carote giganti portate sottobraccio e, soprattutto, di un viaggio che vorrebbe essere di liberazione da una povertà senza alternative. Si parte da una Sicilia straordinariamente bella e desolata, per entrare in una nave che è un microcosmo diviso rigidamente in classi, e in Terza classe, nel ventre della nave, è diviso anche tra uomini e donne per evitare qualsiasi promiscuità (pericolosa solo tra i poveri), per arrivare alla terribile Terra Promessa di Ellis Island, dove uomini e donne vengono pesati e misurati per capire se sono adatti al Nuovo Mondo. Il lieto fine è amarissimo. Il viaggio verso la nuova modernità di Salvatore (Vincenzo Amato) pretende il sacrificio dell’anziana madre (una straordinaria Aurora Quattrocchi), che era sempre stata la guida forte, sacrale e saggia della piccola comunità in viaggio – incarnazione severa e potente di una arcaica divinità femminile mediterranea – e che viene umiliata e strappata al futuro e rimandata indietro in un passato ormai svuotato di senso. Anche questo accadeva durante la belle époque.


Novecento - Atto I (Bernardo Bertolucci, 1976)

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La ricca casata Berlinghieri festeggia la nascita di Alfredo, stesso nome del nonno ancora saldamente a capo della famiglia, nel segno quindi della continuità. Nel medesimo giorno nasce anche Olmo, a sua volta ultimo rappresentante dei Dalcò, una collettività di braccianti che lavorano la terra e governano le stalle dei Berlinghieri. Leo è il riferimento carismatico di questa povera ma solidale comunità, unico in grado di tenere testa alla forte personalità del vecchio Alfredo. Non si muove foglia nei suoi possedimenti che Alfredo non voglia ed il figlio Giovanni, nonostante sia già avanti nell’età, gli è ancora sottomesso. Ci sono abissali differenze fra Alfredo e Leo ma nonostante tutto si sono sempre intesi in qualche modo e si conoscono e stimano ben oltre i rispettivi ruoli. Gli eventi che incombono però testimoniano che la loro stagione, al di là dell’età, volge al termine. Le classi più povere, pur ancora disorganizzate, stanno alzando la testa, ma allo stesso tempo l’ascesa al potere del fascismo rappresenta l’ombrello sotto il quale i grandi latifondisti vanno a ripararsi per conservare e semmai accrescere i loro averi e privilegi. I due bambini, Alfredo ed Olmo, pur comprendendo le rispettive differenze di classe, crescono assieme coltivando un’amicizia che continua da adulti quando Olmo, tornato dal fronte della prima guerra mondiale, diventa uno dei promotori della rivolta proletaria al seguito della maestrina Anita della quale s’innamora; Alfredo, pur mantenendo il suo status sociale, non risparmia critiche al padre, dissociandosi apertamente dalle sue scelte politiche. Le squadracce fasciste, al comando di mercenari senza scrupoli come Attila, il nuovo capo fattore di casa Berlinghieri, iniziano intanto la loro opera di repressione e le spedizioni punitive contro i rivoltosi, nel frattempo uniti sotto le bandiere rosse di un movimento politico-sindacale che curiosamente (con le dovute differenze guardando all’oggi) si chiama Lega.Novecento - Atto I è un film ampio e corale di Bernardo Bertolucci, che continua con l’atto secondo e che descrive un pezzo di storia italiana dalla nascita del nuovo secolo, dal 27 gennaio del 1901 alla fine della seconda guerra mondiale e alla resa dei conti tra padroni e contadini in una Emilia, che era stata tanto “nera” quanto “rossa”. È la storia di una terra, della gente, del lavoro e delle lotte contadine, che insegue la vita di due amici che forse sono fratelli, Alfredo (Robert De Niro), figlio dei padroni della fattoria, e Olmo (Gérard Depardieu), figlio di Rosina, una contadina. Alfredo ed Olmo crescono, giocano, vivono e amano insieme, nonostante la distanza sociale che li separa, ma l’età, l’aia e i campi intorno alla fattoria li uniscono. Il film è uno spaccato di storia corale e individuale e nella prima parte racconta la condizione di vita durissima e promiscua dei contadini, ma anche la solidarietà che li aiuta, di un potere spesso violento – personificato dal ghigno di Attila (Donald Sutherland) – che presto sfocerà nel fascismo (l’Emilia rossa e contadina sarà una delle culle del fascismo agrario).


Una gita scolastica (Pupi Avati, 1983)

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Una anziana signora, Laura, (zia del regista, confidente del più bel ricordo della sua lunga vita), si sente male mentre fa ritorno a casa. Nella accorata rivisitazione del vasto panorama dei suoi ottant'anni, rivive per noi il suo "momento magico". Alunna di terza liceo classico (anno 1914, alla vigilia della grande guerra), una delle più brave della classe anche se piuttosto bruttina (ecco il suo cruccio e la sua condanna per la vita), partecipò quell'anno alla gita scolastica-premio alla vigilia degli esami di maturità. Accompagnati dall'insegnante di lettere, il prof. Balla, e da quella di disegno, i trenta compagni di scuola, ragazzi e ragazze, attraversano a piedi l'Appennino partendo da Bologna per arrivare a Firenze. Gli episodi che caratterizzano la gita sono molti e funzionali ai fini dell'illustrazione della psicologia giovanile. Quella però che maggiormente si impone all'attenzione è la serie di piccole circostanze che fanno nascere nel cuore solitario del prof. Balla la speranza-illusione di trovare il cuore che, chissà?, per la prima volta allo sfiorare dei cinquant'anni, palpiti all'unisono con il suo. Egli si innamora, pur con le remore del suo temperamento timido, complessato ed impacciato, della professoressa di disegno: lui brutto e minuto, lei fiorente e splendida, anche se vittima del marito che l'ha tradita e del quale intende vendicarsi approrittando delle occasioni offerte da quella gita scolastica. In realtà essa raggiungerà il suo scopo, ma non con Balla, bensì con un allievo più intraprendente degli altri. Anche Laura avrà il suo "momento magico", riuscirà a farsi baciare, fuggevolmente e senza partecipazione sincera (ma lei si accontenta, lei sempre ai margini delle avventure amorose delle colleghe, a causa del suo aspetto fisico piuttosto ordinario) dal bello della classe. Questo ricordo l'accompagnerà per tutta la vita... e la consolerà dopo tanti anni, nella solitudine della sua agonia. Da segnalare la scelta finale del prof. Balla: alla condanna della professoressa di disegno per il suo comportamento in gita pronunciata dal preside dell'istituto, egli protesta con decisione e sceglie di accompagnarsi con lei nella vita, anche compromettendo il suo posto di lavoro. Una gita scolastica non è un film triste, perchè ha tanti momenti ameni e le canzoni e i coretti (musiche melodiose di Ortolani, parole di Jaja Fiastri) ne accentuano le movenze argute: semmai è, insieme, accorato e fiducioso. La sua musa gentile è il brivido di un'età, che può essere oggi e tornare domani, in cui si crede alle magie dell'aurora, alle promesse dei crocevia. Un vero gioiello del cinema italiano, pervaso da una delicata vena poetica; l'oniricità dell'insieme, la fluidità irreale e gioconda, l'aura di sogno luminoso e anche un'ombra di lieve tristezza contornano le immagini generando un'opera di mozartiana semplicità e perfezione.


E la nave va (Federico Fellini, 1983)

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"Il film è la storia di un viaggio, un viaggio per mare, per compiere un rito, un viaggio che si suppone sia avvenuto sessant'anni fa, alla vigilia della prima guerra mondiale". Così, molto dimessamente, Fellini presenta il suo film: "E la nave va". Siamo infatti nel luglio 1914. Il piroscafo "Gloria N" sta per salpare dal molo n. 10 di un porto italiano. E' una crociera omaggio-funebre alla cantante dalla voce divina Edmea Tetua, le cui ceneri saranno disperse sul mare, nei pressi dell'isola Erimo, dove la cantante è nata. Ci troviamo così sulla nave con un campionario di varia umanità: cantanti, impresari, maestri di canto, direttori d'orchestra, ammiratori, nobili, perfino un granduca prussiano, Harzock, con la sorella cieca veggente principessa Lherimia e la loro piccola corte, oltre agli ufficiali e marinai di bordo. Su tutti aleggia la grande cantante scomparsa, Edmea: di lei si parla, si tessono elogi, si cerca perfino di evocarla con una seduta spiritica. Fra questa folla s'insinua, compare e scompare, il giornalista Orlando, il quale si affanna a raccontare agli spettatori aneddoti, indiscrezioni, confidenze, presenta i vari personaggi, con le loro piccole storie e ridicole manie. Tutto prosegue fra le noie e le varietà del gran mondo, finchè il piroscafo accoglie a bordo dei serbi, naufraghi, sfuggiti agii orrori della guerra scoppiata con l'Austria, dopo l'uccisione del granduca Ferdinando a Serajevo. Il campionario umano della "Gloria N" si arricchisce del variopinto folklore popolare. Le due società, nobile e plebea, fraternizzano, finchè compare la nave ammiraglia austriaca a richiedere la consegna dei naufraghi. Solo per l'intervento del granduca Harzock è possibile completare la crociera funeraria e spargere le ceneri di Edmea in prossimità dell'isola Erimo. Quindi i naufraghi serbi vengono calati nelle scialuppe per essere consegnati agli austriaci; ma un giovane serbo lancia una bomba sulla ammiraglia austro-ungarica, la quale scarica i suoi cannoni sulla nave italiana e la "Gloria N" cola a picco. L'ultimo saluto agli spettatori lo darà, con uno sberleffo, il giornalista Orlando, mentre si mette in salvo con una scialuppa.
 
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view post Posted on 27/12/2020, 08:32
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La storia d'Italia in celluloide (fra neorealismo, propaganda e satira) - 4^ parte - La Grande Guerra



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Fu una guerra totale. Spinse milioni di uomini in una orrenda macchina della morte e contaminò le coscienze con il veleno della violenza. Coinvolse settanta milioni di soldati di ventotto nazioni. Più che dagli uomini fu governata dalle armi chimiche, dalla potenza devastante dell’artiglieria, dalle navi d’acciaio, dall’impiego di aeroplani, carri armati e sommergibili. Questa fu la Prima guerra mondiale del 1914-18: la Grande Guerra, come è comunemente chiamata.



due fotogrammi de La guerra d’Italia a 3000 metri (Luca Comerio, 1916)

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il lungometraggio contiene le riprese girate sull'Adamello durante alcune azioni di guerra di un reparto di Alpini. Insieme a La battaglia tra Brenta e Adige e La presa di Gorizia, è unoi dei principali lungometraggi sulla guerra italiana girati da Luca Comerio, cineasta già noto per le sue produzioni nella Guerra di Libia del 1912.


due fotogrammi de La battaglia tra Brenta e Adige (Luca Comerio, 1916)

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Immagini documentarie sul fronte della prima guerra mondiale: l'esercito italiano tra il Brenta e l'Adige; veduta del monte Pasubio e del Monte Cimone; si trasportano truppe e cannoni; in marcia; cannoneggiamento sulle postazioni nemiche; un cappellano militare che dice messa sul campo di battaglia.


due fotogrammi de La Battaglia di Gorizia (Luca Comerio, 1916)

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lungometraggio girato da Comerio in occasione di quella che viene considerata la più amara delle conquiste italiane della Grande Guerra. Testimone straordinario della storia d’Italia dei primi 40 anni del ‘900, Luca Comerio antepose sempre ai desideri propagandistici del committente, l’umana pietà che si deve provare di fronte ai caduti di qualsiasi parte.




La fine di un epoca

La prima guerra mondiale è stato il primo conflitto cinematografico della storia. In Italia, tra il 1915 e il 1918 si produssero più di 130 titoli, tra film e documentari. Una cifra ragguardevole, che va inserita nella straordinaria accelerazione del processo di produzione e consumo di immagini che la guerra innescò: giornali di trincea, cartoline, fotografie, manifesti, giornali e libri illustrati. Nella nascente industria cinematografica operavano circa 70 case produttrici, 460 noleggiatori e 1500 sale. Non solo è stata documentata dal cinema (inventato vent’anni prima) durante il suo svolgimento ed è stata poi raccontata da centinaia di film, ma ha anche visto la presenza del cinema come arma strategica: le macchine da presa montate su mongolfiere e dirigibili giocarono un importante ruolo di spionaggio e di intelligence. La nostra conoscenza di quella guerra è duplice, e doppiamente «leggendaria»: da un lato, chi è abbastanza vecchio da aver ascoltato i racconti dei nonni che la combatterono ne ha ricavato una memoria orale, quasi sempre più dolorosa e grottesca che epica; dall’altro, la conoscenza nasce dalle immagini, sia dei filmati d’epoca sia dei film che ad essi si sono sovrapposti, spesso citandoli e riproducendoli con cura filologica. Per altro, già nei diari scritti a guerra in corso, e nella corrispondenza dei soldati, il cinema è spesso un termine di paragone. La Grande Guerra in Italia arriva in ritardo. La prima guerra mondiale, che in realtà fu soprattutto una guerra civile europea, scoppia dopo l’attentato di Sarajevo e l’assassinio dell’Arciduca Francesco Ferdinando d’Austria e di sua moglie Sofia da parte di uno studente nazionalista serbo, Gavrilo Princip (28 giugno 1914). È una sorta di reazione a catena che coinvolge sia le cancellerie sia le opinioni pubbliche europee, ma per il momento non l’Italia. In tutti i paesi il cinema entrò nelle strategie che utilizzarono i mezzi di comunicazione come armi per la vittoria. Le nazioni europee si prodigarono in quest’opera, con lucida consapevolezza sin dall’ottobre del 1914. Il cinema è quindi una spia eloquente di questo processo. In tutti i paesi in guerra si avvertono fenomeni simili: un forte incremento della produzione cinematografica, cui corrisponde un altrettanto consistente aumento del numero degli spettatori; la rapida trasformazione del linguaggio cinematografico che sperimenta l’innesto di spezzoni documentaristici su racconti di finzione; il coinvolgimento di scrittori e di uomini di teatro chiamati a dare lustro alle pellicole, anche solo come testimoni passivi.



locandina del film Sempre nel cor la Patria! (Carmine Gallone, 1915)

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E' Il primo film significativo di chiara intonazione pubblicitaria e di amor nazionale ambientato ad Avezzano subito dopo il terremoto del 1915, poiché le case diroccate erano servite al regista per simulare perfettamente le distruzioni dei bombardamenti nelle zone di guerra. Nel film si raccontava la storia di una donna italiana (attrice Leda Gys) che aveva sposato un austriaco, decisa, però, in pieno conflitto mondiale a tornare in patria «quando la diana squilla», così era scritto nella didascalia (non bisogna dimenticare che allora il cinema era muto e i commenti, spesso enfatici, venivano sovraimposti alla pellicola). Dopo varie peripezie, la donna morirà eroicamente sventando una missione anti-italiana affidata proprio al marito.




Propaganda e censura

Durante il conflitto, il cinema ebbe un orientamento più che altro propagandistico, con il fine di coinvolgere emotivamente la popolazione al dramma della guerra e di inculcare tra i valori della vita quatidiana il mito dell'eroe e del valore, elementi che saranno fondamentali pure nella propaganda fascista. Il soldato-simbolo, con il suo eroismo, la sua triste vita privata fatta di addii e di grandi amori e la crudeltà della guerra rimasero difatti protagonisti dell'immaginario collettivo ancora per molti anni. L’uso del cinema per scopi propagandistici lo abbiamo già incontrato nella Guerra coloniale; qui lo scopo è sempre lo stesso: la nazione, unita nel supremo dovere, era chiamata a realizzare la sua missione storica: difendersi dagli attacchi dei nemici esterni e affermare la sua grandezza, dispiegando tutta la politica di potenza di cui era capace. La fiorente industria cinematografica italiana (che nei primi anni del XX secolo era già stata in grado di produrre alcuni kolossal) intuì come la guerra fosse un soggetto perfetto per dei nuovi film. Parallelamente, i sostenitori del conflitto compresero come la proiezione potesse essere un ottimo modo per diffondere solidarietà e sostegno alla causa italiana. Alcune delle pellicole di quegli anni erano rivolte anche a bambini. Questi film si servivano quasi sempre del linguaggio della favola e della comicità. Nonostante la qualità di molti film fosse piuttosto scadente, senza dubbio riuscirono nel loro intento: migliaia di persone accorrevano per vederli e familiarizzarono con parole e concetti come "Patria", "Vittoria", "Terre irredente".


due fotogrammi de La Guerra e il Sogno di Momi (Giovanni Pastrone, 1917)

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In una delle frequenti lettere che invia alla famiglia e al piccolo Momi, il papà, combattente al fronte, racconta l’avventura di Berto, un eroico bambino di montagna che salva la madre da un’incursione degli austriaci, correndo a chiedere aiuto alle truppe italiane. Momi rimane molto impressionato e si addormenta sul divano con i suoi pupazzi preferiti, Trick e Track, che, magicamente, insieme ai soldatini, cominciano ad animarsi e man mano scatenano una guerra totale, con attacchi di artiglieria pesante, armi chimiche e attacchi aerei sul paese di Lilliput. L’impeto è tale che finiscono per coinvolgere anche Momi, ancora addormentato, pungendolo con le baionette. Ma la battaglia era solo un sogno. Momi si sveglia e, insieme alla mamma e al nonno, prega per il ritorno del genitore. Diretto da Giovanni Pastrone e dal regista spagnolo Segundo de Chomón che realizzò le sequenze animate tramite la tecnica del passo uno. Queste sequenze fanno de La Guerra e il Sogno di Momi il primo film italiano d'animazione della storia.



Per quanto riguarda la censura è proprio la Grande Guerra che sancisce i canoni per questa forma di controllo del pensiero collettivo. La guerra vera, quella delle trincee, raramente si affaccia nelle sale cinematografiche. Fu bloccata non solo dalla censura militare ma anche dall’autocensura che registi e produttori esercitarono in nome dei superiori interessi nazionali. D’altronde anche le immagini e le notizie che circolavano sulla carta non sfuggivano al controllo censorio. Il caso estremo è quello delle lettere dei soldati, ispezionate dai censori dell’esercito che cancellavano le frasi che potevano mostrare la realtà della sofferenza. Anche le fotografie e le illustrazioni pubblicate dai giornali furono filtrate: quasi mai i fotografi riprendevano scene di combattimento, semplicemente perché non potevano avvicinarsi alla prima linea. I disegnatori poi si ispirarono alle foto e ai rapporti ufficiali dell’esercito, così che non diedero una rappresentazione reale della guerra. L’episodio che richiamò brutalmente alla triste realtà il popolo italiano ed il Comando Supremo del Regio Esercito, si verificò quando vennero autorizzate delle riprese cinematografiche nelle retrovie più vicine al fronte. Per venti giorni una troupe di operatori poggiò il treppiede della cinepresa sui diversi scenari di guerra - l’Adriatico, il Carso, l’Isonzo, le montagne trentine - fino a realizzare un lungo filmato. Il colonnello Enrico Barone, artefice delle riprese, se ne servì per illustrare una serie di conferenze che tenne in diverse città a favore della Croce Rossa. Era la prima volta che il pubblico italiano vedeva un film “dal vero” sul conflitto in cui era stato coinvolto. La polemica indusse il Comando supremo dell’esercito italiano ad emanare norme dettagliate per i corrispondenti di guerra. Regole severe, autorizzazioni, controlli, obblighi di deposito del materiale di ripresa cominciarono ad agire da filtro tra i registi e gli operatori, da un lato, e la guerra dall’altro. Dietro alle esigenze militari che imponevano la segretezza per non informare il nemico, i comandi si proposero di controllare e orientare il nuovo mezzo di informazione, di cui avvertirono l’importanza ai fini di mantenere alto il morale delle truppe e di rassicurare il paese.

Nel 1916, Comando supremo del Regio Esercito pubblica le “Norme per i corrispondenti di guerra. Prescrizioni per il servizio fotografico e cinematografico”. Ai fotografi, ai giornalisti, ai cineoperatori era vietato raccogliere e inviare notizie su:
a) la formazione di guerra dell’esercito operante, gli ordini del giorno alle truppe, il numero, forza, dislocazione e movimenti delle unità, gli afforzamenti, i lavori preparatori e gli intendimenti dei comandi e dei comandanti;
b) i Comandi e personale addetto, i servizi e l’organizzazione delle basi;
c) l’armamento e munizionamento delle opere di difesa, la capacità e resistenza di queste;
d) l’efficacia dei mezzi d’offesa nostri e del nemico;
e) lo stato sanitario delle truppe;
f) la potenzialità e stato di conservazione delle strade ordinarie e ferrate;
g) l’entità e dislocazione delle forze avversarie;
h) il numero dei morti e feriti, ed i loro nomi, prima che sia comunicata la lista ufficiale.




locandina e fotogramma del film Maciste alpino (Luigi Romano Borgnetto e Luigi Maggi, 1916)

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23 maggio 1915. Una troupe dell'ltala-film, tra cui Maciste, sta girando un film in un paesello austriaco ai confini con l'Italia. La guerra sta per scoppiare e la direzione dell'Itala chiede alla troupe di rientrare in patria; il gruppo, però, continua a girare, viene arrestato e condotto in questura. Qui Maciste dà una prova della sua forza, umiliando i carcerieri e riuscendo a far fuggire l'intera comitiva che raggiunge il castello di Pratolungo, dove vive Giorgio Lanfranchi, un patriota che proprio quella notte ha deciso di partire per raggiungere le truppe italiane oltre il confine. Scoperti dagli austriaci, Maciste attira su di sé l'attenzione per consentire ai due Lanfranchi di guidare la comitiva verso il confine italiano. Mentre il vecchio Conte torna al castello con Giulietta, Maciste si riunisce al suo gruppo in Italia e si arruola in un battaglione d'alpini. Gli austriaci tornano intanto al castello e fanno prigioniero il Conte, mentre Giulietta si nasconde con un fedele servitore in una capanna. Intanto il soldato Fritz Pluffer, più volte beffato da Maciste, gli tende continui agguati che vanno regolarmente a vuoto. Da ultimo invia al suo nemico un messaggio, informandolo che il vecchio Conte è stato bastonato e lo sfida a raggiungerlo a quota 2430. Maciste giunge all'accampamento nemico, vi porta scompiglio e torna indietro con tre prigionieri, tra cui Fritz. Suggerisce quindi al comandante una spedizione notturna alla quota 2340, che si conclude con successo. Ritrovato Giorgio Lanfranchi, divenuto tenente degli alpini, insieme decidono di liberare il Conte, prigioniero nel castello. Vi giungono proprio quando gli austriaci hanno scoperto il nascondiglio di Giulietta. Maciste entra nel castello, si sbarazza dei guardiani e libera così il Conte e la ragazza. E' un film girato pressoché in diretta che però, per i suoi toni farseschi e consolatori, diventa «lo specchio concettuale della rimozione integrale (o della tentata rimozione) di ogni brutalità dalla comunicazione della guerra»


due fotogrammi de Cretinetti e la paura degli aeromobili nemici (André Deed, 1915)

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Cretinetti si sposa e non potrebbe essere più felice e innamorato della sua giunonica consorte. Proprio il giorno del suo matrimonio, però, legge affisso sul muro un avviso che indica come comportarsi in caso di attacco aereo nemico. La paura che lo assale lo rende fin troppo ligio nell’applicare le indicazioni di sicurezza, provocando guai e incidenti che non solo gli impediranno di godersi la prima notte di nozze ma che provocheranno addirittura il crollo dell’intera casa. Alla fine, i gendarmi si recano da lui con la cartolina di arruolamento e lo portano via di forza, sotto gli occhi costernati della novella sposa. André Deed, interprete di Cretinetti, fu uno dei comici più rappresentativi della ricchissima produzione italiana del genere. La sua specialità era orchestrare situazioni sempre diverse in cui sfogare la sua energia anarchica e distruttrice. In La paura degli aeromobili nemici si aggiunge un finale dal retrogusto insolitamente amaro, in cui gli sposi sono divisi dalla guerra il giorno dopo le nozze anche se l'intento propagandistico del del film era quello di indurre negli spettatori un salutare sghignazzo, utile a scrollare di dosso la paura del nemico.


due fotogrammi di Fantasia 'e surdate (Elvira Notari, 1927

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Una fascinosa fioraia offre agli uomini “i fiori del suo giardino e della sua passione”. Giggi si lascia sedurre, ma poi “qualcuno gli ruba l’amore”. Giggi vive con la madre e il fratello Gennariello, che lavora insieme a lui in una bottega. Si innamora di nuovo, stavolta di Rosa, donna esperta e piuttosto scostumata. Anche lei gli preferisce un altro. Giggi, che aveva rubato alla madre i gioielli e il denaro dal fratello guadagnato lavorando duramente, si suicida per la vergogna e la disperazione, lasciando all’amata una lettera in cui le chiede di restituire i gioielli alla madre. Ma Rosa tace della lettera e accusa Gennariello di fratricidio, probabilmente per vendicarsi della famiglia che non l’ha accettata. Il giovane finisce in carcere, “la tomba di tante vite”, e per sottrarvisi parte volontario per il fronte. È di grande effetto la scena nell’accampamento militare in cui i soldati, accompagnati alla chitarra e al mandolino dai commilitoni, iniziano a cantare canzoni dei rispettivi paesi natali. Gennariello viene ferito. Intanto Rosa, che prova rimorso e pietà per l’anziana madre di lui, le consegna la lettera e confessa l’inganno alla polizia. Alla fine Gennariello viene riabilitato. Rosa, la madre e Gennariello si riuniscono sulla tomba di Giggi. Il finale del film si allontana molto dal monologo da cui è tratta la sceneggiatura: nella versione originale, infatti, il protagonista uccide effettivamente il fratello Giggi durante una lite, perché poco prima quest’ultimo aveva colpito la madre che era caduta a terra come morta lanciando un grido. Nel film, invece, Gennariello è innocente ed è anzi un’anima candida, che ha penato come soldato e ha ottenuto una medaglia al valore. Qui si trova in giro un errore riguardante la trama, secondo alcuni Gennariello si farebbe soldato per sfuggire alla prigione, ma nella realtà egli ha già combattuto e la madre ricorda le sue gesta passate proprio ad evidenziare come una persona che ha lottato così nobilmente difficilmente può avere il cuore di uccidere un fratello. Realizzato dalla prima donna regista italiana, il film venne impietosamente stroncato dalla ciritca e disertato dal pubblico.


locandina del film Fiocca la neve (Emanuele Rotondo, 1927)

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Il film, tratto dall’omonima canzone di Erminio Neri e Mario Bonavolontà, ha il taglio di un film a episodi, ciascuno dei quali narra le vicende di alcune coppie, diversificate per ceto e per censo, per età è e per condizione, e dei loro traumi dovuti alla chiamata alle armi. La trama toccava delicate situazioni sociali legate alla guerra, alla divisione che ne consegue nelle famiglie, ai guasti causati dalla lontananza di mariti, padri, fidanzati e dalle scelte sbagliate e dal dolore e dalla disperazione che da tutto ciò ne poteva conseguire. Di particolare rilievo è la messinscena e la storia (un vero e proprio topos narrativo e drammaturgico dei film di guerra) dell’episodio del soldato che, tornato cieco dal fronte, trova la fidanzata dedita alla prostituzione. Argomenti invisi alla censura fascista che infatti bloccò il film, realizzato alla fine del 1927, per molti anni fin quando, era ormai il 1931, Emanuele Rotondo non si rassegnò ad apportarvi alcune modifiche e quando il cinema, ormai era già in pieno sonoro. E il reduce cieco, questa volta, non ha più sorprese poiché Ninfa d’oro (questo è il nome della ragazza) torna da lui candidamente pura ed innamorata.


locandina e frammento del film Milizia territoriale (Mario Bonnard, 1935)

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Il Cav. Orlandi, impiegato presso un calzaturificio, è del tutto succube e del principale e dei suoi colleghi. Ed anche in famiglia egli è vessato dalla propria dispotica sorella. Ma allo scoppiare della guerra egli è richiamato con il grado di maggiore e ritrova, con il comando, tutta la propria fierezza di uomo. Anzi ha il piacere di vedersi ossequiato dallo stesso industriale, che lo raggiunge nella sua ridotta per pregarlo di voler tenere presso di lui, al sicuro, il proprio figliolo che è stato chiamato alle armi. E' in tale occasione che il Cav. Orlandi riceve la formale promessa di essere avanzato nell'ufficio, a guerra finita, all'ambito posto di capo del personale. La guerra finisce e l'Orlandi ritornato al suo antico impiego, non solo non vede realizzate le promesse fattegli ma, a poco a poco, ritorna alle antiche abitudini di sottomissione, aggravata, ora, dall'amarezza del ricordo di una gloria troppo breve. Ma l'improvvisa comparsa della Martina (una popolana che ha ospitato il comando di tappa nella sua casa) la quale viene a chiedere dal "Signor Maggiore" l'appoggio per ottenere la liquidazione dell'indennizzo di guerra, riaccende i bellicosi spiriti dell'ottimo cavaliere. Egli ritrova sé stesso e in uno scatto, che lo ripaga di tutte le umiliazioni sofferte, dice il fatto suo a quanti, superiori e inferiori, l'hanno tormentato mentre, a braccetto della popolana, abbandona l'ufficio a passo di marcia. In Milizia territoriale, Bonnard riprendeva l’omonima commedia di Aldo De Benedetti, che ne fu anche lo sceneggiatore, per raccontare di un impiegatuccio, umilmente sottomesso ai suoi superiori, che, fattosi volontario, si riscattava al fronte e acquisiva onore e mostrine. Al ritorno alla vita civile proprio quella dignità conquistata al fronte gli serviva per compiere un atto di insubordinazione a colui che lo aveva sempre umiliato. La guerra fornì a Bonnard il contesto entro cui iscrivere una storia privata, di costume.


Le scarpe al sole (Marco Elter, 1935)

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Un veterano della guerra d'Africa, uno sposino e un fidanzato, tutti paesani di un alpestre villaggio, sono chiamati a difendere i confini italiani durante la grande guerra. Episodi di eroismo e di semplice vita di battaglia lumeggiano queste tre semplici figure, che sono seguite attraverso tutta la sanguinante realtà quotidiana della grande guerra. La ritirata e le avanzate, la resistenza e la vittoria finale entrano di scorcio, con la potenza della evocazione vissuta tra le trincee e nei retrovia, in questa epopea dell'ultima guerra d'indipendenza italiana. Dei tre protagonisti il veterano muore eroicamente difendendo il proprio villaggio, gli altri riportano in famiglia e nella vita normale l'eco delle gesta eroiche compiute con la più schietta semplicità. Difficile trovare tracce di propaganda anche nel film Le scarpe al sole del 1935, nonostante i premi che ebbe dal regime. Il regista trasse la trama dal romanzo omonimo di Paolo Monelli. Alla Mostra di Venezia il ministro Dino Alfieri lo premiò con la Coppa del Ministero della Propaganda per essere il film “eticamente più significativo”. La trama, assai semplice, faceva da canovaccio a un galleria di personaggi tipici del mondo degli alpini: i “veci”, reduci della campagna d’Africa, a fianco dei “bocia”, le giovani reclute, con la “morosa” a casa a trepidare, e la “parona” a far prediche ai ragazzi. Era la montagna a rubare la scena alla trincea, mostrando gli scontri tra alpini e Kaiserjäger, le truppe di montagna austriache, in una guerra ad alto tasso di umanità, con uomini che rispettano altri uomini, benché nemici, e rispettano la natura che li chiama a superare difficoltà logistiche estreme. Il regista era rimasto fedele al libro, il primo pubblicato dall’ex capitano degli alpini, e allora giornalista del Corriere della Sera, Paolo Monelli, uno dei più arguti narratori dell’autentica Italia contemporanea. Il libro, edito nel 1921, portava un esplicito sottotitolo: Cronaca di gaie e di tristi avventure d’alpini, di muli e di vino. Il tono minimalista passò dal libro al film. Era l’elegia dell’antiretorica dell’alpino, l’alpino che non si lamenta mai, al massimo brontola, che va dove glielo ordinano i comandanti, che si inerpica come un camoscio sulle montagne e rischia la vita sotto il piombo nemico. L’alpino mette in conto che gli possa capitare di “mettere le scarpe al sole” che nel loro gergo significa morire in combattimento.


Passaporto rosso (Guido Brignone, 1935)

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Storia di una famiglia di emigranti italiani che si è stabilita in America. La donna che era partita dall'Italia insieme con il padre, morto poi di febbre gialla, era stata salvata dalle perverse arti di un losco tenutario di locali equivoci per l'affetto e per il coraggio di un giovane dottore, emigrato politico; e lo sposa. Dalla loro unione è nato un figlio che, fattosi grande si sente esclusivamente americano, con grande cordoglio del padre. Il dissidio si acuisce quando, con l'entrata dell'Italia in guerra molti figli di italiani partono per donare il proprio sangue alla madre patria. Ed il dottore fa domanda per essere arruolato tra i volontari, poiché il figliolo, che ha nel frattempo sposato, non sente il richiamo ideale della terra degli avi. Ma il giovane, dinnanzi al gesto del padre, comprende finalmente quale è la vera sua nazionalità, derivata a lui dai sacrifici e dalle rinunce dei propri genitori, al disopra di ogni legale naturalizzazione. Parte per l'Europa, lascia la sua giovinezza nella rivendica dei sacri confini italiani. A chiusura il film, che ci ha accompagnato lungo tutta l'esistenza di questi emigranti, ci fa vedere la bimba, figliola postuma del caduto, che riceve, nella divisa di Piccola Italiana, la medaglia al valore guadagnata dal padre. Passaporto rosso che una frase di lancio presentava come “un contributo alla storia di questi umili sconosciuti emigranti che partirono verso l'ignoto e l'avventura con il ‘passaporto rosso'” e che “raccoglie tutta una serie di realtà proibite in Italia e permesse solo se rappresentate altrove”, vinse la Coppa del Partito Nazionale Fascista al Festival di Venezia del 1935.


13 uomini e un cannone (Giovacchino Forzano, 1936)

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Racconta una storia minima ambientata nella Grande Guerra. Il cuore della vicenda si origina quando un obice austriaco di lunga gittata, posto sul confine russo, viene distrutto da tiri stranamente ben diretti e concentrati dei russi. Si pone allora la questione di scoprire chi ne ha rivelato la posizione al nemico. I possibili colpevoli sembrano essere i tredici soldati addetti al cannone. Se il traditore non confessa, all’alba i tredici uomini saranno tutti fucilati. Anche qui, come nella pellicola analizzata in precedenza, gli avvenimenti si svolgono su un “fondale” abbastanza neutro e indeterminato, rivelato solo dalla carta geografica indicante il confine tra Austria e Russia, che appare nelle scene iniziali. La guerra e le sue vicende di sangue sembrano qui elementi del tutto accessori, in quanto i 13 soldati conducono una vita quasi allegra sulla linea del fronte: davanti al loro nascondiglio hanno apposto la scritta “Grand Hotel”, un cartello con il disegno di una sirena indica il bagno, che è in realtà un ruscello in cui ci si lava, ci si rade e si conversa piacevolmente. La dispensa, inoltre, è ben fornita. Nei mesi di guerra, uno dei tredici fanti ha persino imparato a leggere e scrivere, tanto che è ormai in grado di inviare lettere a casa in completa autonomia. Ed in questo contesto tutt’altro che guerresco che si innesca l’episodio della distruzione del cannone e la conseguente ricerca del delatore. Da qui comincia la seconda parte del film, assai più tesa e drammatica, caratterizzata dal serpeggiare del sospetto reciproco e funestata dalla morte di uno dei 13. Ma ecco che il racconto si scioglie in un quasi lieto fine quando viene scoperto il colpevole, che non è uno dei soldati austriaci ma una spia russa. La "guerra lieta" dei nostri, dunque, può continuare. Uscito in Italia nel 1939, il film proponeva un’avventura di taglio spionistico. “Sceneggiatura ricca e varia”, così scrisse il critico Filippo Sacchi sul Corriere della Sera (3 settembre 1936) e possiamo dargli credito: probabilmente era più semplice avvincere il pubblico di quegli anni con tecniche di spy story che alle nostre menti, scaltrite e sature di film di spionaggio, possono far sorridere. Un dettaglio non marginale: come segnalava il recensore, Tredici uomini e un cannone aveva una particolarità eccezionale per il cinema: l’assenza totale di personaggi femminili. Diciamocelo senza pudori: per lungo tempo noi stessi avremmo messo in risalto quello stesso elemento, ossia la mancanza di donne nel cast di un film, come fosse qualcosa di naturale la compresenza dei due sessi nella costruzione filmica.


due delle locandine del film Cavalleria (Goffredo Alessandrini, 1936)

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Un ufficiale di cavalleria ama, riamato, la figlia di un nobile piemontese. Ma la ragazza, per salvare il padre dalla rovina finanziaria, si piega a sposare invece un ricco diplomatico austriaco. L'ufficiale si dedica allora appassionatamente all'equitazione e diviene uno dei più celebri cavallerizzi d'Italia. A Roma, alcuni anni dopo, egli incontra la sua antica fiamma e i due starebbero per allacciare una colpevole relazione se le chiacchiere pettegole del mondo, ed un duello che il fratello della donna sostiene per difenderne l'onore, non la persuadessero ad allontanarsi dall'ufficiale. Egli allora, poiché gli muore il cavallo, passa all'aeronautica. Scoppia la guerra e l'ufficiale si distingue eroicamente fino alla morte gloriosa sul campo. Riciclarsi da ufficiale di cavalleria a pilota di aerei e morire in battaglia con la fama di asso dell’aviazione: è questo il plot di Cavalleria, proiettato la prima volta nel 1936. Il regista Goffredo Alessandrini, che aveva esordito a fianco di Blasetti in Terra madre (1931), aveva trovato il successo con il cinema dei “telefoni bianchi”. Fu il maestro italiano di quel genere che esibiva storie amorose ambientate nell’alta società, con donne sofisticate avvolte in fruscianti abiti di lamé, la sigaretta con il bocchino tra le dita, e accanto distinti uomini in frac. Immancabile sulla consolle, possibilmente d’art déco, faceva capolino il telefono, per l’appunto bianco, oggetto simbolo della ricchezza. È facile immaginare quanto fosse desiderato da chi andava a vedere quei film e che nella stragrande maggioranza neppure aveva in casa il telefono "popolare", di colore nero. Molti italiani cantavano “se potessi avere mille lire al mese”, e forse neppure sarebbero bastati per permettersi quegli oggetti di lusso. Forse fu il credo fascista che convinse Alessandrini a virare dai telefoni bianchi ai cannoni neri, sporchi di grasso, pur mantenendo la storia in un contesto di buona società, e a sfruttare il mito asettico e superomistico dell’asso del volante, che il fascismo modernizzatore e bellicista stava coltivando. In Cavalleria l’icona del nuovo eroe, l’asso del volante, si incarnava in Francesco Baracca, abbattuto sul Montello dagli austriaci. Era l’equivalente italiano dell'americano Eddie Rickenbacker, del canadese William Avery Bishop e sopra tutti del tedesco Manfred von Richthofen, il "Barone Rosso".


Piccolo alpino (Oreste Biancoli, 1940)

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La dimensione della guerra come gioco è esplicitata sin dalla prima sequenza di Piccolo alpino, in cui, dopo la didascalia “marzo 1915”, si vede il cortile di una scuola pieno di ragazzi che giocano alla guerra utilizzando delle pere cotte come armi, mentre il preside e un professore discutono sulla possibile entrata in guerra dell’Italia. Il sogno del giovane protagonista della pellicola, Giacomino, è di arruolarsi negli alpini, perché ha la passione delle vette e dell’alpinismo. Così per buona parte del film il ragazzino cerca senza successo di entrare nella sua arma preferita, ogni volta rispedito a casa per la giovane età. Alla fine, dopo aver scoperto due spie, riuscirà a diventare la mascotte di un reggimento di alpini in partenza e finirà davvero in trincea. Sorvoliamo sulle sue innumerevoli avventure, allegre e tristi, che termineranno con la consacrazione di Giacomino ad eroe e con la conseguente medaglia d'oro appuntata al suo petto. Il film racconta dunque una vicenda patriottica di formazione dominata dai valori dell'amor di patria, della dedizione ai propri ideali e dello spirito di sacrificio, e in cui «della guerra e delle armi rimane la sensazione dominante del gioco che prepara a prove più impegnative». Piccolo alpino è tratto da un romanzo, del 1926, di Salvator Gotta, il libro più letto, secondo molti storici, durante il periodo fascista, ad esclusione dei testi scolastici. Con la visione deamicisiana di Piccolo alpino e delle eroiche gesta di Giacomino Rasi, il cinema del Ventennio chiude definitivamente i conti con la Prima Guerra Mondiale. Il silenzio delle armi sugli schermi è la risposta più giusta all’imperversare del secondo conflitto mondiale.


La Grande Guerra nei film italiani d'appendice degli anni Cinquanta e i film controcorrente dei decenni successivi

Nel cinema italiano degli anni Cinquanta, la Grande Guerra fa la ricomparsa sugli schermi. Sono questi gli anni del decollo in grande stile dei film sulla guerra e per il definitivo affermarsi di un genere sempre più gradito dalle platee di censo popolare e, comunque, medio-basso. Sono anni nei quali ai successi del neorealismo popolare del cinema italiano si aggiunge quel filone che attinge le proprie storie dagli eventi del primo conflitto mondiale, riprendendone come trame episodi (reali o romanzati). Arriviamo quindi anni ’70, gli anni della contestazione fino all’epoca del revisionismo storico anche cinematografico che partoriscono, pure nel cinema italiano opere di grande levatura, rivelando spesso il nonsenso della guerra.


Il caimano del Piave (Giorgio Bianchi, 1950)

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Lucilla di Torrebruna, ottenuta la licenza liceale, ritorna a San Donà di Piave, dove risiede suo padre, colonnello di cavalleria. Questi le annuncia il suo prossimo matrimonio con una straniera, Helène. La notizia è accolta senza turbamento da Lucilla, lieta della felicità paterna; malgrado questo, la fanciulla dovrà subire la fredda ostilità della matrigna. Mentre l'Italia è in guerra con l'impero austro-ungarico, un giovane triestino, Franco, antico compagno di studi di Lucilla, a lei legato da reciproco affetto, passa oltre le linee austriache e s'arruola nei bersaglieri. Dopo Caporetto, San Donà è occupata dal nemico: la villa dei Torrebruna è sede d'un comando austriaco. Ora Helène rivela il suo vero volto: è una spia austriaca. Franco e il colonnello organizzano lo spionaggio a favore degl'italiani: travestito da contadino, il colonnello va in cerca di notizie, che Franco, passando il Piave, trasmette al comando italiano. In una delle sue esplorazioni, il colonnello è ferito a morte: Lucilla, aiutata da un giovane contadino zoppo, lo sostituirà nella pericolosa missione. Alla fine il giovane contadino viene ucciso: Lucilla, catturata dagli austriaci, è condannata a morte. La salva in extremis la cavalleria italiana. E' questo il primo film italiano del secondo dopoguerra ambientato ai giorni della Grande Guerra. Pone in primo piano l’attività del controspionaggio italiano che, agendo nei territori occupati dagli austriaci, riesce a fornire ai comandi militari le informazioni necessarie per preparare la grande offensiva dell’ottobre del 1918, che porterà alla liberazione di Trento e Trieste e alla fine della guerra. Pellicola dallo stile melodrammatico e attraversata dall'inevitabile storia d’amore, è impreziosita però dall'utilizzo di brani di battaglie tratti da filmati originali dell'epoca e dalla scelta tutta neorealista di impiegare comparse non professioniste, reclutate tra i contadini delle zone dei combattimenti. Il caimano del Piave è una prova quasi «d’autore» non priva di ambizioni, con una struttura romanzesca che pesca tòpoi narrativi un po’ dappertutto: la scena in cui il colonnello Torrebruna, interpretato da Gino Cervi, torna in incognito nella sua villa occupata dagli austriaci e viene riconosciuto dal cane è addirittura un rimando all’Odissea!


Cavalcata di mezzo secolo (Carlo Infascelli e Luciano Emmer, 1950)

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E' tra i film di montaggio degli anni Cinquanta che vale la pena ricordare. Utilizzando spezzoni di cinegiornali, la pellicola ripercorre i principali avvenimenti storici che hanno caratterizzato il nostro paese dall'inizio del Novecento fino al 1950. Riguardo alla Grande Guerra, sono riportate immagini dell’uccisione dell’erede al trono d’Austria a Sarajevo e dello scoppio della guerra; viene quindi illustrata la fase di neutralità dell’Italia, la successiva entrata in guerra e gli eventi del fronte fino alla vittoria finale. Il tentativo di ricostruire un ambiente e un’epoca si risolve in un’antologia di immagini composta in maniera facile e approssimativa. Il commento pone maggiore attenzione alla battuta che ai contenuti storici, entro quindi una superficiale cornice umoristico-anedottica.


Piume al vento (Ugo Amadoro, 1951)

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Nel 1917 un reggimento di bersaglieri si ritira verso il Piave. Un ufficiale del reggimento, Stefano, si congeda da Anna Frassoni, figlia del proprietario d'una villa, che verrà requisita dagli austriaci e trasformata in ospedale da campo. Anna e il giardiniere Luigi resteranno in comunicazione con gli italiani, cui segnaleranno notizie militari. Il capitano Von Toeplitz, per far dispetto ai Frassoni, che danno prove di fierezza, porta nella villa la propria amica, la cantante Marta Flores, cui assegna la camera da letto di Anna. Durante la notte, Gennaro, soldato di Stefano, entra furtivamente nella camera e, prendendo Marta per Anna, lascia comprendere lo scopo della sua venuta. Marta però non lo tradisce; ma anzi salva lui e la ragazza. Ritornato con altri due per far saltare un ponte, Gennaro viene catturato; ma Marta riesce a liberarlo. Essa avverte poi i Frassoni dell'imminente offensiva italiana e li accompagna al vicino villaggio. Stefano fa saltare il ponte: s'inizia la battaglia, che costerà gravi perdite agli italiani, ma darà loro la vittoria. Marta, ferita mortalmente da Von Toeplitz, riesce a ferirlo gravemente prima di spirare. Un piccolo patriota, che ha suonato le campane, per festeggiare la vittoria italiana, viene fucilato dal nemico. Altro film di genere spionistico sulla Grande Guerra che, tranne qualche scena di azione ben condotta, risente dell’atmosfera melò che sovrasta il cinema italiano degli anni Cinquanta.


Fratelli d’Italia (Fausto Saraceni, 1952)

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A Capodistria, nel 1915, i patrioti si agitano, auspicando l'entrata in guerra dell'Italia: tra i più accesi è Nazario Sauro, capitano della marina mercantile austriaca, il quale, per sottrarsi all'arresto, ripara a Venezia. Quando l'Italia dichiara la guerra alla Monarchia austroungarica, Sauro s'arruola come volontario nella R. Marina ed ottiene d'essere imbarcato, in qualità d'ufficiale di rotta, sul sommergibile "G. Pullino". La sua perfetta conoscenza della conformazione delle coste istriane, gli permette di rendere alla Patria segnalati servigi. Durante una ricognizione, il "Pullino" s'avvicina arditamente ad una base austriaca: la ricognizione ha pieno successo, ma costa la vita a Sergio, giovanissimo mozzo trentino, devoto a Sauro. Sulla via del ritorno, il sommergibile s'arena nei pressi della costa austriaca e vien fatto saltare dall'equipaggio, che tenta di salvarsi, ma viene catturato. Il capodistriano, che milita sotto falso nome, viene riconosciuto ma, fedele agli ordini ricevuti, anche sul patibolo negherà fino all'ultimo di essere Sauro. Un modulo narrativo assai frequentato dal cinema italiano nel raccontare la Grande Guerra, è quello del film biografico sugli “eroi” di quei giorni, così come in questo Fratelli d'Italia. Caratterizzato da un'impostazione storica superficiale e una precaria realizzazione tecnica, il film è un’opera modesta e trascurabile.


La Nemica (Giorgio Bianchi, 1952)

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La duchessa Anna ha allevato, insieme al suo figliolo Gastone, il figlio, che il duca, suo marito, ha avuto da un'altra donna. Prima di morire, il duca ha fatto giurare alla moglie di tener segreta l'origine illegittima di Roberto, che tutti è creduto il figlio maggiore di Anna e del Duca, e da tutti è amato per le sue doti, per la sua generosità. Solo Anna gli è ostile: nel suo intimo ella non sa rassegnarsi a veder il figlio di un'altra usurpare al suo figliolo il titolo e i beni, che a lui soltanto spetterebbero. Due ragazze si contendono il cuore di Roberto: Marta, figlia del notaio di famiglia, e Fiorenza, figlia di un diplomatico. Anna vorrebbe unire Fiorenza e Gastone e Marta a Roberto; ma malgrado gl'intrighi dell'ambiziosa Marta, Roberto e Fiorenza s'amano e si dichiarano il loro amore. Roberto soffre per il contegno ostile della madre, del quale non comprende la ragione. Marta, che conosce i segreti della famiglia, fa capire a Roberto che la sua nascita non è legittima. Roberto, avendo mal compreso l'allusione, affronta sua madre per dirle che l'ama ancor più se è figlio di un di lei illegittimo amore. Anna è costretta a rivelargli che non è suo figlio. Disperato, Roberto parte per la guerra, seguito dal fratello Gastone. Questi viene ucciso: Anna, così duramente colpita, accoglie ed ama ormai come figlio il figliastro, che prima aveva allontanato da sé. La nemica è un film degno di interesse; il regista riesce a trasportare sullo schermo il periodo della Prima Guerra Mondiale con rara aderenza e buon gusto; in questo senso, i costumi e le raffinate scenografie costituiscono l’anima del film ed hanno il merito di ricreare adeguatamente l’atmosfera di un’epoca, così come ad un quadro è necessaria una cornice che si intoni ad esso e lo completi. Le sequenze finali del film appaiono tra i principali punti di forza di una trasposizione cinematografica per molti versi non priva di una caratura artistica nettamente superiore alla media.


La leggenda del Piave (Riccardo Freda, 1952)

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Fedele al registro militar-nazionalistico di moda nei primi anni cinquanta, il film è ambientato in Veneto. Durante la prima guerra mondiale, il conte Riccardo Dolfin vive nel suo castello, nel veneto, con la giovane moglie, Giovanna, ed un figlioletto. La contessa Giovanna è una fervente patriota; mentre il conte non mostra di prendere vivo interesse alle vicende della guerra. Un giorno il conte decide improvvisamente di arruolarsi nell'esercito: la contessa è preoccupata, ma anche orgogliosa per la sua decisione. Il conte Riccardo non intende però di partecipare alla guerra come combattente: s'è arruolato per poter fare nelle retrovie dei loschi affari di forniture. Recatasi a Verona per far visitare il figlioletto infermo, la contessa scopre che suo marito è lì, ingolfato negli affari e nella dissipazione. Dopo una violenta scenata, Giovanna decide di separarsi dal marito. A Caporetto intanto le nostre linee sono state forzate: malgrado i consigli degli amici, Giovanna ritorna col figlioletto al castello, oltre il Piave. Tutto il territorio è invaso dal nemico: un ufficiale austriaco tenta di usare violenza alla contessa, che è salvata dall'intervento di un vecchio servo. Le sventure della Patria hanno scosso profondamente l'animo del conte Riccardo, che domanda d'esser mandato in prima linea, si batte eroicamente ed è gravemente ferito. Finita la guerra, i due coniugi s'incontrano al castello per concordare i termini della separazione; ma quando Giovanna scopre che il marito e mutilato d'ambe le braccia, gli domanda perdono e gli dichiara tutto il suo amore. La leggenda del Piave è una storia romanzata, sulla base del classico metodo di una rappresentazione del “tema e variazioni”. Anche in questo caso, la vicenda si svolge in ambiente aristocratico, con la nobile protagonista fervente patriota e il marito, inizialmente, losco affarista e opportunista che, alla fine, abbraccia la causa italiana da eroico combattente. Il film di Freda è convenzionale ed approssimativo nei raccordi narrativi tra una sequenza e l’altra; e il dramma familiare sullo sfondo di Caporetto non decolla mai oltre i livelli di una rappresentazione appena sufficiente. Accanto ad altri caposaldi del neorealismo popolare italiano, anche La leggenda del Piave fa la sua figura tra un pubblico assetato di forti emozioni e di storie strappalacrime: guerra o non guerra, quello che conta (e che fa cassetta) è il dramma d’appendice. E più sono gli ingredienti di “alta tensione”, più il cineromanzo funziona.


Addio, mia bella signora! (Fernando Cerchio, 1953)

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Guido, studente universitario, incontra casualmente una sconosciuta, verso la quale si sente vivamente attratto: la trova più tardi in compagnia di sua cugina, che gliela fa conoscere. Apprende così che Cristina, la bella sconosciuta, sta per sposare il conte Riccardo Saluzzo, un maturo colonnello dei bersaglieri. Tale notizia è un fiero colpo per Giulio e l'induce ad evitare ogni ulteriore incontro. Quando nel 1915, l'Italia dichiara guerra all'Austria, il colonnello richiamato in servizio, parte per il fronte. Guido incontra di nuovo Cristina ad una festa di studenti e la passione, che in lui si riaccende, non lascia insensibile la donna. Dopo qualche tempo giunge la notizia che il colonnello Saluzzo è caduto in combattimento: ora nulla più divide i due innamorati, che possono abbandonarsi ai loro sentimenti e decidono di sposarsi, non appena trascorso per Cristina l'anno di lutto. Ma un giorno il colonnello riappare: mutilato degli arti inferiori, egli non è più ormai che un rudere. Cristina cerca di dimenticare l'innamorato per consacrarsi ai propri doveri di moglie; ma il colonnello, resosi conto della situazione, decide d'uccidersi per lasciarla libera. Cristina, scoperto il suo proposito, gli impedisce d'attuarlo e rinuncia per sempre all'amore di Guido, che parte per la guerra. Si arriva al pietismo più spinto quando viene mostrato il povero Gino Cervi (che interpreta un maturo colonnello dei bersaglieri, marito della giovane) privo delle gambe, perse sul Carso.


due locandine del film Di qua di là dal Piave (Guido Leoni, 1954)

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"La Mariola" - Durante la guerra, Pasquale, scartato ripetutamente dalla commissione di leva, gira per i villaggi come cantastorie. Dopo l'armistizio dell'8 settembre, catturato dai tedeschi, viene condannato a morte. Il giorno prima dell'esecuzione, dichiara il suo amore a Mariolina, una ragazza di facili costumi, e le chiede di cambiare vita. Pasquale scampa alla morte, lasciando Mariolina, ignara, a piangere sulla sua tomba. Undici anni più tardi, Pasquale è diventato finalmente un soldato e, quando vede uno dei fratelli della ragazza, la tentazione di disertare per non farsi riconoscere è fortissima...
"Angiolina, bella Angiolina" - Mario, scambiato per un suo commilitone, ballerino provetto, viene invitato a casa da Angiolina che, dovendo conseguire il diploma di danza, vuol dargli un saggio della sua abilità. Chiarito l'equivoco, il giovane viene cacciato in malo modo, ma...
"Il povero soldato" - La fidanzata di un caporale, decisa a ottenere qualche ora di permesso per il suo ragazzo, inventa un sacco di bugie, mettendolo in imbarazzo. Soltanto grazie all'intervento del cappellano militare, il soldato riuscirà a evitare i guai.
"Di qua, di là del Piave" - Un colonnello rievoca un'avventura amorosa capitatagli quand'era tenente, al tempo della Prima Guerra Mondiale.
Film a episodi, di cui i primi tre sono brevi e piacevoli commediole narranti le vicende, sentimentali e non, di alcuni soldati e delle loro ragazze: il tono leggero le rende abbastanza riuscite. Il quarto episodio, costruito com'è con i soliti canoni convenzionali della retorica patriottica, chiude invece ingloriosamente questa pellicola, disturbandone tutto l’impianto.


frammento dell'episodio Guerra 1915-1918 (diretto da Pietro Germi) e locandina del film Amori di mezzo secolo (Guido Leoni, 1954), , da cui è tratto

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Nell'episodio viene narrata la triste vicenda d’amore di Antonio e Carmela, giovani contadini abruzzesi, sposatisi prima della chiamata al fronte del ragazzo, avvenuta dopo la disfatta di Caporetto. Antonio muore tragicamente in guerra nell'esatto momento in cui nasce suo figlio: i “grandi” fatti della storia sono guardati attraverso le piccole vicende della vita, come in quelle ballate popolari che raccontano una guerra e un’esistenza in poche strofe essenziali, dove i destini della patria non appaiono importanti quanto quello della fidanzata che attende il soldato, e dove lo strazio della nazione in guerra scolora al confronto allo strazio di lasciarsi, di consumare in una fredda trincea la calda età dell’amore. Tutto l’episodio è accompagnato, con insistente discrezione, dai canti degli alpini, usati come malinconico filo conduttore che sembra sottintendere la ribellione dei sentimenti contro la follia del conflitto globale. La guerra, osservata attraverso gli occhi teneri e sperduti dei giovani protagonisti, appare insensata nei suoi obiettivi come nel suo svolgersi: evento incomprensibile e oscuro che esorbita la volontà dei singoli.


due frammenti dell'episodio Purificazione e locandina del film Cento anni d’amore (Lionello De Felice, 1954), da cui è tratto

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L'episodio si svolge durante la Prima Guerra Mondiale: un attendente vuol consegnare l'ultima lettera del suo tenente, caduto in combattimento, alla ragazza da lui adorata. Ma, avendo scoperto che la ragazza non era degna di tanto amore, riparte senza consegnare la lettera. Purificazione è un delizioso bozzetto cinematografico che, pur restando fortemente ancorato alla sua originaria impostazione teatrale (è tratto da un atto unico di Gino Rocca), scorre con la massima naturalezza in pregevoli sequenze. Schizzato con pennellatura di una recitazione di lusso (si pensi al gustoso “duetto” tra Eduardo e Titina; o all’amaro monologo dell’attore prima dell’epilogo), l’episodio, pur restando ai margini della guerra, ne respira le conseguenze proprio dagli atteggiamenti, dallo sguardo, dai tic, dal detto e il non detto della interpretazione del grande attore napoletano. Tratteggiando alla perfezione la figura dell’attendente disilluso, Eduardo in questo non facile ruolo pieno di colore e carattere, senza mai strafare, si dimostra ancora una volta artista di temperamento e di inimitabile talento. E, come suo solito, riesce a fare, anche di una sola battuta, un piccolo capolavoro.


La campana di San Giusto (Mario Amendola e Ruggero Maccari, 1954)

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Nel 1917, poco prima dell'offensiva italiana, i patrioti triestini attendono con ansia il giorno della liberazione. Roberto, che ha in moglie Cinzia di Rionero, figlia di un vecchio patriota, viene richiamato alle armi. Non volendo a nessun costo vestire l'uniforme austriaca, Roberto passa il confine con l'aiuto dei patrioti, tra i quali è il cieco Paoletto, cantore di patriottiche canzoni, innamorato di Stella, la sorella minore di Cinzia. La villa di quest'ultima viene in parte requisita dal comando austriaco, che vi alloggia degli ufficiali. Intanto a Roberto, che milita ormai nell'esercito italiano, è affidato il compito di distruggere due trasporti di munizioni nel porto di Trieste. Compiuta l'impresa, Roberto, che è rimasto ferito, riesce a raggiungere la sua villa, nella quale prenderà contatto col patriota Bruno Visentin, entrandovi nella veste di ufficiale austriaco. Un altro ufficiale, il maggiore Von Rudolf, scoperta la presenza di Roberto, se ne serve per ricattare Cinzia, alla quale fa la corte. Interviene tempestivamente Roberto; ma le cose si mettono male per lui e per Visentin. Nel frattempo i bersaglieri italiani sono entrati a Trieste: una fucilata italiana uccide Von Rudolf, che stava per sopprimere Visentin. Una palla austriaca colpisce Paoletto, che muore tra le braccia di Stella. Questa potrà seguire liberamente l'impulso del cuore, che la spinge ad amare Visentin. Melò fra i melò, il film aggiunge alla retorica “patriottarda” tutti gli ingredienti relativi al feuilleton ottocentesco, accumulando disgrazie, vicende complicatissime e accidenti vari, il tutto all'unico scopo di far piangere gli spettatori.


Guai ai vinti (Raffaello Matarazzo, 1954)

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Durante la prima guerra mondiale, in seguito ad un improvviso ripiegamento delle truppe italiane, Luisa, moglie di un ufficiale, e la sua giovane cognata Clara vengono sorprese nella loro villa da una pattuglia austriaca e subiscono gli oltraggi e le violenze della soldatesca. La figlia decenne di Luisa, in seguito alle emozioni di quella notte, perde la parola. Le due donne riparano a Verona, dove sono ospiti di una nobildonna e, dopo qualche tempo, Luisa s'accorge con terrore di essere incinta. Suo marito è all'ospedale, essendo stato ferito, e Luisa non ha il coraggio di rivelargli la tragica verità. Disperata, ella tenta di uccidersi: un medico, vedendo in lei i sintomi di un grave perturbamento psichico, acconsente a liberarla del figlio concepito nell'odio e nella violenza. Anche Clara è rimasta incinta; ma il sentimento della maternità è in lei così forte che, benché ami Franco, il suo fidanzato, prigioniero del nemico, ella acconsente a divenire madre. L'avanzata dell'esercito italiano permette alle due donne di tornare alla loro villa; ma Clara è schernita dai paesani, che non le perdonano di avere accettato il figlio dell'invasore. Luisa le fa capire di non poterla più ospitare perché il suo bimbo le ricorda l'onta subita. La povera Clara si rifugia in casa di Teresa, la levatrice, l'unica che si mostri comprensiva. Anche Franco, quando ritorna dopo l'armistizio, benché riconosca la non colpevolezza di Clara, si sente incapace di perdonarle e di accettare il bambino. In preda alla disperazione, la donna vuol lasciare il paese, ma la gente la rincorre schernendola. Mentre cerca di proteggere il suo bimbo Clara, che sta scendendo una scala, perde l'equilibrio e cade ferendosi mortalmente. Franco, pentito, corre al suo capezzale e, alla presenza di Luisa, la sposa in extremis, promettendole di aver cura del bimbo. La lacrimosa vicenda è accompagnata da squilli di fanfare, acclamazioni ai «Savoia!» e penne al vento. Pellicola oggi dimenticata, Guai ai vinti pellicola oggi dimenticata ma curiosissima, a tratti sembra anticipare le suggestioni metaforiche e visive del cinema gotico italiano.


Trieste cantico d’amore (Max Calandri, 1954)

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Un sottufficiale americano, d'origine italiana, Jack Grandi, appartenente alle truppe d'occupazione, fa per caso la conoscenza di una bella signorina di Trieste. Tra i due giovani fiorisce l'amore; ma quando la ragazza, ch'è orfana e vive con la nonna, presenta Jack a quest'ultima, la vecchia gentildonna, nell'udire il nome di famiglia del sottufficiale, assume un contegno nettamente ostile. Il padre di Jack, Antonio Grandi, divenuto poi un celebre cantante, si trovava a Trieste durante la prima guerra mondiale, prima dell'entrata dell'Italia in guerra. Incaricato di una segreta missione politica a favore dell'Italia, s'era innamorato della figlia del conte di Sant'Elmo il capo dei patrioti triestini, che preparavano l'insurrezione. Scopertasi la congiura, il conte di Sant'Elmo venne condannato a morte. Antonio era riuscito a fuggire ed aveva poi combattuto contro l'Austria nelle file del regio esercito. Alla contessina di Sant'Elmo s'era fatto credere che Antonio fosse stato il denunciatore di suo padre: costretta ad aborrire chi tanto aveva amato, aveva sposato un cugino austriaco. Avvertito, da un amico di Jack, di quello ch'è capitato a suo figlio, Antonio, che sta cantando a New York, prende l'aereo e vola in Europa. Giunto a Trieste, affronta la nonna, che altri non è che l'antica innamorata: tutto si chiarisce, i due giovani sono felici. La trama comprende insurrezioni, scoperte e condanne a morte, inganni e matrimoni con cugini austriaci e tanto altro: una serie inenarrabile di sentimentalismi ed errori storici che disegnano una grottesca contraffazione della storia di Trieste durante la Prima Guerra Mondiale.


I cinque dell’Adamello (Pino Mercanti, 1954)

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Il film trova ispirazione in un fatto di cronaca: il racconto del ritrovamento delle salme di cinque alpini, travolti da una valanga dopo un’audace azione effettuata sull'Adamello durante la guerra del '15-'18. Partecipa alla spedizione un giornalista, figlio di uno dei cinque soldati, socialista come il padre. Film sentimental-patriottico-nazionalista con netta tendenza al bozzettismo, che ricostruisce, a colpi di flashback, la vita dei dinque alpini: una pattuglia comandata dal giovane tenente Piero (un inventore di grandi ambizioni) e composta da Momi, il suo affezionato attendente, un cameriere d'albergo, vedovo con una figlia assai capricciosa, Doschei, un giovane contrabbandiere (la cui conoscenza della montagna si rivela preziosa) innamorato della vivace Mariolina, Pinin, precettore in un collegio, imbevuto di romanticismo dannunziano, e Renato, robusto scalpellino, socialista militante. Cinque uomini che, in mezzo al quotidiano travaglio della disagiata vita del fronte, trovano conforto nel ricordo di un affetto, nella speranza di un migliore avvenire, nella condivisione di un'esperienza. Spunti che, seppure non sempre adeguatamente sviluppati, risultano in vari punti interessanti e non sono del tutto rovinati neppure dal retorico finale risuonante di onori ai caduti, del suono del silenzio fuori ordinanza e di altri simili preziosismi. Il film va probabilmente annoverato tra i pochi accettabili del periodo.


Bella non piangere (David Carbonari, 1955)

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Enrico Toti ha un'indole irrequieta che gli impedisce di perseverare in un'occupazione sedentaria. La sua innamorata, Nina, si dà da fare per trovargli un impiego, ma dopo una breve permanenza in un ufficio ministeriale, Enrico si dedica alle corse ciclistiche. Cedendo alle esortazioni di Nina, egli si mette a lavorare alle ferrovie: per salvare un monello egli cade in malo modo e deve subire l'amputazione di una gamba. Per non sacrificare Nina, alla quale non rivela la causa della sua disgrazia, Enrico si stacca da lei Quando nel 1915 l'Italia entra in guerra, Enrico Toti domanda di essere mandato al fronte. In considerazione delle sue condizioni fisiche, la domanda viene ripetutamente respinta, finché il suo desiderio viene esaudito in seguito al diretto intervento del Duca d'Aosta Enrico, che è stato bersagliere ciclista, farà il postino al fronte. Tornato a Roma in licenza, trova Nina sposata e avendo saputo che il marito Fernando la maltratta, gli fa una scenata. La guerra continua implacabile; anche Fernando è richiamato in servizio e, appena arrivato al fronte, viene ferito gravemente. Enrico e Fernando si riconciliano: giunge Nina alla quale il marito, prima di morire, chiede perdono. Durante un violento attacco nemico, Enrico Toti, già colpito una volta, dominando il dolore fisico, continua a far fuoco con la mitragliatrice, finché finite le munizioni, egli sale sulla trincea e scaglia contro il nemico la sua stampella. Colpito nuovamente, Enrico muore, ma sul suo volto brilla un sorriso: è la certezza della vittoria finale. Pellicola caratterizzata da una «sconsolante» ricostruzione storica e infarcita da molta retorica, rappresenta un'opera mediocre anche da un punto di vista strettamente visivo, cui persino gli inserti di spezzoni di documentari di guerra non aggiungono originalità, trattandosi di brani già utilizzati in altre opere cinematografiche.


La canzone del destino (Marino Girolami, 1957)

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Claudio Bianchi e Cesare Marini sono fratellastri, ma per carattere e temperamento sono profondamente diversi: Claudio, tipo esuberante, vivace, conquista subito la simpatia di tutti ed ha la passione del canto; Cesare è serio, studioso. Cesare è innamorato di un'amica di famiglia, Elena, che non ricambia il suo sentimento, benché provi per lui molta simpatia. Ella gradisce invece la corte, che le fa Claudio, il quale ignora che Cesare è di lei innamorato. Quando nota che Elena gli preferisce il fratello, Cesare si ritira in buon ordine. Nel 1915, allo scoppio della guerra, Cesare, ufficiale di complemento, viene richiamato ed inviato al fronte; Claudio invece, grazie alle manovre paterne, riesce ad imboscarsi in un ufficio militare. Il comportamento di Claudio costituisce una delusione per Elena, che si arruola come infermiera nella Croce Rossa. Vedendo partire tutti i suoi amici per la zona di operazione Claudio, che sente vergogna e rimorso della egoistica prudenza che lo tiene lontano dal pericolo, domanda di essere mandato al fronte e viene aggregato al reparto comandato da Cesare. Quando viene a sapere che Elena si trova in un ospedaletto da campo vicino alla prima linea, Claudio chiede un permesso per recarsi a salutarla; ma Cesare, non volendo trasgredire gli ordini superiori, glielo rifiuta. Tra i due ha luogo un diverbio; più tardi Claudio trova per caso un diario del fratello, dal quale risulta che Cesare, innamorato di Elena, ha rinunciato a lei per non causare l'infelicità del fratello; mentre la ragazza malgrado la delusione subita per il comportamento di Claudio, non ha avuto il coraggio di infliggergli a sua volta una delusione. Profondamente colpito da questa rivelazione, Claudio, esponendosi al rischio di essere dichiarato disertore, corre da Elena per restituirle la sua parola e rientra in linea appena in tempo per evitare la denuncia. Durante un'azione rischiosa Claudio cade ferito in prossimità dei reticolati nemici, e viene salvato da Cesare che a sua volta riceve una ferita mortale. Finita la guerra la tomba di Cesare è sempre coperta di violette: è il mesto tributo di Elena al ricordo del suo vero amore. La canzone del destino E' un film senza eccessive pretese, ma condotto con una certa abilità. Buone le canzoni.


La grande guerra (Mario Monicelli, 1959)

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Il piantone romano Oreste Jacovacci ha promesso al coscritto milanese Giovanni Busacca di farlo riformare dietro compenso; ma Giovanni è fatto abile e, ormai in divisa, cerca Oreste per dargli una lezione. Tuttavia quando si ritrovano, i due diventano amici e finiscono insieme a Tigliano, un piccolo paese nelle retrovie, dove attendono, di giorno in giorno, di essere mandati al fronte. Nel frattempo Giovanni, avendo incontrato Costantine, una ragazza di facili costumi, si concede qualche distrazione, ma alla fine si trova alleggerito del portafoglio. Giunge il giorno temuto: Giovanni ed Oreste sono mandati al fronte, dove fanno conoscenza di nuovi commilitoni: il tenente ex professore di ginnastica, il soldatino che spasima per Lyda Borelli, il cappellano Bonoglia. Viene il Natale, festeggiato alla meglio; passa l'inverno, si annuncia la primavera; riprendono più vivaci i combattimenti. Oreste e Giovanni, mentre sono di pattuglia, incontrano un soldato austriaco: potrebbero ucciderlo, ma non si sentono di farlo. Poi inizia la battaglia: morti e feriti, attacchi e contrattacchi. Oreste e Giovanni sono incaricati di portare un messaggio, ma mentre si dispongono al ritorno si trovano separati dal loro gruppo. Per ripararsi dal freddo indossano cappotti nemici: scoperti dagli austriaci, vengono considerati spie. Potrebbero salvarsi se consentissero a fornire informazioni sulla missione di cui erano incaricati. Dapprima i due esitano e sono quasi disposti a transigere con la coscienza ma di fronte all'arroganza dell'ufficiale che li interroga, Giovanni rifiuta di parlare e viene fucilato. Oreste segue il suo esempio e subisce la stessa sorte. Il loro sacrificio non è inutile: i loro compagni sono all'attacco e la vittoria non è lontana. A partire dalla fine degli anni Cinquanta, nel cinema italiano si liberano diverse remore e censure politico-culturali sulla valutazione (tra l'altro) degli avvenimenti storici di cui stiamo parlando. Diviene dunque possibile affrontare il tema scottante della guerra da punti di vista differenti e anche di parlare della voglia di pace che esisteva tra i soldati e tra la gente delle classi popolari. Alcuni film si possono dunque finalmente addentrare in una sana e articolata “rivisitazione” del periodo della Prima guerra mondiale, come La grande guerra che, attraverso una miriade di episodi frammentati e di personaggi a volte anche negativi, mostra la realtà cruda e spesso paradossale della vita dei soldati. I protagonisti di questo grande affresco corale sono due antieroi per eccellenza: Oreste Jacovacci, romano, e Giovanni Busacca, milanese, interpretati impeccabilmente da Alberto Sordi e Vittorio Gassman. I due, nonostante l'indolenza, la furberia e l'ostentata vigliaccheria, sapranno infine morire da “eroi”, più per dignità personale che per un astratto concetto di “amor di patria”. Il campo di battaglia mostrato in questo film è un vero e proprio mattatoio dove i giovani fanti sono mandati all’assalto malnutriti e senza l’appoggio dell'artiglieria, al comando di ufficiali inetti, boriosi o rassegnati. Approccio volutamente antiepico che tuttavia non nega alle scene di battaglia il respiro del grande cinema bellico, con la fotografia dinamizzata dalla profondità di campo e dai virtuosistici movimenti di macchina. La narrazione, alternando sapientemente frammenti umoristici a momenti amari, si presta assai bene a raccontare dal punto di vista del soldato le ambiguità e le barbarie che caratterizzarono quella guerra.


due locandine del film La contessa azzurra (Claudio Gora, 1960)

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Ai tempi del cinema muto, il regista Don Salvatore, mentre sta girando un film, è costretto a sospendere il suo lavoro in seguito al dissidio sorto tra lui e Don Peppino, il produttore, affiancato dalla protagonista, attrice già famosa. Il regista però, sostituendo a quest'ultima una ragazza ancora sconosciuta, Teresa, riprende a girare il film e lo porta a compimento. Il lavoro viene proiettato con felice successo e Teresa acquista un certo nome. Di ritorno a Parigi, il regista rivede Teresa, che esprime il desiderio di partecipare ad un grande spettacolo teatrale, finanziato da Don Peppino e diretto da Don Salvatore. Quando nel maggio del 1915 l'Italia dichiara la guerra, Don Salvatore, chiamato alle armi, parte per il fronte. Durante un fugace incontro nelle retrovie, Teresa confessa al regista il suo amore, che viene ricambiato. La guerra li divide: Don Salvatore muore nel corso di una missione. Teresa, rimasta sola con i suoi ricordi, trascorrerà gli ultimi anni in un ospizio. Il regista (figlio del generale degli alpini Carlo Felice Giordana, caduto nel 1916 nel corso di una ricognizione sull'altipiano di Asiago), alle prese con un “feuilleton” su commissione, realizza una gustosa ed elegante rievocazione della Belle Époque napoletana. Le vicende della Grande Guerra restano sullo sfondo (ne vengono mostrate solo le retrovie, oltre alla scena della partenza e della morte del protagonista, non più giovane, andato al fronte insieme ai suoi giovani compagni di teatro), mentre la trama insiste forse un po' troppo sul registro «deamicisiano» della nostalgia.


Il Piave mormorò... (Guido Guerrasio e Vico D’Incerti, 1964)

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Il film comincia dall'intervento in guerra dell'Italia (1914) per passare poi in rassegna i fatti più drammatici del lungo conflitto: Montenero, San Michele, Carso, Adamello, Gorizia, Podgora, Trentino, ecc. Seguono poi alcune sequenze dedicate alla traversata dell'Isonzo, quindi l'entrata in Gorizia, la guerra in Cadore, la battaglia della Bainsizza, la rotta di Caporetto, la ritirata sul Piave ed i successivi fatti d'arme, fino alla vittoriosa conclusione di Vittorio Veneto. Non mancano inserti dedicati, oltre che alle truppe di terra, all'attività bellica della marina e dell'aviazione. Si tratta di un film di montaggio che ripercorre le alterne vicenda della guerra italiana, a partire dai giorni dell’Intervento, passando in rassegna i fatti e i luoghi più drammatici del lungo conflitto: Montenero, San Michele, Carso, Adamello, Gorizia, Podgora, Trentino, ecc. Seguono alcune sequenze dedicate agli ultimi anni di combattimenti: la traversata dell’Isonzo, l’entrata in Gorizia, la guerra in Cadore, la battaglia della Bainsizza, la rotta di Caporetto, la ritirata sul Piave, fino alla vittoriosa battaglia di Vittorio Veneto. Non mancano inserti dedicati all'attività bellica della marina e dell’aviazione. Nell'insieme il film mostra molto materiale eccellente, senza però discostarsi da una lettura tradizionale del conflitto, ignorando gli intrighi degli alti comandi, l’incapacità tattica e strategica dei generali, i massacri e la vita inumana trascorsa dai fanti nelle trincee, le folli decimazioni di giovani soldati innocenti, i mutilati e i morti.


due locandine del film La ragazza e il generale (Pasquale Festa Campanile, 1967)

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Il soldato Tarasconi, rimasto casualmente in territorio occupato dalle forze austriache dopo la disfatta di Caporetto, fa prigioniero un generale nemico e decide di portarlo ai suoi superiori per ottenere la medaglia d'oro, il premio di mille lire e la desiderata licenza. Intimorito, ma non soggiogato dalla personalità del suo prigioniero, il fantaccino, attraverso le più impensate vicende, lo trascina con sé per monti e vallate. Ma un giorno, vinto dal sonno perde la sua preziosa preda e solo a stento riesce a ritrovarlo aiutato da Ada, una bella e rude contadina che, poco dopo però, con uno stratagemma tenta di liberarsi di lui. Ma, il caso e la fame costringono i tre disgraziati ad una strana collaborazione che si muta insensibilmente in amicizia. Nonostante le difficoltà, con un po' di fortuna e l'aiuto di un somarello, i tre giungono presso le linee italiane. Nell'ultima insidia, un campo di mine, Ada, Tarasconi e l'asino moriranno sotto gli occhi impietositi dell'illustre prigioniero. Il film è una commedia che vuole anzitutto intrattenere. Ne sono protagonisti Tarasconi (Umberto Orsini), un soldato ignorante e affamato, che, per puro caso, cattura sul fronte carsico un generale austriaco (la star internazionale Rod Steiger), e Ada (Virna Lisi), un'attraente contadina costretta spesso ad “arrangiarsi” per sbarcare il lunario. Il soldato, deciso a consegnare il prigioniero nemico al quartiere generale di Udine, accetta l'aiuto della ragazza, entrambi attratti anzitutto (per non dire esclusivamente) dalla ricompensa che avrebbero potuto riscuotere. Un film, dunque, nel quale gli aspetti patriottici sono sovrastati dalla cupidigia e dall'interesse personale dei personaggi che, nel finale, verranno entrambi uccisi da una mina poco prima di raggiungere l'agognato obiettivo. Resta significativo il taglio ideale del film che può essere considerato in qualche modo imparentato con il modello antimilitarista proposto da La grande guerra, volando però assai più basso e delineandosi come un «grottesco bellico» dalle ambizioni forti, che cerca di fare opera di demistificazione nei riguardi della guerra senza però trovare un chiaro accordo tra la dimensione avventurosa, quella psicologica e quella della commedia.


due locandine del film Fräulein Doktor (Alberto Lattuada, 1968)

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Durante la prima guerra mondiale, l'Intelligence Service cerca di neutralizzare Fräulein Doktor, una spia al servizio dei tedeschi che, dopo aver rubato ai francesi la formula di un terribile gas, è riuscita a far affondare nelle acque di Scapa Flow la nave che trasportava lord Kitchener, destinato a una importantissima missione bellica. Lo spionaggio inglese cerca di assicurarsi la collaborazione di Mayer, un collega della donna, e lo incarica di ucciderla. Però i servizi segreti tedeschi intervengono, salvano Fräulein Doktor e le affidano un nuovo incarico sul fronte belga: la sottrazione di alcuni piani militari determinanti per l'esito della guerra. Fräulein Doktor compie la sua missione con successo, ma la sua presenza comincia a essere troppo ingombrante per il comando tedesco... Con questo film Alberto Lattuada crea quello che consideriamo (ben consapevoli del diverso - e assai meno rimarchevole - giudizio attribuito alla pellicola da alcuni critici) uno dei più bei film, non solo di genere, sulla guerra del ‘14-‘18. Lavoro dal forte stile visivo, di «bellezza austera e severa» e di «raffinata classicità», svolge con «secchezza storica», su piani simultanei, il racconto delle vicende di Elizabeth Schragmüller (spia tedesca realmente vissuta, operante nel corso della Grande Guerra con lo pseudonimo di "Fräulein Doktor"), fornendo allo spettatore la «didascalità» della Storia, il sentimento moderno del «fatto», l'atroce ambiguità insita nella narrazione di una guerra. Rilevante in tal senso è la sequenza contrassegnata dal riso convulso della donna-spia alla notizia della morte del suo collega, che mostra molto realisticamente la ferocia della contesa bellica; concetto ribadito anche nelle scene finali del film, costruite con eccezionale realismo e perizia tecnica, riprendenti la battaglia di Ypres, con le truppe tedesche che attaccano l'esercito alleato con i gas asfissianti. E' un film «fulgido» dalla «grazia feroce, proterva, di chi non teme l’ombra dei compromessi», non inferiore almeno a quello di George W. Pabst Mademoiselle Docteur sullo stesso personaggio del ’37, a cui fa anche riferimento nella tragica battaglia di Ypres, in cui per la prima volta nella storia vennero impiegati dei gas asfissianti, come ai cavalieri teutonici di Ejsenstein.


I recuperanti (Ermanno Olmi, 1970)

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Gianni, finita la guerra, torna al suo paese, dopo aver partecipato alla campagna di Russia. Molte cose sono
cambiate anche in quel villaggio di montagna: i giovani se ne vanno all'estero a cercare lavoro e suo fratello minore sta per partire per l'Australia; suo padre si è risposato e la casa gli è estranea. Solo Elsa, la fidanzata, lo ha atteso, ma per loro due sembra non vi sia avvenire perchè Gianni non ha un posto nè egli ha intenzione di lasciare la sua terra. Con altri uomini si mette a fare il taglialegna, abusivo, ma la legge li ferma. Una sera Gianni incontra un vecchio, chiamato Du, che vive solitario e felice fra le montagne, il quale gli prospetta la possibilità di un buon guadagno. Si tratta di recuperare i residuati della prima guerra mondiale sparsi in quantità sulle montagne: la vendita del materiale ai grossisti che vengono dalla città porta un discreto guadagno. Dapprima scettico ed esitante, Gianni segue le operazioni del vecchio più per fare qualcosa che per convnzione. Poi, affezionatosi a lui e trascinato dal lavoro e dal guadagno si appassiona e ne parla ad Elsa: ma questa non accetta questa soluzione poichè non vuole vivere con il timore continuo di un incidente. E infatti un giorno alcuni giovani "recuperanti" muoiono per lo scoppio di una bomba: il fatto colpisce Gianni che segue il suggerimento di Elsa e va a lavorare in un cantiere edile che si è aperto nella zona lasciando Du di nuovo solo. E' una storia semplice che rende molto bene le atmosfere di un paese dell'altopiano di Asiago subito dopo la seconda guerra mondiale. Personaggi reali, paesaggi stupendi, dura vita di montagna. Molto interessante anche perchè mostra dei luoghi dove la guerra è stata veramente combattuta ed ha lasciato segni profondi.


Uomini Contro (Francesco Rosi, 1970)

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Nel corso della prima guerra mondiale, i soldati del generale Leone, dopo aver conquistato, lasciando sul terreno tremila caduti, una cima considerata strategicamente indispensabile, ricevono l'ordine di abbandonarla. Poi l'ordine cambia: occorre che la cima venga di nuovo tolta al nemico. Gli austriaci, però, vi si sono saldamente insediati e la difendono accanitamente con due mitragliatrici. Gli inutili assalti, nemmeno protetti dall'artiglieria, si susseguono provocando ogni volta una strage tra gli attaccanti. Stanchi di essere mandati al massacro da un generale tanto incompetente, quanto stupidamente esaltato, una parte dei soldati inscena una protesta: il generale Leone ordina, come risposta, di punirli con la decimazione. Costretti ad uccidere o ad essere uccisi da uomini come loro, vittime dello stesso mostruoso ingranaggio, i soldati italiani, in gran parte ex contadini, rivolgono la loro fiducia a quei pochi ufficiali - come i tenenti Ottolenghi e Sassu - che giudicano quella e tutte le guerre come inutili stragi. Ma il primo muore, nel tentativo di impedire il massacro dei suoi uomini, mentre Sassu viene condannato alla fucilazione per essersi opposto a un ordine iniquo di un suo superiore. Uomini contro è una pellicola fondamentale, un'opera che vuole anzitutto dissacrare una certa immagine retorica della Grande Guerra, riportandone in primo piano l'assurdità e l'orrore. La storia, liberamente tratta dal celebre diario di Lussu Un anno sull'altipiano, racconta la presa di coscienza del giovane tenente Sassu, interventista della prima ora, che in seguito matura, attraverso il contatto con i fatti reali dei combattimenti, tra il 1916 e il 1917, una viva opposizione alla guerra. Nelle scene finali, il film si solleva a toni di grandiosità tragica, evocando la follia bellica tramite diverse sequenze di grande effetto emotivo. Rimasta nella memoria collettiva quella che evidenzia la demenza dell'ottuso maggiore Melchiorri il quale, in preda all'ira e all'esaltazione guerresca, ordina immotivatamente la decimazione dei suoi uomini nel corso di una battaglia. Il film termina poco dopo, con la fucilazione del tenente Sassu, reo d'essersi rifiutato d'eseguire l'ordine del Melchiorri, causando la rivolta dei soldati e la conseguente uccisione del maggiore. In questa scena il sacrificio del giovane assume una dimensione epica, con la sua figura che giganteggia vincente in primo piano sul plotone di esecuzione, relegato sullo sfondo.


Il Sergente Klems (Sergio Grieco, 1971)

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Klems, un giovane ufficiale tedesco viene fatto prigioniero nel 1918 durante la battaglia di Artois. Per scampare alla morte, cambia la propria divisa con quella di un francese morto e viene mandato in Marocco nella legione straniera. Fatto prigioniero dai marocchini, diserta e decide di combattere al fianco dei ribelli contro i dominatori spagnoli. il film è parte di questa rassegna in virtù dei soli primi nove minuti di pellicola, che rappresentano un piccolo gioiellino incastonato in un film per il resto non troppo originale. La storia principale, ambientata negli anni Venti, ha infatti un preambolo nel 1918, nel corso di una battaglia della Prima guerra mondiale, nell'Artois, quando un ufficiale tedesco, fatto prigioniero dai francesi, scampa alla fucilazione indossando la divisa di un avversario caduto e prendendo l'identità di un soldato della legione straniera, quel Klems che dà il titolo alla pellicola. Interessante la ripresa "a mano" di questa drammatica sequenza in bianco e nero, osservata nella sua interezza attraverso lo sguardo angosciato del protagonista, che vaga inquieto per il campo di battaglia devastato. A questo punto il film diviene a colori e la vicenda si sposta nello spazio e nel tempo, trasportando d'amblais lo spettatore in Marocco, a Guercif, nel 1924. Viene dunque intessuta una trama avventurosa abbastanza godibile ma non particolarmente approfondita, nella quale Klems diserta, decide di sposare la causa dei ribelli contro i dominatori spagnoli e viene infine catturato, processato per diserzione, alto tradimento e spionaggio, e condannato alla fucilazione, pena poi commutata all'ergastolo a vita alla Guyana.


La sciantosa (Alfredo Giannetti, 1971)

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Durante la seconda guerra mondiale, Flora Bertuccelli è una matura cantante del café-chantant. Quando le viene proposto di esibirsi davanti ai soldati impegnati al fronte, Flora la considera una valida opportunità per dare una svolta alla sua carriera e vi si getta con entusiasmo. Al suo arrivo, viene accolta da Tonino Apicella, un giovane soldato che da civile era un musicista e che è stato scelto, insieme ad altri, per accompagnarla nelle sue esibizioni. Quando sale sul palcoscenico, però, Flora si trova davanti a soldati mutilati, feriti e stanchi e, commossa, rifiuta di intonare la marcia militare e inizia a cantare "'O surdato 'nnammurato". Lo spettacolo viene interrotto da un bombardamento nemico e Flora e Tonino corrono a mettersi in salvo. La mattina successiva, la coppia sale sull'automobile del comandante, ma sopraggiunge un nuovo bombardamento e Flora d'istinto fa scudo con il suo corpo a quello di Tonino... La sciantosa è un film per la televisione, trasmesso il 26 settembre 1971 all'interno del ciclo Tre donne, narra la vicenda di Flora (la "sciantosa" del titolo, come venivano chiamate nel teatro napoletano le cantanti di caffè concerto), focosa e sboccata diva in declino, non più giovanissima, dal carattere ardente tagliato sulle caratteristiche recitative della grande Anna Magnani: un insieme di megalomania, vittimismo e volgarità popolaresca, ma anche di fragilità, candore, vigore e umanità. L'incontro con il dolore e i drammi della Prima guerra mondiale, cui viene in contatto nel corso di una tournées per i soldati impegnati al fronte, le provocano una profonda conversione interiore culminante nell'estremo sacrificio quando, mentre stava tornandosene a casa accompagnata dal soldato Tonino Apicella, interpretato da un giovane Massimo Ranieri in grande vena, fa scudo col suo corpo ai colpi di mitraglia indirizzati alla loro auto da un aereo nemico, restando uccisa. Il film di Giannetti è forse un po’ semplicistico nell'affiancare il superficiale mondo del varietà a quello brutale del conflitto, ma risulta molto commovente e sincero: la sequenza del canto di «‘O surdato ‘nnammurato» davanti alla platea dei giovani militari feriti, come la scena in cui Flora assiste i soldati morenti, rappresentano immagini che non si dimenticano facilmente .


fotogramma dell'episodio La piccola vedetta lombarda e locandina del film Cuore ( Romano Scavolini, 1973), da cui è tratto

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Il terzo episodio del film Cuore di Romano Scavolini, del 1973, trasferisce il noto racconto de La piccola vedetta lombarda, tratto dal testo di Edmondo De Amicis, dai giorni delle battaglie per l'unità d'Italia a quelli della Prima guerra mondiale, narrando la triste storia di un giovane pastore che sale sul campanile di un paese abbandonato per ragguagliare una formazione sbandata di cavalleggeri italiani intorno a ciò che succede nelle zone limitrofe. Il piccolo eroe non viene intimorito neppure dalle pallottole nemiche finché, colpito, non precipita e muore.


Porca vacca (Pasquale Festa Campanile, 1982)

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Guerra 1915-1918: Barbasini, un cialtrone cantante di balera, ce la mette tutta per farsi riformare, disposto a tutto, fino all'ignominia. Ma sembra proprio che la Patria non possa fare a meno di lui. Con il suo carico di paura e vigliaccate arriva al fronte ma più che gli austriaci, suoi nemici mortali diventano due dritti compari di truffe, Tomo Secondo e Marianna, due contadini che vivono la guerra arraffando. Per un bullo come Barbasini essere fregato da un burino è duro ma essere preso in giro da una ragazza è il colmo. Inizia la guerra privata. Due mondi si scontrano: quello che vive nelle balere e quello astuto dell'"agricolo", ma tra i due è la ragazza che muove i fili dei sentimenti e delle rivalità e delle gelosie: per lei non c'è disfatta, gioca da sola a vivere. Vince con gli italiani, con gli austriaci e con i due cuori teneri e sgomenti di Barbasini e del burino. Ma alla fine la crudeltà della guerra coinvolgerà anche lei: non le servirà più la civetteria, la furbizia: solo i sentimenti sopravviveranno. E' un film caratterizzato da una comicità ruspante, tipicamente lombarda: un bozzettismo caratteristico del regista e del genere (rappresentato assai bene da un attore come Renato Pozzetto), condito da risate grasse e qualche accento malizioso. Il tema della Grande Guerra viene così affrontato in chiave buffonesca ma non senza mordacità, con esiti antieroici e satirici lontanissimi dalla tradizionale retorica della guerra. La pellicola, non compresa dalla critica del tempo né dal grande pubblico, andrebbe probabilmente attentamente riconsiderata.


locandina e fotogramma del film Torneranno i prati (Ermanno Olmi, 2014)

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Siamo sul fronte Nord-Est, dopo gli ultimi sanguinosi scontri del 1917 sugli Altipiani. Nel film il racconto si svolge nel tempo di una sola nottata. Gli accadimenti si susseguono sempre imprevedibili: a volte sono lunghe attese dove la paura ti fa contare, attimo dopo attimo, fino al momento che toccherà anche a te. Tanto che la pace della montagna diventa un luogo dove si muore. Tutto ciò che si narra in questo film è realmente accaduto. E poiché il passato appartiene alla memoria, ciascuno lo può evocare secondo il proprio sentimento. Tratto da un racconto il film esce in occasione del centenario della Prima Guerra Mondiale ma il regista vuole che vada in un senso diverso rispetto alle celebrazioni. "Ora celebriamo il centenario di quella guerra, con discorsi e bandiere, ma bisogna sciogliere ancora il nodo dell'ipocrisia e della vigliaccheria. Mi auguro che in queste celebrazioni si trovi il modo di chiedere scusa ai tanti soldati che abbiamo mandato a morire senza spiegare loro perché. Della prima Guerra Mondiale non è rimasto più nessuno di coloro che l'hanno vissuta e nessun altro potrà testimoniare con la propria voce tutto il dolore di quella carneficina. Rimangono gli scritti: quelli dei letterati e quelli dei più umili dove la verità non ha contorni di retorica". E' infatti ad un pastore, Toni Lunardi detto Toni il matto, che Olmi affida la frase che chiude il film "La guerra è una brutta bestia che gira il mondo e non si ferma mai".




La vittoria mutilata

Questa espressione venne coniata da Gabriele D’Annunzio, per definire ciò che l’Italia aveva ricevuto a seguito della Conferenza di pace di Parigi, a Versailles, in cambio di 500.000 caduti e di un milione di «mutilati». La delegazione italiana, guidata da Orlando e Sonnino, si presentò a Versailles con grandi speranze, dettate dal decisivo ruolo che l’Italia aveva avuto nella sconfitta degli imperi-centrali, ma ben presto ci si rese conto che il clima della conferenza di pace non era tra i più favorevoli: i nostri delegati, che si aspettavano, legittimamente, l’applicazione del trattato di Londra del 1915, si scontrarono contro l’ostruzionismo del presidente americano Wilson, poco propenso a riconoscere quanto era stato promesso al nostro paese ed, in particolare, l’annessione della Dalmazia e della città di Fiume, che, nel 1918, si era proclamata italiana. Di fronte alla fermezza di Wilson, Orlando e Sonnino, sdegnati ed irritati, abbandonarono i lavori, un gesto che ebbe conseguenze disastrose poiché, quando si trattò di decidere le sorti delle colonie tedesche, queste furono spartite tra le altre potenze, mentre l’Italia venne ignorata. Il regno di Vittorio Emanuele III si vide riconoscere il Trentino, l’Alto Adige, l’Istria e Trieste, ma non la Dalmazia e Fiume, che sarebbe stata occupata, nel 1919, con un colpo di mano, da una spedizione guidata da D’Annunzio, alla testa dei suoi legionari. L’umiliazione subita dai nostri delegati, a Versailles, creò, nel paese, già debilitato dalla crisi economica post-bellica, un clima di grande frustrazione e irritazione, alimentando la tesi della cosiddetta "vittoria mutilata", di un inutile sacrificio di morte e distruzione, vanificato dal tradimento delle altre potenze vincitrici. Ne sarebbe seguita una situazione di grande instabilità politica, caratterizzata da scioperi e proteste, in cui trovò terreno fertile, soprattutto tra i reduci, desiderosi di rivalsa, il partito fascista di Benito Mussolini, nella sua scalata al potere, culminata nella marcia su Roma del 1922, che diede il via al tragico ventennio.

Edited by drogo11 - 27/12/2020, 14:48
 
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La storia d'Italia in celluloide (fra neorealismo, propaganda e satira) - 5^ parte - Il Ventennio fascista ed il secondo conflitto mondiale.

1 - 2 / I film della propaganda



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E’ dato ormai acquisito dalla comunità degli storici quanto anche i film possano essere valide fonti per lo studio della storia. E questo vale tanto più in un caso – come fu quello del Ventennio fascista italiano – in cui fu Benito Mussolini stesso ad attribuire una simile valenza nel momento in cui proclamò ufficialmente che «la cinematografia è l’arte più forte». Normalmente colleghiamo questo motto alla funzione propagandistica dei documentari prodotti dall’Istituto Luce, ente pubblico creato nel 1925 e posto alle dipendenze dirette del capo del Governo. La creazione de L’Unione Cinematografica Educativa (meglio conosciuto come Istituto LUCE) aveva come scopo essenziale: la “diffusione della cultura popolare e dell’istruzione generale per mezzo delle visioni cinematografiche messe in commercio alle minime condizioni di vendita possibile, e distribuite a scopo di beneficenza e propaganda nazionale patriottica”. (art. 1, decreto legge n. 1985 del 5 novembre 1925). Il progetto, che prevedeva la supervisione di Mussolini sui materiali realizzati, aveva il fine di costruire il monumento visivo dell’era fascista, collocando l’onnipresente figura del duce nel paesaggio urbano e rurale. Il passo successivo di questo intervento di propaganda, educazione e informazione attraverso le immagini avviene con il decreto legge n. 1000 nel 3 aprile 1926, con il quale si rende obbligatoria la proiezione di uno o più documentari dell’Istituto Luce prima di ogni spettacolo.

l'ingresso degli studi di Cinecittà

cinecitta



Cavalcando l'onda della propaganda, nel 1932 venne inaugurata la Mostra del Cinema di Venezia, nel 1937 vennero fondati a Roma gli studi di Cinecittà e del Centri Sperimentale di Cinematografia, la più famosa scuola di cinema italiano ad oggi ancora in funzione. Il giorno dell'inaugurazione di Cinecittà, il 21 aprile, fu scelto come data simbolica poiché si ritiene essere il giorno della fondazione di Roma, instaurando così un legame con la grandezza del cinema italiano. Nello stesso anno la sede dell'Istituto Luce venne spostata nel quartiere Quadraro e per la cerimonia di posa della prima pietra venne allestito un gigante apparato scenografico raffigurante Mussolini dietro ad una macchina da presa e la scritta: la cinematografia è l'arma più forte. Vero fiore all'occhiello del regime, luogo non solo di lavoro, ma anche di mondanità frequentato dai figli del Duce, dalle dive del momento e dai gerarchi con le loro amanti, a Cinecittà si girano 79 film nel 1939 e 85 pellicole nel 1940. Persino durante i primi anni di guerra, mentre cominciano già a scarseggiare il pane e i generi di prima necessità, Cinecittà non smette di inondare di film e di ottimismo la nazione: 89 pellicole nel 1941, 119 nel 1942. Solo dopo il 25 luglio 1943 (arresto di Mussolini) le cose cambiano e le sorti degli stabilimenti voluti da Carlo Roncoroni si confondono con quelli di un paese già sull'orlo del baratro. In pratica negli anni che vanno dalla sua costituzione ai tragici eventi del 1943 Cinecittà rappresenta il più grande e importante centro di produzione cinematografica d'Europa.

ventennio1



Va però ricordato che l’interesse del fascismo per il mezzo cinematografico riguardò anche i film a soggetto, come è dimostrato dalle molteplici iniziative che, dagli anni Trenta in poi, lo Stato italiano mise in campo per sostenere e indirizzare il cinema di finzione. Su questo terreno il fascismo subì l’influenza sia dell’Unione Sovietica, dove Eisenstein e Pudovkin teorizzavano il valore educativo dell’arte cinematografica, sia della Germania hitleriana, presa a modello per quel che riguarda l’organizzazione governativa della propaganda e della produzione filmica. Sostanzialmente il filone che ebbe maggior sviluppo fu proprio quello propagandistico o di revisione storica, ma il genere che ebbe maggior successo (in Italia) fu quello della commedia sentimentale, meglio conosciuto come il "cinema dei telefoni bianchi".

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Il cinema propagandistico lo abbiamo già incontrato nella parte relativa all'avventura coloniale ed al primo conflitto mondiale. Dei 772 film prodotti in Italia dal 1930 al 1943, sono classificabili come film di propaganda diretta o indiretta circa un centinaio, con una assoluta preminenza della propaganda indiretta su quella diretta. Proprio negli anni trenta, il regime dà inizio al potenziamento di una produzione che favorisca il divertimento del pubblico, creando così la commedia cinematografica all'italiana, sviluppatasi in tre filoni: la commedia “comico-sentimentale”, la commedia dei telefoni bianchi e la commedia “déco”. In particolare, la nascita del filone dei "telefoni bianchi" è dovuta al prendere atto, da parte del regime fascista, che i film più scopertamente propagandistici non avevano molto successo. Conseguentemente il regime non ostacolò la produzione di film leggeri, scanzonati, di pura evasione che esaltavano la piccola borghesia e i suoi sogni di ascesa sociale. La particolare definizione nasceva dal fatto che spesso in queste pellicole si mostravano ambienti ricchi e scintillanti nonchè dal colore dei telefoni di cui si servivano nei loro film le dive di allora; da qui il filone venne definito "cinema dei telefoni bianchi" che si colloca sostanzialmente nell'arco temporale che va dal 1936 al 1943.

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Per quanto riguarda il rapporto tra Fascismo e censura, nel 1934 nasce il Sottosegretariato di Stato per la Stampa e la Propaganda, trasformato nel ’35 in Ministero per la Stampa e la Propaganda, e nel ’37 in Ministero della Cultura Popolare, la cui guida inizialmente fu affidata al genero di Mussolini, Galeazzo Ciano. All’interno del Sottosegretariato venne istituita la Direzione generale della cinematografia, alla cui testa fu posto Luigi Freddi.


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La Direzione era una struttura centralizzata in grado di esercitare un controllo capillare sulla produzione cinematografica, seguendone i vari passaggi, dall’ideazione alla concreta realizzazione. Durante la cosiddetta «era Freddi» (1934-1939) la censura sui film, già disciplinata da una vecchia legge del 1914, assunse una nuova valenza: non più un mero controllo a posteriori sul prodotto finito, ma un condizionamento preventivo sui film in fase di ideazione.

alcune pagine del libro della censura preventiva (anni 1924 - 1931), con titoli respinti

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Fra i compiti vi erano quelli di controllare la pubblicazione e la censura dei documenti considerati pericolosi per il regime e di promuovere i film propagandistici ed il monitoraggio dell’importazione di film stranieri. Un buon numero di film americani viene censurato: potrebbero influenzare in modo negativo il popolo italiano. L’obiettivo principale non è vietare i film italiani che non appoggiano il fascismo, ma modificarli, in modo che non lo contraddicano. L’introduzione del sonoro amplia le possibilità della censura, che può inserirsi in fase di doppiaggio, modificando i dialoghi. Quando un film è considerato inopportuno, viene bloccato l’acquisto ai distributori. Scarface di Howard Hawks (1932) viene proibito perché tutti i personaggi sono italiani.

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Coerentemente con l’indirizzo di Freddi, nel 1935 venne creato l’Ente nazionale italiano di cinematografia (Enic), un soggetto formalmente privato ma sostanzialmente statale, controllato dal Luce, la cui attività riguardò la distribuzione delle pellicole e la gestione delle sale cinematografiche. L’Enic non divenne mai un monopolista nel settore, ma operò sempre a fianco dei privati. Nel giugno del 1940 le illusioni di pace svanirono con l’entrata in guerra contro Francia e Inghilterra, si sperava, quindi, anche nella conquista degli schermi europei. La possente macchina cinematografica avrebbe dovuto pertanto avviare e intensificare la sua produzione a sostegno della guerra e, a tal proposito, si costituì nel 1941 il Comitato per il cinema di guerra e politico.


Il "Libretto di circolazione per i film" emesso dal Ministero della Cultura Popolare e che accompagnava la pellicola nelle varie sale di propiezione del territorio nazionale.
In particolare questa copia appartiene proprio ad uno dei film di propaganda che incontreremo a breve: Squadriglia Bianca

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Con la nascita della Repubblica Sociale Italiana, a Venezia nacque il Cinevillaggio (chiamato anche Cineisola), una struttura per la produzione cinematografica che fosse alternativa a Cinecittà (abbandonata dai fascisti a causa del conflitto), sorta a partire dall'autunno del 1943 per iniziativa del Ministero della Cultura Popolare della RSI, diretto da Ferdinando Mezzasoma. Il Cinevillaggio avrebbe consentito la continuazione della produzione cinematografica, anche in un'ottica di propaganda e costruzione del consenso. Negli studi del Cinevillaggio venne girato un ultimo film ascrivibile al filone propagandistico: Un fatto di cronaca, diretto da Piero Ballerini e interpretato da Osvaldo Valenti e Luisa Ferida (attori-simbolo del cinema fascista, in seguito fucilati dai partigiani perché accusati di collaborazionismo con i nazifascisti). Dall'autunno del 1943 alla caduta della Repubblica Sociale Italiana nella primavera del 1945 furono prodotti diciassette film a Venezia (altri sette furono prodotti a Torino e quattro in altre località) mentre altri, iniziati, videro interrotta la loro lavorazione con la fine del conflitto.

La Giudecca (Venezia), sede principale del Cinevillaggio o Cineisola

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A partire dal secondo dopoguerra, la cinematografia italiana proporrà dei ritratti, spesso impietosi, di un periodo storico che ancora oggi sembra non essere stato superato. Ai telefoni bianchi dell'era fascista, la cinematografia della neonata Repubblica, risponde inizialmente col neorealismo, sviluppando successivamente quel revisionismo che fa sua l'allocuzione "la Storia viene scritta dai vincitori". Un richiamo alla riscoperta di un'anomalo amor patrio, lo ritroviamo nei nostri giorni con la nascita di partituncoli politici che inneggiano ad un nazionalismo "de noialtri" e altre cialtronerie varie. Anni fa qualcuno, per puro tornaconto politico, ha affermato che "il Fascismo è stato il male assoluto", considerate principalmente la mancanza di libertà personale e la promulgazione delle Leggi Razziali: probabilmente arriverà il momento in cui la nazione e la storia valuteranno definitivamente quegli anni che il cinema italiano, ancora oggi, continua a rappresentare come un periodo da dimenticare più che da accettare.

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1. I film della "propaganda diretta"

Il grido dell'aquila (Mario Volpe, 1923)

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E' considerato il primo film di propaganda fascista, diviso in quattro parti: 1) Gli episodi più gloriosi della Prima Guerra Mondiale; 2) Sforzi della Nazione per la guerra; 3) Crisi morale e materiale dopo la vittoria e prime lotte fasciste; 4) Esaltazione italica dell'Esercito, della Marina e del Fascismo. Nel film la figura del Duce veniva esaltata associandola alla figura di Garibaldi. Così come la figura di Mussolini si legava a quella dell'eroe dei due mondi, nel film veniva anche associata la figura del serpente (con evidenti riferimenti biblici) a quella del comunista. Si riscontra perciò un altissimo livello di simbolizzazione, meccanismo che divenne molto comune nei film di Propaganda Fascista.



L'armata azzurra (Gennaro Righelli, 1932)

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Amici per la pelle, entrambi aviatori, due ufficiali litigano tra di loro e si tolgono il saluto. Finiranno comunque per diventare cognati anche se tra mille equivoci e gelosie, per merito di un'impresa aviatoria che li riavvicinerà. Il film, che rientra nel filone del cinema di propaganda fascista, vuole essere più che altro una documentazione ed una glorificazione dell'aviazione militare italiana dei primi anni trenta. A questo scopo, la regia aeronautica ha fornito al regista Gennaro Righelli tutte le possibilità di materiale e di lavoro, cosicchè è stato possibile prendere sul vero, senza ricorrere a trucchi di sorta tutti gli episodi salienti del film.



Camicia nera (Giovacchino Forzano, 1933)

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Un fabbro italiano emigrato viene ferito durante la guerra sul fronte francese, perdendo la memoria. Ricoverato in un ospedale tedesco, la recupera tre anni dopo e dalla Tunisia rimpatria, felice per il risanamento delle Paludi Pontine e l'inaugurazione della città di Littoria. Le vicende produttive del film "sintesi cinematografica delle vicende d'Italia dal 1914 al 1932" o più esplicitamente "film della passione fascista" (secondo lo slogan propagandistico diffuso dall'Istituto Luce), furono al centro di vivaci polemiche. Nella lettera inviata da Forzano a Mussolini il 6 aprile 1933, il regista fornisce testimonianza sulla figura e sul ruolo del vero protagonista dell'operazione Camicia nera: Benito Mussolini. Dalla lettera emerge, infatti, il suo intervento diretto con "suggerimenti" e "correzioni" durante la stesura della sceneggiatura e la sua supervisione per ciò che concerneva le parti del film già girate. Un intervento che culminò nella ripresa del discorso fatto dallo stesso Mussolini all'inaugurazione della città di Littoria e che era stato scritto appositamente per Camicia nera.



Vecchia guardia (Alessandro Blasetti, 1934)

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Poco lontano da Roma. Albori della nuova Italia di Mussolini. Gli squadristi, guidati da Roberto Gardini, il figlio maggiore dei dottore del villaggio, accorrono a sedare i disordini provocati dagli ultimi sovversivi, i più tenaci. Ma durante una di queste spedizioni il fratello di Roberto, Mario, un ragazzo vivace, serio e intelligente, viene ucciso. Il dolore per il sacrificio del giovane calma gli animi. Anche gli avversari più irriducibili, sgomenti, rientrano in sé, e tutti, alla fine, si riappacificano e si uniscono nel segno del loro bene più grande, la Patria. Lina, la maestra del paese, ammira la famiglia del dottore. La stima reciproca, la simpatia per la comunanza delle idee e dei sentimenti, trasformano in amore il sentimento tra lei e Roberto, amore che incoraggia all'azione, assieme al ricordo del piccolo eroe caduto nei giorni della Marcia su Roma. Il film che glorificava la marcia su Roma e lo squadrismo, generalmente viene considerato dalla critica uno fra i migliori lungometraggi di carattere apologetico prodotti in Italia in epoca fascista. Il film venne distribuito in Germania col titolo Mario e fu particolarmente apprezzato da Adolf Hitler, da sempre estimatore del fascismo, tanto che il Führer ricevette Blasetti e il piccolo Franco Brambilla in terra tedesca per una visita. I giudizi retrospettivi portano a vedere nel film il momento di massima adesione di Alessandro Blasetti al regime fascista con alcune scene di retorica squadrista che ne abbasserebbero il livello qualitativo spezzando il ritmo drammatico che pur il regista riesce ad imprimere alla vicenda. Un film pertanto tutt'altro che disprezzabile, ma giudicato discontinuo e, in linea di massima, girato con chiari intenti apologetici. Secondo molti, Vecchia guardia fu l’unico film sinceramente fascista che sia stato girato durante il ventennio e per questo viene considerato il film - manifesto del cinema di propaganda.



Stadio (Carlo Campogalliani, 1934)

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Un giovane atleta, lievemente ferito in uno scontro di palla ovale, abbandona le competizioni sportive e si dà alla vita galante. Trascura così la sua fidanzata, anch'essa come lui universitaria e sportiva, per seguire un'americana. I suoi ex compagni intanto, si allenano per i prossimi Littoriali di Torino. In una partita di allenamento un concorrente della sua squadra è ferito. Il protagonista, spinto dalle incitazioni dei compagni e della sua fidanzata, riprende il suo posto e, naturalmente, fa vincere la partita. Ritorno ai campi sportivi, rottura di relazioni con l'americanina (che si rivela viceversa romana) e ripresa dei migliori rapporti con la fidanzata. Film di insolita ambientazione sportiva, sul mondo del rugby, venne premiato con la medaglia d'oro alla Mostra del cinema di Venezia del 1934. La pellicola, di cui da decenni si erano perse le tracce, è ambientata nel contesto dei Giochi Littoriali. Si tratta di un’opera di propaganda da vedere, al di là delle considerazioni sulla qualità artistica, soprattutto per il suo valore storico. Nel 1934, Anno XII dell’Era Fascista, la Nazionale italiana di calcio guidata da Vittorio Pozzo conquistò il suo primo titolo di Campione del Mondo. Eppure, in quel momento storico, fu un’altra disciplina sportiva ad essere prescelta dal regime di Mussolini per esaltare e celebrare le virtù sportive e morali della gioventù italiana. Era il rugby, che all’epoca si poteva ancora chiamare con il nome della cittadina inglese dove la tradizione vuole che sia nato; solo più tardi sarebbe stato obbligatorio definirlo “palla ovale”. Il segretario del PNF e presidente del CONI Achille Starace propugnava fortemente la diffusione di questa disciplina; questa frase è sua “il giuoco del Rugby, sport da combattimento, deve esser praticato e largamente diffuso tra la gioventù fascista”.



Aldebaran (Alessandro Blasetti, 1935)

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Il figlio di un ammiraglio a riposo, dopo essersi sposato, non è più capace di mantenersi vigile e severo nell'osservanza della disciplina e della dedizione al proprio dovere. Lo turba, oltre all'amore passionale per la propria moglie, una gelosia senza requie. Dopo molte mancanze è consegnato agli arresti per una negligenza grave. Ciononostante egli scende a terra per seguire la moglie ad un ballo. Dopo questa nuova colpa viene invitato dal comandante, solo per riguardo al padre ammiraglio, a scegliere tra le dimissioni o il comando di una lunga crociera nel Mar Rosso. Egli dà le dimissioni. Ma l'affondamento di un sottomarino, durante le manovre, e la morte eroica di tutto l'equipaggio, lo richiamano al senso della propria dignità. Rischia la vita pur di tentare il salvataggio del sommergibile. Poi, elogiato da tutti per il suo eroismo, accetta la crociera e ritrova, con il proprio dovere, anche il vero amore di sua moglie, che si sacrifica alle esigenze del servizio. Ambientato nel mondo della Regia Marina, il film fu negativamente valutato, molti anni dopo averlo girato, dallo stesso regista che lo definì «un film assolutamente anonimo, privo di qualsiasi ragione fondamentale di esistere, se non quella che bisognava che io lavorassi perché avevo allora da pagare le tasse oltre che la famiglia» e imputandogli uno «spiacevole senso di ibrido», dovuto probabilmente al conflitto irrisolto tra pubblico e privato (dovere militare e sentimento amoroso), alla mancata fusione tra dimensione individuale e collettiva.



La conquista dell'aria (Romolo Marcellini, 1939)

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Attraverso una serie di quadri e di sequenze che ricostruiscono i tentativi cui l'uomo si è dedicato da Icaro a oggi per conquistare e dominare l'aria, si descrive tutta la storia dell'aviazione e si presentano le figure storiche dei pionieri dell'ala. L'ultima produzione cinematografica, nata dalla collaborazione italo - inglese, realizzato con sequenze di montaggio tra cui scene tratte dal film Conquest of the Air prodotto nel 1936 da Sir Alexander Korda (pseudonimo di Sándor Laszlo Kellner), regista e produttore cinematografico ungherese naturalizzato britannico. All'uscita, il film ricevette critiche estremamente positive, quali quella del critico cinematografico Mino Doletti, che affermò:"Da Icaro in poi abbiamo qui tutta la storia del volo, del volo come aspirazione e come conquista. Senza distinzioni di confini o di bandiera l'epopea della difficile conquista trova nei duemila metri di pellicola la sua cronaca sublime".



Il Cavaliere di Kruja (Carlo Campogalliani, 1941)

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In Albania un giovane giornalista italiano conosce una ragazza albanese, che corrisponde ai di lui sentimenti di affetto. Un giorno il giornalista salva un capo tribù, avverso al regime di Re Zog e, dopo averlo trasportato al suo villaggio ferito dai colpi degli scherani del Re; accetta di stringere con lui un "patto di sangue": Questo patto, secondo la legge della montagna albanese; crea una parentela di fraternità; e, quando il giornalista viene a sapere che il capo tribù è fratello della ragazza da lui amata; si trova costretto - data la parentela assunta - a rinunciare ai suoi sogni matrimoniali. La situazione sentimentale è astutamente sfruttata dal Prefetto di Polizia di Tirana, che cerca di porre il capo tribù contro il giornalista italiano. La cosa finirebbe tragicamente se il sopraggiungere delle truppe italiane non consentisse di chiarire ogni equivoco. Il film, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1940, è probabilmente l'unico film realizzato dalla propaganda fascista sulla Guerra d’Albania. Gli interni furono ambientati nel circolo della stampa estera di Tirana.



La nave bianca (Roberto Rossellini, 1941)

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A bordo di una nave da guerra. I marinai, in attesa degli ordini, trascorrono il tempo pensando alle persone che li aspettano a casa e scrivono loro lettere dense di fatti quotidiani e di nostalgia. Improvvisamente arriva l'ordine di partire e durante una battaglia la nave viene colpita. I marinai feriti vengono trasportati sulla "Arno", una nave ospedale su cui prestano servizio le infermiere volontarie della Croce Rossa. Per i marinai inizia un periodo di attesa: la loro nave, in avaria, deve essere riparata prima di poter ripartire per altre battaglie. Il film è la prima parte di una "trilogia della guerra fascista" che continua con Un pilota ritorna (1942) e L'uomo dalla croce (1943). Il supporto del Ministero ha reso possibili le riprese in ambientazioni reali, invece che in ambienti ricostruiti in studio. Gran parte del film è stata girata sulla nave ospedaliera Arno e su una nave da guerra. Il cast è interamente composto da attori non professionisti, molti dei quali membri dell'equipaggio della nave ospedaliera.



Uomini sul fondo (Francesco De Robertis, 1941)

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Un sottomarino italiano, durante una manovra, urta con una nave da carico e affonda. Il comandante e gli uomini dell'equipaggio si prodigano, in collegamento con le unità di superficie, per cercare di salvare l'imbarcazione. Ma l'incidente è piuttosto grave e la posizione che il sommergibile ha preso sul fondo subacqueo impedisce l'efficacia di ogni sforzo. Occorre che un marinaio, uscendo dallo scafo e affrontando una quasi certa morte, si sacrifichi per salvare gli altri. E ciò avviene, con quella cosciente e semplice generosità eroica che distingue gli uomini del mare d'Italia. Girato sotto l'egida del Centro Cinematografico del Ministero della Marina, Uomini sul fondo è considerato tra le ultime pellicole del Cinema di propaganda fascista, ha preso parte l'equipaggio di un sommergibile italiano da crociera comandato da Nicola Morabito, uno dei pochi attori che il regista riconfermerà in un'altra pellicola. E’ il primo della "tetralogia militare" dellaguerra sul mare”, che comprende La nave bianca (diretto da/con Roberto Rossellini) e Alfa Tau! Uomini sul fondo risulta in ogni caso un film che ha come scopo quello di mettere in risalto la compattezza morale dei marinai delle unità italiane impegnati in una guerra dagli esiti alterni e spesso assai poco felici e in tal senso la pellicola anticipa tutta la poetica neorealista, nella quale l’accurata verosimiglianza nasconde l’ideologia.



M.A.S. (Romolo Marcellini, 1942)

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Quattro ufficiali di marina comandanti di Mas, vengono richiamati in servizio. La vita borghese li aveva allontanati dalle tolde delle loro navi. Con loro partono due ex sottufficiali, ma tutti costoro sono ancora attaccati alla vita e alle consuetudini borghesi. A poco a poco, però, il mare li riconquista e essi cominciano a sentire la stupenda responsabilità del compito loro assegnato. Le singole preoccupazioni personali sono presto dimenticate ed essi vivono solamente per l'adempimento della loro missione, e il sacrificio eroico di uno di loro non farà che rafforzare la ormai salda compattezza della squadriglia. Il film esalta l’impegno e le gesta degli equipaggi dei famosi mezzi siluranti veloci.



Alfa Tau! (Francesco De Robertis, 1942)

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Un sommergibile rientra alla sua base dopo una missione e l'equipaggio approfitta di una breve pausa di riposo per una rapida immersione nella vita familiare. Si seguono i principali personaggi del sommergibile in questa breve parentesi che serve a mettere in evidenza il loro carattere e la loro tempra d'uomini. Terminata la licenza, lo squalo d'acciaio riparte per la sua missione ardua e pericolosa. Nello svolgimento di questa, alle prese con le insidie dei sottomarini nemici e con gli attacchi degli aerei avversari, il sommergibile, in un episodio altamente drammatico sperona ed affonda un sommergibile nemico. È il terzo e ultimo film – dopo Uomini sul fondo e La nave bianca – prodotto dal Centro Cinematografico della Marina e completa la tetralogia militare della guerra sul mare. Al film ha preso parte l'equipaggio del sommergibile "Enrico Toti" della Marina, con a capo il Comandante Zelich. L’opera, proiettata alla Mostra di Venezia nel settembre del 1942, rispecchia con sorprendente sincerità la reale situazione bellica e sociale del Paese. In una fase in cui il mondo culturale comincia a prendere le distanze dal regime, De Robertis firma un film fascista e patriottico di assoluta lealtà, serio nei contenuti e forse tecnicamente migliore di Uomini sul fondo. Nel dopoguerra, proprio a causa del suo taglio ideologico, Alfa Tau! verrà – al contrario di Uomini sul fondo – volutamente dimenticato dalla critica.



I tre aquilotti (Mario Mattoli, 1942)

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Tre inseparabili compagni, allievi dell'Accademia Aeronautica di Caserta, Marco, Mario e Filippo, seguono con entusiasmo i corsi per conseguire il brevetto di pilota. Quando giungono a Caserta per trascorrervi un periodo di vacanze la mamma e la giovane sorella di Mario, Adriana, sboccia un idillio tra la ragazza e Marco. Ma il fratello della ragazza si oppone ostinatamente al loro fidanzamento perché non è convinto della serietà delle intenzioni di Marco e la loro amicizia ne risente. In più, in seguito al trauma psicologico subito per un incidente in fase di atterraggio, Marco non è più in grado di ottenere il brevetto di pilota e viene assegnato ai servizi a terra. Terminati i corsi gli allievi si separano e raggiungono la loro destinazione sui campi di battaglia. Dopo vari mesi il fratello della ragazza ha un'avaria al motore e, costretto ad atterrare in territorio nemico, viene ferito. Quando dalla base italiana si organizza un volo di soccorso, Marco chiede e ottiene il permesso di prendervi parte e riesce a trarre in salvo il ferito, dopo aver preso i comandi dell'aereo al posto del pilota ucciso dai colpi della contraerea. I due 'cognati' si riconciliano, Marco torna a pilotare, i tre aquilotti si ritrovano e naturalmente, al più presto verranno celebrate le nozze. In questo film, le intenzioni erano quelle di celebrare, illustrandone l'attività, l'Accademia Aeronautica di Caserta, ma nel racconto sparisce progressivamente l’alone dell’avventura, resta il senso dell’eroismo e del sacrificio, ma ci si comincia a interrogare – perché la forza delle cose e del reale agisce e modifica anche il senso dello spettacolo – sul significato della guerra.



Un pilota ritorna (Roberto Rossellini, 1942)

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Un apparecchio da bombardamento italiano s'incendia in combattimento nei giorni decisivi della campagna di Grecia ed il pilota, salvatosi col paracadute, imprigionato dagli inglesi, è avviato con gli italiani dei campi di concentramento, a uno dei porti nei quali l'esercito sconfitto si rimbarca. Durante le peregrinazioni di questi sventurati, il pilota conosce la giovane figlia di un medico italiano che si prodiga come può ad alleviare le pene dei suoi compagni e tra i due nasce un piccolo idillio. In una notte di bombardamento infernale, egli riesce a sfuggire alle sentinelle e balzato sull'unico apparecchio nemico che non sia stato distrutto, torna in Italia e allo stremo delle forze, e ferito dal fuoco contraereo italiano, atterra nel suo campo di aviazione dove i compagni gli comunicano la resa del nemico. La pellicola è il secondo capitolo della cosiddetta trilogia della guerra fascista. Venne giudicato come un film di guerra ben riuscito, tecnicamente ed esteticamente notevole.



Redenzione (Marcello Albani, 1942)

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Nel 1922, un giovane che durante la prima guerra mondiale aveva disertato entra a far parte di un gruppo che, in nome dell'ideale marxista, tenta di opporsi alle azioni dello squadrismo fascista. Giorno dopo giorno, però, il ragazzo si sente sempre più vicino agli ideali del nazionalismo fascista e, dopo aver ripudiato il comunismo, i suoi compagni e le azioni in cui si era impegnato in precedenza, si unisce a un gruppo di camerati. Pieno di vergogna per il suo passato, il ragazzo cerca un riscatto e, pochi giorni prima della Marcia su Roma, sacrifica la sua vita al nuovo ideale. Redenzione rappresenta un monumento tardivo, già tutto avvolto in un’atmosfera di morte, allo squadrismo nascente; si tratta di un film realizzato fuori tempo massimo, nella primavera del 1942, quando ormai risultava del tutto anacronistico il tentativo del fascismo, in crisi di identità, di rivolgere lo sguardo indietro alla ricerca della purezza nello squadrismo delle origini.



I trecento della Settima (Mario Baffico, 1943)

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La pellicola narra la storia di una compagnia di Alpini che partiti da un borgo di una delle nostre vallate, si reca in Albania dove le è affidato il compito di tenere ad ogni costo un valico di particolare importanza. I trecento uomini, stretti intorno al loro capitano, restano fedeli alla consegna e resistono all'infernale accanimento del nemico preponderante e meglio piazzato, logorandosi e assottigliandosi notevolmente e sopportando privazioni di ogni genere. Ma il morale è altissimo e, alla fine l'esiguo gruppo di superstiti, conquistata la vetta in possesso del nemico, rende gli onori al proprio capitano eroicamente caduto. Film bellico è interpretato da soldati italiani appartenenti alla Divisione Alpina “Cuneense”, reduci dal fronte albanese della guerra italo - greca. Ispirato ad un episodio realmente accaduto, fu girato nei mesi estivi del 1942, ma è poi uscito sugli schermi nel maggio 1943, in un momento in cui le sorti della guerra erano per l'Italia ormai segnate (in quel mese si arresero le forze italo - tedesche in Africa Settentrionale e nell'inverno precedente c'era stata la catastrofe in Russia, oltre ai crescenti bombardamenti sulle città), causando quindi scarso richiamo per un film che descriveva la realtà bellica.



L’uomo dalla croce (Roberto Rossellini, 1943)

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Un reparto di carri armati operante al fronte russo, dopo uno scontro col nemico riceve l'ordine di spostarsi. Un carrista ferito gravemente non può essere trasportato e il cappellano resterà presso di lui per assisterlo. L'indomani giungono i russi; i due vengono fatti prigionieri e condotti ad un comando. Mentre il cappellano risponde serenamente alle minacce di un commissario del popolo, un'azione degli aerei italiani porta lo scompiglio tra le file russe e nel trambusto il cappellano riesce a trasportare il suo ferito in un casolare. Quivi egli ha modo di esplicare il suo apostolato tra donne e bambini che vi sono rifugiati. Un gruppo di russi guidato da un commissario e una miliziana prende possesso della casa e contrasta l'attacco italiano. La battaglia è cruenta, ma alla fine il cappellano riesce a trarre in salvo i feriti e le donne. Esausto e ferito mortalmente, egli ha la consolazione di redimere con la sua parola ed il suo esempio, la miliziana e il commissario del popolo. Girato nel 1942 in bianco e nero nella campagna di Ladispoli, impiegando attori non professionisti, è ispirato al sacrificio di Padre Reginaldo Giuliani e chiude la trilogia rosselliniana della guerra fascista, composta da La nave bianca (1941), Un pilota ritorna (1942) e appunto L'uomo dalla croce (1943). La pellicola venne dedicata alla memoria dei cappellani militari caduti in guerra.



Uomini e cieli (Francesco De Robertis, 1943)

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La guerra ha disperso sui vari fronti quattro ufficiali aviatori della stessa squadriglia uniti da un sentimento di cordiale amicizia. Giorgio, perfetto pilota, inguaribilmente scettico, riporta una grave ferita ma ne guarisce. Convalescente decide di andare alla ricerca degli altri tre. Uno di questi che era il poeta ed il ganimede della compagnia ha perduto il braccio destro. Ora è impiegato alla censura militare dove pur seguendo con interesse, attraverso la corrispondenza, lo svolgimento dei romanzi altrui, trova modo di comporre felicemente il proprio. Il secondo ha perduto una gamba e, in gran parte, l'udito, ma è riuscito nondimeno a rifarsi un'esistenza fondata sull'amore della terra e quello di una brava ragazza che ha sposato. Il terzo si è ritirato in tempo dalla guerra, si è dato agli affari accumulando denari, ma ha in serbo una pistola nel caso che le cose vadano male. Giorgio che non credeva a nulla comprende ora che sono le forze morali quelle che sostengono l'uomo nelle avversità e dànno all'esistenza di ognuno la sua particolare impronta. Interpretato da attori non professionisti, scelti tra il personale dell'aeronautica, il film costituisce un caso del trasformismo italiano. Concepito come film di propaganda bellica, è sospeso dal 25 luglio. Il regista ultima la produzione nel 1945, ma la pellicola rimane inutilizzata nei magazzini. Poi nel dopoguerra la riadatta alla nuova realtà democratica, in parte modifica i dialoghi, e come tale esce nel 1947.




2. I film della "propaganda indiretta"


Sole (Alessandro Blasetti, 1929)

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In una zona paludosa sottoposta a bonifica gli abitanti sono in rivolta perché temono di essere espropriati. Marco, uno dei capi della comunità, decide di incontrarsi con l'Ing. Rinaldi, direttore della bonifica, il quale riesce a convincerlo che l'intervento porterà sviluppo e benessere. Ma il giovane ed impulsivo Silvestro non si fida e decide di attaccare con altri residenti il cantiere dei bonificatori, attirando Rinaldi in una trappola. Quando Silvestro riconosce nell'ingegnere l'ufficiale che gli salvò la vita durante la guerra, lo mette in salvo, senza riuscire però a bloccare gli scontri, durante i quali viene uccisa Giovanna, figlia di Marco, di cui Silvestro è innamorato. La tragica morte di Giovanna fa cessare gli scontri e gli abitanti accettano la bonifica. La pellicola d’esordio di Alessandro Blasetti (1900-1987) è, assieme a Rotaie (1929) di Mario Camerini, il film che sancisce la rinascita del cinema italiano dopo l’ “oscuro” decennio degli anni ’20 in cui, mancanza di idee, sterilità narrativa e una frammentaria distribuzione regionale l’hanno indebolito e quasi totalmente annullato – dopo i fasti del primo decennio del ‘900. Sole è un’opera indipendente, nata sotto la spinta della cooperativa blasettiana Augustus, che ne segue la lavorazione dall’inizio alla fine (ma che all’insuccesso del film in questione non sopravviverà). Il film non ha alcun successo di pubblico, ma è tutt’oggi considerato un caposaldo della cinematografia italiana, nonostante ne resti visibile un solo rullo della durata di poco meno di dieci minuti. L’opera di esordio di Alessandro Blasetti, quindi, è particolarmente complessa e stratificata, basata su una lunga e diversificata serie di opposti che mai si attraggono e sempre si respingono. Solo il “Capo” sembra essere in grado di portare ordine nella confusione, ragionevolezza nella ribellione. Sole può dunque essere interpretato come il paradigma dell’ascesa del fascismo, in cui la “battaglia” tra gli opposti simboleggia i tempi dello squadrismo, mentre la fermezza e il decisionismo del “Capo” riecheggiano gli anni del consenso. Questo film, sin dal titolo, vuole raffigurare con intelligenza e maestria, l’alba di una nuova era, cinematografica e non.



La canzone dell'amore (Gennaro Righelli, 1930)

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Lucia frequenta il Conservatorio di Roma ed è innamorata di un compagno di studi, Enrico, che per dimostrarle il suo amore, le ha dedicato una canzone. Un giorno però, alla pensione dove alloggia, Lucia riceve un telegramma che la avverte del fatto che sua madre è gravemente malata. Tornata al paese, la ragazza deve fare i conti con la morte di sua madre e con un fratellino di cui non sapeva l'esistenza, Marietto, un bimbo di pochi mesi figlio di Alberto, che si trova all'estero per lavoro. Lucia accetta di fare da madre al bambino e, tornata a Roma, trova lavoro in una casa discografica, rifiutando di vedere Enrico per non intralciare la sua carriera. Deluso e amareggiato, Enrico accetta una scrittura all'estero e lascia la capitale. Due anni dopo Lucia riceve la visita di Alberto che, diventato ricco, è pronto a riconoscere suo figlio e portarlo con sé. La ragazza non ha intenzione di separarsi da Marietto, ma il ritorno di Enrico, ancora innamorato di lei la aiuterà a superare ogni ostacolo. Col soggetto tratto da una novella di Luigi Pirandello, è il primo film sonoro italiano ad essere proiettato nelle sale cinematografiche nazionali. Era diretto al pubblico italiano piccolo-borghese che forniva la base e il sostegno del regime fascista del tempo. Il suo tono garbato e rassicurante, l'esaltazione di valori positivi di stampo cristiano e della virtù femminile suscitarono l'entusiasmo degli spettatori e decretarono il successo del film, uscito, pochi mesi più tardi, in due versioni estere la prima in tedesco e la seconda in francese.



Rotaie (Mario Camerini, 1930)

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Due giovani sposatisi contro il parere delle famiglie si rifugiano in un piccolo albergo vicino alla stazione ferroviaria; non hanno neppure i soldi per pagare la stanza e progettano di suicidarsi nella notte. Il vento sollevato dal passaggio di un treno apre la finestra e fa cadere il bicchiere che contiene il veleno che avrebbe dovuto ucciderli; capiscono così che quella non è la strada giusta e fuggono nella notte piovosa cercando riparo proprio nella stazione dove trovano un portafogli pieno di banconote. Salgono su un treno per Sanremo e cercano la fortuna giocando al casinò. Ben presto restano nuovamente senza denaro, il giovane viene sorpreso mentre cerca di appropriarsi delle fiches di un ricco giocatore che finge di aiutarlo ma che in realtà in cambio vuole passare la notte con la giovane sposina. In principio i due giovani cedono al ricatto ma all'ultimo si sottraggono e, lasciati i soldi ricevuti, salgono su un treno senza conoscerne la destinazione. Nel vagone di terza classe incontrano la generosità degli altri viaggiatori che, nonostante la loro povertà, condividono senza secondi fini il poco cibo con loro. Il ragazzo trova lavoro in fabbrica e la coppia cambierà vita. Rotaie può essere considerato come l'ultimo film muto e il primo film sonoro italiano. Senonché il sonoro, le poche battute di dialogo, furono applicati posteriormente, a film terminato. Ed era un film concepito come opera di narrazione per immagini. Il film di Camerini, insieme a Sole di Alessandro Blasetti, segna l'inizio della "rinascita" del cinema italiano, dopo la crisi culminata nella seconda metà degli anni venti e viene spesso iindicato come antesignano dei "telefoni bianchi".



Terra madre (Alessandro Blasetti, 1931)

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Il giovane duca Marco. un gaudente che ha scialacquato il suo patrimonio per seguire i capricci di Daisy, una ragazza vanitosa, è in procinto di vendere le sue terre al commendatore Bordani, uno speculatore. Costui, però, dà ordine di incendiare le stalle e i granai sperando che il fuoco si propaghi alle case coloniche in modo da poter sloggiare i contadini definitivamente. Quando il duca viene informato delle intenzioni criminali del commendator Bordani, capisce il suo errore e corre a domare personalmente l'incendio. Riuscito nell'intento, riprende in mano l'azienda agricola, lascia Daisy e sposa Emilia, la figlia del suo massaro Nunzio, da sempre innamorata di lui. Gli apprezzamenti espressi nei commenti del tempo furono rivolti sia allo sforzo produttivo che, per quanto in misura minore, alla fattura del film. Quanto al primo aspetto venne scritto che «la "Cines" ha raccolto il monito del governo fascista ed ha dato e continua a dare la sua collaborazione per la rinascita del cinema nazionale, veramente e schiettamente nazionale [per cui] anche se non si può pronunciare la parola "capolavoro", non si può, né si deve, escludere la sforzo notevolissimo di una realizzazione in molte parti felici e, a tratti, potente».



Palio (Alessandro Blasetti, 1932)

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L'imminente gara per la conquista del palio tiene in agitazione tutta Siena; ma nella contrada della Lupa, che l'anno passato è stata vittoriosa, più grande è il tumulto delle passioni. Tra i sostenitori più fervidi della Lupa, che convengono all'osteria della Cicciona, si distingue il fantino, che l'anno prima con il palio ha conquistato anche il cuore di Fiora, la figlia della Cicciona. Fantino e amici si trasferiscono poi al tabarin e il fantino non sa resistere al fascino della canzonettista che vi si produce. Quand'essa gli confida, durante una cena, le chiavi della propria stanza, l'innamorato fantino pianta la fidanzata e s'avvia, nel cuor della notte, alla casa della sciantosa; ma raccoglie soltanto un sacco di botte, che lo mandano mezzo morto all'ospedale. Il suo posto è preso dal figlio della Cicciona, uno scemo, che non sa far nulla, e tutto sembra perduto, quando improvvisamente il valoroso fantino lascia l'ospedale, partecipa alla gara, vince il palio e riconquista il cuore di Flora. L'aspetto propagandistico di questo film si evidenzia nelle parole della didascalia iniziale: «Nel Campo di Siena ogni estate, da secoli, si corre il Palio, tipica espressione dello spirito combattivo della nostra gente. Più che una corsa è questa una lotta di rioni - le Contrade - che per la bravura del cavallo ricevuto in sorte e per la valentia del fantino si contendono un drappo di seta dipinta - il Palio - simbolo e ricordo dell'agognata vittoria. Popolani e signori vivono, in quei giorni, entro i confini di ogni contrada, la stessa ardente passione e tutto mettono in opera: denaro, astuzia, violenza, pur di condurre al trionfo i loro antichi vessilli.»



Acciaio (Walter Ruttmann, 1933)

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Terni, 1933. Mario e Pietro, amici da tempo, litigano a causa di Gina, una ragazza di cui sono entrambi innamorati, ma sono costretti a lavorare faccia a faccia in acciaieria. A causa di un incidente sul lavoro Pietro muore e la colpa ricade su Mario che, considerato quasi un assassino, è costretto ad allontanarsi. Ma l'amore per Gina e la sua onestà verso il lavoro, lo fanno tornare sulle sue decisioni. Film dal soggetto scritto da Luigi Pirandello su esplicita richiesta di Mussolini e la regia è affidata al noto documentarista tedesco Walter Ruttmann, arrivato in Italia dopo il successo ottenuto nel ’27 con Berlino-Sinfonia di una grande città, fu caratterizzato da numerosi contrasti tra l'autore, il regista, il compositore e la produzione. Ne venne prodotta anche una versione tedesca. Alla sua uscita diventò l'oggetto di una netta divaricazione tra le opinioni della critica, che lo considerò quasi unanimemente poco meno d'un capolavoro, e l'accoglienza del pubblico, che ne decretò un pesante insuccesso commerciale. Acciaio infatti fu la pellicola con gli incassi di gran lunga più bassi tra tutti quelli della "Cines" di quegli anni. il pessimo risultato commerciale della pellicola se non causò, certo contribuì non poco alla crisi della "Cines" che dal maggio 1933 iniziò a licenziare il personale, sotto il peso di perdite accumulate dal maggio 1932 che nell'ottobre 1933 superarono i 4 milioni e mezzo di lire. A sancire il fallimento del film fu anche la quasi contemporanea uscita sugli schermi di Camicia nera, che invece riscosse un grande successo di pubblico, restando in cartellone per alcune settimane. Anche Pirandello, il cui lavoro era stato ripetutamente stravolto nel corso delle riprese, espresse un lapidario giudizio negativo sull'opera: “Vogliamo fare un documentario su quella baracca di ferrivecchi che è una fonderia italiana? Il mio sforzo è stato quello di cavare dalla stupidità meccanica un po’ di dramma umano”.



Treno popolare (Raffaele Matarazzo, 1933)

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In una domenica d'estate, alla Stazione di Roma, su un treno per Orvieto, detto 'popolare' perché trasporta molte persone che vogliono fare una gita all'aria aperta. Un vecchio viene scoperto dalla moglie con la giovane Maria. Lina viaggia con il collega Giovanni e con Carlo. Dopo aver visitato Orvieto, Lina e Carlo si allontanano in bicicletta e si appartano. Giovanni, credendoli annegati nel fiume, mette in subbuglio il paese. Nel viaggio di ritorno, sono tutti stanchi. Carlo appoggia la testa sulla spalla di Lina, Giovanni e Maria si conoscono. Caratterizzato da elementi di novità e realismo rispetto al cinema italiano dell'epoca, e per questo apprezzato dalla critica, ebbe tuttavia una negativa accoglienza da parte del pubblico. Con Acciaio, fa parte della serie di film sulle grandi realizzazioni sociali operate dal fascismo, dalle acciaierie di Terni alle organizzazioni del tempo libero.



Campo di Maggio [all'estero "I cento giorni"] (Giovacchino Forzano, 1935)

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E' l'adattamento cinematografico del lavoro teatrale di Forzano dallo stesso titolo. La storia dei "cento giorni" vista con occhio politico moderno, nel dissidio tra la Camera e il Potere Assoluto, con chiara deduzione di quanto ha danneggiato la Francia, e il vociferare dei parlamentari che soffocò, in quell'ora solenne, la volontà indomita di azione dell'Imperatore. È un solido dramma storico costruito per gettare una luce propagandistica sul presente, sovrapponendo a tratti marcati la figura di Napoleone a quella del Duce. L'aspetto più sorprendente è la tensione tragica che sostiene il ritratto del dittatore che precipita verso la sconfitta, realizzato durante l'apogeo di Mussolini. Lo stesso Mussolini concesse all'amico Forzano di inserire anche il suo nome sui manifesti destinati alle rappresentazioni all'estero. Da questo traspare la collaborazione tra il regista e Mussolini. Forse scritto a quattro mani o forse solo ideato o suggerito dal Duce (che avrebbe poi apportato personalmente alcune modifiche nelle successive rappresentazioni) l'opera non presenta particolari meriti artistici o storici se non quello di creare una sorta di parallelismo tra Mussolini e Napoleone Bonaparte, un personaggio storico da sempre amato dal capo del fascismo italiano.



Condottieri (Luis Trenker, 1937)

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Giovanni Medici, figlio di Caterina Sforza, dopo aver seguito la madre in esilio, da adulto si arruola nella milizia del Malatesta. Seguendo il suo ideale di unità e libertà, crea le 'Bande Nere' primo nucleo di Milizie nazionali. Firenze lo condanna come traditore e scioglie il suo gruppo. Liberato da alcuni fidi, Giovanni ripara in Francia, per poi rientrare a Firenze al soldo del Duca d'Argentière. Di qui, ricostituite le Bande Nere punta verso Roma. Soggiogato dalla maestà del Pontefice ne ottiene il perdono e sposa la ragazza che ama. Malatesta e d'Argentière però si coalizzano contro di lui e nella battaglia successiva solo con un gesto d'eroismo conquisterà la vittoria al prezzo della propria vita. Primo film frutto della collaborazione italo-tedesca, girato in pieno ventennio, il film viene annoverato nel cinema di propaganda fascista: oltre al contributo dello stato nella sua realizzazione tecnica, contiene infatti espliciti riferimenti - quasi un palese omaggio - allo squadrismo di Benito Mussolini e alla mitologia delle camicie nere della rivoluzione fascista.



Lotte nell'ombra (Domenico Maria Gambino, 1938)

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Una banda di avventurieri si impossessa di un importante segreto militare, rappresentato dalla formula di un nuovo esplosivo. Poiché, però, essi non sono in grado di realizzare la stessa formula, rapiscono la collaboratrice dell'inventore e, per indurla a svelare il processo di lavorazione, la fanno assistere alla tortura che infliggono al fidanzato di lei - agente al servizio dello scienziato - caduto anch'esso nelle mani della banda. Dopo numerose e drammatiche peripezie, il giovane riesce a liberare la propria fidanzata e a liquidare la banda. Lotte nell’ombra si può considerare senza alcun dubbio, il primo film spionistico sonoro del cinema italiano. E’ interessante notare quanto quest’opera, man mano che la si guardi, contenga tutti quegli archetipi che, ancora oggi, caratterizzano il genere. Di fatto il protagonista, l’agente segreto Mario Rugè interpretato da un Antonio Centa all’apice del suo successo, è uno James Bond ante litteram, e anche lui come l’eroe creato da Ian Fleming indossa il frac, è infiltrato nell’alta società e all’occorenza sa pilotare aerei. Lotte nell’ombra è un bel film di azione, con un susseguirsi di colpi di scena che mantengono alto il ritmo per tutta la sua durata. Il regista, dal canto suo, si conferma un ottimo regista che sa giocare con i generi, uno dei pochi del ventennio. Tra l’altro il film, per l’epoca, è un documento unico per lo sfoggio della tecnologia mostrata, come si evidenzia nella scena del furto della formula dove viene mostrato un sistema d’allarme fotografico attivabile tramite fotocellula.



Ettore Fieramosca [La Disfida di Barletta] (Alessandro Blasetti, 1938)

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La castellana di Monreale, per quanto innamorata del suo soldato di ventura Ettore Fieramosca, si decide a sposare Graiano d'Asti che le assicura il possesso delle sue terre. Costui è invece un traditore che, dopo il matrimonio, fa massacrare tutti gli uomini del castello e dà libero passo alle armate francesi. In una successiva battaglia, però, le truppe di Spagna vincono i soldati di Francia. Ettore Fieramosca, convinto di non essere più amato dalla sua Signora, ha preso parte al combattimento a fianco, degli spagnoli. A Barletta, dove egli con i suoi uomini superstiti si trova insieme alle truppe del Colonna e dove anche sono, come prigionieri, alcuni cavalieri francesi, ribellatosi alle offese contro l'Italia che il De La Motte pronuncia durante un banchetto, sfida i tredici francesi a singolar tenzone. La vittoria degli italiani riempie d'entusiasmo tutta la popolazione e dà modo al Fieramosca di raggiungere Monreale dove può sposare la castellana rimasta vedova del suo indegno marito. Film storico di indiretta propaganda antifrancese, dallo sforzo produttivo rilevante nelle scene "di massa" che richiesero un gran numero di comparse (furono utilizzati sino a 3.000 fanti e cavalieri, impiegando anche reparti forniti dal Regio Esercito). Nonostante i suoi dichiarati intenti di esaltazione dell'onore nazionale, la pellicola si trovò al centro di un "caso" che coinvolse i maggiori critici cinematografici del tempo e che provocò l'intervento del Regime. All'apparire del film, la critica cinematografica si divise nel giudizio. Vi furono molti commenti favorevoli. Ma, accanto a questi giudizi positivi, altri avanzarono riserve sul film. Le pur caute riserve contenute in alcuni commenti provocarono una forte irritazione tra gli esponenti del governo che attribuivano al film di Blasetti la doppia valenza di esaltazione dell'orgoglio nazionale e dimostrazione delle ritrovate capacità produttive della cinematografia italiana, e quindi il mancato sostegno di una parte della critica fu una cocente delusione. La reazione non si fece attendere: poche settimane dopo l'uscita del film, intervenne Vittorio Mussolini in persona, che accusò la categoria dei critici cinematografici di «diffusa superficialità ed impreparazione», lamentando che «il Fieramosca, questo bellissimo film che onora la nostra industria, tartassato da certi critici, ha avuto un attimo che poteva nuocere ingiustamente al film». In tempi più recenti, il film viene riconosciuto come una rivendicazione di onore nazionale in sintonia con la retorica di quegli anni. Oggi si fa ancora apprezzare non per l'ingenua occasione propagandistica, ma per le qualità di forte figuratività.



Terra di nessuno (Mario Baffico, 1939)

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In Sicilia circa il 1870. Di ritorno dall'America un emigrato pianta le proprie tende in un vastissimo latifondo disabitato e incolto. Egli riesce a deviare la strada battuta dai viaggiatori e a rendere la sua baracca un centro di rifornimento e di ristoro. E in breve tempo accanto alla prima sorgono altre baracche e si riuniscono nello stesso luogo le prime famiglie L'ex emigrato sposa una giovane del paese vicino e comincia la costruzione d' una vera e propria città. I padroni del latifondo si cominciano a preoccupare di questa pacifica ma radicale occupazione e, dopo qualche dissidio, si concorda un tributo che interrompa la prescrizione d'uso. Gli anni passano e il giovane figlio del latifondista sposa la figlia dell'ex emigrante. Il connubio non ottiene però miglioramenti per la precaria sorte della città e della popolazione sorte sulla terra di nessuno. Anzi, quando qualche tempo dopo muore la moglie dell'ex emigrato, i padroni della terra le rifiutano sepoltura sulla proprietà. Ciò dà luogo ad una breve rivolta durante la quale anche la figlia dell'ex emigrato muore colpita da una fucilata. L'uomo si allontana verso nuovi orizzonti. Il soggetto di questa pellicola è tratto da due novelle di Luigi Pirandello "Romolo" e "Requiem aeternam dona eis Domine". Nonostante per il Fascismo l’aspetto ruralista è il piú funzionale all’esigenza di autorappresentarsi come movimento rivoluzionario, radicato nella realtà popolare italiana, questo film ebbe difficoltà con la censura per alcuni aspetti sociali sgraditi al regime fascista.



Cose dell'altro mondo (Nunzio Malasomma, 1939)

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Nel carcere di una cittadina americana di provincia vengono rinchiusi un giovane molto distinto e due elegantissime signore. Secondo il governatore dello stato si tratta di un temibile gangster e delle sue amanti. Il direttore della prigione deve assentarsi per qualche giorno. Al suo ritorno trova le celle vuote perché sua figlia ha consentito ai prigionieri di allontanarsi per qualche ora. Quando al mattino giunge un capitano di polizia per prelevare i tre detenuti, il direttore - per salvarsi - presenta come tali un altro carcerato, sua moglie e sua figlia. Le cose si metterebbero molto male se, alla fine, tutto non si sistemasse con il ritorno dei tre evasi; i quali altri non sono che un ispettore superiore, accompagnato dalla consorte e dalla cognata, in giro per un'ispezione. Questo film può annoverarsi fra gli esempi di "propaganda alla rovescia": la descrizione di certe prigioni-modello americane ha ispirato questa pellicola che evidenzia l'intenzione del regista di mettere in ridicolo o più precisamente alla berlina l'ambiente carcerario degli Stati Uniti, affrontando il paradosso dei detenuti che vanno in licenza.



Un'avventura di Salvator Rosa (Alessandro Blasetti, 1939)

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Salvator Rosa, si reca nel Ducato di Torniano per riposare da un lungo periodo di lavoro ma anche di attività politica. Dietro di lui si cela infatti il famigerato 'Formica', amico del popolo, abilissimo spadaccino e audacissimo inventore di beffe ai danni del Vicerè di Napoli e del Conte Lamberto di lui consigliere. Purtroppo però, anche a Torniano il Rosa si trova di fronte alla prepotenza del Conte Lamberto, che non solo aspira alla mano della capricciosa duchessa, ma opprime i popolani del contado. Riprende così la maschera del Formica e comincia un pericoloso gioco per battere il Conte, evitargli di sposare la duchessa e di impossessarsi così delle terre. Contemporaneamente deve riuscire a conservarsi la fiducia dei sospettosi contadini, ma la destrezza del suo piano e l'abilità della sua tecnica schermistica lo conducono alla vittoria. Pellicola che riscuote ampio successo di critica e di pubblico, si arriva a definirlo il film migliore girato da Blasetti, secondo schemi narrativi perfettamente in linea con il populismo fascista. Anzi, in questo film tanto impegnativo (un “kolossal” per l’epoca), si può intuire meglio che in altri il segreto desiderio del regime (di cui si potevano già percepire alcuni primi timidi tentativi) di disfarsi prima o poi dell’ingombrante casa Savoia con la quale Mussolini si ritrova a dover dividere il Potere da quasi vent’anni, in una posizione gerarchicamente secondaria (proprio un anno prima dell’inizio delle riprese, nel maggio 1938, Mussolini aveva dovuto subire lo “smacco” di dovere ricevere Hitler a Roma in una posizione secondaria rispetto a quella del re e imperatore Vittorio Emanuele III, vero capo dello stato). Le principali coordinate del cinema di regime di questo periodo - populismo e patriottismo - in questa pellicola sono perfettamente rispettate: gli umili trionfano coadiuvati dall’eroe popolare, amico dei potenti ma solo per necessità, mentre le casate nobili, profittatrici (quella spagnola) o semplicemente stravaganti e inattendibili (quella della duchessa di Torniano), sopravvivono a patto di negoziare il loro potere con i desideri del popolo in rivolta. Assistiamo pertanto a una sorta di rilettura fantastica della Marcia su Roma (ottobre 1922), altro che film “sberleffo”, come lo definì successivamente lo stesso regista. Tra le curiosità bisogna annoverare la presenza di due coppie destinate a sicura celebrità: quella tragica di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida (uccisi per strada da un manipolo partigiano a Milano, il 30 aprile 1945) e quella longeva di Gino Cervi e Rina Morelli, destinata ad allietare le serate domestiche degli Italiani negli anni sessanta come famiglia Maigret.



Carmen fra i rossi (Edgar Neville, 1939)

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Allo scoppio della rivoluzione nazionalista in Spagna una giovane, fidanzata con un ingegnere, resta divisa dal suo futuro marito alla vigilia delle nozze. E mentre ella è arrestata insieme con il padre, il fidanzato si arruola volontario tra le truppe di Franco. Il padre della ragazza è fucilato e la fanciulla, per la protezione di un socialista da lei un giorno beneficiato, è rilasciata e può organizzare il servizio di informazioni in favore dei nazionalisti. Il fidanzato, con un incarico di fiducia e travestito da rosso, penetra in Madrid e raggiunge la fanciulla. Dopo una breve permanenza, durante la quale i due si promettono eterna fede presagendo, però, la sorte tragica che li attende egli ritorna in linea. Attraverso la radio, con la quale la sua fidanzata dava preziose informazioni ai falangisti egli ascolta la scena drammatica dell'assalto alla stazione clandestina e della uccisione da parte dei rossi dell'eroica fanciulla. Quasi fuori di sé, il giovane esce dalla trincea verso il nemico, ma è atterrato da un colpo di fucile. Ed egli muore dopo aver confortato l'agonia di un giovanissimo suo compatriota arruolato fra i rossi. Come L’assedio dell’Alcazar, anche questa pellicola è il frutto di una coproduzione italo-spagnola, girata in Italia in doppia versione, il cui regista spagnolo Edgar Neville è anche lo scrittore del romanzo ispirato alla Guerra Civile Spagnola, pubblicato in Italia e dal quale il film trae la trama.



L’assedio dell’Alcazar (Augusto Genina, 1940)

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Rievocazione drammatica dell'episodio storico ed epico che ha consacrato a gloria imperitura il comandante e il presidio militare di Toledo, oltre alle donne ai bambini e agli anziani asserragliati nell'Alcazar. Essi resistettero per oltre un mese all'assedio, al bombardamento notturno e diurno delle artiglierie e degli aeroplani, al brillamento delle mine, alla fame e alla sete, riuscendo a conservare contro le orde dei "rossi" la loro posizione, fino all'arrivo delle truppe del Generalissimo Franco. La rievocazione contiene anche una leggera trama d'amore tra un capitano ed una fanciulla di Madrid, casualmente trovatasi a Toledo quando la rivoluzione scoppiava. Questa ragazza, piuttosto leggera e cinica, a contatto con la drammatica realtà e con gli eroismi di tutti i giorni, ammira la generosità e il senso del dovere che animano il prode capitano. La sua ammirazione si tramuta presto in un vivo sentimento di affetto che potrà, dopo la vittoria, consacrarsi in una promessa di matrimonio. Come il film Carmen fra i rossi (1939) di Edgar Neville, si tratta di una coproduzione italo-spagnola, entrambe girate in due versioni per i rispettivi mercati con varianti significative dovute a ragioni di opportunità politica. Anche qui gli italiani non ebbero alcun protagonismo negli avvenimenti bellici che ispirarono la pellicola. Ma nel delicato biennio 1939-1940 il duce aveva scelto di blandire Franco per non perderne l’appoggio e vanificare così l’enorme sforzo profuso in Spagna. L’assedio dell’Alcazar rispondeva dunque alle urgenze propagandistiche del momento. Genina, dal canto suo, seppe interpretare abilmente il complicato intreccio di interessi, anche commerciali, della pellicola con una sapiente contaminazione di generi (commedia, melodramma, film di guerra). Il film piacque non solo al pubblico e alla critica che lo premiò a Venezia con la Coppa Mussolini, ma anche ai vertici del Ministero della Cultura Popolare che, dopo l’entrata in guerra dell’Italia, più che mai esprimeva il punto di vista di Mussolini.



Noi vivi - Addio, Kira (Goffredo Alessandrini, 1942)

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A Pietroburgo, nei primi anni della rivoluzione, Kira e la sua famiglia mal si assoggettano al nuovo regime. Essa si innamora di Leo, giovane aristocratico inviso alla Ghepeù, e i due si incontrano furtivamente. Kira, mentre ritorna da un appuntamento viene arrestata come complice del fuggiasco, ma viene rimessa in libertà da Andrei, fanatico capo della Ghepeù locale, segretamente innamorato di lei. Dopo uno sfortunato tentativo di fuga la salute di Leo è seriamente minacciata e poiché egli non ha denaro, Kira, a sua insaputa, diviene l'amante di Andrei per mantenerlo al sanatorio. Tornato dalla Crimea guarito, Leo si rivela venale e antipatico, si aggrega ad un gruppo di speculatori e si stacca da Kira. A sua volta Andrei che non crede più nella sua idea né nella sua donna, si toglie la vita e Kira viene uccisa mentre tenta di superare il confine dell'infernale e sventurato paese. Il film vinse il Premio della Biennale alla Mostra di Venezia del 1942. Venne poi diviso in due parti, proiettate separatamente nelle sale ad ottobre. La seconda parte è intitolata "Addio, Kira" . La pellicola è tratta da un romanzo di successo come We the Living di Ayn Rand, una scrittrice americana di origine russa. Nel romanzo era presente materia non soltanto per un mélo sentimentale e tragico di facile presa, ma anche per un'operazione di contingente propaganda antisovietica (nel 1942, l'Italia era in guerra con l'URSS). Per quel che riguarda il risvolto politico, scontata l'adesione di una fascia di pubblico allineato per convinzione alle linee governative antibolsceviche, altri spettatori furono invece portati a sovrapporre al ritratto che il film dà di un sistema totalitario minato da fazioni e corruttibilità certi aspetti della realtà italiana che essi stavano vivendo sotto il fascismo. Si vuole persino che questo aspetto 'controproducente' allarmasse a un certo punto il governo. Ma fu piuttosto il precipitare degli eventi bellici a interrompere la carriera del film.



Gente dell’aria (Esodo Pratelli, 1942)

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Due fratellastri, figli di un proprietario di un'industria bellica, sono i protagonisti del film: uno è aviatore e l'altro compie il suo dovere nelle officine paterne. I due sono innamorati della stessa ragazza e ciò produce tra loro un astio che niente sembra poter cancellare. Solo quando anche l'altro sarà richiamato sotto le armi, anch'egli aviatore, e accomunato al fratello nella lotta e nel sacrificio della guerra, sparirà ogni risentimento. Il film, che rientra nel filone propagandistico, viene girato nel 1942 con l'assistenza del Centro fotocinematografico della Regia Aeronautica e nasce da un soggetto ideato da Bruno, figlio di Benito Mussolini, appassionato pilota aeronautico, tragicamente scomparso nel 1941.



Squadriglia bianca (Jon Sava, 1942)

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Un gruppo di crocerossine frequenta un corso di perfezionamento per conseguire il brevetto di pilota e far parte della "Squadriglia Bianca", audace innovazione nell'opera di soccorso della Croce Rossa. Una di esse, frivola, presuntuosa ed oppressa da una enorme fortuna che si è iscritta per puro capriccio, si invaghisce dell'istruttore un giovane ufficiale serio ed intransigente nell'insegnamento, il quale però si mostra del tutto indifferente alle sue lusinghe e non si fa scrupolo di riprendere la poco diligente allieva. Questa si ritira dal corso, ma le severe lezioni impartitegli dall'ufficiale hanno operato sul suo carattere un salutare effetto. Scoppia la guerra e la "Squadriglia Bianca" viene immediatamente utilizzata in zona di operazioni e anche la ragazza parte per il fronte come infermiera. Venuta a conoscenza che l'istruttore è rimasto colpito oltre le linee nemiche, essa si precipita al suo salvataggio con un apparecchio, ma in questo generoso tentativo perde la vita. Ottime le sequenze aeree girate in Romania, e molto diluito il substrato di propaganda che doveva sorreggere la pellicola.



Spie fra le eliche (Ignazio Ferronetti, 1942)

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In una fabbrica d'aeroplani avvengono una serie di incidenti dovuti agli atti di sabotaggio di una organizzazione segreta. La direzione della fabbrica invita un famoso detective privato il quale, introdotto in qualità di ingegnere-ispettore, inizia le indagini. Dopo varie avventure, ora comiche, ora drammatiche, il poliziotto benché scoperto ed ostacolato nella sua missione, riesce a far luce sui sabotaggi. Con l'aiuto di una infermiera della fabbrica, che a un certo momento è trattenuta come ostaggio e minacciata di morte, egli scopre il principale responsabile che agiva per conto di un'altra nazione. Naturalmente il poliziotto sposerà la coraggiosa ragazza. Tra i molti gialli e polizieschi dell’epoca, il film occupa un posto preminente. Il regista ha cercato di contrapporre ad episodi drammatici episodi comici e sentimentali, la meccanicità propria delle vicende di questo tipo, che rendono il film simile ad un romanzo d'appendice.



Marinai senza stelle (Francesco De Robertis, 1943)

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Ragazzi di un villaggio sul mare s'imbarcano su due brigantini-scuola. Durante la crociera, giunge ai comandanti l'ordine di rientrare subito, perché la guerra è imminente. I brigantini attraccano in un porto vicino a Trieste, e i ragazzi vengono ospitati in un castello. Mentre i brigantini, presi a rimorchio, lasciano il porticciuolo, due dei ragazzi riescono a salire su una delle navi, che li porta a Trieste. Uno dei due sale clandestinamente a bordo di un cacciatorpediniere, l'altro si imbarca su una nave da trasporto. Le due navi subiscono un attacco di aerei nemici: uno dei due ragazzi viene ferito gravemente e muore tra le braccia del padre suo, imbarcato sul piroscafo come fuochista, l'altro riesce a ricuperare la bandiera di battaglia del caccia, caduta in mare durante il combattimento. De Robertis nel 1945 fece un'altra edizione del film, completamente ridialogata e rimontata. il film fu però distribuito soltanto nel 1949. il protagonista, Tito Stagno, e' il futuro telecronista sportivo, all'epoca tredicenne.



Aeroporto (Piero Costa, 1944)

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In un aeroporto militare, la vita quotidiana di militari e civili si confonde e si intreccia, soprattutto al bar degli Azzurri gestito da Tonio e dalle sue giovani figlie Marta e Tina. Quest'ultima attende che il pilota Riccardo Valetti la chieda in moglie, mentre sua sorella Marta è innamorata del sergente Gustavo Ferri, personaggio tormentato e problematico. Intanto all'aeroporto giunge il capitano Giovanni Ferri, fratello di Gustavo: gli Alleati sono sbarcati ed il suo reparto ha dovuto arrendersi. Il capitano, per evitare che il suo aereo possa venir distrutto, lo porta in volo dietro le linee. Si rende necessaria un'azione ed è indispensabile l'impegno di tutti i piloti: il capitano Ferri, benché ansioso di raggiungere la moglie che sta per partorire, accetta senza lamentele la missione, ma viene abbattuto. In un'ulteriore azione, resasi necessaria per difendere l'aeroporto, anche l'aereo di Valetti viene colpito: per salvarlo è necessario amputargli un braccio. Con la firma dell'armistizio la situazione precipita: i soldati sono lasciati liberi di decidere secondo coscienza. Alcuni decidono di fare ritorno alle proprie case, altri, come Gustavo Ferri, che ha finalmente deciso di sposare Marta, continuano la guerra nella Repubblica Sociale Italiana.



Sangue a Ca' Foscari (Max Calandri, 1945)

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I Visconti, signori di Milano, cercano con segreti maneggi di far nominare Doge di Venezia un loro fido, per asservire col suo aiuto la Repubblica; ma la nobiltà veneta, capeggiata da un misterioso Cavaliere della rosa, che nei momenti critici compare mascherato alla testa del popolo, si oppone a questi disegni. Con l'aiuto di una giovane donna, i Visconti riescono a scoprire la vera identità del Cavaliere della rosa, il quale viene falsamente accusato d'assassinio e condannato a morte dal Consiglio dei Dieci. Ma la donna, essendosi innamorata del giovane patrizio, tenta da prima inutilmente di farlo fuggire; poi presa dal rimorso, s'avvelena e, prima di morire rivela la verità ad un Padre cappuccino. In seguito all'intervento del frate, il Cavaliere della rosa è posto in libertà, e i traditori vengono gettati in prigione. Girato nel 1945 negli studi veneziani del Cinevillaggio (centro di produzione cinematografica dell'Italia repubblichina, sorto in alternativa a Cinecittà, all'epoca abbandonata a causa della guerra in corso), la pellicola arrivò nelle sale solamente due anni dopo, nel 1947, ed ebbe scarso successo.

Edited by drogo11 - 21/2/2021, 17:04
 
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La storia d'Italia in celluloide (fra neorealismo, propaganda e satira) - 5^ parte - Il Ventennio fascista ed il secondo conflitto mondiale.

3 / Dal cinema dei telefoni bianchi all'avvento del Neorealismo



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Il cinema dei telefoni bianchi

Il cinema dei telefoni bianchi è nato dal successo della commedia cinematografica italiana dei primi anni trenta: ne fu una versione più leggera, mondata da eventuali intellettualismi o velate critiche sociali. L'espressione deriva dal colore bianco dei telefoni presenti nelle ambientazioni borghesi di questi film, simbolo di benessere e status sociale elevato. Elemento essenziale di questi film è lo scenario grandioso (altra definizione è: cinema Decò per la forte presenza di oggetti di arredamento che richiamano lo stile internazionale decò in voga quegli anni) con scalinate monumentali, statue greche, tendaggi trasparenti, un mondo di sogno molto distante dalla vita comune. Il canovaccio che viene quasi sempre rispettato nelle storie narrate è abbastanza semplice: si narra di solito di una ragazza di umili origini ma intraprendente che riesce al contempo a conquistare il cuore dell'uomo che ama e a salire di grado nella scala sociale. Improntati all'ottimismo più sfacciato e basati sui meccanismi dell'equivoco cari a Feydeau, questi films accompagnano il Regime per buona parte del Ventennio, fino alla sua dissoluzione. L’apporto più visibile della commedia dei telefoni bianchi è però l’uso delle scenografie non realiste e la famosa luce bianca. Scenari, raramente in argomento, che inondano i piccoli appartamenti di segretarie e dattilografe e ingrandiscono le sale e i dormitori dei collegi. Maggiore sarà la crisi della quotidiana vita degli italiani e maggiormente amplificate saranno le scenografie. In questo genere non saranno i registi ad imporre il loro marchio, ma gli attori e gli sceneggiatori.
L’origine “nobile” dei “telefoni bianchi” viene comunemente trovata nel cinema di Camerini già a partire dal cinefilo Rotaie (1929), già menzionato precedentemente in questo post. Ma per la vera natura della produzione e cioè l'offerta al pubblico anche di divertimento e spensieratezza, il film che inaugura il genere è riconosciuto in La segretaria privata, nel 1931, con la regia di Goffredo Alessandrini. Tra i numerosi film del filone, si impone il giovane attore Vittorio De Sica, reso celebre da Mario Camerini nel film del 1932 Gli uomini che mascalzoni…, quello che ne sancisce la fine è Fiori d'arancio, girato nel 1944 a Venezia, negli stabilimenti del Cinevillaggio durante la RSI e arrivato nelle sale cinematografiche soltanto nel 1947. Complessivamente si stima che il numero di films che appartengono a questa categoria, superi le 165 pellicole.
È un genere che si basa molto sugli errori di identità, come il film con De Sica, dove fa credere ad una commessa di essere un ricco uomo d’affari, mentre in realtà è solo un autista. Ma questi errori di identità permettono il confronto tra le classi. Si può trattare di una promozione sociale definitiva, come in Dora Nelson di Mario Soldati, o può invertirsi il movimento, come nel geniale film di Mario Camerini Il signor Max, con De Sica che conduce una doppia vita, corteggiando come conte una nobildonna e come giornalaio la cameriera di quest’ultima. Il perfetto esempio di cinema dei telefoni bianchi. Anche se questi film si divertono a risvegliare il mito di “Cenerentola” e de “La bella addormentata nel bosco”, dai primi anni ’40 le prospettive mutano. Con Teresa Venerdì, Vittorio De Sica, al suo terzo film da regista, impone una visione diversa dei mitici collegi rappresentati nei film dei telefoni bianchi, con una robusta virata in direzione neorealista. Rimane certamente ancorato ai clichè del genere, ma lo stile dolce – amaro del film denota, ad esempio, la sua futura attenzione per i bambini e l’insoddisfazione per il rigido schema delle commedie spensierate con cui aveva comunque costruito inizialmente la sua fama d’attore.
Il cinema dei telefoni bianchi, proprio per il suo carattere di fuga dalla realtà quotidiana attraverso l'attivazione di astratti modelli di comicità teatrale basata su sostituzioni di persone, equivoci, ecc., e per l'implicita celebrazione di ideali di vita piccolo borghese, venne a posteriori considerato l'espressione più subdola e nefasta del conformismo caro al regime, perfettamente funzionale al progetto politico del fascismo, che si basava appunto sul consenso delle classi medie. In effetti il cinema dei telefoni bianchi è un tentativo, certamente condotto entro i limiti di un artigianato autarchico, di adottare uno standard internazionale, di adeguare la costruzione degli intrecci, la scenografia, lo stile registico a modelli con possibilità di ampia circolazione. Tutto ciò comportava, certo, una rimozione non solo della peculiare situazione politica del Paese, ma anche dei tratti più scopertamente arretrati, dialettali, provinciali della realtà italiana. Di fatto, questo cinema sembra rispondere, negli anni a cavallo della guerra, alle vere grandi attese di massa degli italiani, che puntano non tanto alla conquista del mondo ma a un lavoro stabile, una paga sicura, una casa ben arredata e moderna.


La segretaria privata (Goffredo Alessandrini, 1931)

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Elsa Lorenzi, giovane dattilografa, venuta nella grande città con la testa piena di rosei sogni, si mette alla ricerca di un posto e, dopo varie delusioni, riesce ad entrare in una banca, per un periodo di prova, grazie anche all'aiuto dell'usciere Otello, del quale ha destato la simpatia. Il capo del personale tenta di farle la corte e, vistosi respinto, la tiranneggia. Così Elsa è costretta a trattenersi in ufficio oltre l'orario: mentre lavora tutta sola, passa di lì il direttore, un simpatico giovanotto, che fingendo di essere un semplice impiegato, attacca discorso con la ragazza. I due si sentono vicendevolmente attratti e, usciti dall'ufficio, si recano alla trattoria, dove Otello dirige una società corale, e passano allegramente la serata. Il giorno seguente, Elsa, scoperta l'identità del suo presunto collega e messa di fronte alle proposte poco serie del direttore, si sente offesa e lo piglia a schiaffi, poi corre alla pensione col proposito di far le valigie e partire. Ma il direttore, che si è reso conto della purezza dei sentimenti e della sincerità della ragazza, di cui è più che mai innamorato, la raggiunge in fretta, fa onorevole ammenda, e la vicenda si conclude nel migliore dei modi.



Gli uomini che mascalzoni... (Mario Camerini, 1932)

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A Milano lo chauffeur Bruno si finge proprietario di un'automobile per fare colpo su Mariuccia, commessa in una profumeria. Un giorno Bruno e Mariuccia vanno in gita ai laghi dove l'autista, a causa dell'incontro con la padrona, è costretto ad abbandonare la commessa. Bruno viene licenziato e Mariuccia, sentendosi tradita, decide di non vederlo più.



La telefonista (Nunzio Malasomma, 1932)

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Clara Betti, una giovane orfana, trova un impiego come centralinista. Nonostante una severa capoturno vigili con attenzione il lavoro svolto dalle ragazze, nella centralina errori nei collegamenti telefonici e disservizi sono all'ordine del giorno. Una sera, Clara si reca in un tabarin per incontrare un tenore che ha conosciuto per telefono. Per un equivoco, però, la ragazza scambia per il tenore il direttore dei telefoni, mentre il tenore scambia per la telefonista un'affascinante ma isterica mannequin. In seguito a un altro malinteso, Clara crede che l'uomo da lei conosciuto nel locale sia sposato. Dopo una fitta serie di equivoci e ripicche, interviene il cuoco della mensa aziendale che ha preso in simpatia la ragazza ed è preoccupato per lei: grazie all'uomo la situazione viene finalmente chiarita e tutto si risolve per il meglio. E’ il rifacimento di un'operetta filmata e diretta da Emmerich W. Emo, sempre nel 1932, dal titolo "Fraulein - falsch verbunden".



L'impiegata di papà (Alessandro Blasetti, 1933)

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La figlia di un banchiere chiede al padre di essere impiegata presso l'azienda. Il padre accetta a patto che lei rinunci al continuo e quasi quotidiano spillamento di denari paterni e si riduca a vivere, come le colleghe sue coetanee, del solo stipendio. Naturalmente tra le colleghe c'è anche il collega, e sboccia l'idillio. La fanciulla riesce a far ignorare la sua vera identità al pretendente, fino al giorno nel quale egli stesso insospettito da una certa familiarità tra il banchiere e la presunta impiegata, penetra in casa del banchiere stesso e vi sorprende, come se fosse in casa sua, la ragazza. Starebbe per succedere il finimondo se a questo punto non avvenissero tutte le più ampie chiarificazioni e si precipitasse verso la più nuziale delle conclusioni.



Darò un milione (Mario Camerini, 1935)

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Un miliardario, stanco della propria sontuosa esistenza, abbandona a nuoto il panfilo sul quale sono i suoi ospiti. Dopo aver scambiato i propri abiti con quelli di uno straccione se ne va a confondersi con la folla, dichiarando al suo improvvisato amico, che regalerà un milione alla persona da cui riceverà, sotto le attuali spoglie, un atto di benevolenza. La notizia, propagata dalla stampa, provoca una gara di carità "pelosa" verso tutti i poveri della città, sotto i cui stracci può celarsi il munifico milionario. Intanto costui intesse un idillio con l'impiegata di un circo equestre, e convintosi dopo alcuni movimentati episodi che la ragazza lo ama sinceramente pur ignorando il suo essere, la conduce con sè sul panfilo. Il film, girato negli Studi Cines, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia del 1935, ottiene la Coppa del Ministero delle Corporazioni per Il miglior film brillante Italiano. Nel 1938 Walter Lang ne ha fatto un remake: "I'll give a million".



Il Signor Max (Mario Camerini, 1937)

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Un giovane ha dovuto interrompere gli studi liceali per ereditare il commercio paterno, che consiste nella gestione di una edicola di giornali. L'edicola è redditizia e il giovane si può permettere ogni anno un bel viaggetto. In uno di questi, preso com'è dal fascino del mondo aristocratico, approfitta del biglietto gratuito di prima classe su di un piroscafo, che un suo compagno di scuola gli procura, e passa qualche giorno a bordo in compagnia di alcuni rappresentanti del bel mondo. E' scambiato anche lui per un nobile e può intrecciare relazioni, tra le quali non mancano quelle di carattere sentimentale con una nobile dama. Terminati soldi, abbandona quella breve parentesi di vita dorata e ritorna all'edicola. Viene riconosciuto dalla cameriera della dama e, per rintracciare questa, inizia una doppia vita: da una parte il giornalaio che corteggia la cameriera e dall'altra il giovane mondano che spasima per la signora di gran mondo. Così può constatare come questo gran mondo non sia adatto ai suoi gusti per cui, finalmente, si accorge dell'affetto sincero che per il giornalaio nutre la cameriera. Fa scomparire il giovane mondano per ritornare tutto e solo il buon ragazzo lavoratore, che sposa la graziosa cameriera. Ne hanno fatto due remake: uno Giorgio Bianchi nel 1957 e uno Christian De Sica nel 1991, entrambi con il titolo "Il Conte Max".



Mille lire al mese (Massimiliano Neufeld, 1938)

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Un ingegnere specializzato in televisione ottiene un posto presso la Radio di Budapest, ma, per un fortuito incidente, schiaffeggia il Direttore Generale nel giorno stesso che doveva essere assunto. Poiché né l'uno né l'altro si conoscono, la fidanzata dell'ingegnere propone che un amico di lei si presenti al Direttore per assumere l'incarico, dopo di che il fidanzato potrà entrare in servizio. Le cose però non vanno così lisce: il Direttore, convinto che la persona da lui assunta sia realmente l'ingegnere fidanzato della ragazza, vuole assistere ai lavori che egli dirige. Ne nascono equivoci e incidenti, che assumono un ritmo sempre più dinamico finché tutto viene in chiaro. La protagonista, la giovanissima Alida Valli, venne molto lodatadalla critica per la sua interpretazione.



La casa del peccato (Massimiliano Neufeld, 1938)

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Una moglie che si crede poco amata dal marito, finge di essere corteggiata e, per ingelosirlo, si fa arrivare in casa omaggi di fiori e letterine di ammirazione. Poiché però tutto ciò non raggiunge ancora gli scopi da lei desiderati, architetta un convegno clandestino con un amico di suo marito al quale - a mezzo di una lettera anonima - invita il marito stesso. Questi, però, che ha compreso tutto il gioco della consorte, la ripaga di uguale moneta fingendo a sua volta, e nella stessa casa dello stesso amico, di avere un convegno con una ragazza. Alla fine, e dopo diversi incidenti, i due coniugi scoprono ognuno la trama dell'altro e si riconciliano in una promessa reciproca di tenero affetto.



Assenza ingiustificata (Masssimiliano Neufeld, 1939)

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Una giovane studentessa è stata sospesa dalla scuola per una birichinata. Allo scopo di nascondere la punizione ai propri genitori, ella si dà per malata. In assenza del medico curante i genitori allarmatissimi chiamano per visitarla un celebre chirurgo, la cui clinica è presso la loro casa. Il giovane medico si presta divertito al sotterfugio della scolaretta e, a poco a poco, avendo modo di apprezzarne le belle doti di intelligenza e di ingenuità, se ne innamora. Dopo qualche tempo egli può sposarla. Ma la vita coniugale delude alquanto la ragazza, poiché il marito è eccessivamente occupato tra i propri malati. In un momento di nostalgia per la vita studentesca, troppo presto e rapidamente interrotta, la giovane signora si iscrive nuovamente a scuola. La sua doppia vita non può a lungo essere nascosta al marito il quale, anche per punire scherzosamente la vivace consorte, segue il suo giuoco quando è chiamato, in qualità di tutore secondo le dichiarazioni dalla alunna fatte alla direzione della scuola, ad ascoltare un grave reprimenda inflitta alla negligente e indisciplinata scolaretta. La breve parentesi ha termine con una riappacificazione tra i coniugi, nell'annuncio gioioso di una prossima maternità.



I Grandi Magazzini (Mario Camerini, 1939)

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La commessa di un magazzino popolare è corteggiata dall'autista di uno dei camioncini della ditta. La ragazza resiste fino a che non è presa di gelosia per una sua collega. Allora ella, per accompagnare il giovanotto in una gita sciistica, si appropria di un costume di sciatrice. Il giorno dopo, mentre sta per riporre il costume stesso, è sorpresa da una inchiesta che la direzione ha iniziato per appurare alcuni furti misteriosi che si notano nell'azienda. Sospettata anche dal proprio fidanzato, la ragazza è al colmo della disperazione; tanto più che il capo del personale, figura losca e misteriosa, approfitta della situazione per ricattarla. Dopo qualche tempo l'autista, in seguito ad alcuni sospetti esegue un'indagine per proprio conto e scopre tutta la complessa trama dei furti, segretamente diretta dallo stesso capo del personale. Ne segue una violenta scenata con conseguente punizione solenne inferta al dirigente da parte del gagliardo autista e alla presenza di tutta la clientela. Poi i due fidanzati si riconciliano. Questo film fu ungrandissimo successo per l’epoca perché ha rappresentato un ideale nel quale identificarsi permoltissimi spettatori. Il film si fa portatore della classica visione dell’Italia come di un paesemoderno e giusto, dove l’amore e i sani valori famigliari trionfano, naturalmente non senzal’aiuto di scaltrezza individuale.



L'avventuriera del piano di sopra (Raffaello Matarazzo, 1941)

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Un giovane avvocato, marito di una donna gelosa, vede capitarsi in casa una sera che la moglie è assente, l'inquilina del piano di sopra che si rifugia presso di lui per sfuggire alle ire del marito colto da un eccesso di gelosia. L'avvocato galantemente offre il suo letto alla signora e dopo un vano tentativo di seduzione, si addormenta su di un divano. Al suo risveglio, l'indomani, la donna è già andata via ed egli, con sua somma sorpresa constata che dalla toletta della moglie è sparita una preziosa collana. Furente per il tiro che crede gli sia stato giuocato, egli parte alla riscossa per rientrare in possesso della collana e dare una lezione alla presunta avventuriera. Attraverso una serie di comiche vicende l'equivoco alla fine si chiarisce e re due coppie - la felicità delle quali era compromessa dalla gelosia - si riappacificano.



Ore 9 lezione di chimica (Mario Mattioli, 1941)

chimica

La vicenda si svolge in un collegio femminile. Maria è sorpresa dalle compagne una sera mentre in giardino abbraccia un uomo. La caporiona della brigata, Anna, convinta che quell'uomo sia il giovane professore di chimica di cui è innamorata, denuncia la compagna alla direttrice. Disperata dell'ingiusta accusa, Maria scappa, ma nel fuggire si ferisce cadendo in un fosso. Intanto si apprende che quell'uomo non era un innamorato ma il padre che veniva a salutarla segretamente prima di costituirsi alla giustizia. Anna, pentita, offre il proprio sangue per la trasfusione che deve salvare la compagna, facendo ammenda della sua cattiva azione e, con il consenso paterno, sposerà il professore di chimica, anch'egli innamorato di lei. Del film lo stesso Mattoli ne ha realizzato un remake nel 1953 con il titolo "Le diciottenni".



Teresa Venerdì (Vittorio De Sica, 1941)

teresa

Un giovane medico, ispettore sanitario in un orfanotrofio femminile, suscita una simpatia nel cuore di una delle ricoverate, Teresa Venerdì, una trovatella di fervido ingegno e di ottimo cuore. Il medico non è un cattivo ragazzo ma è un po' scioperato, pieno di debiti, invischiato nella relazione con una cantante, ed è anche fidanzato con una sciocchina presuntuosa. Ma la brava Teresa riesce a tacitare i creditori, a mettere alla porta la cantante, a far rompere il fidanzamento e a far mettere giudizio al dottore che sarà ben felice di sposarla.



Il birichino di papà (Raffaello Matarazzo, 1942)

papa

La giovane Nicoletta, di carattere irrequieto e indomabile, viziata da un padre eccessivamente indulgente che la predilige, viene rinchiusa in collegio in seguito alle insistenze di una vecchia marchesa, entrata a far parte della famiglia con il matrimonio della sorella di Nicoletta. Nel collegio la ragazza è un autentico terremoto e passa di punizione in punizione. Avendo il sospetto che il cognato non tenga fede ai suoi impegni matrimoniali, Nicoletta riesce a persuadere la sorella maggiore a mettere in pratica un suo piano che, se in alcuni momenti sembra provocare una catastrofe, alla fine si risolve nel migliore dei modi e con piena soddisfazione di tutti.



Quattro passi fra le nuvole (Alessandro Blasetti, 1942)

nuvole

Paolo Bianchi, un commesso viaggiatore sposato con figli, incontra in treno una ragazza sedotta da un uomo che l'ha poi abbandonata. Ritorna dai suoi genitori in campagna ma ha timore di confessare loro la sua sventura e prega lo sconosciuto di accompagnarla e di presentarsi - soltanto per qualche ora - come suo marito. Il giovane, mosso a pietà dall'angoscia della ragazza, acconsente ma l'artificio non regge. Il marito improvvisato dopo poche ore di vita irreale, costruita dal sogno e dalla pietà, se ne torna alla sua casa e alla vita di ogni giorno, riuscendo però a far perdonare la figlia dai genitori. Nel 1995 Alfonso Arau ne ha fatto un remake con "Il profumo del mosto selvatico".



Apparizione (Jean de Limur, 1943)

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Il celebre attore Amedeo Nazzari è costretto a fermarsi in una cittadina a causa di un guasto alla macchina e a pernottare nel piccolo albergo locale. La nipote delle proprietarie si infatua del divo e litiga con il suo fidanzato, supplicando Nazzari di fuggire con lei. L'attore prima cerca di farla riflettere, poi escogita uno stratagemma per far comprendere alla ragazza lo sbaglio che sta per commettere.



Fiori d'arancio (Hobbes Dino Cecchini, 1944)

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L'ingegner Raimondo Alberti, sposato da sei mesi con Maddalena (che ha conosciuto esattamente tre anni prima), mentre si prepara a cenare col suocero Amedeo, riceve la visita inaspettata della madre Amalia e poco dopo del padre Ippolito, un sostituto procuratore dal carattere severo, che non sa nulla del matrimonio del figlio e che ha portato con sé Renata, un'amica d'infanzia di Raimondo, ora interessata a sposarlo con l'aiuto della zia Dora. Si tratta della riduzione cinematografica dell'omonima commedia teatrale (in francese La Fleur d'Oranger) di André Birabeau e George Dolley, già portata sullo schermo nel 1932 per la regia di Henry Roussel. Considerata dispersa per moltissimo tempo, come quasi tutte quelle del periodo della Repubblica Sociale Italiana, la pellicola è stata proiettata a sorpresa in televisione nel settembre 2011.


Il cinema umoristico

In questi anni si sviluppa anche un certo cinema umoristico, grazie ad attori provenienti dal varietà e capaci di portare al cinema fortunate maschere comiche. L'antesignano fu il grande Ettore Petrolini con il suo "Nerone" del 1930, a cui seguirono le produzioni con i fratelli De Filippo ( Eduardo, Titina e Peppino ) con divertenti pellicole tratte dai loro testi teatrali; Macario, che sarà il protagonista di 4 pellicole innovative dirette da Mario Mattoli, la prima delle quali “Imputato, alzatevi!”(1939), sarà il primo grande film comico della storia del cinema italiano; il debutto di Totò, con “Fermo con le mani” e “Animali pazzi”, rispettivamente del 1937 e del 1938.


Nerone (Alessandro Blasetti, 1930)

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È il primo dei tre film sonori interpretati dall'attore che, affiancato da alcuni componenti della sua compagnia teatrale, si esibisce qui in alcune delle sue maschere più popolari: Pulcinella, Gastone, Fortunello, Nerone. In tutta Italia incassò circa 5 milioni di lire, cifra incredibile per l'epoca, paragonabili a 35.000.000 euro attuali. Nella parodia della Roma imperiale e del famigerato imperatore romano si è voluta leggere una satira antidittatoriale e antimussoliniana. Purtroppo non esiste una copia integrale del film, ne sono rimasti solo dei brani all'interno dell'Antologia di Petrolini curata nel 1952 dalla Cineteca Nazionale in occasione della Mostra del Cinema di Venezia.



Quei due (Gennaro Righelli, 1935)

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Due poveri disgraziati che fanno la fame, si arrabattano in ogni maniera per sbarcare il lunario. Passano da giocolieri di teatrini suburbani, a camerieri di caffeucci da porto, e non disdegnano il facchinaggio. Durante questa loro miserrima esistenza, una ragazza, che vuol lavorare sul teatro e che pure è afflitta da fame arretrata, viene da essi scritturata come "terzo" nel numero di varietà che hanno organizzato; ma segue la disgraziata sorte dei suoi impresari quando essi vengono violentemente cacciati dal teatro. E i due l'invitano a dividere la soffitta che occupano e la mensa che, saltuariamente, li nutre. La ragazza si unisce così a loro e convive servita e, segretamente, amata da tutti e due. Ma un giovane violinista che da una soffitta accanto può vederla e ammirarla, le dichiara il suo amore ed è riamato. I due, dopo movimentatissime vicende, comprendono che è inutile seguire l'illusione d'amore per la quale si sono perfino malmenati, e ritornano in pace e accordo dopo che la fanciulla va sposa al violinista. Soggetto ispirato liberamente ai personaggi di altri due atti unici sempre di Eduardo De Filippo: "L'ultimo bottone" e "Tre mesi dopo".



Sono stato io! (Raffaello Matarazzo, 1937)

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Un disgraziato, che ha perduto anche l'impiego, viene accolto, per quanto contro voglia, in casa di parenti benestanti. Il suo carattere timido e la sua estrema ingenuità lo rendono, anche senza volere, complice, delle avventure disoneste del giovane figlio dei suoi ospiti. Ad un certo momento, anzi, egli - per salvare la ragazza - si accusa di quanto in danno della giovane domestica ha perpetrato questo scavezzacollo, che vilmente vuol celare la propria colpa. Tale gesto generoso, però, conduce a pentimento il giovanotto e tutto si conclude con una promessa di matrimonio.



Fermo con le mani! (Gero Zambuto, 1937)

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Un vagabondo trova finalmente lavoro presso un Istituto di Bellezza. Un giorno, essendo assente la massaggiatrice, si traveste da donna e la sostituisce operando su di una cliente. Ne segue uno scandalo che minaccia i rapporti tra la cliente stessa e l'amico di lei che, presente alla scena, non ha reagito con la dovuta energia. Il vagabondo acconsente, perché l'uomo possa riabilitarsi dinnanzi alla signora, a farsi schiaffeggiare in un pubblico locale dietro compenso pattuito. Ma la baruffa che ne consegue conduce i protagonisti in questura dove il vagabondo, nel dare le proprie generalità, apprende di essere da tempo ricercato come unico erede di un cospicuo patrimonio.



Animali pazzi (Carlo Ludovico Bragaglia, 1939)

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Per entrare in possesso di una cospicua eredità, che altrimenti sarà devoluta ad una specie di clinica per animali pazzi, il barone Tolomeo deve sposare entro 24 ore la cugina Ninetta. Con l'aiuto di Totò, un suo sosia, e dopo molte peripezie, Tolomeo riesce a ingannare la sua gelosa amante Maria Luisa, contraria alle nozze, a sposare Ninetta e a intascare l'eredità.



Imputato alzatevi! (Mario Mattioli, 1939)

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Un tipo balzano, infermiere e uomo "tutto fare" nella clinica pediatrica di un medico suo fratello di latte, si è innamorato di una collega. Per interessarla egli si finge un dongiovanni assillato da lettere e premure di ammiratrici. Ma questa sua mania avventurosa lo spinge un bel giorno effettivamente nel dramma. Casualmente trovato presso il corpo di una donna uccisa egli, per una infinità di indizi, è accusato di omicidio. Il processo, anche per l'abilità dell'istrionico difensore, assume una popolarità immensa. Quando il mattacchione è assolto, passa senz'altro sul palcoscenico, scritturato per organizzare una rivista che ricostruisca coreograficamente il suo dramma. Ma il vero assassino, comparendo all'ultimo momento, rovina l'effetto scenico. L'innocente, per ciò stesso decadendo dall'interesse morboso del pubblico, si allontana e cerca conforto nel fedele affetto della sua collega infermiera.


L'alba del Neorealismo

Con l’avvicinarsi della fine della seconda guerra mondiale, nella prima metà degli anni ’40, nasce un nuovo tipo di cinema, dagli studios ci si trasferisce in strada. Il Neorealismo nasce dunque, dal libero incontro di alcune individualità all’interno di un clima storico comune, rappresentato dal trauma della guerra e la relativa lotta di liberazione. Al quindicennio circa di cinema controllato e per così dire sterilizzato si reagì con un tuffo nelle braccia della verità. Si raccontano storie autentiche, plausibili, e molti attori manierati del periodo precedenti furono sostituiti da volti e voci meno legati a quel senso di “isola felice” dell’asettico e finto cinema fiorito sotto il regime. In Italia fu anzitutto la reazione morale agli orrori e alle infamie della guerra che spinse i cineasti a ritrovare i valori essenziali dell'esistenza e della convivenza sociale: bisognava dare una risposta sul piano politico alla serie di tragici errori commessi dal fascismo. All'estero, purtroppo, il neorealismo diede dell'Italia un'immagine provinciale e "stracciona", che per una larga parte del pubblico internazionale coincide da sempre con l'immagine da esso divulgata. Fra i films che danno inizio alla breve quanto intensa stagione del neorealismo troviamo Ossessione (1943), film d'esordio di Luchino Visconti, considerato da molti l'opera che anticipò, ancor prima della caduta del fascismo e della fine della guerra, temi e stile del neorealismo, è sicuramente importante per il fatto che ci mostra angoli inediti della provincia italiana (i dintorni di Ferrara), che gli esterni sono stati ripresi nei luoghi stessi dell'azione, che rompe con gli schemi compositivi del cinema italiano precedente. Ma l'elemento di maggior novità consiste nell'assunzione cosciente di modelli di riferimento inediti nel panorama del cinema italiano: innanzi tutto, la narrativa statunitense: il film è tratto da Il postino suona sempre due volte, 1934, di James Cain, un romanzo dall'intreccio avvincente, dal ritmo serrato e dalla scrittura nitida e tesa. L'importanza di Ossessione non sta solo nella scoperta di una realtà provinciale dimenticata dalla letteratura e dalla propaganda. Sta anche e soprattutto nell'aver saputo esprimere la necessità di nuovi modelli di rappresentazione e di interpretazione. Di altro genere è "Roma città aperta", film girato nel 1945 da Roberto Rossellini. Rievocazione della lotta antifascista a Roma negli ultimi mesi della guerra civile in cui le diverse anime della resistenza romana (comunista, liberale e cattolica) collaborano nel rispetto reciproco. Ciò che colpisce a livello scenografico è il pieno utilizzo di luoghi all’aperto dove, oltre agli attori, a essere protagonista è l’architettura stessa della città eterna. Quello che più interessa al regista sono “le strade, le chiese, i tetti, le case popolari, quegli spazi vitali che l’uomo è chiamato a difendere”. Il film ottiene grande successo internazionale e consacra Rossellini a portavoce del neorealismo. Al successo del film contribuirono non poco, le magistrali interpretazioni di Aldo Fabrizi e di Anna Magnani, molto amici anche fuori dal set, che diventarono, in qualche modo, i simboli attoriali del neorealismo. Peraltro gli unici simboli attoriali di tale fortunata, ma limitata ( non nel senso di qualità, ma di durata) stagione cinematografica, poichè, in seguito i film neorealisti avrebbero fatto volentieri a meno dei volti famosi, prediligendo voci e volti presi direttamente dalla strada.


Ossessione (Luchino Visconti, 1943)

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Un giovane vagabondo capita nella casa del proprietario di una trattoria di campagna e viene da questi ospitato. Tra il giovanotto e la moglie del padrone di casa inizia una relazione e i due decidono di fuggire. La donna però all'ultimo momento non se la sente di affrontare una vita nomade e ritorna all'ovile prima che il marito si accorga della fuga. Dopo qualche tempo i due coniugi si recano in città dove incontrano di nuovo il vagabondo. Il marito, che ha della simpatia per lui, lo convince a ritornare a casa loro. La passione tra i due amanti si riaccende e la donna convince il giovanotto a uccidere il marito, simulando poi un incidente d'auto. Ma la loro unione non è felice poiché il rimorso del delitto compiuto e il timore di essere scoperto dalla polizia ossessionano il giovanotto e lo rendono insofferente alla vita che conduce. Quando viene a conoscenza che la donna aspetta un bambino, per iniziare una nuova vita, i due decidono di abbandonare quei luoghi. Ma un incidente toglie la vita alla ragazza e il suo amante viene acciuffato dalla polizia.



I bambini ci guardano (Vittorio De Sica, 1943)

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Le avventure di una donna disonesta, moglie di un bravo impiegato di banca e madre di un grazioso bambino, la quale dopo aver vergognosamente abbandonato la casa una prima volta e dopo aver ottenuto dal marito il perdono, torna a fuggire con il suo amante per la seconda volta, provocando il suicidio del marito che non può rassegnarsi a perderla e lo strazio del povero bimbo il quale guarda, vede, giudica e soffre con la disperazione della sua piccola anima dischiusa per la prima volta al lume della cattiveria umana.



Fatto di cronaca (Piero Ballerini, 1945)

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Andrea è un attore del teatro di varietà. Sposato da poco, abbandona la moglie per seguire una ballerina. La moglie Linda insieme alla madre è costretta a lavorare per sopravvivere, senza riuscire ad avere notizie di Andrea, che nel frattempo dopo aver commesso dei reati viene ricercato dalla polizia. Il fuggiasco si nasconde in casa della madre dove ha modo di apprezzare le qualità morali della giovane moglie che aveva abbandonato. Linda rimane incinta, ma le voci malevole indicano il vero padre in Bruno, un giovane che le era rimasto vicino durante l'assenza del marito. A queste voci Andrea preferisce costituirsi alla polizia pensando di aver ucciso un uomo, che nel frattempo essendo solo ferito, si è ristabilito. Andrea viene dunque liberato e i due giovani sposi possono tornare alla loro vita serena.



La vita semplice (Francesco De Robertis, 1945)

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Il film narra la storia di Marco Bressan, proprietario di uno squero (piccolo cantiere per la manutenzione delle gondole), di suo figlio Toto e di Bepi, un operaio del cantiere. I tre sono felici della loro vita semplice, non pensano ad arricchirsi e lavorano solo quando ne hanno voglia e per sbarcare il lunario. Essi rappresentano bene il cittadino veneziano, tradizionalista e contrario ai cambiamenti, soprattutto quelli che possono sconvolgere i ritmi e l’esistenza della città lagunare. La loro esistenza prosegue senza problemi, sino a quando Caldi, un avvocato e affarista privo di scrupoli, decide di comprare lo spazio dello squero per costruirci una fabbrica, approfittando dei debiti di Bressan. Fortunatamente la figlia di Caldi si innamora di Toto e riesce a convincere il padre ad abbandonare il progetto di abbattere lo squero. La vita semplice, un manifesto contro le promesse del capitalismo industriale.



Roma città aperta (Roberto Rossellini, 1945)

roma

Durante i nove mesi dell'occupazione nazista di Roma, la polizia tedesca è sulle tracce dell'ingegner Manfredi che è a capo di una branca della Resistenza. L'uomo, sfuggito in tempo alla perquisizione nel suo appartamento, trova rifugio a casa di don Pietro, un parroco di periferia attivo nella lotta contro l'oppressore. In seguito alla delazione di un'attricetta che ha avuto una relazione con Manfredi, l'ingegnere e il parroco vengono arrestati. Sottoposti a torture per costringerli a rivelare i nomi dei loro compagni, i due resistono eroicamente e, mentre il giovane perde la vita sotto tortura, il prete, contro il quale si sfoga inutilmente l'ira bestiale dei poliziotti, viene condannato alla fucilazione. E’ considerato il film capolavoro e simbolo del neorealismo. la scena della morte di Pina (Anna Magnani) fucilata mentre corre dietro al camion dei tedeschi che sta portando via il suo uomo è entrata a pieno titolo nella storia del cinema.

Edited by drogo11 - 21/3/2021, 15:14
 
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view post Posted on 27/3/2021, 15:45
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La storia d'Italia in celluloide (fra neorealismo, propaganda e satira) - 5^ parte - Il Ventennio fascista ed il secondo conflitto mondiale.

4 / Ventennio, guerra e Resistenza visti da vincitori e vinti



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Il Ventennio, il secondo conflitto mondiale e la nostra guerra civile sono stati portati sul grande schermo da un cinema italiano che, mediante il racconto di essi, ha saputo rinnovare la settima arte in modo assoluto, farsi ambasciatore nell'immediato dopoguerra di una dimensione più umana, reale, staccata da ogni retorica. Ma anche nei decenni successivi non rinunciò a parlare di quei drammatici anni. Dal 1945 in poi il nostro cinema si è fatto conoscere nel mondo, diventando grande. Ma in realtà l'Italia non è ancora un Paese pacificato perché chi allora vinse non ha raccontato fino in fondo cosa accadde durante e dopo la guerra civile. Il muro d'omertà dei vincitori non è stato mai rotto. E dunque la guerra civile, nel dolore delle famiglie, non è mai finita.



Il Ventennio


Vincere (Marco Bellocchio, 2008)

26_vincere

Milano, primi anni del 1910. Benito Mussolini, giovane direttore del quotidiano socialista 'Avanti!', è fermamente deciso a guidare le masse verso un futuro anticlericale, antimonarchico e socialmente emancipato. Accanto al lui c'è Ida Dalser, una donna conosciuta a Trento che lo ama e lo sostiene in tutto. Arriverà persino a vendere quello che ha per aiutarlo a finanziare i suoi progetti: la fondazione di un nuovo quotidiano, il 'Popolo d' Italia', e la nascita del movimento fascista. Gli darà anche un figlio: Benito Albino. Tuttavia, quando allo scoppio della I Guerra Mondiale Mussolini si arruola nell'Esercito, Ida perde le sue tracce. Lo ritroverà già sposato con Rachele e a nulla varrà la lotta disperata che condurrà per affermare i suoi diritti come moglie e madre di suo figlio. Rinchiusa in un istituto psichiatrico e allontanata dal suo bambino, subirà torture e violenze psicologiche che non basteranno tuttavia a fermare la sua lotta ostinata. Diviso in due parti, tra il Mussolini non ancora Duce e quello già al potere, quello di Bellocchio è un film di rara potenza sulla devastante potenza distruttiva di quegli ideali che come uno schiacciasassi distruggono tutto ciò che incontrano senza remore. È uno dei più visivamente affascinanti e più coerenti con l’assunto di raccontare dalla prospettiva moderna il tempo passato.


La marcia su Roma (Dino Risi, 1962)

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Negli anni del primo dopoguerra un reduce che vive di espedienti, Domenico Rocchetti, incontra un suo capitano che lo invita ad aderire al movimento fascista. Durante un tafferuglio in un centro rurale, Rocchetti chiede aiuto a un suo ex commilitone, Umberto Gavazza. Ma il cognato di quest'ultimo, acceso antifascista, li mette alla porta ambedue. A causa di una nuova baruffa sorta per aver voluto sostituire gli spazzini in sciopero, vengono messi in prigione e poi liberati da una decisa azione degli squadristi. Dopo aver partecipato a parecchie "azioni punitive", anche Rocchetti e Gavazza si preparano alla Marcia su Roma. Requisiscono un'automobile per raggiungere i camerati, ma vengono sconfessati perché il proprietario è un sostenitore del movimento fascista. In seguito a una scaramuccia scompaiono alle porte di Roma. La marcia su Roma è un film divertentissimo e spassoso ma che riesce in poco più di 90 minuti a raccontarci un capitolo di storia che ha segnato per un lungo periodo la vita e il destino del nostro paese e di migliaia di uomini. Le prime violenze, i primi scontri con i “rossi bolscevichi” e sopratutto le responsabilità storiche di chi era chiamato a fermare ciò che poteva ancora essere fermato. Dino Risi, come già in altre occasioni, ci regala ripetute risate che però arrivano sempre a smorzarsi in ghigni spesso amari di fronte a situazioni e sequenze tutt’altro che comiche.


Il delitto Matteotti (Florestano Vancini, 1973)

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Italia 1924. Giacomo Matteotti, segretario del Partito Socialista, chiede alla Camera che vengano annullate le elezioni del 6 aprile a causa delle illegalità e delle violenze che hanno dato al fascismo la maggioranza dei voti. Il 10 giugno alcuni fascisti rapiscono e percuotono a morte il deputato. L'opinione pubblica ne è sconvolta, l'opposizione politica si coagula e decide di boicottare i lavori del Parlamento astenendosene, (il cosiddetto Aventino). Mussolini, preoccupato, dispone che la polizia, obbediente al suo partito, arresti alcuni responsabili, sottraendoli alla magistratura. Mentre il Re rifiuta di togliere la fiducia al Capo del Governo e gli esponenti fascisti esigono da Mussolini la maniera dura, questi rimonta pian piano la crisi dell'isolamento fino a che il 3 gennaio 1925 dichiara alla Camera di assumersi tutte le responsabilità politiche, morali e storiche del delitto, e che spazzerà le opposizioni. E' l'inizio vero e proprio della dittatura. Con Il delitto Matteotti, Florestano Vancini mostra, senza mezzi termini, cosa è stato il fascismo, ritratto in tutta la sua violenza politica, umana e sociale. Il delitto Matteotti è un film, da mostrare soprattutto alle nuove generazioni, per non dimenticare un periodo storico tragico per il nostro paese e non sottovalutare il pericolo fascista, tuttora concreto e tangibile.


Anni difficili (Luigi Zampa, 1947)

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Piscitello, onesto impiegato municipale di un piccolo paese della Sicilia, per non perdere il posto è costretto a domandare la tessera del partito fascista. A malincuore mette il distintivo all'occhiello, indossa l'uniforme, calza gli stivaloni e partecipa alle adunate. Intanto avvenimenti importanti si susseguono con ritmo incalzante: la campagna etiopica, la guerra di Spagna, la vigilia della guerra mondiale e il figlio maggiore di Piscitello, Giovanni, partecipa ad ogni conflitto passando dalle Alpi all'Africa, dall'Africa alla Russia. Nel frattempo, Piscitello e la sua famiglia sono esposti ai bombardamenti e subiscono i disagi causati dallo sfollamento e dall'occupazione tedesca. Dopo l'armistizio, Giovanni sta per tornare a casa ma viene fucilato dai tedeschi in ritirata. Segue l'occupazione alleata e Piscitello viene chiamato dal sindaco, lo stesso che gli ha imposto di prendere la tessera fascista e che ora, facendo il doppio gioco, è rimasto a galla, che gli comunica di doverlo epurare a causa dei suoi sentimenti fascisti. Il film nasce col titolo "Credere, obbedire combattere" con le riprese di Carlo Ludovico Bragaglia che però lascia la regia quasi subito. In questo film, come in molti altri girati nel primo dopoguerra, il tema dei patimenti, delle privazioni e delle sofferenze subite ha una robusta eco. In generale prevale una visione di quel che si è consumato fortemente condizionata da un approccio che tende ad escludere la dimensione politica per soffermarsi sull’aspetto civile e sociale. I fantasmi della guerra e dell’occupazione sono onnipresenti e si traducono, anche in questa pellicola, in una descrizione più o meno realista del modo in cui essi hanno condizionato la vita degli italiani. La prospettiva privilegia lo sguardo del “comune cittadino”, rivelandosi non esente da atteggiamenti populistici e retorici. Evidente è il tentativo di catturare l’attenzione – e l’assenso – dello spettatore sollecitandone l’adesione sulla base del tentativo di riprodurre, in celluloide, aspetti della sua stessa esistenza. In questo quadro la vicenda resistenziale fatica ad affermarsi in sé e a trovare un riscontro. Per la sua stessa natura di esperienza partecipata, fuori dai canoni ordinari, che ha coinvolto una parte del paese ma che ha anche visto l’altra sostanzialmente estranea o passiva. L’estrema politicizzazione assunta dalla lotta di Liberazione è un tema difficile da trattare per un cinema che è appena uscito dal fascismo e dalla sua retorica.


Il giardino dei Finzi Contini (Vittorio De Sica, 1970)

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Tra i pochi frequentatori della casa dei Finzi Contini - un'antica ed aristocratica famiglia ebraica che vive in una lussuosa villa di Ferrara circondata da un vasto giardino - ci sono due giovani: Giorgio e Giampaolo, amici dei più giovani esponenti della famiglia, Micol e Alberto. Innamoratissimo della bella Micol, Giorgio si accorge con disappunto che la ragazza, pur dimostrandogli simpatia e tenerezza, non esita a concedersi a Giampaolo. Sono gli anni che preludono alla seconda guerra mondiale, nel vivo della politica di discriminazione razziale. Le pene d'amore di Giorgio sono ben presto sopraffatte da un dramma senza precedenti che sconvolge l'esistenza della famiglia Finzi Contini come pure di tutta la comunità ebraica ferrarese. Mentre Alberto, affetto da lungo tempo da una grave malattia, muore, gli altri componenti della famiglia Finzi Contini vengono arrestati dai nazisti e deportati. Anche il padre di Giorgio subisce la stessa sorte; Giampaolo, a sua volta, inviato sul fronte russo, non farà più ritorno. Soltanto Giorgio riuscirà a sottrarsi alla cattura e alla morte. Vincitore agli Academy Awards come Miglior film straniero nel 1972 la celebre pellicola di De Sica, tratta dall’altrettanto celebre romanzo di Giorgio Bassani, è stata restaurata e presentata nuovamente all’Auditorium del Parco della Musica di Roma nel maggio del 2015. Capace di commuovere e senza essere invecchiata l’opera narra la storia di una famiglia dell’alta borghesia di origine ebraica che vive, assieme a una cerchia ristretta di amici, in un piccolo mondo distaccato dall’orribile realtà che incombe su di loro. Nonostante il grande successo di pubblico, il film è ancora più noto per la sua storia produttiva contorta e che Bassani ripudiò in una lettera pubblicata il 6 dicembre sull’Espresso e intitolata “Il mio giardino tradito“, dopo aver portato in giudizio la casa produttrice ed il regista. Nonostante tali eventi, non si può negare che il film è una delle pellicole migliori nella narrazione di un'infamia quali furono le Leggi Razziali dell'Italia Fascista.


Il conformista (Bernardo Bertolucci, 1970)

conformista

Nel 1937 il professore Marcello Clerici sposa Giulia. Mentre la donna è spensierata, allegra, senza problemi, lui - nonostante i buoni successi come docente di filosofia - è tormentato da un ricordo: a tredici anni ha ucciso Lino Seminara, un autista che ha tentato di avere con lui dei rapporti sessuali. Da allora Marcello ha abbandonato ogni pratica religiosa e si è legato strettamente con l'OVRA, la polizia segreta fascista. Per volontà dei suoi dirigenti di partito, deve compiere il viaggio di nozze a Parigi per introdursi nell'ambiente del professore Quadri, un docente universitario antifascista, in modo da poterer consentire al camerata Manganiello di predisporne l'assassinio. Marcello e Giulia riescono ad entrare nelle grazie di Quadri e della moglie Anna, una donna assai bella e bisessuale che si attacca morbosamente a Giulia pur non rifiutando la corte dello stesso Marcello. Una breve vacanza in Savoia dei coniugi Quadri permette a Manganiello di predisporre un agguato nel quale però cade non solo il professore ma anche la moglie Anna, giunta all'appuntamento in macchina insieme a lui. Marcello assiste quasi inebetito al brutale assassinio dei due coniugi. Nel 1943, quando Roma esulta per la caduta del fascismo, Marcello incontra casualmente Lino Seminara, che in effetti non era morto. Sconvolto dall'incontro, Marcello scoppia in una reazione isterica e, denunciando alla folla l'abietto individuo, gli attribuisce tutte le colpe della propria vita. Il Conformista, è prima di tutto un film che affonda le sue radici nel clima di terrore generalizzato che il fascismo esercitava sui dissidenti, perpetrando violenze inumane e restrittive di tutte le libertà individuali. Ma lo sguardo di Bertolucci è rivolto soprattutto al conformismo becero di cui è eternamente vittima la borghesia. Quella borghesia che ora è fascista, ma che in futuro potrà saltare al di là della barricata senza scrupoli nè remore.


Film d'amore e d'anarchia, ovvero 'stamattina alle 10 in via dei Fiori nella nota casa di tolleranza... (Lina Wertmüller, 1973)

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Agli inizi degli anni Trenta, un giovane contadino della bassa lombarda, Antonio Soffiantini, detto Tunin, che dopo aver perduto un amico anarchico, ucciso dai carabinieri, è vissuto per qualche tempo fra i fuoriusciti italiani in Francia, va a Roma per uccidere il duce. Nella capitale, Tunin prende contatto con una prostituta, Salomè, già compagna dell'anarchico Anteo Zamboni, la quale lo ospita, spacciandolo per cugino, nella "casa" in cui "lavora". Per preparare l'attentato, i due sfruttano le informazioni di Giacinto Spatoletti, un rozzo gerarca fascista dei servizi di sicurezza. Nell'attesa di quel giorno, Tunin s'innamora, ricambiato, di un'altra "pensionante", la bella Tripolina, alla quale rivela il motivo che l'ha condotto a Roma. Giunge, infine, il momento dell'attentato; ma colte l'una da tenerezza, l'altra da pietà, la Tripolina e Salomè non svegliano in tempo Tunin. Sentendosi tradito, il giovane perde il ben dell'intelletto e spara sui carabinieri in visita d'ufficio alla "casa", quindi scappa, ma viene preso e finisce nelle mani di Spatoletti. L’uomo viene arrestato, picchiato a sangue dalla polizia politica, ucciso a botte in cella, ma la sua morte viene fatta passare per un suicidio con la collaborazione della stampa compiacente. Il film mantiene la promessa di rileggere i fatti storici con il filtro del grottesco, vero e proprio strumento ideale che la regista ha sempre usato nelle sue storie, mischiandolo con le correnti popolari del melodramma e della sceneggiata. Lina Wertmuller, tramite il personaggio del gerarca Giacinto Spatoletti (interpretato da Eros Pagni) ci mostra il volto autentico del fascismo. Spatoletti è becero, laido e violento; convinto di essere un grande uomo e con una ammirazione fanatica per Mussolini, egli rappresenta tutta la profonda immoralità del fascismo, così come ne rappresenta l’animo violento e greve. Dall’altra parte, l’anarchia è rappresentata nel suo miglior volto da Antonio Soffiantini. Il protagonista non è infatti un militante esperto, come non è un teorico del movimento; è soltanto un ragazzo che, dopo aver passato tutta la sua vita a subire, ha deciso di alzare la testa. Il suo è un anarchismo naturale, ingenuo e motivato solamente dal bisogno di libertà. La scelta di uccidere Mussolini, infatti, non deriva tanto dalla voglia di vendetta, quanto dalla consapevolezza di non poter essere liberi sotto un regime. Una consapevolezza che lo porta a essere pronto a sacrificarsi, preferendo egli morire libero che vivere come un servo. Film d’amore e d’anarchia è quindi una ode all’anarchia, che ci è rappresentata come un sogno, meraviglioso quanto inattuabile. È poi anche un atto di condanna alla barbara ideologia fascista, per tutto il male che ha provocato e per tutti gli innocenti che ha ucciso. Anarchia e fascismo si incontrano in questo lungometraggio, e il risultato del paragone è chiaro: quanto è bello Antonio Soffiantini, altrettanto è orribile Giacinto Spatoletti. Non solo una vicenda politica, Film d’amore e d’anarchia ci racconta anche della relazione amorosa che Antonio intraprenderà con Tripolina. Si tratta di un amore impossibile il loro: Antonio è infatti destinato quasi sicuramente a morire. La missione che lo attende è una missione suicida, e questo lo sanno sia lui che la sua amata Tripolina e,proprio per questa certezza, lui cercherà di spendere più tempo possibile con lei. Questo tempo speso insieme sarà sufficiente però a illudere Tripolina che quello che si è creato tra di loro sia qualcosa che non può accontentarsi di durare pochi giorni. Si crea quindi un nuovo dilemma: è veramente giusto morire per questa causa? Non è forze più saggio vivere, adesso che per vivere c’è un motivo? Sono questi i quesiti che si vanno a formare nella testa di lei. L’ideale si contrappone al sentimento, in uno scontro che è destinato a generare dolore. Se infatti tra anarchia e fascismo era facile intuire dove stesse il bene e il male, in questo caso non si può essere altrettanto sicuri.


Il sospetto (Francesco Masella, 1974)

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Radiato dai quadri del Partito Comunista Italiano nel 1932 per avere espresso idee di democratizzazione circa la conduzione dell'organizzazione, Emilio viene recuperato a Parigi mediante le conversazioni con i compagni Teresa, Resta ed altri; quindi, nel 1934 viene mandato a Torino con la missione di prendere contatto con il Direttivo locale. Fuggito precipitosamente, quando l'inviato crede di essere caduto in una trappola, Emilio ritorna con il preciso intento di smascherare l'eventuale traditore. Incontra Libero sulla collina di Superga, Tommaso al Valentino, Giacomo al Museo Egizio; ma la polizia fascista non si presenta. I sospetti cadono così inesorabilmente su Gavino Pintus, l'unico del Direttivo torinese messo al corrente dell'eventuale esistenza di una quinta colonna. A questo punto l'OVRA, che aveva destramente seguito passo passo Emilio in patria e all'estero, stringe le maglie e imprigiona i cinque personaggi. Emilio tuttavia rifiuta la sua collaborazione con gli oppressori e, accettando i 25 anni di galera, si consola con la convinzione d'avere con il proprio sacrificio cooperato alla purificazione del Partito. Il film risulta essere molto complesso nella sua disanima tra pubblico e clandestino, dubbio e convinzione. Alla fine non lascia sereni, semina non poche controversie oscure attraverso la parabola sconvolta e sconcertante del protagonista, incarnato con essenziale potenza da un Gian Maria Volonté magnifico che va di sottrazione, nel cui ritratto ci si ritroveranno tutti coloro che, in un modo o nell’altro, si sentono parte di un qualcosa (un gruppo, una famiglia, un partito, un club, fate voi) e, d’improvviso, comprendono di dover fare i conti con loro stessi (e con tutto ciò che gira attorno a loro). Piccola manifestazione reale di ciò che il film vuole davvero raccontare: andando contro il potere ci si fa male) è anche uno dei pochi film italiani degni di nota che cercano di capire il fenomeno del Partito: dice che quando un uomo diventa dirigente di un partito (o meglio, quando il Partito lo sceglie come dirigente), egli stesso deve diventare il Partito.


Una giornata particolare (Ettore Scola, 1977)

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E' il 6 maggio 1938 e la Roma fascista è accorsa sulle strade per festeggiare Hitler, venuto in visita da Mussolini. In un caseggiato popolare Antonietta, moglie disfatta da sei maternità e dalla fatica di una fanatica "camicia nera" e lei stessa fascista convinta - ha un album colmo di foto e"detti" del Duce - incontra, inseguendo un pappagallo fuggito dalla gabbia, un suo coinquilino, Gabriele, ex annunciatore radiofonico cacciato dal servizio con l'accusa di essere un "sovversivo" ma, in realtà, perché è un omosessuale. Sulle prime, messa in allarme dalle chiacchiere di una malevola portinaia, Antonietta diffida di lui che si è autoinvitato a prendere un caffè in casa sua e lo schiaffeggia addirittura quando Gabriele le rivela la vera ragione per cui è stato cacciato dall'EIAR. Poi, la comprensione ha il sopravvento e l'uomo e la donna si confidano reciprocamente le loro pene arrivando anche ad avere un breve incontro d'amore. La sera sarà tutto finito: Antonietta tornerà ad essere la schiava del marito, Gabriele verrà prelevato da due poliziotti e inviato al confino. Per entrambi rimarrà però il ricordo di una giornata particolare e indimenticabile, simboleggiata da un libro che finalmente Antonietta ha la forza e il coraggio di leggere. Una giornata particolare è lo struggente racconto dell’incontro di due solitudini, separate per carattere, cultura ed estrazione sociale, ma accomunate dallo stesso triste destino che li relega ai margini di una società irregimentata, autoritaria e muscolare, incapace di vedere al di là del proprio naso e di percepire la propria imminente disfatta. Dopo uno dei più celebri e folgoranti piani sequenza della storia del cinema italiano, che ci riporta ai tempi del fascismo, facendocene respirare umori, atmosfere e ottuse esaltazioni, la macchina da presa di Scola diventa il mezzo con cui raccontare il reciproco bisogno di umanità e affetto di Antonietta e Gabriele, scandito dall’incessante radiocronaca dell’incontro fra il Führer e Mussolini, evento tanto gioioso e affascinante per il popolo dell’epoca quanto grottesco e inquietante agli occhi dello spettatore di oggi.


Cristo si è fermato a Eboli (Francesco Rosi, 1979)

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Nel 1935, il medico-pittore torinese Carlo Levi, condannato al confino dalla dittatura fascista, scortato da due carabinieri, scende dal treno alla stazione di Eboli: "Cristo si è davvero fermato a Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania. Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l'anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia". Il viaggio prosegue in pullman e quindi in automobile. Raggiunto Gagliano, Carlo inizia a fare piccole passeggiate giornaliere in compagnia del cane Barone e lentamente entra in contatto con la popolazione che finisce per imporre, tanto a lui quanto al podestà fascista, di esercitare la professione di medico. La sorella Luisa lo raggiunge e Carlo si trasferisce con lei in una casa dove la domestica Giulia si dedica a loro. Carlo comincia così a dedicarsi alla pittura, scambia qualche parola con gli abitanti, con il podestà, con il misterioso Don Trajella. La conquista dell'Abissinia gli riconsegna la libertà. Tornato a Torino carico di ricordi, Carlo scriverà un libro per ricordare questa esperienza. La pellicola, come il libro, è uno straordinario viaggio nel mondo contadino del Sud in epoca fascista.


L'aria del lago (Alberto Rondalli, 2007)

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A Bellano, sul ramo lecchese del lago di Como, Amleto Selva si accasa sposando Ortelia, figlia del defunto macellaio. Ma il matrimonio si rivela avaro di soddisfazioni, soprattutto dal punto di vista sessuale. Così Amleto inizia a frequentare il dott. Durini, medico condotto del paese e animatore di una combriccola di amici che, del tutto indifferenti all'affermarsi del fascismo, si danno alla bella vita e alla frequentazione del bordello di Lecco. Quella vita da vitelloni di periferia andrà incontro a un amaro finale, mentre il rombo minaccioso della seconda guerra mondiale comincia ad avvicinarsi. Il film è tratto dal racconto "Il segreto di Ofelia" di Andrea Vitali.


Fascisti su Marte (Corrado Guzzanti & Igor Skorfic, 2006)

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Il film è una satira fantascientifica che racconta le vicende paradossali di un manipolo di fascisti, che, nel 1939, ignari della guerra imminente, si lanciano alla conquista del pianeta rosso (con immagini che citano i primi film di Méliès e sulla falsariga dei vecchi cinegiornali dell'Istituto Luce) attraverso temerarie avventure, grandi scoperte, visioni mistiche ed incontri alieni. Dopo sessant'anni di oblio dalla storia per mano di biechi professorini plutosodomiticomarxisti che li marchiò d'infamia come "falsi di propaganda" tornano di prepotentia alla luce, per ridar lustro e onore all'Italietta d'oggi, i più preziosi cinegiuornali del ventennio che raccolti nel fascio d'un solo travolgente pellicolo, dimostrano la verità storica della più grande impresa littoria, che il mondo ancora ci rode e non ci eguaglia. Il 10 maggio 1939 Marte è fascista!



Il Secondo Conflitto Mondiale


Siluri umani (Antonio Leonviola, 1954)

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Nella scuola per mezzi d'assalto della Marina Italiana vengono addestrati gli uomini che dovranno condurre gli audaci barchini contro gli sbarramenti e le navi nemiche. Quand'è giunta l'ora, gli uomini partono per destinazione ignota: un idrovolante li porta nell'isola di Stampalia. Là soltanto apprendono che dovranno assalire il porto di Suda, importante base, che accoglie le navi da guerra inglesi destinate a molestare ed impedire la navigazione delle navi italiane. Recatosi al comando, a Lero, il comandante dei mezzi d'assalto apprende che un convoglio italiano ha lasciato Tobruk: alcune unità nemiche, entrate nella baia di Suda, si preparano ad attaccarlo. Il comandante riparte per Stampalia a bordo di un sommergibile: quando questo emerge, in vista di Stampalia aerosiluranti inglesi appaiono all'orizzonte. Tra il sommergibile e le aerosiluranti ha luogo una lotta disperata: ben presto centrato da due siluri, il sommergibile affonda incagliandosi sul basso fondale. Da Stampalia gli uomini si portano sul luogo dell'affondamento: con sforzi sovrumani riescono a salvare marinai e ufficiali, tra i quali c'è il loro comandante. Il piano dell'attacco alla baia di Suda viene preparato nei minimi particolari. La sera del 25 marzo, con tempo bello i barchini d'assalto vengono messi in acqua a dieci miglia dalla costa di Suda. La prima e la seconda ostruzione vengono oltrepassate; i proiettori scrutano ininterrottamente lo specchio d'acqua del porto. Alle 4,30 si arriva alla terza ostruzione: è impossibile superarla. Uno dei piloti si lancia contro l'ostacolo per farlo saltare, andando incontro a sicura morte. Si ode il fischio dei marinai inglesi che danno la sveglia. Il comandante dà il via e i barchini sfrecciano veloci, nel silenzio del porto, verso i grandi bersagli ormai vicinissimi. Siluri umani narra l’impresa degli incursori della Regia Marina Italiana nel mettere a segno l’attacco alla flotta Inglese nel 1941, ancorata nella baia di Suda a Creta. La missione è messa a segno mediante i “barchini esplosivi” e che vide l’affondamento dell’incrociatore inglese York.


Italiani brava gente (Giuseppe De Santis, 1964)

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E' la storia di un reggimento italiano in Russia durante la campagna 1941-1943, vista con gli occhi di un agricoltore emiliano, di un idraulico romano, di un minatore pugliese e di un colonnello, tutti dispersi nella tragica disfatta. De Santis pensava che attraverso il cinema si può narrare la storia di un paese e il film racconta con stile post neorealista, della scellerata campagna di Russia, in cui morirono inutilmente migliaia di Italiani, mandati a combattere a -39 gradi senza adeguato equipaggiamento, ma non è un film di guerra, ma un film sulla guerra.


Finchè dura la tempesta (Bruno Vailati, 1963)

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Nel 1941 un sommergibile italiano tenta di forzare lo stretto di Gibilterra. Il comandante, poiché la sua nave è inseguita da un cacciatorpediniere inglese e danneggiata da bombe di profondità, decide di riparare in acque neutrali a Tangeri. Qui trova anche la nave inglese, e durante la forzata sosta, i due comandanti nemici hanno modo di conoscersi e di apprezzarsi reciprocamente, ed entrambi vengono in contatto con una spia in gonnella. Anche i marinai dei due mezzi da guerra fanno causa comune contro un gruppo di facinorosi del luogo. Intanto arrivano segretamente i pezzi di ricambio dall'Italia e segretamente vengono montati. Nonostante la reciproca stima i due comandanti sono nuovamente costretti a combattersi: allorché gli italiani arrischiano un'uscita di sorpresa il cacciatorpediniere insegue ancora il sommergibile, ma questo riesce con due siluri ad affondarlo. La pellicola è ispirata (in maniera romanzata) a fatti realmente accaduti al capitano di corvetta Adalberto Giovannini, col sommergibile Michele Bianchi, nel corso della Seconda Guerra Mondiale.


La colomba non deve volare (Sergio Garrone, 1970)

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Nel luglio 1943, centomila soldati italiani e tedeschi vengono accerchiati, in Sicilia, dagli anglo-americani. Per rendere meno disperata la loro situazione non c'è che un mezzo: interrompere il rifornimento di carburante alle forze alleate, distruggendo i pozzi petroliferi delle isole Bahrein. L'incarico di compiere la difficile missione viene affidato alla squadriglia aerea del maggiore Ridolfi, che si trasferisce immediatamente a Cipro. Data la loro limitata autonomia, gli aerei italiani hanno bisogno di un rifornimento in pieno deserto; per provvedere a questa necessità viene prescelto uno spagnolo, Pablo Vallajo, che lavorava per gli italiani. Per quanto accanitamente contrastato dal maggiore Harris, del controspionaggio alleato, Pablo riesce a procurarsi una notevole quantità di carburante e a trasportarla nel deserto, dove gli aerei del comandante Ridolfi atterrano regolarmente. Al momento di levarsi in volo, tuttavia, sopraggiunge, con un gruppo di armati, l'irriducibile Harris, ma dopo un accanito scontro a fuoco gli italiani hanno la meglio e, ripresa la missione, la conducono vittoriosamente a termine. Il film si ispira molto liberamente a un reale, ma poco noto, episodio bellico accaduto durante la Seconda Guerra Mondiale.


Mediterraneo (Gabriele Salvatores, 1991)

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Nella primavera 1941, durante la seconda guerra mondiale, otto militari italiani ricevono l'ordine di riprendere e presidiare l'isola greca di Syrna, sul mare Egeo, appartenente all'Italia dal 1920 e recentemente abbandonata dai tedeschi. Vi sbarcano cautamente da una piccola nave da guerra, senza trovare resistenza: l'isola appare deserta. Gli otto componenti il presidio sono un campionario pittoresco di sprovveduti. Il tenente Montini che li comanda è un trasognato cultore di poesia e pittura, perduto nel ricordo di Omero; il suo attendente, Farina, un timido tutto "signorsi'"; il mulattiere Strazzabosco, unicamente concentrato sulla sua mula spelacchiata e azzoppata; il marconista Colasanti, un inetto: i fratelli Libero e Felice Munaron, due nostaligici della montagna natia, da cui si trovano lontani per la prima volta; Noventa, un impaurito, sempre in cerca di un'occasione di fuga: il sergente Lo Russo ha velleità militaresche, punteggiate da divertenti smargiassate. Nell'isola deserta non accade nulla per vari giorni, e gli otto finiscono col sentirsi ignorati e inutili. Quando poi la nave viene affondata da ignoti sabotatori e la radio messa fuori uso dall'incuria di Colasanti, il loro isolamento è totale. Ma ecco affacciarsi da un imprevedibile nascondiglio qualcuno e poi altri dei rari abitanti, che poi simpatizzano con gli occupanti. Così il tenente Montini trova modo di sbizzarrirsi, dedicandosi a un estroso "restauro" della chiesetta dell'isola; i due fratelli montanari si invaghiscono di una pastorella e l'intero presidio trova a turno qualche fuggevole passatempo con Vassilissa, la prostituta del luogo, in precedenza a servizio dei tedeschi. In seguito vengono pure derubati delle poche armi, e finiscono naturalizzati isolani. Finchè un aereo da ricognizione in avaria atterra a Syrna e il pilota informa il "presidio" che la guerra è finita. Ripartito, segnala a un comando il gruppo degli sperduti, che vengono rimpatriati, ad eccezione di Farina, che sceglie di restare nell'isola e sposa Vassilissa, l'unica donna della sua vita. Trascorsi molti anni Montini torna nell'isola; vi ritrova Farina, oramai vedovo, in compagnia di Lo Russo che, deluso delle vicende italiane, si è ritirato a Syrna. Mediterraneo si apre con una frase di Henri Laborit – medico, biologo e filosofo francese autore, nel 1976, del saggio Elogio della fuga – e si chiude con una semplice dedica. La frase di apertura dice «in tempi come questi la fuga è l’unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare», la frase finale è invece una dedica «a tutti quelli che stanno scappando».


El Alamein – La linea del fuoco (Enzo Monteleone, 2002)

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Quando viene evocato il nome di El Alamein, storico luogo di battaglia tra le sabbie infuocate dell'Africa del Nord, vengono richiamati alla mente scontri, rumore di carri armati, sibili di bombardieri, atti eroici di generali famosi - due su tutti Rommel e Montgomery - e soldati semplici. Questo film, invece, non vuole raccontare la Storia, ma tante storie. Quelle degli uomini italiani schierati nel 'settore sud', dove le condizioni climatiche e logistiche sono le più disagevoli: di giorno caldo torrido, di notte freddo, con i rifornimenti che tardano ad arrivare e le missioni suicide nei campi minati, ma soprattutto la mancanza di informazioni sulle sorti delle battaglie condotte al nord dal grosso dell'armata italo-tedesca. Assai realisticamente, Enzo Monteleone si è proposto di raccontare quel pezzo di Storia patria che fu la tragica guerra degli italiani: la menzogna di cui furono vittime tanti uomini mandati a "vincere o morire" quando, in realtà, solo la seconda opzione era disponibile.


Le rose del deserto (Mario Monicelli, 2006)

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Una sezione sanitaria dell'esercito italiano si accampa nell'estate del 1940 a Sorman, una sperduta oasi nel deserto della Libia. La guerra lì appare assai lontana e il maggiore comandante passa il tempo a scrivere appassionate lettere d'amore alla sua giovane moglie. Nel campo c'è un'aria rilassata finché un frate italiano che vive sul posto non coinvolge i militari nel soccorso della popolazione locale che ha molto bisogno di cure mediche. Si sparge ben presto la voce della loro capacità e disponibilità per cui la spedizione militare sembra trasformarsi in una missione umanitaria. La situazione della guerra nell'Africa settentrionale però a un certo punto cambia bruscamente. La corsa vittoriosa verso l'Egitto delle truppe comandate dal generale Graziani, viene arrestata dagli inglesi e si trasforma in una fuga precipitosa. Il campo di Sorman viene invaso prima dai soldati in fuga poi dai feriti. Quando le sorti degli italiani stanno per precipitare arrivano in soccorso i tedeschi, ma poi tutto precipita di nuovo e... Il film mescola immagini d'epoca ad una storia umana ed ironica che potrebbe essere vera, utilizzando la satira velenosa e corrosiva solo nei confronti degli alti papaveri, dei Generali, veri aguzzini, stupidi e boriosi, trasformandoli in mostruose macchiette.


Il Varco ( Federico Ferrone & Michele Manzolini, 2019)

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1941, un soldato italiano parte per il fronte sovietico. L'esercito fascista è alleato di quello nazista, la vittoria appare vicina. Il convoglio procede tra i canti e le speranze. La mente del soldato torna alla malinconia delle favole raccontategli dalla madre russa. A differenza di molti giovani commilitoni, lui ha già conosciuto la guerra, in Africa, e la teme. Il treno attraversa mezza Europa, avventurandosi nello sterminato territorio ucraino. All'arrivo dell'inverno l'entusiasmo cade sotto i colpi dei primi morti, del gelo e della neve. I desideri si fanno semplici: non più la vittoria, ma un letto caldo, del cibo, tornare a casa. L'immensa steppa spazzata dalla tormenta sembra popolata da fantasmi. Il Varco è una storia di finzione costruita con filmati di repertorio, ufficiali e amatoriali. È il racconto in soggettiva di un soldato durante la campagna di Russia nella Seconda Guerra Mondiale. È un film popolato di spiriti. Fantasmi che vagano sempre più numerosi nella steppa ucraina, man mano che la guerra si fa sempre più disperata. Ricordi che si insinuano nella mente del protagonista e lo riportano agli orrori della guerra coloniale italiana. Infine frammenti di una guerra futura che si combatte oggi in Ucraina, negli stessi luoghi. Presente e passato sono due binari paralleli che si avvicinano e confluiscono. Come se le ferite di oltre 70 anni fa non si fossero mai rimarginate.


La tregua (Francesco Rosi, 1996)

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Quando si annuncia la fine della Seconda Guerra Mondiale, un gruppo di deportati viene liberato dai russi dal lager di Auschwitz ma, in assenza di indicazioni o di punti di riferimento, rimane sbandato. Ci sono polacchi, cechi, francesi ed anche italiani. Per un po' tutti rimangono uniti, poi gli italiani si affidano ad un connazionale che si spaccia per responsabile dei rapporti con i russi e cercano di pensare a come tornare a casa. Comincia così un viaggio pieno di difficoltà affrontato nelle condizioni più disperate. Nel gruppo c'è Primo, che continua a rivivere dentro di sé gli orrori del lager e quasi non riesce più a pensare ad una vita diversa. Ci sono Cesare, molto estroverso, e Daniele, Ferrari, Unverdorben, D'Agata. Insieme attraversano l'Europa centrale, ora a piedi ora sui treni di fortuna, talvolta pensando di aver trovato la strada giusta, altre in preda allo sconforto per un traguardo che sembra allontanarsi sempre di più. Durante il cammino, Primo incontra un greco disincantato e disilluso che gli offre molte lezioni di vita. Il viaggio va avanti e diventa occasione per conoscere meglio gli altri e se stessi. Momenti di depressione si alternano, in tutti ma specialmente in Primo, a occasioni di riscoperta di gioie dimenticate come la tensione amorosa. In rapidi, drammatici flashback riaffiorano i ricordi del lager, e Primo a contatto con una realtà che si riapre alla vita, sente quasi la colpa di essere sopravvissuto. Finalmente il gruppo arriva a Monaco, dove un soldato tedesco vede su Primo il segnale di Auschswitz e si inchina per chiedergli scusa. L'ultima tappa è a Torino, a casa, dove Primo ritrova la sorella e la mamma. Nella tranquillità della propria stanza, seduto davanti la macchina da scrivere, cerca di rievocare la tragedia passata, ma il senso di colpa rimane forte e ineliminabile. Il film è tratto dalla seconda opera dello scrittore Primo Levi. Al termine del libro, che giunge sedici anni dopo la prima edizione di Se questo è un uomo, troviamo stampata una cartina. Vi è tracciato un itinerario tortuoso, che parte da Auschwitz e arriva a Torino dopo aver attraversato ben sette Paesi: Polonia, Unione Sovietica (Bielorussia e Ucraina), Romania, Ungheria, Cecoslovacchia, Austria (due volte), Germania. È la traccia del viaggio di ritorno al quale Levi fu costretto dopo la liberazione di Auschwitz. Dopo l’Iliade mortale del Lager, questo libro descrive l’Odissea del ritorno: ed è una storia affollata, rumorosa di personaggi e di voci che si accavallano in tutte le lingue. La tregua è il racconto di una peregrinazione irragionevole, ma carica di energia, attraverso la vita che ricomincia: un racconto corposo, impregnato insieme di ansia e di gioia. Prima di allontanarsi dal Lager, Levi lascia inciso sulla pagina l’emblema più straziante del dolore: Hurbinek, il bambino di tre anni nato ad Auschwitz, che non ha mai visto un albero e che ripete un’unica parola incomprensibile, vittima innocente e testimone assoluto di cui nessuno saprà comprendere il linguaggio. Di qui in poi comincia il viaggio, l’interminabile percorso attraverso l’Europa sconvolta dalla guerra.


La ciociara (Vittorio De Sica, 1960)

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La guerra, che non risparmia a Roma i bombardamenti, induce Cesira, una giovane vedova, proprietaria d'un modesto negozio d'alimentari, a cercare rifugio tra i monti della Ciociaria dov'è nata. Sua costante preoccupazione è che alla figlioletta tredicenne, Rosetta, siano risparmiati per quanto possibile le angosce e le sofferenze che la guerra infligge anche ai civili. Ad accogliere le due donne sono amici, parenti e la serenità di luoghi che sembrano tagliati fuori dalla tragicità di quelle ore. Ma il fronte, in movimento continuo lungo la penisola, si avvicina inesorabile. La prima vittima di quella piccola comunità è Michele, timido innamorato di Cesira costretto da un gruppo di soldati tedeschi a far loro da guida sui monti. All'arrivo degi alleati, nell'euforia generale, Cesira, convinta che la guerra sia finita, decide di tornare a Roma insieme a Rosetta. Le due si incamminano a piedi ma, in una chiesa diroccata in cui si fermano a riposare, vengono aggredite e violentate da un gruppo di soldati marocchini. Rosetta si chiude in un agghiacciante silenzio, dando così l'addio alla spensieratezza dell'adolescenza. La Cesira del film non è una antifascista, ma non è neppure una fascista. È una donna che si adatta alla circostanza e che prova a sbarcare il lunario anche in mezzo alla guerra. Il suo interesse dominante è la figlia. Nonostante sia ancora giovane e avvenente e non le manchino i corteggiatori, non è quello che le interessa. Personaggio privo di coscienza politica, ma determinata a sopravvivere, determinata, soprattutto, a proteggere la fragile Rosetta da ogni inganno e da ogni trappola della vita. In una nemesi spietata sarà proprio la più brutale delle violenze, che Cesira non potrà impedire venga perpetrata contro sua figlia, a diventare amaro contrappasso di questa costante protezione. Sarà proprio dopo questo episodio che la mutazione profonda della esile Rosetta, la colpirà al cuore facendole crollare ogni certezza e ogni illusione. La maturazione di Rosetta è repentina e, soprattutto, non è frutto di una libera, progressiva e consapevole scelta, ma di una violenza feroce che solo l’effetto di un malefico epilogo della guerra ha potuto creare. È proprio la violenza a rendere irriconoscibile Rosetta e la sua radicale trasformazione oltre a costituire un atto indiretto d’accusa verso la madre che non l’ha saputa proteggere, ha accelerato innaturalmente il pur inevitabile termine del percorso adolescenziale, con una sacrilega crudeltà. La fine della guerra rappresenta un vero ciclone che spazza via il passato, preludendo al nuovo. Una specie di monito per quell’Italia che con la guerra aveva ancora una volta perso l’innocenza. È però anche il frutto di quella sorda carica distruttiva e pervasiva della guerra che tutto distrugge e tutto contamina. Un “effetto collaterale” di brutale violenza che sembra anche qui fare da contrappasso alla, tutto sommato, tranquillità della campagna che teneva gli sfollati lontani dalla calamità bellica. Grazie a questa pellicola ci si interroga sulla nostra storia e, senza l’utilizzo di retorica alcuna, si fanno i conti con le violenze e gli stupri, non solo fisici, scolpiti nella memoria collettiva. Questo film valse numerosi premi alla giovanissima Sophia Loren, fra i quali il Premio come Miglior Attrice al Festival di Cannes e l’ambito Oscar. Ma a noi piace anche ricordare la bravura di Cesare Zavattini, compagno di “avventure” di De Sica e sceneggiatore straordinario. La scena dello stupro rappresenta la prima denuncia pubblica delle atrocità commesse dai "Goumier", i soldati marocchini inquadrati nel Corpo di spedizione francese in Italia.


La storia (Luigi Comencini, 1986)

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Roma, 1941. Ida è una maestra elementare, vedova, ebrea e con un figlio di 15 anni, Nino. Un giorno, mentre torna a casa dal lavoro viene seguita da Gunther, un giovane soldato tedesco, che dopo aver tentato un approccio, la violenta e fugge spaventato. Ida rimane incinta e, nonostante sia il frutto di una violenza, il piccolo Useppe viene accolto con felicità da lei e da Nino. Allo scoppio della guerra Nino parte per il fronte e Ida e Useppe restano soli. Dopo un bombardamento, Ida è costretta a lasciare la sua casa e a trasferirsi con altri sfollati a Pietralata. Sono momenti terribili in cui lei e Useppe riescono a sopravvivere grazie alla bontà e all'aiuto di Giuseppe Cucchiarelli e dell'anarchico Carlo. Alla caduta di Mussolini, Nino torna a casa, ma va via dopo poco, deciso a dare il suo apporto alla Resistenza. Finalmente la guerra finisce e Ida può tornare al suo lavoro di insegnante. Ma per lei i dolori non sono finiti, infatti Useppe, muore per un attacco di epilessia pochi anni dopo e Ida impazzisce. La storia di Comencini dal capolavoro di Elsa Morante (forse il più bel romanzo italiano sulla Seconda guerra, insieme a La pelle di Curzio Malaparte), in linea generale, ne offre un'immagine riduttrice, a volte poco coerente. Laddove l'autrice descrive un'abbondanza di avvenimenti e di personaggi in un mosaico narrativo cementato dalla scrittura, Comencini si limita a frammenti separati da ampie ellissi. Anche la critica si è mostrata abbastanza divisa rispetto agli esiti del film. A La Storia è stato riconosciuto un meritevole impegno, non sempre in grado di compensare tuttavia una non perfetta aderenza alla vicenda e soprattutto la non pienamente riuscita resa dei temi di quotidianità e universalità insieme che le vicende narrate nella pagina scritta sollevano.


La pelle (Liliana Cavani, 1981)

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Napoli 1944. Il generale Cork, comandante della 5ª Armata americana, è preso dalle trattative con Marzullo, mafioso locale, che per consegnargli 112 tedeschi catturati durante le quattro giornate di insurrezione esige dagli americani una tangente di cento lire al chilo, suscettibile di forti aumenti, per ogni prigioniero. Il tramite per condurre il patteggiamento è Curzio Malaparte a cui viene anche dato l'incarico, per compiacere la moglie aviatrice di un senatore americano, di organizzare una cena stile Rinascimento che abbia come clou una "sirena" dell'acquario di Napoli che sembra una bambina. Intanto nei "bassi" le madri vendono i figli ai marocchini e Jim, il giovane tenente di collegamento, si innamora di una ragazzina che scoprirà poi essere in vendita, pubblicizzata da suo padre come l'unica vergine esistente in città. Malaparte si muove in questo inferno con distacco mentre cerca di spiegare all'aviatrice, durante un'orgia di omosessuali, che è la potenza corruttrice degli americani ad aver ridotto in tal modo la povera gente. Durante una improvvisa eruzione del Vesuvio, l'aviatrice si ritrova alla mercé di un gruppo di soldati ubriachi e stravolti, allo stesso livello di tutte le altre donne italiane. Ma la 5ª Armata dovrà presto lasciare Napoli per marciare verso Roma... “La pelle” di Liliana Cavani è un film del 1981 tratto dall’omonimo romanzo autobiografico del giornalista, scrittore e ufficiale Kurt Erich Suckert, in arte Curzio Malaparte. Dapprima egli sostenne il fascismo e partecipò alla marcia su Roma; ne divenne, successivamente, fervente oppositore tanto da essere mandato al confino dal regime. Dopo l’otto settembre ’43 collaborò con gli alleati in qualità di ufficiale del nuovo esercito italiano. Nel dopoguerra si avvicinò al partito comunista, al partito repubblicano e, infine, alla Chiesa cattolica. Definito cinico e compassionevole scrisse, tra gli altri, i libri “Kaputt” e “La pelle” dove, in maniera realistica, descrisse le sue esperienze da osservatore dell’avanzata alleata nella penisola italiana. La regista legge casualmente il romanzo di Malaparte in treno e da questa esperienza decide, con la collaborazione dell’autore, di girare un film documento, una inchiesta sugli avvenimenti del 1943/44, non strettamente bellici, avvenuti sul suolo campano. Superare la guerra come scontro di eserciti per entrare nelle case e nelle pene dei vinti. Unicum della sua filmografia, il film diventa il lungometraggio della “riproduzione della realtà” che solo il cinema è capace di fornire. Più vero del vero. Per questo la sceneggiatura e il soggetto sono fondamentali affinché il film risulti diretto, grottesco e talvolta raccapricciante. Il quadro è quello di una città decadente, allo stremo, con qualche guizzo, anche gioioso, quasi per reazione alle peggiori esperienze che la guerra riserva ai vinti. Ricostruzione puntigliosa. Nei dettagli la ricerca del massimo realismo. Ogni personaggio parla la sua lingua, il suo dialetto. Il popolo si muove tutto insieme; la macchina da presa avvolge la folla che viene inquadrata in molti totali e in pochissimi primi piani. Tanti dettagli di corpi che affiorano e non si dimenticano: nella raccolta delle bare nei vicoli, nella tragica eruzione del vulcano risvegliato e nella parossistica e musicale danza delle lavandaie e del femminiello che simula il parto. I protagonisti sono i gruppi, le comparse che ondeggiano, suonano, piangono o urlano. Uso amplificato del carrello che segue l’esercito invasore, le prostitute che si offrono per pochi soldi o i disperati che sfuggono alla lava incandescente. In questo Ade dai toni apocalittici, il racconto si dipana in tanti episodi che articolano la trama senza soste e in un crescendo di disperazione e di compromessi. Malaparte è osservatore distaccato, intermediario tra i vinti umiliati ,affamati e i vincitori forti ,sprezzanti. Accompagna gli ospiti, Caronte elegante e snob , nei meandri del vizio e della fame. La regia è da film-documento, forse, volutamente, senza troppa anima. Film di denuncia e di immagini prima che di parole. Nessuna capitolazione a cedere a storie sentimentali; poche le relazioni legate ai personaggi. Avrebbero fatto cadere la tensione e il quadro della narrazione. Alla fine rimane il gusto amaro. Lascia il segno vedere una nazione che si prostituisce e viene umiliata dagli assedianti, corvi predatori ed ingordi. In quella guerra hanno perso tutti: vincitori e vinti, ricchi e poveri ; tutti sono parte della tragedia. E’ un film da vedere e scoprire nuovamente per non dimenticare. Liliana Cavani merita il posto di regista magistrale ed impegnata che si è guadagnata nel tempo.




Resistenza o Guerra Civile?


'O sole mio (Giacomo Gentilomo, 1945)

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Nella notte tra il 18 e il 19 settembre 1943 un cantante italoamericano arruolato nello "Special American Service" viene lanciato con il paracadute nella campagna napoletana con il compito di recarsi a Napoli, mettersi in contatto con elementi della resistenza e cercare di poter cantare alla radio in modo da poter trasmettere, attraverso segni convenzionali, delle informazioni militari. Con l'aiuto di alcuni popolani riesce nel suo intento e le cose sembrano andare per il meglio, ma una impiegata della radio, informatrice dei tedeschi, scopre la sua vera identità e inizia così una serrata lotta tra le due spie. La ragazza sta per avere la meglio ed ha già fatto arrestare molti elementi del centro di resistenza, ma gli avvenimenti incalzano e il popolo napoletano insorge contro l'oppressore. La spia dei tedeschi, dopo un drammatico confronto con il proprio fratello, si riscatterà e perderà la vita in un nobile gesto e il cantante sposerà una umile popolana che lo ha aiutato nella rischiosa avventura. Con un gran senso dello stile, Gentilomo sembra impegnato in una partita contro il neorealismo che in qualche modo sa di aver perso in anticipo. O' sole mio è il tentativo di salvare il salvabile del vecchio cinema: gli attori carismatici nei loro ruoli tradizionali, l'attaccamento alla trama, gli inserti musicali, gli stilemi narrativi. Ma il film registra anche l'irruzione incontenibile della realtà: i veri vicoli e panorami di Napoli, la fila per l'acqua, le retate, il fervore del dialetto, l'utilizzazione di attori occasionali. Vedendo o rivedendo il film di Gentilomo si capisce meglio il tessuto su cui operò la rivoluzione di Rossellini, Zavattini e De Sica. E il regista si comporta come uno di quei politici moderati che si trovano al centro di una situazione rivoluzionaria: da una parte vorrebbero innovare, dall'altra conservare, e in definitiva durano poco, vengono travolti dai tempi nuovi.



Il sole sorge ancora (Aldo Vergano, 1946)

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Dopo l'8 settembre 1943, i soldati abbandonano i loro reparti e ritornano alle loro case. Cesare, arrivato nel suo paese natale, lo trova pieno di sfollati. Il giovane amoreggia con Laura, una sartina, ma non sa resistere alle avance di Matilde, una donna ricca e sposata di cui diviene l'amante. Un giorno i partigiani arrivano in paese per impadronirsi di un camion di farina e Cesare si unisce ai vecchi amici e fugge con loro sulla montagna. Nel frattempo arrivano i tedeschi che stabiliscono un presidio in paese e compiono un vero saccheggio. In seguito alla fucilazione di don Camillo, il parroco del paese, e alla sollevazione di Milano, gli abitanti del paese e gli operai della fornace insorgono contro i tedeschi. I partigiani sono al loro fianco e qualcosa inizia a muoversi nelle coscienze di tutti, anche della ricca Matilde. Girato tra la fine del 1945 e l’inizio del 1946, con l’Italia appena uscita dalla barbarie della guerra e dell’occupazione nazi-fascista, Il sole sorge ancora rappresenta un raro caso di film dedicato alla Resistenza di dichiarato impianto marxista. Prodotto a Milano per volere dell’A.N.P.I., quando a Roma Cinecittà ospitava ancora gli sfollati dai bombardamenti, il film di Aldo Vergano (antifascista della prima ora, e già collaboratore a un attentato a Mussolini nel 1925) è uno dei più duri esempi del neorealismo italiano, al punto da essere osteggiato dalla censura per la rappresentazione ben poco patriottica delle forze armate e la velata critica alle forze anglo-americane. Vi parteciparono molti intellettuali marxisti, da Gillo Pontecorvo ad Alfonso Gatto, da Guido Aristarco a Giuseppe De Santis e Carlo Lizzani, protagonisti anche in prima persona della lotta partigiana.


Il carro armato dell'8 settembre (Gianni Puccini, 1960)

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Un carro armato italiano, in perlustrazione lungo la costa tirrenica, viene sorpreso dagli avvenimenti dell'8 settembre. Dei quattro componenti l'equipaggio soltanto il caporale Carlo Pollini, giovane contadino dall'anima semplice e dai solidi principi, resta al suo posto, deciso a riportare il mezzo corazzato in caserma. Nell'attuare il suo proposito Pollini diviene protagonista di una serie di avventure ora comiche, ora sentimentali, ora drammatiche. Prima si offre di aiutare alcune ragazze la cui auto è in avaria, scoprendo poi che le occupanti sono alcune prostitute, poi incontra una passionale vedova di guerra, assiste al suicidio del colonnello comandante della caserma e infine ha un'avventura sentimentale con un'adolescente. Giunto a casa, il buon caporale vorrebbe trasformare il carro armato in trattore, ma arrivano i tedeschi e il vecchio arnese di guerra servirà per ingaggiare un'ultima battaglia.


Tutti a casa (Luigi Comencini, 1960)

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Dopo l'8 settembre il sottotenente Alberto Innocenzi, consapevole dei doveri connessi alla divisa, fa il possibile per mantenere unito il suo reparto, aspettando ansiosamente istruzioni precise. Quando si rende conto che non ne arriveranno, dimentica il senso del dovere e della disciplina e diventa come tanti altri, uno sbandato. Alberto getta la divisa, veste abiti che lo trasformano in un altro uomo e si unisce a tre militari del suo reparto che cercano di raggiungere al più presto casa. Tra questi uomini non c'è più alcun legame, né di subordinazione, né di solidarietà, né di amicizia. Tutti e quattro, però, hanno perso il senso di ciò che è giusto e ciò che non lo è: quando incontrano dei militari che vanno in montagna per partecipare alla Resistenza, a tutti loro sembra una follia. Vedono morire un loro compagno per mano dei tedeschi, nel disperato tentativo di salvare un'ebrea; ma anche questo episodio li lascia indifferenti. Innocenzi vede catturare il suo caporale perché la moglie ha aiutato un americano; ma è soltanto contento di essersela cavata. Quando arriva finalmente a casa, suo padre però lo incita ad arruolarsi nel nuovo esercito fascista. L'ex ufficiale scappa dalla finestra quando si accorge che suo padre non lo capisce più. Forse l'unico che può capirlo è quel noioso, antipatico geniere Ceccarelli che è rimasto al suo fianco come un cagnolino, ha visto tutto quello che ha visto lui, è passato attraverso le stesse esperienze. Si forma tra i due un vincolo di solidarietà, una nuova strana amicizia. Quando Innocenzi, braccato dai tedeschi, riesce a mettersi in salvo, vede che l'amico è stato ferito nel tentativo di fuga e allora esce dal suo nascondiglio, prende un mitra, spara, va ad aiutare il suo soldato: ha ritrovato improvvisamente i sentimenti, la dignità dell'ufficiale. Il ’43 è un tempo che sembra lontanissimo, tra le bombe, la fame, la miseria che ormai solo gli anziani ricordano. La notizia dell’armistizio dell’8 settembre di quell’anno suscita un sentimento di giubilo generale espresso in dialetti diversi. Una maledetta guerra sembra finita. L’urlo festoso “Tornare a casa” di soldati e familiari non è un segno di viltà, come dimostrerà il contributo generoso alla Resistenza, di partigiani, militari e popolazioni. Il loro concetto di patria coincide con la difesa della famiglia e la dignità personale. Il protagonista, il sottotenente Alberto Innocenzi (Alberto Sordi), nell’interpretazione tipica dell’attore è uno come tanti, né buono né cattivo, un ufficiale mediocre, formato dagli slogan mussoliniani, un po’ furbo, un po’ ingenuo, alle prese con l’istinto di sopravvivenza. Sembra un menefreghista, ma anche restio al bellicismo sfrenato. Al momento buono, con le giuste motivazioni emotive, sarà capace come altri, di indignarsi e affrontare il nemico. Sarà lui ad aferrare con decisione e mano esperta la mitragliatrice dei rivoltosi improvvisati e sparare a segno. Perché la guerra non è afatto finita. Bisogna battersi contro tedeschi e repubblichini. Nel film sfilano tante figure, militari, fuggiaschi, civili. E luoghi. Ogni episodio rappresenta una fase della storia di quei giorni e una tappa del graduale risveglio della coscienza del protagonista.


Le quattro giornate di Napoli (Nanni Loy, 1962)

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Le quattro giornate di Napoli non sono state una vera e propria rivoluzione. Non hanno avuto capi, né preparazione di alcun genere. La rivolta nasce e divampa nel giro di poche ore nel settembre del 1943: tutta la popolazione di Napoli vi partecipa, ma senza consultarsi. Spinti da una specie di necessità, i napoletani imbracciano il fucile, si armano di pietre, utensili, bottiglie piene di benzina, e combattono per le strade e i vicoli della città, a pochi metri dalle loro abitazioni, anonimi e silenziosi. Finita la battaglia, ognuno torna a casa sua e la rivolta resta un ricordo. I nomi dei morti, che tutti conoscono, passano di bocca in bocca. Tra di loro c'è Gennarino Capuozzo, un bambino di 10 anni, ucciso sulle barricate, mentre si schierava contro chi voleva invadere il suo Paese. Dopo l’8 settembre del ’43, i napoletani insorgono per primi contro gli occupanti. È la protesta di un popolo esausto e provato dalla guerra, di una città intera con le donne e i bambini, con i giovani, i vecchi e non solo popolani. Sono momenti tratti dalla cronaca, o ricostruiti simbolicamente in tappe esemplari. Vicoli trasformati in postazioni difensive, barricate, armi racimolate dappertutto, in mezzo ai morti, brulichio di famiglie spodestate dagli ediici della zona costiera. Piovono dalle finestre delle viuzze, al passaggio dei tedeschi, oggetti di ogni genere, tavoli, specchi, sedie, masserizie. Contro i cecchini fascisti, contro i carri armati e le autoblinde si combatte, si muore. I giovani e i giovanissimi sono l’anima della rivolta. Gli scugnizzi, fatti già grandi dalla miseria, sfidano la morte come in un’avventura. L’idioma partenopeo, così espressivo, ci guida accanto al ritmo visivo nella narrazione, alternato agli spari, ai silenzi prima degli agguati. La bandiera bianca segna la sconfitta degli invasori che si ritirano. Il colonnello tedesco Scholl in cambio della vita degli ostaggi deve patteggiare l’abbandono di quella Napoli che avrebbe voluto ridurre a “fango e cenere”.


Il Generale della Rovere (Roberto Rossellini, 1959)

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Al tempo dell'occupazione tedesca un truffatore, di nome Bertone, che è sempre vissuto di espedienti, viene arrestato dalle SS: è accusato di essersi fatto versare delle somme dai parenti dei fucilati e dei deportati, vantando inesistenti aderenze presso il Comando tedesco. Ora lo stesso Bertone è esposto al pericolo di essere fucilato; ma all'alto ufficiale che lo interroga viene l'idea di valersi dell'abilità dimostrata dall'imputato nel tessere imbrogli per i suoi fini. Gli offre quindi la libertà se acconsente ad entrare nel carcere di San Vittore, figurando di essere il generale badogliano Della Rovere, così da poter raccogliere le confidenze dei prigionieri politici ivi detenuti e procurare alle SS preziose informazioni. L'imbroglione accetta, ma vivendo accanto a degli autentici valorosi, durante giorni di ansie mortali e notti di terrore, a poco a poco si trasforma e si redime. Bertone non tradisce i suoi compagni e insieme ad essi muore da eroe, vittima di una rappresaglia.


La notte di San Lorenzo (Paolo & Vittorio Taviani, 1982)

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Il film è ambientato nel 1944, nell'ondulata campagna toscana, percorsa dai brividi e dal terrore delle ultime fasi della "guerra di liberazione", con i nazisti sullo sfondo, lo scontro partigiani-fascisti, prima incombente, poi esplosivo, e - in primo piano - la tragedia corale di una popolazione inerme, in parte vittima di un feroce massacro, ma in parte in marcia verso la libertà. Proveniente dall'interno di una finestra spalancata sul limpido cielo notturno di un dieci agosto di "oggi", percorso da baleni di stelle cadenti, una voce femminile fuori-campo esprime il desiderio di poter narrare un lontano dieci agosto di "ieri", emergente da memorie miste di letizia solare e di terribilità mitica della sua infanzia. I fatti narrati dal film sono visti in gran parte dagli occhi di questa bimba di ieri. Il racconto si snoda da quella finestra aperta, passando per il paese di S. Miniato, con le case già minate sul punto di saltare in aria, e la popolazione atterrita, raccolta negli scantinati di un edificio patrizio, al momento ancora semisicuro. I tedeschi hanno convinto il vecchio vescovo a raccogliere la gente nella cattedrale, promettendo che verrà risparmiata. Una parte, fra incertezze ed esitazioni, lo segue, ma una parte, capeggiata da Galvano - un fiero contadino che ha fiutato l'inganno - fugge per i campi, dirigendosi approssimativamente verso gli anglo-americani in arrivo, ma soprattutto verso la vita. La cattedrale - proditoriamente minata - è infatti la prima a esplodere, provocando un eccidio tragico, da cui scampano - dilaniati nel corpo e nello spirito - pochi superstiti, mentre il gruppo guidato da Galvano, dopo un esodo segnato da lunghe paure, brevi parentesi di serenità, momenti di orrore e di violenza cruenta, approda quasi incredulo, alla libertà. Dopo di che la cinepresa ci fa entrare da quella finestra aperta, inquadrando una figura femminile ancora intenta a narrare a un bimbo, come in una cantilena da ninna-nanna, l'altra terribile ed epica "notte di S. Lorenzo". Nel 1944 Rosanna (Sabina Vannucchi), era bambina (Samanta Boi) e ricorda ciò che ha vissuto a San Martino in Toscana insieme ai suoi compaesani durante l’occupazione tedesca. È la storia vista dal basso, dalla parte della gente semplice, narrata con stupenda poesia. I personaggi, interpretati dall’occhio della bambina, si tramutano in igure fantastiche, il partigiano in eroe omerico che tempesta di frecce il fascista in divisa da brigata nera, anch’egli mutato in igura mitologica. Il ilm narrando le atrocità e la ferocia della guerra nel territorio, allude anche agli esodi, alle stragi, che si ripetono nella Storia. Evoca i momenti di morte, l’eccidio di innocenti in chiesa, la battaglia fratricida in mezzo al grano, l’esecuzione di un avanguardista, lo scoppio delle mine. Ci sono buoni e cattivi nella tempesta che tutti travolge, coraggiosi o vili, misericordiosi o crudeli. Ma ci sono anche immagini di solidarietà e di salvezza. I paesani ritratti nella loro toscanità divengono nello stesso tempo simbolo della comunità umana che si unisce per fronteggiare le forze del male. Raggruppati in ila dietro la guida di Galvano, l’anziano che per primo ha avuto l’idea di fuggire dal paese, percorrono in silenzio il sentiero notturno, come un gregge, rispecchiando un’antica saggezza contadina.


I piccoli maestri (Daniele Luchetti, 1997)

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E' l'autunno del 1943, quando alcuni studenti universitari, Gigi e Lelio, che frequentano lettere, Enrico e Simonetta di ingegneria e Bene di medicina decidono a loro modo di opporsi all'invasione nazista dell'Italia e partono per l'altopiano di Asiago, pronti ad unirsi ad altri gruppi di partigiani. Ma i ragazzi, tutti bravi sui libri, non sono capaci a fare la guerra. Mentre si muovono tra i villaggi, si aggiungono al loro gruppo un operaio, un marinaio, il loro professore antifascista, Toni Giurolo, e Dante, giovane sottufficiale alpino. Ogni piccola azione, ogni decisione da prendere è una discussione. Nessuno dei ragazzi vuole veramente uccidere. Quando arriva il primo rastrellamento serio, il gruppo si sfalda, con l'inverno arrivano gli stenti, qualcuno viene ucciso. C'è il momento del ripensamento, il ritorno a Padova, sempre pensando a qualche azione dimostrativa, fino al giorno della liberazione, quando Gigi e Simonetta vanno incontro ad una colonna di carri armati che sta entrando in città. Dopo la paura, il sollievo: sono inglesi. Il regista lascia che l’intera vicenda si dipani all’indietro con un flashback ed apre il film con Gigi che ripercorre con la memoria ai tempi della costituzione della “banda”. In questo classico film di formazione, dove i protagonisti, al termine della vicenda non saranno naturalmente, più gli stessi di prima, il regista lascia sullo sfondo i fascisti e fa vestire ai nazisti i panni del “nemico”. Un film nel complesso onesto e coraggioso che fu accolto tiepidamente dalla critica di allora e che mantiene a distanza di anni, un’invidiabile freschezza e genuinità. Citazione al film L’amore bussa tre volte del 1938 diretto da Norman Z. Mc Leod.


Achtung! Banditi! (Carlo Lizzani, 1951)

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Durante l'ultimo periodo della guerra, viene affidata una pericolosa missione a un gruppo di partigiani che opera nel retroterra genovese: prelevare armi da una fabbrica di Genova. In un punto determinato i partigiani dovrebbero incontrare una staffetta con precise istruzioni, ma la staffetta viene uccisa dai tedeschi e i partigiani ne trovano sulla strada il corpo esanime. Malgrado questo, vogliono tentare l'impresa. Nella villetta d'un diplomatico, dove gli uomini si sono installati, due dei capi riescono a procurarsi degli abiti migliori. Rivestitisi, penetrano in città e attraverso varie peripezie riescono a prender contatto coi capi della resistenza. Avute le informazioni necessarie, raggiungono una piccola fabbrica in periferia dove si trovano nascoste le armi. Mentre stanno prendendo accordi per il prelevamento, la fabbrica è invasa da truppe tedesche, venute a smontare le macchine per spedirle in Germania. Gli operai iniziano l'ostruzionismo e intanto i tedeschi presidiano la fabbrica. Durante la notte i partigiani tentano d'impadronirsi delle armi, ma vengono attaccati dai tedeschi. Quando i partigiani e gli operai stanno per essere sopraffatti, giungono alcuni reparti di alpini, che costringono i tedeschi a ritirarsi. Nel nord Italia si combatte contro i nazifascisti. Un drappello di uomini, guidati dal comandante Vento, cammina sulla neve. Li accompagna il commento sonoro del canto “Fischia il vento infuria la bufera”. I tedeschi li chiamano “banditi” ma sono partigiani. Reggono una barella con un ferito e giungono in una cascina, dove lasciano il loro compagno per riprendere la salita verso la montagna. Il film descrive la loro vita reale, la lotta dura, le discussioni, le azioni ed anche la varietà dei caratteri degli uomini. I personaggi femminili come la giovane montanara Lucia che nasconde i resistenti, ricordano quanto abbia contato l’aiuto delle donne staffette e combattenti. L’elemento nuovo del film è la messa a fuoco del ruolo svolto dagli operai nel movimento di Liberazione. Vediamo la fabbrica come una trincea, con gli scioperi, il passaggio di armi ai ribelli, la salvaguardia degli impianti produttivi destinati alla requisizione in Germania. Anche la figura dell’ingegnere (Andrea Checchi) che aderisce alla Resistenza ci parla di un consenso più ampio, sensibile alle sorti della produzione del territorio e del Paese. Quel consenso che ha reso possibile la vittoria delle forze antifasciste.


Tiro al piccione (Giuliano Montaldo, 1961)

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Settembre 1943. Spinto da confuse idee patriottiche e da un'insostenibile situazione personale, il giovane Marco Laudato si arruola nelle forze armate della Repubblica di Salò. Nel duro periodo di adattamento trova in un commilitone più anziano, Elia, un amico ed un protettore. Ben presto la spietata alternativa di imboscate, rastrellamenti e rappresaglie apre gli occhi di Marco sulla triste, insospettata realtà di un mondo destinato irrimediabilmente alla fine. Gettato allo sbaraglio con i suoi compagni in un'assurda operazione tattica, Marco viene ferito e trattato da eroe. Nell'ospedale stringe amicizia con un'ausiliaria più anziana di lui, Anna. E' una breve parentesi d'amore, chiusa presto dalla fuga della donna in Svizzera: al fianco di lei c'è il capitano Mattei, un disertore. Tornato al reparto, la situazione si fa sempre più critica: da un lato la ferocia di un ufficiale nausea Marco, dall'altro la fuga e la morte davanti al plotone d'esecuzione di Elia (sarà lo stesso Marco a dare il colpo di grazia all'amico morente) sconvolgono il suo animo. In un ultimo, inutile scontro con i partigiani vittoriosi, Marco si trova solo, in mezzo ai cadaveri dei suoi commilitoni. Non sente più alcun desiderio di combattere: solo una stanchezza mortale, e la voglia di piangere. Il film, tratto dall’omonimo romanzo di Giose Rimanelli del 1956, racconta, forse per la prima volta, ma con una sostanziale onestà, la storia vista dai fascisti, in particolare dei “repubblichini”, come venivano chiamati con implicito disprezzo gli aderenti alla Repubblica Sociale Italiana, ri-fondata da Mussolini dopo l’8 settembre, e messa al servizio della Germania nazista dopo il “tradimento” del Re Vittorio Emanuele III.


L'Agnese va a morire (Giuliano Montaldo, 1976)

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Agnese, lavandaia della bassa Emilia, vive silenziosamente accanto a Paolo Palita, pressoché immobilizzato, ma ancora indomito marxista. Quando i Tedeschi le portano via il marito, che morirà sotto un bombardamento nel corso del trasferimento verso la Germania, Agnese decide di arruolarsi come partigiana. Dopo aver ucciso un tedesco con il calcio del fucile, raggiunge un gruppo partigiano e ne diviene nel contempo la vivandiera e la "mamma". Per quanto illetterata, Mamma Agnese dimostra equilibrio e molto buon senso. Così, poco alla volta, i campagni le affidano compiti organizzativi importanti e le danno donne-staffette: non di rado, inoltre, alcuni casi vengono risolti in base alle sue timide osservazioni. Quando, nell'ultimo duro inverno, un gruppo di partigiani viene tradito e sterminato da Tedeschi appostati lungo il percorso che dovrebbe portarli oltre le linee, Agnese disobbedisce al Capo nascondendo in casa i superstiti; rischia l'espulsione ma viene reintegrata. Mentre si avvia verso il luogo di una missione, incappa in un posto di blocco. Un ufficiale, compagno di quello ucciso dalla partigiana, la riconosce e la uccide immediatamente sul posto. La storia dell’Agnese, ispirata all’omonimo romanzo di Renata Viganò, è quella di una donna di campagna, che fa la lavandaia e vive con il marito malato. Quando i nazisti lo deportano per aver dato asilo a soldati sbandati, lei prende il suo posto nella Resistenza emiliana. La protagonista (Ingrid Thulin), non è solo un personaggio ma l’icona di un nuovo ruolo femminile che molti hanno conosciuto o possono ritrovare nelle vicende partigiane. Tantissime donne, in molte regioni d’Italia, hanno attraversato come l’Agnese i crocicchi nemici, le piazze controllate dalle SS e dai militi fascisti, con il loro bagaglio pericoloso ed i compiti delicati, silenziose, decise, giovanissime o madri di famiglia, con la paura dentro e il coraggio fuori. Il cammino di Agnese, instancabile stafetta, è graduale, dapprima nel nome del compagno, poi matura, decisa, forte, malgrado l’umiltà e il silenzio che l’avvolge. Quando il suo recapito è da considerarsi bruciato, lei si metterà in cammino per un nuovo incarico, ma troverà la morte lungo la strada. Sarà un tedesco a riconoscerla e a giustiziarla sul posto e il suo corpo, nel povero abito nero, giacerà abbandonato all’inizio di una strada. Nella sua figura è racchiuso anche il mondo affettuoso e sommerso di madri e mogli che appoggiarono in mille modi la Resistenza e persero la vita spesso senza onori.


Uomini e no (Valentino Orsini, 1980)

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Milano, inverno 1944. Guidati dallo spietato Cane Nero, i fascisti compiono rastrellamenti ed eccidi, quasi tentando di tenere lontana la incombente sconfitta. Il C.N.L. continua ad agire e si avvale di uomini nascosti ovunque e pronti a colpire. Tra questi c'è Enne Due, uno scrittore, ora con i compiti di comandante. Un giorno, casualmente, N2 incontra Berta, la ragazza siciliana di cui era innamorato e della quale ha perso le tracce quando, arrestato, è finito in prigione per 3 anni e non ha fatto più sapere nulla di sé. Berta, per quanto innamorata, dichiara a N2 che è sposata da un anno e che non vuole abbandonare il marito senza dargli delle spiegazioni. N2 nella nuova situazione trova motivo di crisi globale della quale si avvedono Lorena, la donna che funge da collegamento, e altri compagni. Ciò nonostante, N2 prende parte ad azioni che provocano le pesanti reazioni di Cane Nero, tra l'altro ferito in un attentato. 30 ostaggi vengono fucilati nella notte. N2, ormai individuato, viene braccato. Il C.N.L. decide di far riparare a Torino l'importante personaggio; ma N2, sicuro che Berta lo stia per raggiungere, attende nella propria soffitta anche quando un coinquilino gli fa sapere che un negoziante del posto ha incautamente svelato la sua presenza ai fascisti. Quando Berta raggiunge lo stabile, questi è interamente circondato e N2, con la scusa di consegnarsi a Cane Nero, si precipita dalla finestra carico di dinamite uccidendo se stesso e il nemico. Il ilm, ispirato al romanzo omonimo di Elio Vittorini, ricrea il clima dell’epoca, l’asprezza della situazione. Siamo di fronte a uomini e donne che si battono con grande coraggio e sprezzo del pericolo, intellettuali, operai, ragazze, contro un nemico sadico e crudele. L’atmosfera della città è surreale, di tragica attesa. Tutto può succedere, una incursione repubblichina un’azione gappista improvvisa. Di fronte agli imperativi della lotta armata, all’emergenza, tutto passa in seconda linea. Lo impara il protagonista, N2, che “ha lasciato la penna e preso in mano la pistola”. I conlitti intimi, il tormento per i compagni caduti, per gli ostaggi sacriicati, non contano. La gente è provata dagli eccidi fascisti, dalle fucilazioni degli ostaggi. Ognuno è pronto a fuggire, a infilarsi improvvisamente nei portoni, ma c’è anche chi contrattacca, ci sono i militanti attivi e la solidarietà. Non è casuale la figura dell’operaio sconosciuto che incontra il gappista per le scale del palazzo e lo aiuta a raggiungere il suo appartamento. La morte attende il protagonista che non ha via d’uscita ma con lui salteranno in aria i suoi assalitori. Sarà un sacrificio estremo da kamikaze, mentre un nuovo combattente prende il suo posto.


Il partigiano Johnny (Guido Chiesa, 2000)

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Dopo l'8 settembre Johnny, uno studente di letteratura inglese tornato ad Alba, deve nascondersi in una villetta nelle vicinanze, in quanto disertore. Certo di dover combattere contro il nazifascismo deve ancora scegliere, però, i suoi compagni di lotta. Troppo anglofilo per seguire nelle bande comuniste i suoi due professori, Chiodi e Cocito, si avvia solitario nelle Langhe dove si unisce alla prima banda che incontra che è, comunque, guidata da un comunista. I partigiani sono male armati e Johnny scopre presto che la loro vita non è quell'avventura poetica che aveva immaginato. Dopo che, attaccato dai tedeschi, il suo gruppo si sbanda, va a cercare le formazioni azzurre, composte da ex-militari dell'esercito regio. Johnny non riesce ad entrare in sintonia neanche con loro, troppo presi da strategie formali. Dopo aver perso Alba, in seguito ad un infelice tentativo di occupazione, da lui non condiviso, Johnny, dopo giorni di fuga insieme a Ettore e Pierre, riesce a salvarsi rifugiandosi nella cascina di Rina, una contadina amica dei partigiani mentre Pierre viene ferito. Quando Ettore è fatto prigioniero insieme a Rina, Johnny tenta invano di scambiarlo con un soldato fascista catturato, poi passa l'inverno da solo. In questa condizione estrema trova finalmente la sua ragione di essere partigiano e il senso di tanta violenza. Alla fine dell'inverno è uno dei pochi partigiani sopravvissuti, solo che al momento di reinserirsi nella vita civile, si sente lontano anche da Pierre che è guarito. Ma quando Pierre organizza un attacco a una formazione fascista è il primo a farsi avanti, ma si tratta di un'imboscata e deve assistere impotente alla morte di due suoi compagni poi, sordo all'invito a ritirarsi. si alza per sparare. Si ode un colpo di fucile. Due mesi dopo la guerra è finita. Erano tempi di furore e di scelte importanti. Anche Johnny, giovane intellettuale di famiglia borghese, prende la sua decisione tra dubbi e inquietudini, e aderisce alla Resistenza. Il personaggio, liberamente ispirato a quello dell’omonimo romanzo postumo di Beppe Fenoglio, vuole impegnarsi in prima linea contro il deprecato regime fascista. Hanno agito su di lui, come accadde a molti, la visione dello sfascio dell’esercito, dopo l’8 settembre, la rabbia di fronte alla riorganizzazione dei fascisti, l’arroganza dell’occupazione germanica, le prime esecuzioni di renitenti alla leva repubblichina. È inebriato dal potere di cui si sente investito ma sa anche di volerlo usare in modo legittimo. Con questo spirito prende la via delle Langhe piemontesi alla ricerca dei partigiani e si arruola nella prima brigata che incontra senza rinunciare ad una coscienza vigile e critica. Questo lato interiore, sottolineato da Fenoglio, qui è demandato all’interpretazione sensibile di Stefano Dionisi. Dalle sequenze emerge soprattutto la materialità della condizione guerrigliera (le fughe, il rotolare nei fossati, tra scoppi di granate, l’arrampicarsi con le unghie sulla terra, sull’erba, i passi sulla neve dei pendii). Dalla dura esperienza di scontri e privazioni vediamo nascere un nuovo Johnny fatto di carne e sangue e non solo di libri eruditi. Nel finale è un uomo col fucile puntato in un impari assalto, legato ai compagni da una profonda fratellanza, pronto a resistere fino alla morte. Come scrive Fenoglio “L’importante era che ne restasse sempre uno”.


Paisà (Roberto Rossellini, 1946)

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Attraverso sei episodi indipendenti l'uno dall'altro, il film rievoca l'avanzata delle truppe alleate in Italia. Si inizia con un episodio sullo sbarco in Sicilia, dove una ragazza e un soldato americano vedono troncare sul nascere la loro storia d'amore. Segue una scena a Napoli: i protagonisti sono un soldato afroamericano e un bambino che lo deruba. Inseguendolo, il bambino scopre la vita misera che conduce con la famiglia e decide di non denunciarlo. Il terzo episodio si svolge a Roma, dove un soldato incontra una prostituta e le racconta di una ragazza che aveva conosciuto tempo prima: l'uomo non sa che quella giovane di cui serba il ricordo è proprio lei. Il quarto rievoca le drammatiche giornate della liberazione di Firenze, dove una donna cerca un suo amico pittore, ora capo partigiano. Il quinto si svolge in Romagna nella riposante quiete di un piccolo convento sulla linea gotica, sconvolto dagli eventi. L'ultimo, ambientato nel Delta del Po, esalta la coraggiosa opera dei partigiani italiani nelle paludi della Valle padana. Sei episodi sulla cacciata dei nazisti dall’Italia, le diverse anime delle varie regioni italiane, viste dall’occhio estraneo di inglesi ed americani, legate dal filo della guerra in atto. In Sicilia Carmela, una ragazza umile e coraggiosa, rappresenta le tante donne cadute per la liberazione del Paese e rimaste senza nome, a volte vituperate. A Napoli un ragazzino, orfano cerca di sopravvivere con piccoli traffici, nel marasma generale. La sua emarginazione non è tanto distante da quella del militare nero a cui sottrae le scarpe. Nella Roma festante per l’arrivo degli americani nel giugno del ’44 una ragazza, un tempo piena di speranze, vende il suo corpo ai liberatori. A Firenze nell’agosto del ’44 la città dell’arte è irriconoscibile, ferita, divisa in due tronconi. Si combatte ancora e si muore tra le rovine. Parenti e fidanzati si cercano con ansia. Sull’Appennino tosco-emiliano tre cappellani americani, un cattolico, un protestante e un ebreo trovano ospitalità in un tranquillo monastero francescano. S’incontrano con la vita semplice e ingenua dei frati, ma s’imbattono anche nello scoglio del vecchio pregiudizio antisemita. Nelle valli di Comacchio si svolge l’episodio più incisivo. L’atmosfera di guerra nel paesaggio, l’esile confine tra la vita e la morte sono palpabili, di massimo realismo. Un gruppo di partigiani e pescatori del luogo è in azione contro i tedeschi insieme a degli ufficiali di collegamento americano e due marconisti della divisione San Marco. Avvistati, vengono catturati. Per l’ufficiale tedesco i partigiani, non sono dei soldati, ma dei fuorilegge. Anche i militari badogliani non sono riconosciuti. Alle prime luci dell’alba, di fronte alla baracca Pancirli vengono tutti uccisi e gettati in acqua. Hanno mani e piedi legati. Il capitano Usa prigioniero si oppone, grida “Fermatevi! porci!” e anch’egli viene abbattuto. È il Natale del ’44. Quattro mesi dopo il conflitto era finito.


Porzûs (Renzo Martinelli, 1997)

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Agli inizi degli anni Settanta, l'anziano Umberto Pautassi arriva in un paesino della Slovenia per incontrare un forestiero suo coetaneo che vive lì da tempo, Carlo Tofani. Quando sono di fronte, i due riprendono i loro soprannomi di un tempo, Storno per il primo, Geko per il secondo, e si rinfacciano le loro "verità": quella dell'unico scampato, e quella del capo dei Gap che eseguì il massacro. Si torna allora al passato. Nel 1945, la situazione al confine della Jugoslavia è confusa. La politica internazionale impone al PCI di sacrificare in parte gli interessi nazionali a favore della supremazia di Tito. La presenza, nelle baite sopra Porzus in provincia di Udine, di un gruppo di partigiani della brigata Osoppo, di ispirazione cattolica, crea fastidio e imbarazzo. Il 7 febbraio un centinaio di partigiani della brigata Garibaldi e dei GAP comunisti arriva a Porzus, cattura gli osovani e li accusa di collusione coi fascisti. Gli osovani vengono giustiziati freddamente a gruppi, nel giro di undici giorni. Tre scampano all'eccidio, e lo raccontano. Uno di essi è appunto Storno. Il proditorio agguato e l'assassinio di ventuno persone fra le quali una donna sono il tragico epilogo di una fra le più spietate vicende della guerra civile condotta dalla parte comunista, italiana e slovena, appoggiata dalle truppe di Josip Broz, il Maresciallo Tito, contro chiunque non aderisse al loro sciovinismo e non accettasse la loro violenza di classe. I fatti accaddero il 7 febbraio 1945 e furono poi a lungo celati e depistati fino al giugno del 1993, quando l'ex comandante e deputato comunista italiano Mario Lizzero, già commissario delle divisioni comuniste Garibaldi e Friuli, dichiarò testualmente: «Porzûs più che una colpa è stato per i comunisti un errore mostruoso».


Il cuore nel pozzo (Alberto Negrin, 2005)

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Siamo in Istria nel 1944, quando ormai era caduto il governo fascista dell’Italia e le truppe e i corpi di polizia erano disorientati dalla situazione.In questa atmosfera, i partigiani di Tito marciano verso Trieste per conquistare terreno e prendere i territori italiani della Dalmazia e dell’Istria. Giunge qui Novak, uno di questi partigiani, per ritrovare il figlio Carlo, avuto da una donna italiana, Giulia, che aveva violentato anni prima. La donna nasconde allora il figlio nell’orfanotrofio di Don Bruno e preferisce morire per mano dello stesso Novak piuttosto che rivelare il nascondiglio del figlio. Segue poi una rincorsa dei partigiani alla caccia dei bambini dell’orfanotrofio che, guidati da Don Bruno, verso zone di confine più sicure e meno battute dai partigiani slavi. Ci sono polemiche e discussioni per questa fiction che parla di foibe, ovvero di “quel capitolo di storia ancora controverso, a lungo dimenticato ed in buona parte oggetto di scontri ideologici. Anche il numero delle vittime gettate spesso vive nelle cavità naturali dell’altopiano del Carso, conosciuto come foibe, non è mai stato chiarito”. Nel cinema e in televisione, non si era mai parlato di foibe in un racconto di fiction, solo accenni in dibattiti, in trasmissioni fatte di rievocazioni storiche, di documentari d’epoca. E l’argomento è dichiaratamente tabù che solo a parlarne montano le polemiche, le discussioni, le critiche, prima ancora della sua presentazione in televisione. “Il cuore nel pozzo” racconta una storia inventata che accade nel momento storico che comprende la fine della seconda guerra mondiale, quando i tedeschi lasciano la zona di occupazione italiana che era stata annessa al Reich e l’arrivo dei titini che dilagano fino a Trieste. Tutto questo viene vissuto come lo sfondo di una storia privata e personale, racconta attraverso gli occhi di un bambino che si è trovato lì e scrive su un diario quello che vede. Infatti i protagonisti di questo racconto sono proprio i bambini.


Il segreto di Italia (Antonello Bellucco, 2014)

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Il film racconta la storia d’amore tra la giovane Italia e il giovane Farinacci sconvolta dal tragico eccidio avvenuto a Codevigo fra l’aprile e il maggio del 1945. Nel 2000, Italia Martin, ormai settantenne, torna al paese di Codevigo dopo esserne stata lontana per 55 anni, per partecipare al matrimonio della nipote. Tormentata da un segreto, i suoi ricordi vanno all’aprile del 1945, quando, ragazzina, è innamorata del giovane Farinacci Fontana, fascista e figlio del vicecomandante della locale Brigata Nera, Sante. L’arrivo in paese come sfollata della bella vedova fiumana Ada, alloggiata proprio nella cascina della famiglia di Italia, sconvolge la nascente storia d’amore fra Italia e Farinacci. Nel frattempo la guerra si avvicina alla fine: i tedeschi si ritirano abbandonando i fascisti, e da sud arrivano i partigiani comunisti, preceduti da un informatore, il marchigiano Mauro, che ha la missione di documentare le adesioni alla RSI da parte della popolazione locale in vista dell’epurazione. Ne “Il Segreto di Italia”, l’arrivo dei partigiani ben presto si trasforma in un incubo per la popolazione. Una delle prime vittime è la maestra elementare Corinna Doardo che viene trascinata per le strade del paese e poi uccisa. Arresti arbitrari e torture ordinate dal comandante partigiano “Ramon” si susseguono. Nel frattempo Farinacci trova momentaneamente rifugio in un fienile mentre Italia e Ada, rassicurate da Mauro, decidono di prendere parte ad una festa di paese. Inaspettatamente Farinacci si presenta alla festa ma Ada lo convince a rimanere nascosto nel proprio rifugio dove lo riaccompagna. Italia rimasta sola alla festa segue il cagnolino di Farinacci fino al fienile dove coglie i due giovani in intimità e sconsideratamente denuncia il giovane ai partigiani provocandone l’arresto. Farinacci la sera seguente finisce fucilato nel corso delle esecuzioni in massa. Nello stesso gruppo di condannati finisce anche il padre di Italia, Franco, che preoccupato per il mancato rientro di Ada dopo la festa era andato a cercarla. Franco però viene salvato all’ultimo momento dal partigiano Mauro, che disgustato dalla mattanza e dai metodi dei “garibaldini” finge di ucciderlo e lo scaraventa nel fiume salvandolo. Ada invece viene violentata dai garibaldini e muore poco dopo abbracciata da Italia che si rende conto di aver provocato la morte dei due giovani. Trovata dalla madre Italia ritorna a casa e insieme a tutta la famiglia, nel frattempo raggiunta anche da Franco, scappano a bordo della propria vettura non senza aver caricato a bordo il cagnolino di Farinacci. La giovane Italia rimasta sconvolta dal rimorso, sfollata a Milano, decide poi di partire per gli Stati Uniti per non ritornare più a Codevigo fino al 2000. Dopo il ritorno in paese incontra di nuovo il partigiano Mauro, ormai vecchio, che cerca di consolarla e di farle capire che anche lei è stata una vittima di una violenza più grande di loro.


Il sangue dei vinti (Michele Soavi, 2008)

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Storia di una famiglia lacerata dalle divisioni politiche verso la fine della II Guerra Mondiale. Il poliziotto Francesco Dogliani, confidente nello Stato e nella giustizia e fedele al Re, cerca di risolvere un caso di omicidio, avvenuto durante il bombardamento dello scalo di San Lorenzo, in cui ha trovato la morte una giovane prostituta, madre di una bambina. Nel frattempo il fratello di Dogliani, Ettore, si aggrega alle brigate partigiane mentre sua sorella, Lucia, entra a far parte della milizia della Repubblica di Salò. Le fasi concitate e sanguinose della Liberazione segneranno profondamente le esistenze di tutti i protagonisti. Come il libro (omonimo) da cui è stato tratto, Il sangue dei vinti versione grande schermo - di scena oggi, come evento speciale con dibattito pubblico, qui al Festival - è destinato a dividere, a suscitare polemiche. Con la sua tesi sulla Resistenza come guerra civile e non di liberazione, con la sua storia dello scontro mortale tra due ragazzi della medesima famiglia schierati su fronti opposti, e col suo insistere sugli orrori e le ingiustizie dei vincitori, molto più che su quelli nazifascisti. Un esempio per tutti: il fratello partigiano massacra senza pensarci due volte un gruppo di tedeschi che si arrende, la sorella repubblichina è più buona e salva la bambina protagonista da morte certa. Il film, accolto con freddezza da ciritici e pubblico, riprende un monito che lo scrittore Giampaolo Pansa, dal cui romanzo il film è tratto, lanciò prima della sua morte, in ocasione della proiezione del film al Festival internazionale del film di Roma:; "L'Italia non è ancora un Paese pacificato - attacca - perché chi allora vinse non ha raccontato fino in fondo cosa accadde durante e dopo la guerra civile. Il muro d'omertà dei vincitori non è stato mai rotto. E dunque la guerra civile, nel dolore delle famiglie, non è mai finita".


Mussolini ultimo atto (Carlo Lizzani, 1973)

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Caduta la linea Gotica nella primavera del 1945, gli Alleati si dirigono verso Milano; i partigiani dilagano in tutto il Nord Italia ed i tedeschi si ritirano verso Merano. Mussolini, assai perplesso e fornito di notizie illusorie dai gerarchi rimasti al suo fianco, rifiuta l'opera di mediazione del Card. Schuster e dalla capitale lombarda si dirige alla Valtellina ove sarebbe atteso da migliaia di camicie nere. Nel frattempo, allo scopo di garantire al presidente Truman i voti dei milioni d'italiani d'America, gli statunitensi decidono di assicurarsi il Duce in fuga e inviano un drappello di uomini guidati dal ten. Donati. Trovata deserta la caserma fascista di Grandela, Mussolini decide di seguire la colonna di 200 tedeschi inviata per trasferirlo in Germania e, quando la stessa si incontra con i partigiani della 52ª Brigata Garibaldi comandata da Pier Luigi Bellini, tenta inutilmente di evitare la cattura travestendosi da tedesco. Scoperto e imprigionato, l'ex Duce viene raggiunto da Walter Audisio, detto Valerio, che lo fucila frettolosamente in base alla condanna pronunciata più volte dal Comitato Nazionale Liberazione Alta Italia. Con Mussolini trova la morte Claretta Petacci e quasi contemporaneamente diversi gerarchi fascisti. Il punto di vista attraverso cui il regista ha deciso di raccontare l’epilogo della vita del duce è neutro. E imparziale è anche l’occhio utilizzato da Carlo Lizzani per portare a conoscenza della caduta del regime e dell’occupazione tedesca dell’Italia, durante il quale l’Italia si è emancipata dal fascismo. La vicenda personale di Benito Mussolini e il suo stato d’animo decadente sembrano riecheggiare, simbolicamente, il declino di una dittatura ormai agonizzante. Ed è ancora con obiettività, che il regista mostra coloro che prima degli eventi finali si dichiaravano fedeli al regime, rivelandosi poi nel momento cruciale, pronti a saltare sul carro del vincitore, qualora se ne presenti l’occasione. Così come è accaduto nel contesto storico in questione, dove i gerarchi, i quali avevano giurato assoluta dedizione al fascismo, si sono palesati come pronti ad abbandonare il loro duce nel momento dell’estrema disfatta. Senza preoccuparsi del suo destino ultimo. Inoltre, la narrazione filmica è stata guidata da Lizzani con un alto senso della misura; ha evitato ogni tipo di spettacolarizzazione, a differenza de Il processo di Verona, altro film diretto dallo stesso regista. Seppur uomo dichiaratamente antifascista, l’obiettivo attraverso cui Lizzani dà conto dei fatti non è di parte, ma fedele agli accadimenti, tanto da realizzare non soltanto una pellicola di grande valenza storica, nell’accezione che tale definizione merita, ma un prodotto da archiviare come film documento. Che, oltre a informare lo spettatore sugli eventi storici di oltre settant’anni fa, gli permette di interrogarsi su ciò che è stato e che avrebbe potuto essere.


Giorni di gloria (Mario Sarandrei, 1945)

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Il film è la rievocazione dell'oppressione nazifascista dalle tristi giornate del settembre '43 alla liberazione del Nord. Ha inizio la ripresa di alcune azioni di partigiani verso la linea del fronte; gli atti di sabotaggio provocano una reazione degli oppressori che incrudiscono le loro azioni di rappresaglia; ma la stampa clandestina anima e forgia gli spiriti della resistenza. Il massacro delle Forze Ardeatine è riprodotto nella sua spaventosa tragicità. Gli eventi incalzano e nelle regioni che mano a mano vengono liberate i colpevoli della lotta fratricida pagano il loro tributo alla giustizia. È tutto materiale reale quello che vediamo, col sapore insostituibile del tempo. È la vita partigiana sul campo, in montagna, la salita sui ripidi pendii, lo strisciare per terra durante le azioni, le marce faticose, la preparazione degli esplosivi per far saltare ponti e postazioni nemiche. Uomini appostati dietro l’angolo di un muro nella battaglia in città, armi puntate, scontri, la consegna di un messaggio a un distaccamento alpino da parte di una donna montanara con la gerla sulle spalle. E poi, ecco le rovine delle città italiane, sventrate dai bombardamenti, le impiccagioni e fucilazioni ad opera dei nazifascisti. I fotogrammi suggeriscono la situazione, l’istante eccezionale sic et simpliciter, l’immediatezza gestuale dell’epoca colta dal vivo. Negli episodi romani riviviamo le fasi della sanguinosa rappresaglia nazista delle Fosse Ardeatine, la disperazione dei parenti, dopo il ritrovamento, a guerra finita. E poi la resa dei conti finale. Le sequenze del processo al questore Pietro Caruso, responsabile della scelta degli ostaggi destinati alle Fosse Ardeatine, le esplosioni d’ira della folla, il linciaggio di Donato Carretta, odiato direttore del carcere di Regina Coeli. Le pene inevitabili per i colpevoli di tanto sangue: i vinti radunati nei campi sportivi, i corpi di Mussolini e dei gerarchi nella polvere, a piazzale Loreto, ma anche migliaia di persone che passata la bufera, ritrovano la gioia di vivere. Riflettiamo sulla parola “gloria” del titolo del film. Quella di quei giorni speciali di autodifesa nazionale e di rivolta civile per la democrazia fu gloria vera, quotidiana, che ripulì l’identità dell’Italia, senza trombe e fanfare.

Edited by drogo11 - 6/4/2021, 18:27
 
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view post Posted on 6/4/2021, 20:18
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La storia d'Italia in celluloide (fra neorealismo, propaganda e satira) - 6^ parte - Il dopoguerra. I conti con la realtà

1 / Neorealismo, neorealismo rosa e d'appendice



fotogrammi tratti dal film "Roma città aperta" di Roberto Rossellini

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Il cinema italiano del dopoguerra comincia idealmente con il film "Roma città aperta" di Rossellini, girato tra il ’44 e il ’45 in condizioni di fortuna, tra difficoltà economiche, macerie e mancanza di pellicola. Nei cittadini romani erano ancora vive la realtà e le ferite vissute durante l’occupazione nazista della città e il collaborazionismo fascista, il terrore delle rappresaglie e dei rastrellamenti, i luoghi delle terribili sofferenze vissute come Via Tasso e le Cave Ardeatine, il degrado morale prodotto dalle delazioni contro gli ebrei, dalla miseria e dalla borsa nera per una caccia al cibo che sovrastava ogni altra preoccupazione. Roma città aperta, divenne presto il simbolo di tutta la Resistenza europea, a sottolineare che in nessuna nazione occupata dai tedeschi, indipendentemente dalle dimensioni raggiunte dal collaborazionismo, si attese passivamente la Liberazione da parte degli eserciti alleati.

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L'Italia era riuscita a liberarsi dal fascismo e dall'occupazione tedesca anche grazie a un enorme movimento di resistenza che contribuì a creare un clima di speranza e di rinnovamento che si diffuse sia fra la popolazione che nell'ambiente cinematografico. Sono gli anni in cui il cinema italiano è attraversato dalla grande ventata di rinnovamento che riscopre la realtà, facendo luce anche sui suoi aspetti più foschi.
All’indomani della liberazione di Roma nel giugno del 1944, nella capitale era tutto un fiorire di iniziative culturali e di stampa, un’energia creativa ed effervescente dopo gli anni di torpore e di isolamento culturale in cui il fascismo aveva confinato l’Italia dal resto del mondo: una stagione che durerà ben poco e che si concluderà già sul finire del 1947.

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Altrettanto convulsa e spontanea è stata la ricostruzione del cinema italiano nonostante le poche attrezzature salvate dalle razzie, depredate e trasferite in Germania dai tedeschi o a Venezia dalla Repubblica di Salò, con Cinecittà ridotta a ricovero di sfollati e senzatetto e l’ostilità delle autorità alleate, in particolare quelle statunitensi, per la forte compromissione che il cinema aveva avuto con il fascismo (oltre all’intento di lasciare campo libero alla produzione hollywoodiana sul mercato italiano).

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La nuova stagione del cinema italiano poteva nascere solo con la sconfitta del fascismo, un nuovo cinema che affrontava senza mediazioni il dramma di un paese distrutto non solo nelle sue strutture industriali e civili, ma corrotto moralmente dal regime e dalla guerra.

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Un cinema che voleva rappresentare la realtà censurata e nascosta per troppi anni da una cinematografia di regime tutta impegnata nella costruzione del consenso e del culto del capo, attraverso film storici grondanti di retorica e tesi a dimostrare come il duce fosse il condottiero che l’Italia da secoli aspettava per rinverdire la propria grandezza. Durante il ventennio, l’unica alternativa al cinema per sfuggire all’opera di propaganda e sopravvivere era stata – perciò - quella di ripararsi sotto l’ombrello del completo disimpegno e dedicarsi alla costruzione di innocue e banali commediole. Il cinema dell’immediato dopoguerra, uscendo dagli studi, rompeva la finzione cinematografica degli anni precedenti in cui l’Italia sembrava diventata tutta piccolo-borghese, soddisfatta del modesto ma dignitoso impiego, ignara di ciò che avveniva dietro i paraventi del regime.

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Il neorealismo, però, non è stato solo cinema resistenziale, anzi lo è stato in minima parte. Esso non metteva in mostra solo le miserevoli condizioni degli italiani – espressione di cui sarà accusato quando la censura riprenderà forza nel giro di pochi anni -, ma era pervaso da una forte vitalità e passione etica, ansia di riscatto e sete di giustizia sociale, speranza e convinzione che la liberazione dal fascismo avrebbe posto fine a uno Stato prima oligarchico, autoritario e poi dittatoriale, dove le masse popolari erano sempre state escluse dalla vita sociale e politica o abilmente manipolate per costruire il consenso. Quanto fosse difficile uscire dal fascismo e fragile fosse la stagione delle speranze, lo dimostrerà la strage di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947 in Sicilia, dove i vecchi notabili avevano ripreso il loro potere contro i contadini che occupavano le terre incolte. La strage, condotta da latifondisti, banditismo, separatismo indipendentista e servizi segreti stranieri, è stata il primo dei tanti misteri che hanno segnato sanguinosamente e condizionato la storia repubblicana.

lapide commemorativa della strage di Portella della Ginestra

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In un Paese “digiuno di democrazia”, come lo ha definito Simona Colarizi, il cinema affiancava i partiti nell’opera di “educazione alla democrazia”, in termini non ideologici, ma etici e morali. Era quello che Rossellini definiva il “cinema utile” per un Paese profondamente diviso e politicamente analfabeta, diseducato alla democrazia e alla libertà di espressione e di pensiero dal regime fascista. La brevità dell’esperienza resistenziale e la sua ridotta dimensione territoriale - per quanto volenterosi fossero i progetti di rinnovamento e di radicale discontinuità con il passato - non aveva permesso il suo radicarsi nelle coscienze dell’intera popolazione, in particolare al Sud dove, nelle prime elezioni amministrative della primavera del 1946, il movimento antipolitico e chiaramente nostalgico dell’Uomo Qualunque aveva raccolto un considerevole successo, confermato nelle successive elezioni politiche dove riuscì a conquistare trenta seggi all’Assemblea Costituente.

tessera del "Fronte dell'Uomo Qualunque"

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Quella condotta dal cinema neorealista è stata un’opera storicamente e politicamente necessaria per la rinascita civile e morale e contribuire a dare una base salda al vivere nazionale e collettivo, a una democrazia appena nata, un punto di partenza che appariva subito non irreversibile, esposto a possibili e rapide restaurazioni e trasformismi, come dimostrato dall’esito del referendum istituzionale del 1946, dove la monarchia prevalse in tutte le regioni del Sud.

riproduzione della scheda per il Referendum del 1946

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All’indomani del fascismo, l’Italia è un paese da ricostruire. L’industria cinematografica è rasa al suolo, per questo si saluta Roma città aperta come il film delle difficoltà superate, tutto è improvvisato con mezzi fortuiti. Nasce dunque l’Anica nel 1944, l’associazione nazionale industria cinematografica ed affini, l’impresa tenta di arginare la colonizzazione ad opera del cinema americano e alla regolamentazione dell’intero sistema commerciale. Il nuovo cinema è simbolo della volontà di riscatto, non vuole nascondere nulla vuole testimoniare e dare visibilità a un paese povero.

il loogo dell'ANICA

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Il neorealismo dovette subire molteplici attacchi perché il clima politico mutò a partire dal 1947, quando i partiti di sinistra furono allontanati dal governo e le forze moderate cominciarono a incoraggiare un cinema di evasione. La "Legge Andreotti" nel 1949 subordinava gli aiuti statali ad un sistema di controllo governativo: al film poteva essere negata la licenza di esportazione se "diffamavano l'Italia", e diverse pellicole, tra cui Ladri di biciclette, furono censurate.


L'apice del Neorealismo


La porta del cielo (Vittorio De Sica, 1944)

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Nella commovente atmosfera di un treno bianco in viaggio verso Loreto, si inseriscono alcuni episodi di "casi" particolari: una vecchina che si reca alla Santa Casa per implorare la pace nella famiglia dove da tanti anni è a servizio come governante; un bimbo paraplegico accompagnato da una ragazza sola al mondo che lo assiste e lo conforta. I due entrano nelle simpatie di un ricco industriale - anch'egli paraplegico - il quale provvederà al loro sostentamento. Un giovane operaio, divenuto cieco a causa di un incidente sul lavoro, guidato da un suo ex collega tormentato dal rimorso di aver provocato l'incidente. Ed infine un valente pianista - cui una paralisi alla mano ha troncato una brillante carriera - che si è deciso al viaggio come tentativo disperato, senza però alcuna convinzione di fede. Il gruppo di sventurati si raccoglie nella Basilica e durante una suggestiva cerimonia invoca la guarigione dalla Madre Celeste...


Sciuscià (Vittorio De Sica, 1946)

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Pasquale e Giuseppe sono due bambini rimasti orfani. Nella Napoli del dopoguerra, gli amici cercano di sbarcare il lunario facendo i lustrascarpe, ma la loro esistenza è difficile e i due si ritrovano spesso coinvolti in affari illegali. Al termine di una rapina, Pasquale e Giuseppe vengono arrestati e condotti al riformatorio in attesa di giudizio. Lasciati a se stessi e dimenticati dalle autorità, i ragazzi rimangono nell'istituto per molto tempo, tra altri come loro, che si sono lasciati alle spalle l'infanzia in fretta, e guardie che li trattano in modo inumano. Tutto questo è troppo anche per la loro amicizia. Il film che raccoglie un grande successo della critica ne ha assai poco di pubblico, che vorrebbe evadere ancora un po’ dalla realtà concedendosi ancora le immagini luccicanti dei telefoni bianchi. Sciuscià, invece, racconta la storia aspra e drammatica, di amicizia, di tradimenti e di morte, di questi due giovani, ladruncoli per caso, con il sogno di comprarsi un cavallo bianco chiamato Bersagliere. I due protagonisti, legati tra loro fino all’epilogo tragico della morte di Giuseppe, sono le vittime di una società che si era abbeverata alla spietatezza della guerra e che ora è travolta dal miraggio del benessere. Il film, girato dalla parte dei bambini, immune da qualsiasi forma di pietismo, era una requisitoria contro le istituzioni in cui finiva inevitabilmente per cadere il deviante sociale: la giustizia e il carcere minorile, vera scuola di delinquenza dominata da un autoritarismo di stampo fascista nella quale i buoni d’animo soccombono e gli spietati trionfano.


Il bandito (Alberto Lattuada, 1946)

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Reduce dalla prigionia in Germania, Ernesto si trova solo: la casa distrutta, la mamma morta, la sorella scomparsa. Quando la ritrova, inaspettatamente, in una casa equivoca, ingaggia una furibonda lotta con il protettore della ragazza. Nella colluttazione la sorella rimane uccisa e il figuro viene spinto da Ernesto nella tromba delle scale. Ferito e inseguito dalla polizia, il giovane ripara in casa di una prostituta che è a capo di una banda di rapinatori. Diventa amante della donna e capo della banda, ma il ricavato delle imprese lo elargisce in beneficenza provocando la disapprovazione dei compagni. Un giorno, mentre con i complici effettua un colpo ai danni di un'automobile, viene denunciato alla polizia dalla stessa donna che vuol vendicarsi di una offesa subita, ma egli rinuncia a mettersi in salvo per riaccompagnare a casa la bimba di un suo ex compagno che si trovava nella macchina assalita. Non rispondendo all'alt intimatogli dagli agenti, questi sparano ed Ernesto cade ferito a morte. Il bandito aveva alle spalle una cultura che si era nutrita del cinema francese e americano, e sfruttava una pluralità di generi, dal melodrammatico al noir e al gangster. Soprattutto registrava le atmosfere dell’Italia del dopoguerra, con le sue libertà narrative, da una parte, e dall’altra con l’esigenza di dare voce e immagine alla realtà. I problemi del ritorno alla vita ordinaria, gli sconvolgimenti morali causati dalla guerra, il crimine e la corruzione dilagante nel ‘45 erano i contenuti di alto impatto emozionale. A differenza del neorealismo alla Rossellini, il film non aspirava a restituire un clima corale, a tratteggiare personaggi positivi, sconvolti dagli eventi ma nutriti di una speranza di futuro. Lattuada si tenne lontano da ogni rassicurante richiamo di conforto; evitò derive manichee, con il male tutto da una parte, e il bene tutto dall’altra.


Caccia tragica (Giuseppe De Santis, 1947)

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Dopo la fine della guerra un camion sul quale viaggiano Michele e Giovanna, sposati di fresco, e il ragioniere di una cooperativa agricola incaricato di portare alla sede della cooperativa quattro milioni, viene assalito da banditi che uccidono l'autista e il ragioniere, rubano il denaro e portano via, come ostaggio, Giovanna. Della banda fanno parte Alberto, compagno di prigionia di Michele, e la sua amante Daniela, una ex collaborazionista. Conosciuto il fatto, i contadini della cooperativa s'uniscono ai carabinieri nel dar la caccia ai malfattori. Questi tentano invano di sottrarsi all'accerchiamento e dopo varie vicende Daniela e Alberto con Giovanna, loro prigioniera, s'asserragliano in un edificio, già sede di un comando tedesco, dove vengono assediati. Il terreno intorno è stato minato dai tedeschi e Daniela vorrebbe valersi di un congegno lasciato dai tedeschi per far esplodere le mine eliminando così gli assedianti: per impedirglielo Alberto l'uccide. Avuto in mano Alberto, i membri della cooperativa si riuniscono per giudicarlo. Prevale alla fine la parola rasserenatrice di Michele, il quale induce gli animi alla generosità e al perdono. Il colpevole, di cui si riconosce il pentimento, viene lasciato libero. In questo film, il regista mette in luce il gusto per le visioni d’insieme, il racconto corale, i movimenti di macchina ariosi, la tensione verso una narrazione epicizzante. Maggior regista corale del dopoguerra, De Santis è soprattutto l’autore che piú crede al cinema come fonte di ispirazione e linguaggio autonomo, ma anche come mezzo di comprensione e trasformazione della realtà e cerca di assimilare o trovare una via italiana che concilî la lezione del cinema sovietico con quella della cultura americana.


La terra trema (Luchino Visconti, 1947)

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E' la storia di una famiglia di pescatori siciliani, sfruttati nella loro miseria dai commercianti grossisti. Decisi a lottare contro l'oppressione, ipotecano la casa per comperare una barca e lavorare in proprio. Ma anche gli elementi sono avversi; in una notte di tempesta, la barca si rovina. Perduta la casa, la famiglia si disgrega; i miseri si riducono ad una condizione di vita anche peggiore, e devono riprendere l'ingrato lavoro, subendo, senza più speranza, quello che a loro appare un destino ineluttabile. La storia è semplice ma le sue risonanze sono complesse. I Valastro sono simboli e icone religiose: la madre che parla una volta sola quando abbraccia i figli tornati sani e salvi è una «mater dolorosa», la figlia Mara è l’angelo del focolare, ’Ntoni è il Davide biblico, Cola il figliol prodigo, il nonno è come un silenzioso patriarca. Il finale – ’Ntoni che rema con rabbia, lo sguardo dell’umiliato che non si arrende, intorno le altre barche nella disposizione «teatrale» che è la caratteristica saliente del film – non è soltanto un’affermazione razionale sulla necessità di un rivolgimento rivoluzionario ma è anche, in quella vigorosa immagine di una povertà che guarda al futuro, la conferma di una visione mistica del pauperismo da cui La terra trema (a dispetto di ogni volontà contraria, marxisticamente atteggiata) è avvolta.


Ladri di biciclette (Vittorio De Sica, 1948)

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Antonio, un operaio disoccupato, trova impiego come attacchino municipale, ma la bicicletta di cui ha bisogno per lavorare, al momento si trova al Monte di Pietà e, per riscattarla, sua moglie Maria impegna le lenzuola. Dopo meno di un'ora di attacchinaggio, però, un ladruncolo ruba la preziosa bicicletta. Antonio tenta un inseguimento, ma non riesce a prenderlo e non gli resta che ritornare a casa in preda alla disperazione. Anche al Commissariato, dove denuncia il furto, non gli danno alcuna speranza. Nessuno si interessa al suo caso e Antonio inizia a vagare tra i rivenditori di biciclette accompagnato da suo figlio Bruno, un bambino di sei anni. Quando tra la folla intravedono il ladro, Antonio e Bruno iniziano a inseguirlo. In una Roma domenicale, i due trovano soltanto indifferenza e ostilità e alla fine, in preda alla disperazione, ad Antonio non rimane che tentare il furto. Sarà solo il pianto del suo bambino a salvarlo dalla polizia. Il film dà voce e volti al dramma della disoccupazione, che l’anno prima, nel 1947, aveva toccato il 12% della popolazione (2.400.000 disoccupati) mentre l’inflazione stava devastando le paghe – sostanzialmente ferme – con un aumento del costo della vita superiore di dieci volte rispetto al 1938 (facendo il costo della vita = 100 nel 1938, si arriva a 1.159 nel 1948). È quindi una storia straordinariamente umana, quella raccontata da Vittorio De Sica in Ladri di biciclette, vissuta da milioni di famiglie, nella precarietà del dopoguerra, che non trovano lavoro e giustizia, nonostante le parole di qualche “buon carabiniere”. Quando Antonio Ricci cerca di adeguarsi a un mondo dominato dai furbi e tenta di rubare una bicicletta incustodita, viene subito scoperto e quasi linciato dalla folla e sarà salvato solo dal pianto disperato del figlio. Anche qui, ancora una volta, il lieto fine sembra vietato sia dalla realtà concreta sia dall’estetica neorealista. Non capirono la poesia del film i critici comunisti dell’epoca che rimproverarono a De Sica di non avere proposto una soluzione alla disoccupazione. Non capirono che Ladri di biciclette era un film sui vinti, sui dimenticati, sugli scarti della società, sui condannati alla solitudine e all’impotenza.


Riso amaro (Giuseppe De Santis, 1948)

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Francesca, giovane cameriera d'albergo, istigata dal suo amante, Walter, ruba la collana di una cliente. Fuggono entrambi, e Francesca si mescola alle mondine, che partono in treno. Nel dormitorio delle mondariso, Francesca viene derubata della collana da una compagna, Silvana. Sul luogo del lavoro giunge Walter, il quale avendo appreso che Silvana è presumibilmente in possesso della collana, la circuisce. Silvana non è insensibile alle premure del lestofante e, abbandonato un sergente che l'ama, diviene l'amante di Walter, mentre il sergente fa la corte a Francesca, che si è pentita ormai del male fatto. Walter, avendo scoperto che la collana rubata è falsa, decide, per rifarsi, di rubare il riso accumulato nei magazzini come premio finale per le mondariso. Mentre le ragazze festeggiano la fine della stagione di lavoro, Walter convince Silvana ad immettere di nuovo l'acqua nei campi, per distrarre l'attenzione delle mondine e degli operai. Ma ha fatto i conti senza Francesca e il sergente, che essendosi accorto di tutto, coglie i ladri sul fatto. Nella sparatoria che segue, Walter viene ucciso. Silvana, disperata, s'uccide. Francesca andrà via a fianco del sergente. Grande capolavoro del cinema italiano, impossibile da categorizzare. Se gli anni sono quelli del neorealismo e del melodramma, sono anche gli anni dell'America che ha liberato l'Italia e dell'influenza dell'Unione Sovietica sull'Europa. Tutti questi elementi convivono armoniosamente nella pellicola e danno risultato a un prodotto d'avanguardia, intelligente e accorto nel raccontare e criticare in silenzio una realtà che stava cambiando radicalmente il paesaggio italiano: la cultura americana spingeva con forza per imporsi nelle nostre radio, nelle nostre campagne, abitudini, tasche. Con Riso amaro, De Santis ci ha regalato una visione, ancora attuale e che non morirà mai. Ci ha mostrato quell'equilibrio tra internazionalismo e protezione della cultura territoriale. Tra orgoglio e curiosità. Come dice il sergente alle mondine senza contratto in lotta con quelle regolari: “Finché gridate non vi capirete mai, vedete che litigare tra voi non serve a niente, provate a mettervi d'accordo”.


Cielo sulla palude (Augusto Genina, 1949)

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La famiglia di Luigi Goretti, bracciante agricolo, composta di padre, madre e sei figli, viene alloggiata per intercessione dei proprietari, nel casolare abitato dai coloni Serenelli, padre e figlio, nella malsana zona paludosa, vicino a Nettuno. I Serenelli accolgono con aperta ostilità i nuovi venuti. Luigi Goretti è un lavoratore instancabile, ma ben presto la malaria l'uccide. La famiglia, rimasta priva del suo capo, è esposta più che mai alle prepotenze dei Serenelli. Il vecchio, ubriacone e dissoluto, fa una corte assidua alla vedova; ma viene da questa risolutamente respinto. Il figlio Alessandro è preso da una passione morbosa per la figlia maggiore Maria, ancora quasi bambina. Da prima cerca d'attirarla con qualche piccolo dono, poi tenta d'usarle violenza. Ma la piccola gli resiste decisamente e gli sfugge, eccitando sempre più le malvagie brame del giovane, che giunge al punto di minacciarla. In un giorno di luglio, nell'ora più calda, mentre tutti sono fuori a lavorare. Alessandro obbliga Maria ad entrare in casa ed accecato dall'ira per la ferma resistenza della fanciulla, la colpisce replicatamente con un punteruolo. Trasportata all'ospedale, la poveretta muore dopo atroci sofferenze sopportate con ferma fede e dopo aver perdonato al suo assassino. Esempio isolato di neorealismo cattolico, racconta la breve vita e la morte violenta di santa Maria Goretti. All’interno di un impianto agiografico inevitabilmente datato, il film ha però due pregi: il primo è quello di evidenziare le terribili condizioni di vita materiale dei contadini nell’Agro Pontino, non alleviate nemmeno dalla solidarietà fra poveri (che anzi si combattono fra loro); il secondo è quello di presentare l’assassino non come un mostro ma come vittima egli stesso dell’abbrutimento provocato da una vita miserabile.


Stromboli, terra di Dio (Roberto Rossellini, 1949)

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Karin è una giovane lituana che, durante la guerra, si trova in un campo di concentramento italiano. Qui conosce Antonio, pescatore dell'isola di Stromboli che s'innamora pazzamente della bella straniera, la quale per sottrarsi alla prigionia, acconsente a sposarlo. A Stromboli Karin non trova il paradiso descrittole da Antonio: l'isola è un ammasso di pietre vulcaniche, gli abitanti sono primitivi, il loro nido è una bicocca desolata e spoglia. Alla ribellione dei primi giorni subentra uno stato d'animo più equilibrato: Karin cerca d'avvicinarsi maggiormente al marito, collabora con lui nel riassettare la casa, cerca di far amicizia con gli isolani, ma trova soltanto incomprensione ed ostilità. Mentre la sua vita trascorre agitata tra delusioni e speranze, si manifestano in lei i segni premonitori della non lontana maternità. A questo punto il vulcano entra in una fase d'attività, portando distruzione e spavento. Karin decide allora di fuggire dal marito e dall'isola, passando attraverso il vulcano; ma, sopraffatta dalla stanchezza e soffocata dalle esalazioni sulfuree, dopo una crisi di disperazione, s'addormenta. Al suo risveglio, il pensiero della vita che porta in grembo la spinge a rivolgersi a Dio. La fiaba allegorica di Stromboli narra un’odissea gnostica, dal buio alla luce, dalle tenebre delle anguste prigioni (il campo profughi, l’isola dei pescatori) alla improvvisa apparizione del divino nell’interiorità della protagonista. La Bergman, unica attrice professionista in un universo di “sottouomini”, unica persona vivente e voce recitante in un contesto di figure scrutate da lontano con fastidio e incomprensione, nonché ridotte al consueto macchiettismo antimeridionale, è la predestinata, è la straniera rappresentante di una cultura più evoluta che giunge in un universo orrendo, governato dalla volenza più brutale.


Miracolo a Milano (Vittorio De Sica, 1950)

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Una buona vecchina, la signora Lolotta, trova un giorno sotto un cavolo un bel bambino, lo prende con sé e gli fa da mamma. Quando Lolotta muore, il bambino, Totò, viene ricoverato in un orfanotrofio. Ne esce giovinetto e il caso lo mette a contatto con un gruppo di poveri, accampati in una zona abbandonata della periferia milanese. Con la sua profonda bontà Totò si conquista le generali simpatie, esercitando un'influenza benefica sui suoi nuovi amici. Un getto di petrolio esce un giorno dal terreno abusivamente occupato dai poveretti: avutone notizia, il ricco industriale Mobbi acquista il terreno e per cacciarne gli occupanti, ottiene l'intervento della forza pubblica. Invocato da Totò, lo spirito di Lolotta scende dal cielo e consegna a Totò una colomba bianca. Col suo aiuto Totò compie i miracoli più sorprendenti: i poliziotti sono sbaragliati e i poveri vedono esaudito ogni loro desiderio. Una breve distrazione di Totò permette a due angeli di riprendersi la colomba ed ecco che le guardie hanno il sopravvento, mentre Totò e i suoi amici vengono catturati. Ma Lolotta restituisce a Totò la colomba: liberati, Totò e i suoi amici s'innalzano a volo verso il regno della bontà. L’idea di Miracolo a Milano nasce dall'esigenza del regista diallontanarsi dall’approccio radicale alla realtà che ha caratterizzato le sue ultime opere, senza però rinnegarne l’urgenza sociale e la poetica. dunque da questo azzardo: raccontare l’Italia della ricostruzione in tutta la sua durezza, attraverso un filtro allegro e spensierato. De Sica, anche per la volontà di rendere omaggio a Cesare Zavattini, il grande sceneggiatore con cui sta riscrivendo la Storia del cinema italiano, decide di esaudire un suo desiderio nascosto, quello di portare sul grande schermo un suo piccolo romanzo per ragazzi Totò il buono, uscito nel 1942 a puntate sul quotidiano Il Tempo. Miracolo a Milano (il primo titolo I poveri disturbano viene cambiato dopo le insistenze dei produttori) è così il tentativo di rivoluzionare una poetica, rimanendo sempre coerenti a se stessi. L’obiettivo di De Sica e Zavattini è raccontare una favola visivamente esagerata (per i tempi dell’epoca, ovviamente) con un nucleo morale però lucido è rigoroso. Il risultato finale è un capolavoro, premiato a Cannes con la Palma d’oro, ma un disastro economico fragoroso. De Sica, che crede così tanto al progetto da investire i suoi soldi personali, è trascinato dentro un buco nero finanziario, tra effetti speciali sempre più cari (sono chiamati addirittura tecnici americani per realizzarli) e una stampa conservatrice che martella il film sin dai primi giorni di distribuzione, augurando a De Sica e a Zavattini procedimenti giudiziari e altre avversità.


Non c'è pace tra gli ulivi (Giuseppe De Santis, 1950)

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Francesco Dominici, tornato dalla guerra, cerca invano lavoro. Una notte, aiutato dalla sua innamorata, Lucia e dalla sorella, Maria Grazia, ruba delle pecore ad Agostino Bonfiglio, un pastore arricchitosi durante la guerra, che si dice abbia rubato, tempo prima, le pecore di Francesca. Francesco viene denunciato ed arrestato. I testimoni, chiamati in causa, vengono sopraffatti o comprati da Agostino e Francesco viene condannato a quattro anni. Agostino vorrebbe sposare Lucia, ma il matrimonio va a monte per l'intromissione di Maria Grazia, alla quale Agostino ha usato violenza. Francesco evade dalla prigione con un compagno. Inseguito dai carabinieri, viene salvato da Lucia, della quale diviene l'amante. Mentre i carabinieri danno la caccia a Francesco, questi va in traccia d'Agostino, che temendone la vendetta ha cercato di farlo assassinare. Agostino fugge, trascinandosi dietro Maria Grazia e le pecore. Maria Grazia viene brutalmente strangolata da Agostino, che accecato dalla paura, precipita in un burrone. Francesco si consegna ai carabinieri, fidando nella revisione del processo e nell'assoluzione. Tutto sommato, questo film ha press’a poco la stessa morale dei film western americani, dove il cowboy è costretto ogni volta a farsi giustizia da solo contro il prepotente, mettendosi – per raggiungere lo scopo, cui partecipa tutto il pubblico – anche contro la legge, che alla fine tuttavia lo assolve. Quasi sempre, infatti, lo sceriffo arriva due minuti dopo, vede il risultato dell’azione, dà una pacca amorevole e paterna sulle spalle dell’onesto cowboy, lo aiuta, gli offre buoni consigli e, se addirittura non dice “bravo” e “viva” con la bocca, parlano però i suoi occhi affettuosi.


Bellissima (Luchino Visconti, 1951)

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Maddalena Cecconi, moglie d'un capomastro, ha un'unica figlia, Maria, una bimba di otto anni, che adora. Maria agli occhi di Maddalena, che vorrebbe per lei uno splendido avvenire, è una bambina bellissima. Così, quando la Stella Film bandisce un concorso riservato alle bambine romane per ottenere un ruolo in un film di Blasetti, Maddalena decide di far partecipare Maria alle audizioni e sacrifica tempo e denaro per prepararla, nonostante le obiezioni del marito. Il giorno del provino, a Cinecittà, mentre cerca affannosamente Maria che si è smarrita nel labirinto delle costruzioni e degli uffici, Maddalena s'imbatte in Annovazzi, un aiutante del regista che in cambio del suo aiuto, riesce a cavarle le ultime cinquantamila lire. Finalmente arriva il momento del provino, ma quando nella sala viene proiettata l'immagine della piccola Maria, il regista e gli aiutanti, nel vederla così imbarazzata e goffa, scoppiano in una risata. Maddalena che vede tutto dalla cabina dell'operatore, esplode e, dopo aver fatto una violenta scenata, si porta via la bambina. Invano il regista, che ha scoperto nella bimba doti espressive non comuni, le sottopone un vantaggioso contratto. Le illusioni sono ormai naufragate e la felicità familiare riconquistata. In quella che viene riconosciuta come una delle opere più riuscite di Visconti e meno apprezzate dalla critica, la presenza di Zavattini come sceneggiatore e di Anna Magnani come protagonista avrebbe dovuto portare al più neorealista dei suoi film; invece ne viene fuori una feroce critica sui metodi del neorealismo, del cinema e dei modi in cui esso sconvolge la vita dei personaggi popolari. Il popolo di Visconti in Bellissima è pieno di impietosi contrasti e contraddizioni, anticipando di decenni l'analisi delle distruttive aspirazioni piccolo-borghesi presenti negli strati popolari della società.


Umberto D. (Vittorio De Sica, 1952)

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Umberto D., vecchio funzionario ministeriale costretto a vivere d'una pensione insufficiente, si dibatte tra difficoltà economiche insuperabili. Abita in una misera camera ammobiliata, dalla quale l'esosa padrona di casa minaccia di sfrattarlo. Ammalato e febbricitante entra in ospedale, dopo aver affidato il suo fedele compagno Flik, un cagnolino bastardo, a Maria, la servetta, che gli dimostra una certa comprensione. Uscito dall'ospedale dopo qualche giorno, non trova più a casa il suo diletto Flik ma dopo febbrili ricerche lo trova al canile comunale e lo riscatta. Ora si ripresenta, più urgente e minaccioso, il pericolo dello sfratto. Umberto D. va in cerca di qualche vecchio amico ma nessuno vuole o può aiutarlo, così gli viene l'idea di chiedere l'elemosina, ma la propria dignità glielo vieta. Sconsolato, decide di farla finita e si reca con il fedele Flick ad un passaggio a livello. Spaventato dal rumore del treno in arrivo, il cagnolino gli sfugge dalle mani e per Umberto D. è la salvezza. Deciso a riconquistare la fiducia e l'affetto di Flik, si mette a giocare con lui e non pensa più al suicidio. De Sica non solo crea un affresco universale e di rara potenza del tramonto della vita, raccontando la solitudine e il senso di impotenza che spesso porta con sé la terza età, ma testimonia l’assenza dello stato, in una società in cui dopo anni di inflazione e all’alba della Guerra Fredda – quando una nuova paura, quella del nucleare, si faceva già spazio tra la popolazione mondiale – alla volontà di rinascita si accompagnava il dramma di quelli cui ormai non rimaneva il tempo e la voglia per sperare in un domani migliore. Nonostante i bassi incassi al botteghino e il rifiuto del pubblico stesso a trovare nuovamente la triste realtà di ogni giorno sullo schermo cinematografico, molti intellettuali, di cui Cesare Pavese e André Bazin sono illustri esempi, capirono già al tempo quanto Umberto D. fosse necessario, mentre l’allora sottosegretario allo spettacolo Giulio Andreotti si pronunciava contro quello che giudicava come un lavoro incapace di ritrarre le riforme sociali postbelliche (si arrivò addirittura a una censura i cui strascichi si protrassero fino ai primi anni ’90). Il film è una sobria meditazione sulle asperità della vecchiaia, in seguito applaudito come uno dei punti d'arrivo di tutto il cinema neorealista.


La signora senza camelie (Michelangelo Antonioni, 1953)

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Clara Manni, commessa in un negozio di tessuti, per la sua bellezza viene scelta per interpretare un film che ha molto successo. Le vengono subito offerti altri ruoli in cui potrà mettere in risalto le sue doti fisiche ma un produttore, Gianni Granchi, s'innamora di lei e la sposa, impedendole di girare quei film. Lui vuole che sua moglie si faccia notare per le doti di artista ma il film "Giovanna d'Arco", che ha realizzato per lei, risulta un fiasco. La rovina economica spinge Gianni a tentare il suicidio e Clara, per salvarlo, riprende a recitare nei film che il marito aveva scartato. Ma anche il matrimonio l'ha delusa e Clara finisce per accettare la corte di un giovane diplomatico col quale fugge. Si tratta però di una nuova delusione: la donna scopre ben presto che il suo spasimante non l'ama veramente. Ritorna al cinema nella speranza d'affermarsi ma anche questo tentativo non riesce. Clara arriva a comprendere che le uniche doti che i produttori apprezzano in lei sono quelle fisiche. Alla fine, sentendosi vinta, si rassegna ad accettare le parti insulse che le offrono e a vivere una vita senza amore. Frutto di una travagliata realizzazione, dopo varie modifiche di scrittura e un importante cambio di interprete (il ruolo della protagonista fu rifiutato da Gina Lollobrigida perché ritenuto offensivo nei confronti di alcuni personaggi reali del mondo del cinema), merita oggi di essere guardato con l’attenzione che forse non gli è stata mai riservata. Alcuni personaggi, in particolare quelli maschili, risultano abbozzati e il tono generale del film ondeggia indeciso tra la satira di costume e il dramma interiore. Il sottobosco di cinematografari, produttori e starlette immortalato nel film regala comunque un vivido spaccato dell’industria cinematografica degli anni ’50, duramente accusata di cinismo, vacuità e ipocrisia. Splendida, e densa di significato, la passeggiata dei due amanti tra le scenografie di cartapesta a Cinecittà.



Il Neorealismo rosa

Siamo nel secondo dopoguerra, un periodo segnato nel profondo dal dolore del recente massacro, ravvivato da continui dibattiti in campo etico ed estetico. E proprio il cinema diventa punto di riferimento per la presa di coscienza, è il mezzo che riguarda davvero le masse, sollecita la passione e aiuta gli spettatori a guardarsi intorno, a capire il mondo. È il cinema neorealista che per la prima volta mostra l’Italia agli Italiani. Il neorealismo rosa fu la forma dominante del movimento nei primi anni Cinquanta: l'enorme successo di "Pane, amore e fantasia" di Luigi Comencini aprì la strada a un filone di imitazioni che proseguì fino agli anni Sessanta. Il neorealismo rosa conservava in parte la scelta di ambientazioni autentiche, l'uso di attori non professionisti e occasionalmente sfiorava questioni sociali, ma riconduceva il neorealismo nella più forte tradizione della commedia italiana. Mentre la ripresa economica continuava a spingere l'Italia verso una crescente prosperità, gli spettatori divennero sempre più insofferenti all'attenzione neorealista verso povertà e sofferenza. La scelta dei personaggi ricade sui giovani proletari del tempo, vittime di una società classista, e per rappresentarli egli ricerca, indaga nella realtà, tra le strade. Figure prive di morale, che ignorano il bene e il male ma presentano un’apprezzabile vitalità mentre lottano per l’esistenza; giovani che non possono fare affidamento sui genitori, figure brutalmente ostili, ma ritrovano conforto nell’abbraccio della comunità. Nello stesso periodo, l'industria interna cominciava a prestare più attenzione al mercato internazionale. Anche se centinaia di film americani erano distribuiti con successo nell'Italia degli anni Quaranta, il governo italiano congelava i profitti all'interno del Paese. Questo incoraggiò Hollywood a reinvestire il denaro nella produzione, distribuzione e programmazione di film italiani. L'Italia sosteneva anche produzioni americane sul proprio territorio, mettendo a disposizione attori e tecnici.


Vivere in pace (Luigi Zampa, 1946)

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In un villaggio della campagna romana, nascosto tra le vigne, vive zio Tigna, contadino benestante. Con lui ci sono il suo vecchio padre, la moglie e due nipoti, un ragazzino e una giovinetta. Nel villaggio arriva appena l'eco della guerra, ma un giorno i due ragazzi scoprono nel bosco due americani, un bianco e un nero, fuggiti da un campo di prigionia tedesco. I fuggitivi vengono accolti in casa di zio Tigna. Una sera, mentre tutti sono a cena, si sente bussare alla porta: è un soldato tedesco che si trova nel villaggio per svolgere il suo incarico di telefonista militare. Gli americani vengono fatti nascondere e si offre da bere al tedesco che ha portato un questionario da compilare. Il tedesco si trova così bene in casa di Tigna che non vuole andarsene, continua a bere e s'ubriaca. Ma anche il nero, chiuso in cantina, beve e s'ubriaca; finché i due si trovano faccia a faccia, e nell'ebbrezza fraternizzano, credendo che la guerra sia finita e facendolo credere a tutto il villaggio. Ma l'illusione dura poco. Il giorno dopo i paesani fuggono sui monti per sottrarsi alla temuta repressione nazista. Zio Tigna però torna indietro troppo presto e cade vittima degli ultimi nazisti che stanno fuggendo incalzati dagli americani. Solo più tardi, a guerra finita, i superstiti potranno ancora vivere in pace.


Sotto il sole di Roma (Renato Castellani, 1947)

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Ciro ha diciassette anni ed è figlio di una guardia notturna. Mentre sua madre sgobba tutto il giorno per casa, lui vive nell'ozio e va in giro con un gruppo di ragazzi di strada poco raccomandabili. Per le scale del palazzo incontra spesso Iris, una brava ragazza che lo osserva da sempre e lo ama in segreto, ma quando lei tenta di avvicinarlo, Ciro la respinge rudemente. Intanto gli eventi precipitano, Roma viene occupata dai tedeschi che fanno retate di giovani. I genitori costringono Ciro a restare chiuso in casa, ma gli amici lo convincono ad uscire con loro in cerca di provviste da rivendere alla borsa nera. Durante l'uscita, però, incappano nei tedeschi che arrestano Ciro e uno degli altri, Geppetto. I due prigionieri vengono rinchiusi in una latrina, da cui vengono liberati da un bombardamento. Tornato a Roma, Ciro viene a sapere che sua madre è morta di crepacuore credendo che lui fosse stato ucciso dai tedeschi. Quando gli americani entrano a Roma, portano con loro un'ondata d'allegria: anche Ciro e i suoi amici vi partecipano e vanno a ballare. Nel dancing, Ciro viene avvicinato da Fosca, la moglie del proprietario della sala da ballo e cede alle sue proposte, ma si stanca presto della relazione e, dopo averla lasciata, tenta inutilmente di ricattarla. Iris, che lo ama veramente e vuole proteggerlo, prima fa in modo che Fosca non lo denunci, poi, quando viene a sapere che Ciro sta per tentare una rapina allo scopo di trovare i soldi per iniziare una nuova vita, lo ferma. Intanto i suoi amici hanno tentato il furto e hanno ucciso il padre di Ciro. Soltanto davanti al cadavere di suo padre Ciro capirà quali sono i doveri di un vero uomo.


E' primavera... (Renato Castellani, 1949)

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Beppe Agosti è un giovane garzone di fornaio fiorentino, che per la sua parlantina e il suo brio, ha gran fortuna con le ragazze, soprattutto con le servette del suo quartiere. Fatto soldato, vien mandato a Catania, dove fa amicizia con un commilitone siciliano, Cavalluccio. Questi si promette ad una compaesana, Mariantonia, e Beppe gli fa da compare nella cerimonia della promessa. Ma subito dopo la cerimonia, Cavalluccio, per una grave mancanza disciplinare, vien messo in prigione e trasferito. Nel confortare la dolente Mariantonia, Beppe se n'innamora e la sposa. Trasferito a Milano, Beppe vien preso dalla melanconia e trova conforto nell'amore di Lucia. Dopo un certo tempo, la sposa. Mariantonia, avendo appreso che la classe di Beppe è stata congedata e messa in sospetto da una fugace visita del marito, si reca a Milano e scopre tutta la verità. Essa tenta d'uccidere l'infedele, ma il coltello le sfugge di mano. Dopo complicate vicende giudiziarie, si scopre che il secondo matrimonio di Beppe non è valido. Mariantonia e Beppe, riconciliati e felici, ritornano a Catania.


Prima Comunione (Alessandro Blasetti, 1950)

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E' la mattina di Pasqua, il commendator Carloni, proprietario d'un vapoforno, si sveglia di soprassalto ai colpi di clacson del proprio autista che gli ha portato sotto le sue finestre, perché tutti i vicini la vedano, l'automobile appena comperata. Mentre si veste, ammirando dalla finestra la vicina di casa, viene a sapere che il vestito per la prima comunione di sua figlia Anna non è ancora arrivato. Carloni strepita e, dopo le insistenze di sua moglie Maria, decide di andare lui stesso dalla sarta. Quando arriva il vestito è pronto, manca solo l'etichetta. Carloni sbuffa, poi, vedendo la figlia della sarta alla finestra, smette di trattar male sua madre e decide di pazientare finché l'etichetta è cucita. Ma sulla via del ritorno gli capitano una serie di imprevisti: l'automobile si guasta, un taxi gli viene portato via sotto il naso, infine nell'autobus litiga con un passeggero e scende per picchiarlo. Intanto affida il pacco col vestito ad un povero zoppo che ha scambiato per il giornalaio; ma quando la rissa è finita, lo zoppo e il pacco sono spariti. Carloni torna a casa amareggiato e furente e i pianti della piccola Anna lo spingono ai tentativi più impensati. Tutto è inutile e Carloni se la piglia con la moglie, che si ribella ai suoi ingiusti rimproveri. All'ultimo momento, arriva lo zoppo col vestito. Per mezzo dell'etichetta è riuscito a risalire alla sarta e di conseguenza al cliente.


Due soldi di speranza (Renato Castellani, 1951)

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Ritornato al suo paese dopo il servizio militare, Antonio Catalano vi trova una numerosa famiglia, di cui è il solo sostegno, mentre non gli riesce di trovare un'occupazione stabile. Solo ogni tanto dei lavoretti occasionali gli fruttano qualche soldo. Carmela, figlia del pirotecnico del paese, lo circuisce in tutti i modi; ma il padre di lei è contrario alla loro unione. Accade intanto che Giuliana, una sorella d'Antonio, viene sedotta da un possidente. Il parroco s'interpone per accomodare le cose: per render possibile il matrimonio della ragazza è necessario farle un po' di corredo. Il buon parroco ingaggia Antonio come aiuto sacrestano: così guadagnerà qualche soldo e potrà provvedere alla sorella. Ma mentre di giorno lavora in Chiesa per poter sposare Giuliana, di notte Antonio va a Napoli ad attaccare i manifesti del P.C.I., per poter al piu' presto impalmare Carmela. La stravanganza di questa fa scoprire il doppio gioco e Antonio viene licenziato dal parroco, mentre il padre di Carmela non vuol dargli lavoro, nè concedergli la figliola. Antonio tenta tutte le vie, ma non vuole abusare di Carmela, che, spinta dalla passione, gli si offre. Quando però la ragazza viene cacciata di casa, Antonio s'avvia con lei alla chiesa per sposarla, malgrado tutto, col plauso e i doni augurali dei compaesani commossi. “Due soldi di speranza” forniva una testimonianza attendibile sulle condizioni di vita e sul comportamento di larghe masse contadine di un Sud spoliticizzato, estraneo alla moderna civiltà della lotta di classe, assorbito esclusivamente dalle più elementari preoccupazioni pratiche e sentimentali e solo per esse disposto a battersi. Secondo Alberto Moravia, Due soldi di speranza segna l‟inizio della fine del neorealismo e per molti altri critici è anche il film che inaugura il fortunato filone della commedia paesana o rurale.


Il Neorealismo d'appendice

Uno dei generi più popolari, diffusosi fra la metà degli anni ’40 e la metà degli anni ’50 è il genere del melodramma popolare all’italiana, detto comunemente strappalacrime, in seguito ribattezzato dalla critica con il termine neorealismo d'appendice. Rispetto ai drammi sentimentali dei decenni precedenti, i melodrammi girati nel secondo dopoguerra sono caratterizzati da ambientazioni più realistiche (anche se spesso idealizzate), abitate da una piccola borghesia all’alba del boom economico. Le esili trame sono spesso costruite attorno a giovani coppie unite dall’amore ma divise dai ceti sociali di appartenenza, con particolare insistenza sulle sofferenze, le vessazioni e le rinunce che i personaggi (soprattutto femminili) sono costretti a subire. I melodrammi sono poco apprezzati dalla critica, che li considera alla stregua di fotoromanzi cinematografici, ma il successo di pubblico è immediato e travolgente.


Catene (Raffaello Matarazzo, 1949)

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Pietro e Rosa sono sposati da alcuni anni e si vogliono bene. Lui ha una piccola officina da meccanico e sogna di poterla ingrandire, mentre lei trascorre le giornate in casa con i loro due figli. Un giorno Rosa incontra Guglielmo, un ex fidanzato di cui non ha notizie da molti anni. Da quel momento l'uomo inizia a fare a Rosa una corte serrata, arrivando perfino a mettersi in società con Pietro. Vedendo ogni suo tentativo infrangersi, Guglielmo cerca di ricattare Rosa: se non fuggirà con lui, racconterà a Pietro i loro trascorsi sentimentali. Spaventata, Rosa si reca all'appuntamento con la speranza di dissuaderlo, ma l'arrivo di Pietro sconvolge i suoi piani. Convinto del fatto che Rosa stia per lasciarlo, Pietro uccide il presunto rivale e, dopo aver affidato i bambini a sua madre, cerca di fuggire in America. Arrestato dalla polizia, viene processato. Nell'aula di tribunale, Rosa, per salvare il marito, confessa il proprio adulterio. Pietro viene scagionato e, dopo aver saputo la verità dal suo avvocato, corre da lei per chiederle perdono.


La fiamma che non si spegne (Vittorio Cottafavi, 1949)

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Giuseppe, il minore dei tre figli di Padron Luigi Manfredi, un onesto agricoltore, si è arruolato come carabiniere. Giuseppe è fidanzato con Maria e la sposa prima di partire per la prima guerra mondiale. Il ragazzo però muore in combattimento, lasciandola la moglie e un figlio, Luigi. Il bambino cresce nella casa del nonno e mostra fin da ragazzo la tendenza a seguire la carriera paterna. La madre ne ha paura e persuade il nonno e lo zio parroco a metterlo in seminario. Ma non è possibile opporsi alla vocazione di Luigi, che finisce per arruolarsi nell'Arma. Passano gli anni: scoppia la seconda guerra mondiale. Luigi si batte valorosamente in Africa, viene rimpatriato per malattia e, promosso brigadiere, viene mandato a comandare una stazione, nelle vicinanze del suo paese. Dopo l'8 settembre, Luigi resta al suo posto, cercando di tutelare gli interessi dei connazionali. Nella zona vengono uccisi due soldati tedeschi: dieci paesani sono presi come ostaggi. Luigi si presenta al comando tedesco: si dichiara responsabile dell'uccisione e affronta la fucilazione per salvare gli ostaggi.


Tormento (Raffaello Matarazzo, 1951)

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Anna deve sopportare le angherie della matrigna, che si serve di ogni pretesto per mortificarla. Una sera, mentre il padre e la matrigna sono fuori casa, Carlo, il fidanzato d'Anna, le telefona dalla stazione, dove si trova di passaggio. Dopo molte insistenze, Anna lo raggiunge. Quando rientra a casa, però, la matrigna la accoglie con rimproveri così ingiusti e cattivi che Carlo, presente alla scena, decide di portare Anna con sé a Milano. Quando tutti i preparativi per le nozze sono pronti, Carlo, accusato d'assassinio, viene arrestato. Benché sia innocente, ci sono gravi indizi contro di lui e durante il processo, viene condannato a vent'anni di prigione. Intanto Anna dà alla luce una bambina e, malgrado la condanna, Carlo le chiede di sposarlo e lei accetta. Anna si rivolge al padre per avere aiuto, ma la matrigna non gli fa arrivare le lettere disperate della figlia. Quando viene a sapere la verità dall'avvocato di Carlo, il padre muore di dolore. La matrigna promette d'aiutare Anna, ma le impone di lasciarle per sempre la bambina e scomparire. Anna dapprima rifiuta, ma alla fine è costretta ad accettare. Separata dalla figia, si ritira in una specie di casa di correzione, finché, riconosciuta dopo alcuni anni l'innocenza di Carlo, la famiglia potrà riunirsi.


I figli di nessuno (Raffaello Matarazzo, 1951)

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Guido, il proprietario di una cava di marmo, ha una relazione con la figlia di un suo dipendente, Luisa. Per evitare che i due si sposino, la madre di Guido lo spedisce in Inghilterra e fa in modo di intercettare tutte le lettere che lui scrive a Luisa. La ragazza, incinta, credendo di essere stata abbandonata, scappa e si rifugia in casa di una contadina dove pensa di crescere il suo bambino. La madre di Guido, però, organizza il rapimento del nipote e le fa credere che il piccolo sia rimasto vittima di un incendio. Disperata, Luisa si chiude in convento, mentre Guido, credendo che la donna che ama sia morta, sposa un'altra. Soltanto dopo molti anni, potrà riabbracciare suo figlio, cresciuto in collegio, e lo scoprirà nel più terribile dei modi.


Una donna ha ucciso (Vittorio Cottafavi, 1951)

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Il cap. Roy Prescott, addetto all'amministrazione militare alleata, conosce a Napoli, dove risiede, una bella ragazza napoletana, Anna, alla quale fa una corte assidua. Roy è un esperto dongiovanni e la sua relazione con Anna non è per lui che un fuggevole episodio; mentre la ragazza è seriamente innamorata del capitano. Quando vien trasferito a Roma, Roy cerca di por fine alla relazione; ma Anna non sa rassegnarsi e finisce col raggiungerlo. Essa ormai fa vita comune con l'amato ufficiale; ma si vede da lui trascurata e concepisce dei sospetti, anche troppo fondati, sulla sua fedeltà. Un giorno che essa ha deciso di provocare una spiegazione, ha modo d'ascoltare una conversazione telefonica in cui Roy manifesta chiaramente il disgusto ch'ella gl'ispira. Ferita profondamente, Anna afferra la pistola del capitano e l'uccide. Arrestata e sottoposta a processo, essa viene condannata. Il racconto della triste vicenda si conclude con un accorato monito, volto a deprecare ogni vendetta, ogni violenza.


Chi è senza peccato... (Raffaello Matarazzo, 1952)

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Stefano s'innamora di Maria, graziosa merciaia di un paesello d'alta montagna, che una notte l'ha salvato dalle guardie. Rimesso sulla buona strada, Stefano emigra nel Canada e dopo qualche tempo, avendo trovato un lavoro ben retribuito, decide di sposare per procura Maria. Il giorno stesso in cui s'è celebrato il matrimonio, Maria apprende che sua sorella minore, Lisetta, è stata sedotta e attende un bambino. Nel suo imbarazzo, Maria si rivolge ad una vecchia contessa, che crede sua protettrice. Maria non sa che il seduttore di sua sorella è proprio il nipote della contessa. Quest'ultima fa partire il nipote per il Brasile ed affida Lisetta ad una megera, che, per suo ordine, abbandona il neonato in un confessionale. Informatane, Maria si precipita nella lontana chiesetta dove, creduta la madre dell'innocente, viene arrestata e condannata ad un anno di carcere per abbandono d'infante. Avendo appreso la sua condanna, Stefano domanda ed ottiene l'annullamento del matrimonio. Intanto Lisetta è morta: quand'esce di pigione, Maria prende con sé l'orfano della sorella, Nino, al quale ella provvede col suo lavoro. Passano dodici anni, Stefano che nel frattempo è arricchito, torna in Italia. Egli cerca Maria, la trova ammalata e apprende tutta la verità. In un rinnovamento di amore i due si riuniscono: Nino sarà il loro caro figliolo.


Torna (Raffaello Matarazzo, 1953)

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Quando un vecchio zio muore, lascia ai suoi tre nipoti un cantiere ed una villa, ma sull'eredità gravano varie ipoteche. Uno degli eredi, l'ing. Roberto Varesi, vorrebbe rifiutare il lascito ritenendo offensive per la memoria di sua madre, alcune frasi del testamento, ma un'altra erede, la bella Susanna, lo persuade a tentare l'impresa di salvare il cantiere pericolante. Il terzo erede, Giacomo, fannullone e giocatore, non vuol saperne di partecipare all'impresa. Giacomo, che ha fatto una grossa vincita, ha per amante Viviana un'avventuriera, ma questo non gli impedisce di far la corte a Susanna. Quando questa lo respinge nannunciandogli il suo prossimo matrimonio con Roberto, i cui affari prosperano, Giacomo promette a sé stesso di distruggere la felicità dei cugini. Passano gli anni e in seguito ad oscure manovre Giacomo è riuscito a essere uno dei principali soci dell'azienda di Roberto e riesce anche a fargli credere che Susanna sia divenuta la sua amante. Fortunatamente, dopo una serie di drammatiche vicende la serenità, l'amore e la pace torneranno a regnare nella casa di Roberto.


Una donna libera (Vittorio Cottafavi, 1954)

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Liana, una ragazza di buona famiglia, laureata in architettura, è prossima alle nozze: deve sposare un giovane ingegnere, Fernando. Ma ella sente in sé delle aspirazioni ad una vita libera, indipendente, e l'incontro con un musicista, Gerardo Villabruna, rafforza in lei questi sentimenti, facendole pensare che quel matrimonio sarebbe un errore. Malgrado i richiami della famiglia, ella rinuncia al matrimonio e parte con lui per Amalfi, dove lui ha una bella villa sul mare. Passano insieme dei giorni felici poi Gerardo le dichiara dche per lui è il momento di ripartire da solo, per una tournée. Come, le precisa, le aveva preannucito, poiché egli vuole vivere solo per la musica. Liana allora va a Parigi dove ha in uno studio di architetti ha trovato un lavoro che si rivela inferiore alle sue aspettative e mal retribuito, per cui vive miodestamente copiando disegni, esposta a sofferenze e a delusioni. Un amico le fa conoscere il commendatore Massimo, un ricco armatore, uomo onesto e ricco, che s'innamora di lei e più tardi la sposa. Ma dopo un anno di matrimonio Liana riconosce di essersi sbagliata: ella conserva infatti in fondo all'anima la sua aspirazione alla libertà, all'indipendenza. In un locale notturno incontra Gerardo Villabruna, lei lascia marito e amici per andare a casa di lui dove a subito modi di rendersi conto delle sue numerose avventure, sper cui lo lascia. Abbandona però anche il marito. La morte della madre la richiama nella casa paterna, dove a lei tocca ora di provvedere alla famiglia. Essa si mostra severa con la sorella e quando viene a sapere che ha una relazione con Villabruna, ne è indignata e affronta violentemente costui. Il musicista le risponde in tono sprezzante e con fare ironico le porge la rivoltella. Liana, esasperata, l'uccide: poi va a costituirsi.


Nel gorgo del peccato (Vittorio Cottafavi, 1954)

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Margherita Valli, rimasta vedova in giovane età, con due figlioli, è stata abbandonata dal figlio maggiore, Alberto, giovane dal temperamento irrequieto, desideroso di avventure. Per anni Alberto non dà notizie di sé, ma un giorno egli riappare all'improvviso. E' con lui Germaine, donna giovane e bellissima, ch'egli mostra d'amare intensamente. Margherita accoglie affettuosamente, nella sua piccola casa, gli amanti. Alberto trova un posto presso un distributore di benzine, ma i suoi modesti guadagni non gli consentono di soddisfare le esigenze di Germaine. Un giorno Alberto incontra Filippo, l'antico amante di Germaine, al quale egli era legato dalla comune criminosa attività. Filippo, che veste elegantemente e possiede una lussuosa macchina, offre ad Alberto il posto di direttore del suo garage. Una sera egli ordina ad Alberto di portare a Napoli una macchina per consegnarla ad un cliente. Durante il viaggio Alberto scopre che nella macchina è stata nascosta una valigia piena di stupefacenti. Ritornato indietro, Alberto affronta Filippo, al quale dà una sonora lezione. Germaine, accusata a torto di complicità, cerca di ricattare Filippo, ma questi la ferisce gravemente. La polizia arresta Alberto accusandolo di tentato omicidio; Margherita induce Filippo a confessarle la sua colpa, ma egli l'uccide poco dopo.


L'angelo bianco (Raffaello Matarazzo, 1955)

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Il Conte Guido Carani ha avuto un figlio dalla sua relazione con Luisa, che per il dolore di non poterlo sposare si è chiusa in convento. Quando il piccolo muore, il Conte sente di non poter più vivere con la moglie Elena che a suo tempo, insieme alla madre di Guido, aveva impedito che sposasse Luisa. Costretta ad accettare la separazione consensuale, Elena lascia la casa portando con sé la figlia, ma entrambe muoiono durante la fuga in mare. Sconvolto da questa seconda tragedia, il Conte si abbandona alla disperazione gettandosi a capofitto nel lavoro. Durante un viaggio in treno, l'uomo conosce Lina, una giovane che somiglia in modo impressionante a Luisa, il cui ricordo è sempre vivo in lui. Ben presto tra i due nasce una relazione, ma poi Lina viene arrestata perché coinvolta in un losco affare. Dato il suo avanzato stato di maternità, Lina deve essere operata di urgenza e nel vederla il medico trova in lei una strana somiglianza con la sua assistente all'ospedale, Suor Addolorata. Lina chiede quindi di conoscere la suora e le raccomanda il bambino, pregandola di avvertire il Conte che decide di sposarla. Nel frattempo, però, un gruppo di detenute tenta un''evasione che porterà a un drammatico epilogo.


Malinconico autunno (Raffaello Matarazzo, 1958)

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Il piccolo Luca viene falsamente accusato a scuola di aver causato dei danni per un importo notevole. Il ragazzo vive con sua madre. Il padre, un marinaio, è morto in seguito a un disgraziato incidente senza aver potuto legittimare la sua unione con la donna. Questa vive ora in precarie condizioni economiche e l'accusa fatta al ragazzo avrebbe per lei conseguenze disastrose. Luca si reca al porto per affrontare il compagno che a scuola l'ha accusato e picchiarlo, ma viene assalito dagli amici del suo avversario, che lo battono duramente. Tutto pesto e piangente, attira l'attenzione di Andrea, il capitano di un mercantile attraccato alla banchina, che commosso nel vedere le condizioni in cui è ridotto il ragazzo e nell'ascoltare la sua storia, l'accompagna a scuola e, facendosi passare per suo padre, paga le 350 pesetas richieste come risarcimento danni. La sera Luca racconta alla madre quanto gli è accaduto, ma lei rimprovera il figlio per aver accettato denaro da uno sconosciuto. Con grande sacrificio la donna riesce a mettere insieme la somma occorrente e manda Luca al porto perché restituisca il denaro al capitano. Da quel momento la vita di Luca e Andrea cambierà per sempre.

Edited by drogo11 - 11/4/2021, 14:33
 
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La storia d'Italia in celluloide (fra neorealismo, propaganda e satira) - 6^ parte - Il dopoguerra. I conti con la realtà

2 / Voglia di ricominciare: il Mondo Piccolo della Commedia rurale



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Sono stati anni difficili quelli del secondo dopoguerra in Italia: anni di ricostruzione dove i soldi erano pochi ed era necessario arrangiarsi in qualsiasi cosa, anche nella produzione cinematografica. Come abbiamo visto, mentre nelle sale venivano proiettate le commedie americane che rubavano mercato a quelle italiane, alcuni registi italiani trovarono il coraggio di sopravvivere e di raccontare il dramma della guerra appena conclusa attraverso un nuovo genere, il neorealismo, il quale, in realtà, non ebbe subito un così grande successo di pubblico. L’insuccesso avvenne perché il gusto del pubblico era ancora troppo legato alla presenza del melodrammatico in scena e dei nascenti divi. In alcuni film del neorealismo, infatti, l’assenza sia dell’uno che dell’altro e la presenza assoluta della fatica e della cruda realtà priva di consolazioni non ebbe presa su di un pubblico che aveva voglia di svagarsi, divertirsi e ricominciare a vivere.

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È così che i temi si stemperano, diventando più leggeri, e non pretendevano più di essere come i film neorealisti, educativi, ma bastava trasmettere dei messaggi e soprattutto divertire il pubblico. Non venivano più usati toni epico drammatici bensì toni da commedia; si trattava infatti di narrativa popolare, brillante ricca di equivoci e travestimenti che venne chiamata neorealismo rosa per sottolinearne sicuramente la discendenza ma anche l’autonomia del nuovo genere e forse anche la degenerazione dal filone madre.

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Negli anni ’50, dal neorealismo rosa, si sviluppa la commedia rurale, quella tipologia di commedia all’italiana che descrive la vita dei piccoli paesini di provincia, di montagna, lontani dal caos delle metropoli e delle grandi città. Un cinema che si rifà alle poesie bucoliche, che hanno avuto grande fortuna nella storia della letteratura italiana. Ma questo della commedia rurale, è anche un genere ancora attuabile alla vita dei piccoli paesini di provincia dei tempi nostri. Insomma, la straordinarietà dell’intuizione, nata dalle ceneri del “neorealismo” è quella di inserire le atmosfere della poesia bucolica, tratte dalla letteratura, nel contesto storico-sociologico e geografico dell’Italia dei piccoli borghi. Quella Italia “vera” costituita di tanti piccoli paesini, con il suo parroco, il suo maresciallo, il suo sindaco, le sue famiglie perbene, le giovani fanciulle da maritare. Una Italia “vera”, una Italia da commedia all’italiana, del quale questo genere può essere tranquillamente definito un progenitore, proprio quando all’interno del racconto leggero delle trame, vi si inserisce la parte più sociologico della vita tranquilla dei piccoli paesini di montagna, allora come oggi.

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Insomma, la straordinarietà dell’intuizione, nata dalle ceneri del “neorealismo” è quella di inserire le atmosfere della poesia bucolica, tratte dalla letteratura, nel contesto storico-sociologico e geografico dell’Italia dei piccoli borghi. Quella Italia “vera” costituita di tanti piccoli paesini, con il suo parroco, il suo maresciallo, il suo sindaco, le sue famiglie perbene, le giovani fanciulle da maritare. Una Italia “vera”, una Italia da commedia all’italiana, del quale questo genere può essere tranquillamente definito un progenitore, proprio quando all’interno del racconto leggero delle trame, vi si inserisce la parte più sociologico della vita tranquilla dei piccoli paesini di montagna, allora come oggi.

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Tutto iniziò con la fine del “neorealismo” inteso come genere a parte, in cui il racconto tragico degli avvenimenti della guerra, si univa alla voglia del popolo italico di ricordare quegli anni terribili. Ma a questo punto il pubblico ha voglia di mettersi alle spalle il periodo orribile, ha voglia di divertirsi mentre sta ricostruendo l’Italia e dunque il “neorealismo” perde la sua tragicità per trasformasi in commedia rosa, definita anche (come abbiamo già visto) “neorealismo rosa”. Ma la commedia rosa, si ruralizza abbandonando la Capitale, o comunque la grande città per descrivere la tranquilla vita dei paesi di provincia, alle prese con la miseria degli anni post-seconda guerra mondiale e con la voglia di ricostruire l’Italia, di ricostruire il benessere economico, che nel 1960 toccherà il suo picco massimo.


In campagna è caduta una stella (Eduardo De Filippo, 1940)

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Due fratelli campagnoli, allevati fin da bambini - in assenza dei genitori defunti - da due loro zii, ereditano ciascuno le sostanze del proprio tutore. Ma mentre l'uno è sobrio e lavoratore, l'altro è spendaccione e amante, più che altro a parole, delle avventure galanti. Nel paese capita una giovane americana, che è venuta in Italia per sposare un nobile piuttosto spiantato e conosciuto in fotografia. La ragazza, vedendo che l'originale non è uguale alle riproduzioni fotografiche, vuole liberarsi da ogni impegno e, fuggita in auto, è ospitata dai due campagnoli. La sua presenza mette in subbuglio tutto il paese ed eccita la gelosia reciproca dei due fratelli. Uno di essi, anzi, che era fidanzato, tenta perfino di mandare a monte il progettato matrimonio. Ma, alla fine, i parenti della ragazza la raggiungono e la riportano in città, mentre i due fratelli rappacificati ritornano, con tutto il paese, alla loro esistenza quieta. Il film, tratto dalla commedia "A Coperchia è caduta una stella" di Peppino De Filippo, è considerato l'antesignano del genere Commedia rurale. Seppur girato nei giorni immediatamente precedenti all’inizio della seconda guerra mondiale, il film è avvolto da un’atmosfera quasi fuori dal tempo: è alquanto delicato e piacevole, fresco, arguto e spigliato. E azzeccata sembra, anche la ricerca di una poesia della natura, di una poesia rustica con molte riprese dei lavori nei campi.


Cani e gatti (Leonardo De Mitri, 1952)

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In un paesetto di montagna hanno luogo le elezioni municipali. Due liste si contendono i voti degli elettori: quella capeggiata dal farmacista Filippo e l'altra, di cui è magna pars Elvira, l'albergatrice che non può perdonare a Filippo di non averla sposata. Vince la lista del farmacista, che viene eletto sindaco; ma Elvira è ben decisa a rendere la vita difficile al fedifrago. A conseguire l'intento serve mirabilmente una proposta di Elvira, che riguarda l'apertura di una nuova farmacia, che dovrebbe esser gestita dal di lei nipote. Naturalmente il sindaco è contrario al progetto: una vecchia legge ammette l'apertura di più d'una farmacia soltanto nei paesi con più di tremila abitanti. Ora il paese di Filippo e d'Elvira ha precisamente tremila abitanti. Ecco accendersi la lotta tra i due partiti: quello d'Elvira propugna l'incremento delle nascite, quello del sindaco ne consiglia la limitazione. La lotta si combatte con alterna vicenda, finché la nascita di un nuovo bambino preannuncia il trionfo dell'albergatrice; ma anche la figlia di Filippo aspetta un bambino, frutto del suo amore per il nipote d'Elvira. Tutto finisce per il meglio col matrimonio degli amanti, cui seguiranno le nozze di Filippo e d'Elvira.


Don Camillo (Julien Duvivier, 1952)

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In un piccolo paese della Bassa Padana, Don Camillo, il robusto e combattivo parroco locale, e Peppone, il sindaco comunista, si trovano perennemente in contrasto e si lasciano andare a liti epocali. Quando i rossi vincono le elezioni, don Camillo, che non può impedire loro di festeggiare, si sfoga facendo suonare le campane a morto. Però quando Peppone lo umilia annunciando l'imminente costruzione di una Casa del Popolo, mentre l'oratorio non riesce a essere completato per mancanza di fondi, don Camillo, livido di rabbia e sospettoso, inizia a indagarei. I due - come al solito - finiranno col mettersi d'accordo, lasciandosi guidare dal buon senso, ma don Camillo sarà costretto dal vescovo a una 'vacanza forzata'. Il sindaco Peppone proibirà ai suoi concittadini di salutarlo, ma anche lui, come tutti gli altri, lo aspetterà alla stazione successiva. Del resto, sono amici. La pellicola è liberamente ispirata ai personaggi creati da Giovannino Guareschi in una serie di racconti (1946-47), poi riuniti in volume nel marzo 1948 dall'editore Rizzoli. Il film è stato selezionato tra i 100 film italiani da salvare o più correttamente l’elenco delle “100 pellicole che hanno cambiato la memoria collettiva del Paese tra il 1942 e il 1978”. Commedia di grande successo popolare. Campione di incassi nel nostro Paese nel 1952 grazie ai 13215653 spettatori accorsi nei cinema. Indimenticabile anche la musica composta da Alessandro Cicognini (chi non conosce il tema di Don Camillo!?). La pellicola, così come gli scritti di Guareschi, rifletteva il clima dell’Italia del dopo guerra divisa dall’ideologia, ma unita nelle cose di “buon senso”, almeno questa la visione della piccola borghesia italiana. La coproduzione Italia-Francia per una volta aiutò la riuscita del film a partire dalle alte capacità dei due protagonisti e dalla sagace regia di Duvivier che per l’occasione abbandonò la visione amara e pessimistica della vita che aveva contraddistinto le sue precedenti opere. Vennero, tuttavia, girate due versioni lievemente, ma significativamente diverse. In Italia, contro la volontà dello stesso Guareschi, le alte autorità ecclesiastiche fecero pressioni sulla produzione per avere un tono più leggero e un parroco meno “manesco”. Il regista decise così di girare due pellicole: quella francese più fedele allo spirito dei personaggi, quella italiana più fedele alla “Chiesa” con più sequenze comiche, meno botte e senza le immagini del tentato suicidio di Gina e Mariolino (gli attori Vera Talchi e Franco Interlenghi). Infine sono da segnalare due curiose differenze tra la versione francese e quella italiana: nella prima i comunisti cantano l’Internazionale, mentre nella seconda intonano Bandiera rossa; nella prima la statua della Madonna parla a Don Camillo, nella seconda è solo inquadrata.


Pane, amore e fantasia (Luigi Comencini, 1953)

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Appena giunto nel piccolo paese cui è stato destinato, il maresciallo dei carabinieri Antonio Carotenuto fa la conoscenza di Maria, soprannominata "la Bersagliera", una ragazza bella e brava, che sa difendersi dagli ammiratori troppo audaci. Il maresciallo conosce anche Anna, l'ostetrica, donna attraente, che mantiene, nei suoi riguardi, un contegno riservato. La Bersagliera è segretamente innamorata di Pietro Stelluti, un giovane carabiniere, che ricambia il suo amore, ma non osa dichiararsi. Poiché anche la nipote del parroco prova interesse per Pietro, tra le due fanciulle scoppia una lite. Le avversarie vengono condotte davanti al maresciallo, il quale per prudenza fa dormire la Bersagliera nella cella di sicurezza. La ragazza lo prega di voler provvedere ai bisogni dell'asino, unico bene della sua poverissima famiglia, e il maresciallo ne approfitta per lasciare in casa un biglietto da cinquemila lire, che la ragazza straccia, quando ne scopre la provenienza. Quando capisce che Pietro e la Bersagliera si amano, il buon maresciallo favorisce generosamente l'incontro degli innamorati. Intanto lui si avvicina ad Anna, anche se sa che ha un figlio. L’intenzione del regista è dare allo spettatore ciò che desidera: ossia narrare la vita vera, storie di vite quotidiane, tra mille difficoltà e timori. La camera da presa si focalizza tra personaggi comuni, quali abitanti di un paese devastato e le loro vicende. Raccontando come la devozione popolare, le tradizioni, e l’importanza di Dio al centro della loro vita, sostiene la comunità. La Chiesa, non quale istituzione, ma luogo in cui rifugiarsi, diventa il collante della società. L’ancora di salvezza di un popolo che spera e confida ogni giorno nella Divina Provvidenza. Quindi, è il sacerdote il pilastro di Sagliena e non il sindaco. È lui che dirime le varie situazioni. Eppure, Comencini, non lo racconta come una figura ultraterrena, ma viene mostrato come un uomo vero, attento alle esigenze dei suoi parrocchiani. Un uomo dal giudizio giusto, che non fa sconti nemmeno ai familiari. Un ruolo di rilievo, senza il quale la storia non avrebbe neppure senso. Non più uno sfondo, ma il filo conduttore che consente di tessere la trama minuto dopo minuto. Le inquadrature scivolano tra abitazioni devastate dal terremoto e altre dalla guerra. Non i soliti bei giardini, o case arredate ma, povere, piccole e essenziali. Eppure non manca mai quella bellezza che caratterizzava i contemporanei di quel tempo: l’ottimismo, la gioia e il sorriso. Un modo decisamente rivoluzionario di fare cinema. Col suo miliardo e 400 milioni d’incasso “Pane, amore e fantasia” fu campione italiano per il 1953.


Il ritorno di Don Camillo (Julien Duvivier, 1953)

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Il tenace e impulsivo Don Camillo viene trasferito in un paese sperduto di montagna, dove trova ad accoglierlo una canonica inospitale ed una chiesetta semidiroccata. Qui il parroco si sente sin da subito terribilmente solo e pensa con un pizzico nostalgia al Crocifisso della sua antica parrocchia e ai suoi continui ammonimenti. Ma anche i suoi vecchi parrocchiani sentono la sua mancanza: persino il suo eterno avversario, il sindaco comunista Peppone che, non riuscendo a piegare l'ostinazione di un latifondista, si rivolge al Vescovo per ottenere il ritorno di Don Camillo. Appena tornato, però, il sacerdote trova il modo di rinnovare gli attriti fra lui e Peppone. Sarà la minacciosa piena del Po ad avvicinare di nuovo i vecchi avversari e a farli lavorare ancora una volta fianco a fianco.


Giorni d'amore (Giuseppe De Santis, 1953)

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Due giovani contadini, Angela e Pasquale, sono promessi sposi da alcuni anni. Qualche anno prima, quando è tornato a casa dopo il servizio militare, Pasquale avrebbe voluto sposare Angela; ma al paese le nozze, per essere ritenute valide, devono celebrarsi con tutta solennità e richiedono una spesa notevole. Le famiglie dei fidanzati sono povere e il matrimonio viene rimandato d'anno in anno, finché un giorno Pasquale decide di ricorrere ad un sotterfugio. Rapirà Angela in modo che il matrimonio diverrà inevitabile e le nozze verranno celebrate in fretta e semplicità. Il piano tacitamente concordato con le famiglie viene messo in esecuzione; ma strada facendo le cose si complicano. Le famiglie, che dovrebbero fingere di litigare, litigano sul serio. Angela non se la sente di trascorrere la notte con Pasquale, ma alla fine quel che doveva succedere, succede. Malgrado l'incomprensione dei parenti, i due innamorati, che hanno vissuto la loro prima notte nuziale, vanno in chiesa e si sposano.


Pane, amore e gelosia (Luigi Comencini, 1954)

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Avendo deciso di sposare l'ostetrica del paese, Annarella, una ragazza madre, il maresciallo dei carabinieri Antonio Carotenuto è costretto a rassegnare le dimissioni. Intanto, il carabiniere Pietro Stelluti, promesso alla "Bersagliera", viene trasferito. Prima di partire, Stelluti raccomanda la fidanzata a Carotenuto, e questo fa nascere molte chiacchiere, che, arrivate alle orecchie di Annarella e Pietro, scatenano la loro gelosia. Quando ad una festa Annarella sorprende Antonio a ballare con la "Bersagliera", gli fa una scenata, mentre Pietro, dal canto suo, rompe il fidanzamento, ottenendo dal comando centrale il permesso di tornare in paese. L'arrivo del seduttore di Annarella che, pentito, vorrebbe sposarla e riconoscere il bambino, scuote i fragili equilibri. Grazie ai consigli del parroco, il maresciallo rinuncerà alle sue pretese; mentre la "Bersagliera", accusata ingiustamente e in procinto di partire con una compagnia di guitti, farà la pace col suo carabiniere. Al maresciallo non resta che sperare nella nuova ostetrica arrivata in paese. Uno dei pochi casi di "sequel" voluto a furor di popolo, “Pane, amore e gelosia”, fece ancora meglio del primo film, superando il miliardo e mezzo di lire di incassi.


Don Camillo e l'onorevole Peppone (Carmine Gallone, 1955)

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Tra Peppone e don Camillo è un periodo molto difficile dal momento che si avvicina il periodo delle elezioni e il sindaco del paesino è stato incluso nelle liste del Fronte Popolare. A dargli man forte, la Federazione invia una compagna, una donna energica e piena di attrattive a cui Peppone non rimane insensibile. La tranquillità coniugale del sindaco rischierebbe di essere minata alla base, senza l'intervento di don Camillo, che si offre di aiutarlo anche a superare l'esame di quinta elementare. Peppone ce la farà a diventare onorevole, ma è proprio quando sta per partire e rinunciare così alla fascia di sindaco e alla vita in paese, che capirà cosa conta per lui veramente nella vita.


La nonna Sabella (Dino Risi, 1957)

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Raffaele vive da molti anni a Napoli per motivi di studio, ma un giorno gli viene comunicata una terribile notizia: dovrà tornare al più presto al paese natio poiché nonna Sabella, la donna che lo ha cresciuto, è in fin di vita. Arrivato a casa, Raffaele stenta a riconoscere volti e luoghi e persino la sua amica d'infanzia, accorsa a salutarlo. Tutti in paese sono sconvolti per la malattia della donna, energica e autoritaria; però, mentre sono in molti ad esserne addolorati, c'è chi attende trepidante la sua morte. Si tratta di sua sorella, che aspetta da vent'anni di coronare il suo sogno d'amore con l'ufficiale postale Salvatore. All'arrivo di Raffaele, però, nonna Sabella guarisce miracolosamente. La sua malattia era solo un trucco per rivedere il nipote e convincerlo a sposare Lucia, la figlia di un ricco possidente locale. Il ragazzo, però, non ne ha alcuna intenzione: ha finalmente riconosciuto la sua compagna di giochi di un tempo e se ne è perdutamente innamorato. Raffaele dovrà lottare e avrà un unico alleato, Salvatore. Raro caso di film che precede la pubblicazione del romanzo di Pasquale Festa Campanile da cui era tratto ( il romanzo esisteva sotto forma di manoscritto, e venne pubblicato dopo l’uscita e il susseguente enorme successo di pubblico del film). Premiato al festival di San Sebastian e al festival del cinema umoristico di Bordighera, il film, insieme al suo immediato seguito, rappresenta l’ultimo acuto di quel neorealismo rosa-paesano che aveva riempito di sè gli anni ’50: dopo di esso, nel decennio successivo la commedia di paese si trasferirà in città.


Il medico e lo stregone (Mario Monicelli, 1957)

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Il giovane medico Francesco Marchetti arriva a Pianetta, un paesino sperduto tra i monti, dove deve vedersela con la concorrenza di don Antonio, il 'guaritore' del posto, un ciarlano in cui tutti lì ripongono la massima fiducia. I cittadini rifiutano di sottoporsi alla vaccinazione antitifica e Francesco non riesce ad ottenere neanche l'appoggio del sindaco, che non ha il coraggio di prendere alcuna posizione. Inoltre, don Antonio è molto furbo e fa in modo che l'arrivo del giovane medico non danneggi la sua fama. Però, quando un filtro d'amore venduto da Scarafone - l'assistente di don Antonio - a una ragazza innamorata del medico, per poco non lo avvelena, Francesco ha una prima rivincita. Purtroppo, però, non ci sono prove che riconducano la pozione al guaritore e, sconfitto per l'ennesima volta, il medico si prepara tornare in città. Sarà proprio don Antonio, però, a fermarlo e a chiedergli di salvare la vita a sua figlia Clamide, che ha tentato di avvelenarsi per amore di un soldato. E forse, anche Francesco scoprirà di avere un motivo per rimanere a Pianetta, la bella Mafalda, a cui il guaritore ha dato per anni false speranze sul suo amore perduto. Il film rappresenta un intelligente tentativo di rivisitare con ironia il genere bucolico. Ambientato nel solito paesino del sud escluso dal flusso della storia e del benessere economico di quegli anni, ma siamo invece a San Martino al Cimino in provincia di Viterbo, “Il medico e lo stregone” è una splendida commedia di costume sugli ostacoli che l’arretratezza culturale poneva alla modernizzazione dell’Italia. Una sfida tutta giocata sul confronto tra due attori ( che sono anche due scuole di recitazione), ovvero Marcello Mastroianni e Vittorio De Sica, con il merito di non scivolare mai nel caricaturale, mantenendo quell’ambizione di descrizione sociologica della società, tipica della commedia all’italiana.


La nipote Sabella (Giorgio Bianchi, 1958)

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Carmelina, sorella di Sabella Renzullo, ha sposato Garofaniello, mentre Raffaele, il giovane nipote di Sabella, è finalmente riuscito a convolare a nozze con Lucia. La supposta presenza del petrolio nel sottosuolo di un terreno arido e incolto che apparteneva al vecchio Renzullo, scatena rivalità e dissidi tra le due coppie giacché, in base ad una clausola del testamento del defunto proprietario, quel terreno spetta alla famiglia che per prima avrà una bambina, cui dovrà esser dato il nome della nonna. La vecchia Sabella parteggia per i giovani nipoti, ma intanto Garofaniello e Carmelina, coll'aiuto di un medico, architettano un imbroglio: lasciano la loro casa, adottano una bambina, e ritornano per vantare i loro presunti diritti. La verità verrà presto a galla e, dopo infinite peripezie, il buon senso avrà la meglio.


Don Camillo monsignore... ma non troppo (Carmine Gallone, 1961)

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Don Camillo, il parroco di Brescello, viene promosso Monsignore e trasferito a Roma, dove si trova anche Peppone, eletto senatore. I due non riescono mai a incontrarsi, ma entrambi provano una forte nostalgia per il loro paesello. Un giorno, inaspettatamente, accade il miracolo: a Brescello è scoppiata una grossa lite tra comunisti e cattolici. Il progetto per la nuova Casa del Popolo, infatti, prevede la demolizione di un'antica cappella votiva e i cittadini non riescono a trovare un accordo. Per questo motivo, il PCI da una parte e il Vaticano dall'altra non trovano di meglio che inviare sul posto, come moderatori, don Camillo e Peppone. In paese, però, i problemi e i motivi di attrito si moltiplicano e per i due sarà duro trovare ancora una volta un modo per cooperare.


Il compagno Don Camillo (Luigi Comencini, 1965)

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A Brescello, dove Peppone è sindaco e Don Camillo parroco, si sta organizzando un gemellaggio con Brezwyscewski, un paesetto della campagna russa. Al battagliero parroco l'iniziativa non piace e pensa di contrastarla utilizzando a scopo propagandistico due profughi russi che chiede di ospitare di cascina in cascina. Ma l'espediente perde di validità quando si scopre che in realtà si tratta di due italianissimi lestofanti. Il gemellaggio è deciso e Peppone compone il drappello di "compagni" che si recherà in Russia per le celebrazioni. Minacciando il sindaco di rendere pubblica una certa sua scappatella sentimentale, Don Camillo lo costringe ad inserire il nome del parroco nella lista dei cittadini diretti a Mosca. Naturalmente Don Camillo si rivela l'ospite più irrequieto, perché non può esimersi dal compiere la propria missione sacerdotale; celebra la Messa, ridà energia e coraggio ad un pope russo, spinge uno dei suoi compaesani a sposare l'interprete russa che li accompagna. Ma Peppone si vendicherà facendosi ammettere, vestito da monsignore, in una crociera di giovani sacerdoti che Don Camillo, tornato a Brescello, avrà l'incarico di accompagnare negli Stati Uniti.

Edited by drogo11 - 13/4/2021, 15:08
 
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view post Posted on 13/4/2021, 16:43
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La storia d'Italia in celluloide (fra neorealismo, propaganda e satira) - 6^ parte - Il dopoguerra. I conti con la realtà

3 / La sostenibile leggerezza dell’essere: il Neorealismo comico ed i primi passi (in rosa) della commedia all’italiana.



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Come abbiamo avuto modo di vedere, il cinema, negli anni del secondo dopoguerra, diventa per l’Italia un’arma di riscatto. Sono infatti di quegli anni i film e i protagonisti tra i più creativi e prestigiosi della storia recente. Si ricorda con orgoglio il cinema italiano degli anni 50, perché fu proprio la cinematografia a raccontare la realtà e la vita della gente comune, del popolo, con una profondità, potenza e grazia che fecero scuola in tutto il mondo. Per l’Italia fu una rinascita, sotto forma di una ritrovata “Dolce vita”.

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Ma come riuscì il paese a riprendersi dopo 20 anni di fascismo, con una società impoverita materialmente e culturalmente, sconvolta dalla guerra mondiale, cui rimaneva soltanto la sua storia e le sue bellezze? La risposta si trova proprio nella domanda. Quegli anni hanno segnato un’epoca nella moda, nella musica e nel costume ma soprattutto nel cinema proprio grazie alle vicende di quella generazione. Mentre in Italia la bellezza viene interpretata come ostacolo, ecco la svolta nella mecca del cinema anni 50, ovvero a Hollywood. Il modello italiano diventa sempre più celebre proprio grazie a molte attrici italiane di bellezza indiscussa. Risale a quest’epoca l’espansione della nostra industria cinematografica che, con gli studi di Cinecittà attirò produttori, registi e star internazionali. Roma, nel pieno della grande esplosione del cinema italiano, si trasformò dunque in un enorme palcoscenico.

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La donna mediterranea divenne protagonista, simboleggiando il fascino italiano per eccellenza. Attrici come Sofia Loren, Silvana Mangano e Gina Lollobrigida incarnarono personaggi vivi e profondi, rimasti tuttora nell’immaginario comune come esempio di bellezza. Con il tempo i registi italiani smisero di trattare la denuncia sociale, per raccontare invece chi erano diventati gli Italiani.
E poi ricordiamo che la storia del cinema italiano ha avuto la fortuna negli anni Cinquanta di avere come protagonisti una generazione di attori straordinari, che non hanno bisogno di ulteriori presentazioni, come Alberto Sordi, Marcello Mastroianni, Nino Manfredi, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman, Vittorio De Sica, solo per ricordare i più famosi. Una conferma di quanto sosteneva Dostoevskij: “Il mondo sarà salvato dalla bellezza”.

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Dopo la sfolgorante, ma breve stagione neorealista, al cinema italiano si chiese dunque intrattenimento, ma un intrattenimento che raccontasse storie vere, plausibili, autentiche, storie che avessero a che fare più da vicino con gli italiani stessi, con la loro voglia di riscatto e con la voglia di rinascita di un’intera nazione. Negli anni cinquanta quindi, si pongono le basi per quella tipologia che avrà ruolo egemone negli anni successivi; si verifica quella rivoluzione goldoniana che porterà alla scrittura più elaborata dei testi per gli autori ed una appropriazione cinematografica del genere spogliandosi da ogni giacenza teatrale e mostrando attraverso il mezzo risultante di sintesi un nuovo strumento in grado di porsi in sintonia con i mutamenti del paese. Finalmente l’Italia è un Paese pronto a voltare pagina, nonostante rimangano incertezze e smarrimenti.

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IL NEOREALISMO COMICO

Con l’esaurirsi del realismo del dolore, delle distruzioni, della povertà, della lenta fase di ricostruzione e gli ultimi sprazzi di moralismo sociale e cattolico, con l’emergere dei gusti di evasione del pubblico e con le leggi del mercato e della distribuzione, emerge subito il realismo comico seriale o ad episodi che si mutua dalla rivista e dal varietà. I personaggi escono dalle macchiette dell’avanspettacolo e diventano uomini veri di quella società italiana che da povera, in pochi anni diventerà ricca con ogni mezzo, pur sempre stracciona e cialtrona. Il realismo comico seriale o ad episodi che si mutua dalla rivista e dal varietà (Totò, Fabrizi, De Filippo, Rascel, Macario, Taranto con i film fatti su misura per la loro comicità, che ripetono le fortunate caratterizzazioni e le rinnovate macchiette dell’avanspettacolo). Nell’immediato dopoguerra Antonio De Curtis diventa rapidamente il principe del cinema comico italiano grazie soprattutto a una serie di parodie ben articolate sulla sua maschera e sulla sua capacità di improvvisazione. Neorealismo comico a tutti gli effetti con un Totò scatenato che si trova a suo agio in film che ricordano spesso le comiche del cinema muto.


Totò cerca casa (Mario Monicelli & Steno, 1949)

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Beniamino Lovacchio è affamato e senza un soldo. Rimasto senza casa in seguito alla guerra, trova rifugio, momentaneamente, in un'aula scolastica. Poi, prende possesso dell'appartamento riservato al custode del cimitero; ma la paura fa novanta e decide di tornare alla scuola. Qui, però, dopo varie avventure, viene cacciato. Quando dopo verie peripezie, lui e i suoi familiari possono prendere possesso di un lussuoso appartamento, scoprono che un imbroglione lo ha affittato contemporaneamente a vari inquilini. Fa simpatìa vedere un poveraccio che condivide i problemi di migliaia di italiani a fine anni Quaranta, ed è per questo che la pellicola, è probabilmente ,quella che più ha guadagnato al botteghino nel corso della carriera dell’attore. I registi puntano sull’attore che è in grado di reggere da solo l’intera ossatura della storia , ma molti sono gli elementi che riconducono a un ramo distinto dal genere cinematografico che imperversava all’epoca : il neorealismo. L’aver scelto un tema attualissimo quale la mancanza di un alloggio dignitoso, le ambientazioni ( per quanto concerne la prima parte della vicenda) che riportano alla quotidianità, l’uso del dialetto sono propri del film neorealista che però, proprio per la presenza del personaggio Totò, e per lo svolgimento non drammatico assume in questa pellicola un aspetto comico.


Al diavolo la celebrità (Mario Monicelli & Steno, 1949)

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Sua Eccellenza Stork, capo di una delegazione internazionale, vuol offrire un banchetto ad un maharajah e non conoscendo la lingua indiana, deve cercarsi un interprete. Ad adempiere tale ufficio è chiamato un giovane orientalista, il professor Bresci, il quale ha così l'occasione di conoscere Ellen, la bella segretaria di Stork: un sentimento di reciproca simpatia si fa strada tra i due giovani. La sera, al banchetto, per un errore di traduzione, succede un incidente spiacevole e Bresci vien messo alla porta. Rientrando nella sua povera stanza, in un impeto d'ira, egli manda tutto e tutti al diavolo. Ed ecco che il diavolo compare e, sapendo che Bresci desidera divenire celebre, gli fa gustare le gioie della celebrità, immettendo il di lui spirito prima nel corpo di un celebre tenore, poi in quello di un boxeur, che diverrà campione mondiale. Alla fine, essendo passato nel corpo di Stork, presiede un'adunanza internazionale di uomini politici, che, sotto la minaccia della bomba atomica, si sforzano d'essere pacifisti, ma finiscono col picchiarsi, provocando il lancio della bomba. A questo punto Bresci si sveglia e trova Ellen, innamorata di lui, che gli annunzia la sua nomina ad interprete.


Vita da cani (Mario Monicelli & Steno, 1950)

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Franca, una bella ragazza che lavora in una fabbrica, stanca di fare la vita dell'operaia, abbandona il fidanzato, giovane meccanico, per recarsi a Roma dove spera di trovare un amante ricco. Qui conosce Vera, ballerina in una compagnia di guitti del varietà che la presenta al direttore, cav. Martoni. Entrata a far parte della compagnia, Franca ne segue le sorti finché in un piccolo paese vicino a Milano i poveri guitti si trovano all'estremo della miseria. Franca trova due eleganti signori che le offrono un passaggio in macchina e ne approfitta insieme a Vera. A un certo punto la macchina s'arresta e Franca s'allontana con uno dei due damerini ma Vera, che è una ragazza seria, respinge le insistenze dell'altro e se ne va riunendosi al resto della compagnia. A Milano, il cav. Martoni, rimasto senza soubrette, riesce a sostituirla con una timida ragazzina, Margherita, che ottiene un successo insperato. Vera sposerà un bravo giovane, che l'ama. Franca riesce a farsi sposare da un orribile e ricchissimo industriale ma quando riconosce nel direttore del marito il suo ex fidanzato, disperata, si uccide. A Margherita viene offerta una scrittura in una compagnia di prim'ordine ma lei non vorrebbe lasciare Martoni che, invece, con un generoso stratagemma l'obbliga ad accettare.


E' arrivato il Cavaliere (Mario Monicelli & Steno, 1950)

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la locandina del film caduta sotto la scure della censura dell'epoca

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Una brigata di venditori girovaghi è accampata in una zona deserta, dove durante la guerra c'era un rifugio antiaereo. Succede che il proprietario del terreno decide di costruire lì una villetta per la sua figliola, che deve sposarsi. Questa notizia mette in allarme i girovaghi, che ricorrono al cavaliere, uno strano tipo di girovago particolarmente distinto che domina la brigata. Il cavaliere riesce infatti a mandar a monte il matrimonio, facendo comprendere al padre della sposa che il futuro genero non è che un volgare cacciatore di dote. Ma ben presto si presentano altri pericoli. Il governo ha deciso la costruzione d'una metropolitana, il cui tracciato passa attraverso il rifugio aereo. Bisogna correre ai ripari. Il ministro competente è impigliato in un'avventura extraconiugale: ed ecco il nostro bravo cavaliere, dargli la caccia, per avvertirlo che la sua consorte ha scoperto la tresca e viene a sorprenderlo. Ma il "cavaliere", salverà la situazione e il ministro riconoscente, farà sospendere i lavori della metropolitana. Ahimè! il contrordine giunge troppo tardi! Già è stata accesa la mina, che fa saltare in aria il ricovero e con esso le povere abitazioni dei girovaghi.


Guardie e ladri (Mario Monicelli & Steno, 1951)

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Esposito e Amilcare imbrogliano un turista americano con la solita patacca e vengono inutilmente inseguiti dal gabbato. I due partecipano in seguito ad una distribuzione di pacchi-dono americani, accompagnati da ragazzi che spacciano per loro figli, e vengono riconosciuti dal presidente del comitato di beneficenza americano, che è appunto il turista gabbato. Esposito scappa, ma viene arrestato dopo un lungo inseguimento dal sergente Bottoni, al quale fugge poi di mano, con uno stratagemma. In seguito alle proteste ufficiali dell'autorevole americano, Bottoni è sospeso dal servizio e perderà il posto se entro tre mesi non rintraccerà il truffatore. Il povero Bottoni nasconde l'accaduto alla propria famiglia, si mette in borghese e comincia la caccia. Scopre la casa di Esposito, ne avvicina la famiglia, fa in modo che suo figlio faccia amicizia col figlio del ladro. Finalmente Bottoni ha l'occasione di arrestare Esposito ma entrambi sono d'accordo nel nascondere la cosa alle rispettive famiglie. Esposito finge di partire per un viaggio, il sergente è riammesso in servizio e si occuperà della famiglia di Esposito, fino al giorno in cui questo potrà tornare dal suo viaggio.


Totò e i re di Roma (Mario Monicelli & Steno, 1951)

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Ercole Pappalardo, archivista capo di un Ministero, sposato con cinque figlie, si trascina in un'esistenza grama, tra preoccupazioni e ristrettezze economiche, confortato dalla speranza di una promozione. Ma una sera, mentre si trova nella galleria di un teatro, gli accade di fare uno starnuto formidabile e la fatalità vuole che l'abbondante secrezione vada a colpire il cranio del suo Direttore Generale, seduto in platea, facendolo uscire dai gangheri. Come se ciò non bastasse, il risentimento del superiore viene ancora acuito da un maledetto pappagallo, che allevato da Ercole, gli ripete le invettive imparate dal padrone. Per sbarazzarsi di lui, il Direttore, avendo scoperto che Ercole non ha la prescritta licenza elementare, l'obbliga a dare l'esame. Poiché viene bocciato, Ercole perde l'impiego. Disperato, decide di morire, con il proposito di apparire poi in sogno a sua moglie per indicarle cinque numeri che la facciano vincere al lotto. All'Olimpo è costretto a comperare i numeri alla borsa nera, ma sono veramente i numeri giusti e la sua famiglia diventa ricca. Arrestato per l'irregolarità commessa, Ercole viene portato al cospetto del Padreterno: ma quando apprende che è stato un impiegato statale, gli dice: "Allora, meriti il Paradiso!". Tutto questo però è solo un sogno.


Totò e le donne (Mario Monicelli & Steno, 1952)

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Totò, commesso in un negozio di stoffe, esasperato dalle mille proibizioni di una moglie invadente e bisbetica, cerca rifugio nella sua soffitta, dove la notte può fumare in pace il sigaro e leggere i libri gialli che tanto lo appassionano. in una di questes sue vacanze casalinghe Totò ricorda episodi della vita sua o di altri che servono a confermare le sue teorie di misogino convinto: le donne sono le prime nemiche dell'uomo, sono fonte per lui d'infiniti danni, d'insoffribili seccature. Il ricordo di un suo fidanzamento interrotto lo porta ad immaginare quello che avrebbe potuto capitargli durante il viaggio di nozze, date le odierne manie di elezioni di miss, con tutte le relative conseguenze. Il ricordo di una sua avventura con una signora sposata gli richiama alla mente gli inutili e umilianti sotterfugi cui era costretto dall'amante. Anche il comportamento di sua figlia che dopo aver accalappiato un fidanzato gli impone le più ardue prove di pazienza conferma l'esattezza delle sue teorie. Dopo una violenta lite con la moglie, che l'ha scoperto nel suo rifugio, Totò si separa da lei. Egli ne prova gran sollievo ma nello stesso tempo è costretto a rendersi conto sia dei propri difetti sia delle virtù, fin lì da lui ignorate. Al matrimonio della figlia i due coniugi si riconciliano commossi e si riuniscono.


Le infedeli (Mario Monicelli & Steno, 1952)

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L'industriale Azzali, invaghito di una indossatrice, fa sorvegliare sua moglie Luisa da un'agenzia di investigazioni nella speranza di trovare un buon pretesto per chiedere il divorzio. Della sorveglianza viene incaricato Osvaldo, giovane avventuriero di pochi scrupoli. Proprio in quei giorni Osvaldo ha incontrato la sua antica fidanzata, Liliana, che ha sposato un ricco industriale inglese il sig. Rogers. Appreso che Luisa Azzali ha per amante il proprio autista, Osvaldo la ricatta, estorcendole una forte somma. Nel frattempo egli è divenuto l'amante di Liliana, alla quale riesce a sottrarre una preziosa collana di brillanti. Del furto è accusata Cesarina, giovane cameriera, legata a Liliana da reciproco affetto. Con l'appoggio di Liliana, Cesarina trova un altro servizio ma anche qui viene commesso un furto. Liliana apprende che il secondo furto è stato commesso da una sua amica, indotta dai ricatti di Osvaldo. Decisa a vendicare la memoria di Cesarina, Liliana presenta una denuncia contro Osvaldo, ma la paura dello scandalo e l'omertà proteggono il filibustiere.



LE ORIGINI ROSA DELLA COMMEDIA ALL’ITALIANA

Sulle ceneri (ancora calde) del Neorealismo, ormai frammentato in una serie di altri filoni (generi), si sviluppa la commedia rosa, momento in cui il Cinema italiano è nelle mani di queste belle maggiorate, che attirano con la bellezza, una fisicità caratterizzata ed una ventata di sesso proibito giovani, vecchi ma anche famiglie intere. Arrivano anche le storie dei poveri ma belli e dei giovani spensierati. Poi ci sono le idee infinite dell’attualità. Non c’è mai la crisi della pagina bianca. Ogni giorno si raccolgono storie che poi saranno sviluppate: l’umorismo popolano e la satira di costume si fondono in un copione che ritrova una assoluta centralità. I nuovi sceneggiatori diventano prima romanzieri, poi cineasti. Punto di fusione tra scrittura e cinema: il trattamento. Ambientazioni borghesi o da sottoproletariato, in una società che si fa interclassista, forte satira di costume consumista, in una emancipazione economica, sociale, sessuale. Nasce la crisi del maschio e della liberazione della donna. Si prova a far nascere la riflessione su una società che cambia lasciando l’amaro in bocca attraverso la risata. Pian piano sta nascendo la commedia all’italiana.


L'onorevole Angelina (Luigi Zampa, 1947)

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Angelina è una popolana di Pietralata, sobborgo alla periferia di Roma: moglie di un vicebrigadiere di Polizia, madre di cinque figli. I tempi sono duri: Angelina si trova ogni giorno a dover risolvere il grave problema dell'esistenza. Non bastano la miseria e la carestia: bisogna anche lottare coi bottegai. Angelina è sveglia di mente, energica: quando il fornaio le nega la pasta per venderla alla borsa nera, è lei a guidare le compagne all'assalto dei magazzini. Quando l'inondazione rende inabitabili le misere catapecchie di Pietralata, Angelina guida gli sfollati ad occupare i palazzi del loro padrone di casa, il commendator Garrone, un noto speculatore edilizio. Così Angelina diventa molto popolare: le donne della borgata ne vogliono fare una deputata e le mettono in testa di fondare un partito. Vorrebbe metter d'accordo ricchi e poveri, ma Garrone la inganna e il popolo, credendosi tradito, le si rivolta contro. Garrone fa occupare i suoi palazzi dalla Polizia. Angelina si ribella alla forza pubblica e viene arrestata. Quando esce di prigione, il popolo l'acclama di nuovo, ma lei ne ha abbastanza della politica. Ha imparato che la miglior politica una donna la fa in casa propria, educando i figli, insieme al marito.


Domenica d'agosto (Luciano Emmer, 1950)

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E' il sette agosto, giorno di S. Gaetano, ed è una domenica: da Roma una folla varia e multicolore si dirige verso il lido di Ostia. Un autista porta col suo taxi la sua numerosa e rumorosa famiglia; un gruppo di giovanotti ci va in bicicletta; una ragazza di Testaccio pianta il fidanzato disoccupato per accettare l'invito d'un ricco corteggiatore; un vedovo e un'aristocratica signora, dopo aver affidato i rispettivi figli alle suore della colonia marina, si dispongono a passare insieme la giornata festiva. Intanto in città la domestica della signora esce di casa col fidanzato, un vigile urbano: la ragazza aspetta un figlio, bisogna accelerare le pratiche per il matrimonio e trovare una casa. Il disoccupato respinto s'unisce ad un gruppo di malviventi, che tentano una grossa rapina ai Macelli, ma vengono colti sul fatto. Nell'appartamento della signora aristocratica scoppia un incendio per l'inavvertenza della servetta. E' finita la domenica d'agosto: la figlia dell'autista ed uno dei giovani ciclisti, dopo aver flirtato lungamente fingendosi, l'uno all'insaputa dell'altra, aristocratici, si scoprono popolani; il vedovo è ansioso di riprendersi il bambino; la ragazza di Testaccio ha avuto una delusione.


Le ragazze di Piazza di Spagna (Luciano Emmer, 1952)

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Marisa, Elena e Lucia, lavoranti d'una grande sartoria nelle vicinanze di Piazza di Spagna, sono legate da intima amicizia. Abitano alla periferia di Roma: Marisa alla Garbatella, Elena a Monteverde, Lucia alle Capannelle. Marisa, di famiglia proletaria, è fidanzata con un operaio che minaccia di lasciarla quando inizia a fare l'indossatrice. Più tardi i due innamorati si riconcilieranno. Elena è promessa ad un impiegato: quando scopre che il fidanzato non l'ama veramente, ma mira solo al modesto appartamento in cui vive con la madre, la delusione la turba tanto da indurla a tentare il suicidio. L'amore di un onesto autista di piazza la salverà dalla disperazione, portandola al matrimonio. Lucia che è piccina, si sente particolarmente attratta dai giovanotti d'alta statura e non si cura di un piccolo ed esile fantino, che l'ama da anni, ma alla fine vincerà la costanza del fedele innamorato: Lucia finirà col ricambiare il suo affetto e diverrà sua moglie.


Terza Liceo (Luciano Emmer, 1953)

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Attraverso una serie di scene e scenette il film segue le vicende dell'anno scolastico di una terza liceale mista. Sotterfugi studenteschi, fiammate sentimentali, prove scolastiche, episodi che illustrano i rapporti tra gli alunni e i professori, tra gli alunni e le loro famiglie. Il film inizia con l'apertura dell'anno scolastico e termina con gli esami di maturità, ma il racconto non resta confinato tra le pareti della scuola, e segue, anche fuori dell'aula, ragazzi e ragazze, alle prese con la vita di ogni giorno. Il film ebbe noie con la censura perchè durante la partita di pallacanestro le ragazze indossavano i pantaloncini corti.


Le diciottenni (Mario Mattioli, 1955)

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In un aristocratico collegio femminile le allieve del terzo corso, le più grandi, sono tutte innamorate del giovane ed aitante professore di Fisica, Andrea Della Rovere. La direttrice, messa in sospetto dall'atteggiamento delle ragazze, ordina di sequestrare i loro diari, dalla lettura dei quali i suoi sospetti ricevono conferma. Due diari però mancano: quelli di Maria Lovani e di Anna Campolmi. Maria, la più brava della classe, dice di aver distrutto il proprio diario, mentre Anna, la più vivace, afferma di non averne mai tenuto uno. Da un colloquio con Della Rovere, Anna deduce che il professore ha per lei una particolare simpatia e quando una sera ella vede Maria in giardino, mentre abbraccia un uomo, nel quale crede di riconoscere Della Rovere, ella si sente mortalmente offesa e racconta tutto alla direttrice. Maria, interrogata, si rifiuta di dare spiegazioni e viene chiusa a chiave nella sua camera, mentre la direttrice convoca d'urgenza il professor Della Rovere. Quando giunge il professore, Maria è scomparsa: ha tentato di fuggire dal collegio e viene trovata, gravemente ferita, ai piedi di un alto muro. Della Rovere rivela che il misterioso uomo incontrato da Maria in giardino era il di lei padre. Questi, ricercato dalla polizia, era venuto ad abbracciare la figlia, prima di costituirsi, dopo aver raccolto le prove della propria innocenza. Anna, pentita, offre il proprio sangue a Maria, che si trova in gravi condizioni. Maria guarisce: le due ragazze sono legate ormai da stretta amicizia ed Anna minaccia di andarsene con tutte le compagne se la direttrice espelle Maria. Tutto si risolve nel migliore dei modi: il padre di Maria è assolto. Maria resterà in collegio, Anna e Della Rovere si promettono reciproco ed eterno amore. Remake di un film di quattordici anni prima Ore 9: lezione di chimica dello stesso regista.


Ragazze d'oggi (Luigi Zampa, 1955)

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I problemi sentimentali di tre sorelle, figlie di un ricco vedovo, alle prese con i problemi del matrimonio. Una fa coppia fissa con un poco di buono, un'altra è fidanzata con uno steward, la terza è stata da poco piantata in asso dal suo amante che ha deciso di non lasciare sua moglie. Peppino, il papà vedovo, combatte un po' contro tutto e tutti. Ma soprattutto contro la zia Matilde dall'influenza deleteria.


Racconti romani (Gianni Franciolini, 1955)

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Alvaro Latini esce dal carcere di Regina Coeli. La mamma e la moglie lo accolgono con freddezza e timore. Ben diversa è invece l'accoglienza di tre giovani del rione, il pescivendolo Otello, il cameriere Mario e Spartaco, ragazzo di barbiere, che considerano Alvaro come il loro capo. Infatti Alvaro, che dichiara di essersi fatta una vasta esperienza in galera, propone una serie di attività che condurrà i giovani eroi alle soglie del carcere. Seguiamo così i quattro amici nel loro tentativo di fare soldi per i fondi necessari all'acquisto di un camion, con cui iniziare una seria attività di trasporti. Infine, spacciando biglietti falsi da diecimila lire, i quattro amici finiscono in prigione, da cui li salva solo la comprensione di un maresciallo, che li rilascia in libertà. A questo punto intervengono la moglie di Alvaro, le fidanzate di Otello e di Mario, i parenti di Spartaco, che richiamano i quattro scavezzacollo al loro dovere con termini perentori, e i furbi falliti si rendono conto che la migliore strada per affermarsi nella vita è quella di lavorare con onestà.


Poveri ma belli (Dino Risi, 1956)

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In un caseggiato di uno dei più antichi rioni di Roma vivono due giovani bulli, Romolo e Salvatore, vanagloriosi e spacconi, poco amanti del lavoro, con l'animo intento ai facili amori. Romolo fa il bagnino in uno stabilimento balneare sul Tevere e Salvatore è commesso in un negozio di dischi. I due sono amici intimi ed anche le loro famiglie sono tra loro legate. Accade che non lontano dalla loro casa apre bottega un sarto che ha una bella figliola, Giovanna. I due giovani si mettono a fare la corte alla ragazza, che lavora nella bottega paterna e non disprezza i loro omaggi. I due sono molto diversi di temperamento: Romolo è gioviale e scherzoso, mentre Salvatore ha un carattere un po' aspro ed è geloso. Ciascuno dei due si crede il prescelto, mentre in realtà Giovanna è in dubbio e non sa decidersi. Alla fine risolve di promettersi a Salvatore, ma quando Romolo finge di uccidersi per il dispiacere di perderla, le cose tornano al punto di prima. E così continuerebbero per un tempo indefinito se Giovanna non incontrasse un precedente fidanzato, del quale è ancora innamorata. Romolo e Salvatore restano delusi, ma non tardano a consolarsi: ciascuno dei due supera la crisi corteggiando la sorella dell'altro. È il primo film della trilogia che comprende anche Belle ma povere del 1957 e Poveri milionari del 1959.


Souvenir d'Italie (Antonio Pietrangeli, 1956)

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Margaret, ricca ragazza inglese, mentre percorre la riviera ligure a bordo di una veloce automobile, incontra due altre ragazze, Hilde e Josette, una tedesca e una francese, che viaggiano valendosi del sistema dell'autostop. Le tre ragazze continuano insieme il loro viaggio; ma essendo rimaste senza benzina, spingono, per disattenzione, la macchina in mare. Dopo una crisi di disperazione, Margaret si lascia convincere a continuare il viaggio con le compagne, adottando il loro stesso sistema. Raggiungono così Venezia, dove un maturo gentiluomo offre loro ospitalità nel suo palazzo. Le tre ragazze non ritengono opportuno d'approfittare troppo a lungo della cortesia del loro ospite, dal quale si congedano assai presto per proseguire il loro viaggio, dirigendosi a Bologna. Qui Margaret incontra il prof. Parenti, che ha conosciuto in Inghilterra, dove questi era stato trasferito come prigioniero di guerra: tra i due è germogliato allora un sentimento d'amicizia, che la ragazza non ha dimenticato. A Firenze Josette conosce Sergio, giovanotto intraprendente, che per seguire la gaia francese abbandona una matura amante, ch'egli deruba. Ma la denuncia di costei raggiunge a Pisa l'infido, troncando bruscamente l'idillio. Tra Hilde e Gino, simpatico giovanotto del quale ha fatto la conoscenza a Roma, fiorisce, dopo un inizio burrascoso, un tenero sentimento; mentre Josette incontra un giovane avvocato, del quale riesce, con la sua vivacità, a vincere l'indifferenza, facendolo innamorare di sè. Margaret invece ha subito una grossa delusione, giacchè il memore affetto, ch'ella alimentava in cuore, non è stato ricamblato: ella decide quindi di prendere l'aereo per l'Inghilterra. Anche Hilde e Josette si congedano dai loro fidanzati, promettendo di ritornare ben presto.


Susanna tutta panna (Steno, 1957)

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Una pasticceria di Milano è rinomata per una torta chiamata "Susanna tutta panna", che costituisce una specialità della ditta. La ricetta della torta è un segreto, che viene tramandato di generazione in generazione, solo in linea femminile. La giovane e bella Susanna, ultima depositaria del segreto, è fidanzata ad un giovane, che lavora nella pasticceria e la affligge con la sua gelosia. Nel negozio è impiegato anche un altro giovane, un certo Arturo, che cerca di venire in possesso della famosa ricetta nell'interesse di un grande industriale dolciario. Un giorno Susanna, per dare una prova d'amore al suo fidanzato Alberto, scrive la ricetta su di un foglietto, che unisce alla torta destinata appunto ad Alberto. Questi scorge la fidanzata mentre mette a posto il biglietto e, accecato dalla gelosia, pensa che si tratti di una missiva amorosa ch'ella invia ad un segreto amante. Il caso vuole che la torta destinata ad Alberto sia confusa con altre, che devono essere recapitate a vari clienti. Alberto si mette alla ricerca della torta col biglietto, seguendo l'itinerario percorso poc'anzi dal fattorino. Susanna, essendosi accorta che nella torta messa da parte per Alberto non c'è il biglietto, cerca a sua volta di rintracciare le torte già consegnate, per trovare quella, cui è stato unito il biglietto. Da parte sua, Arturo spera di poter carpire il famoso segreto, mettendo le mani sulle varie torte prima di Susanna. Dopo molte peregrinazioni, il biglietto viene trovato da Alberto, che comprende il gesto della fidanzata, alla quale chiede perdono per la sua infondata gelosia.


Belle ma povere (Dino Risi, 1957)

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Romolo e Salvatore sono due giovani romani, che hanno molta voglia di divertirsi, ma poca voglia di lavorare, vivono di espedienti e di speranze più o meno fondate. Romolo è fidanzato con Anna Maria, sorella di Salvatore, e questi è promesso a Marisa, sorella di Romolo. Le due ragazze vorrebbero sposarsi presto, ma i fidanzati non hanno alcuna fretta di giungere al matrimonio, che le loro precarie condizioni finanziarie rendono ad ogni modo impensabile per il momento. I due giovani s'iscrivono ad una scuola serale, ma mentre Romolo studia con profitto radiotecnica, Salvatore si fa cacciare dalla sorella. Si rivolge ad altre attività, corre dietro alle più disparate illusioni, senza giungere mai ad un risultato concreto. Marisa invece ha trovato un posto di cassiera in una calzoleria. La vita sentimentale delle due coppie di fidanzati è un po' turbata in seguito al riaffacciarsi di Giovanna, che in passato è stata fidanzata prima all'uno poi all'altro dei due giovani. Ora è fidanzata con Franco, giovane facoltoso, che grazie all'interessamento di Giovanna presta a Romolo la somma necessaria per aprire un piccolo negozio di radiotecnico. A Giovanna non dispiace eccitare nuovamente l'interesse dei due antichi fidanzati, specialmente di Romolo, ma solo nell'intento di destare la gelosia di Franco, inducendolo ad affrettare le nozze. Intanto Salvatore, temendo di essere abbandonato definitivamente da Marisa, decide di procurarsi del denaro a qualunque costo e si mette in contatto con uno scassinatore. Fortunatamente Marisa ed Anna Maria riescono a dissuaderlo in tempo da ogni iniziativa disonesta. Alla fine l'amore trionfa su tutta la linea. Giovanna respinge il corteggiamento di Romolo che ritorna alla sua Anna Maria, Salvatore e Marisa si riconciliano e la vicenda si concluderà con un triplice matrimonio, giacché anche Franco rompe gli indugi e si decide ad impalmare Giovanna.


Padri e figli (Mario Monicelli, 1957)

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Lo studente liceale Sandro Bacci è innamorato di Marcella Corallo, una ragazza del ginnasio. Quando un giorno decidono di marinare la scuola per trascorrere qualche ora insieme, però, il preside informa i rispettivi genitori. Mentre il padre di Marcella, proprietario di una sartoria di lusso, vedovo e impenitente don giovanni, è incapace di mostrarsi severo con sua figlia, il professor Bacci, medico integgerrimo, redarguisce a lungo suo figlio prima di perdonarlo. Mentre i due padri, di comune accordo, decidono di sorvegliare meglio i due ragazzi, nel frattempo all'interno dello studio medico del dottor Bacci, si intrecciano altre storie. C'è la signora Blasi, che aspetta un figlio e tormenta continuamente suo marito. C'è Ines Santarelli, infermiera di fiducia del medico e madre di cinque ragazzini turbolenti. La signora Blasi dà alla luce due gemelli che le cambieranno la vita, mentre Ines, dal momento che uno dei suoi figli si ammala di morbillo, è costretta ad affidare gli altri a parenti e amici. Alvaruccio, il più monello dei cinque, finisce a casa di Rita, sorella di Ines, e finirà per guadagnarsi l'affetto di suo marito Cesare, che soffrirà nel vederlo tornare a casa propria. Nessun padre potrà resistere ai propri figli, tantomeno il dottor Bacci e il signor Corallo. Il film vinse l’Orso d’Argento al Festival di Berlino per la miglior regia e piacque molto a pubblico e critica proprio per la sceneggiatura, perché aveva già tutti gli ingredienti, appunto, della Commedia all’italiana.


Poveri milionari (Dino Risi, 1958)

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Due coppie di sposi romani, Romolo ed Annamaria e Salvatore e Marisa, avendo celebrato nello stesso giorno il rito nuziale, decidono di fare insieme il viaggio di nozze recandosi a Firenze. Per un susseguirsi di contrattempi e di banali incidenti il viaggio va in fumo e le due coppie, tornate a Roma, trovano una sistemazione di fortuna in un appartamentino non ancora ultimato. Accade che Salvatore, essendo uscito di casa dopo un litigio con la moglie, venga investito da un'automobile condotta da Alice, la ricchissima proprietaria dei Grandi Magazzini, ed in seguito allo choc subito perda completamente la memoria. Alice, sentendo il dovere di prendersi cura del giovane che subito le è riuscito simpatico, lo conduce nella sua sontuosa villa, dove gli offre cortese ospitalità. La ragazza s'innamora ben presto di Salvatore e lo fa nominare Direttore Generale dei Grandi Magazzini, dove Romolo lavora come commesso. Quest'ultimo fa vari tentativi per ridestare la memoria dell'amico, mosso anche dal desiderio di rientrare in possesso di una grossa somma che Salvatore aveva con sé al momento dell'incidente. Di fronte all'impassibilità dello smemorato, che ha dimenticato del tutto il suo passato, gli sforzi di Romolo risultano vani. Intanto anche Marisa si è fatta assumere come commessa ai Grandi Magazzini e ben presto attira l'attenzione dello smemorato Salvatore, che s'innamora di lei e chiede di sposarla. Invitato in casa sua, Salvatore è ricevuto da Marisa, che, assecondata dagli amici, cerca in tutti i modi di risvegliare la sua memoria. Ma i loro sforzi sarebbero inutili se Salvatore, uscendo di casa, non battesse violentemente la testa contro una vetrata, recuperando istantaneamente la memoria perduta. Recatosi da Alice per la necessaria chiarificazione, Salvatore viene licenziato e lo stesso accade a Romolo. Frattanto le due coppie vengono anche sfrattate dal padrone di casa e decidono così di chiedere asilo ai rispettivi genitori.




... continua
 
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10 replies since 18/12/2020, 04:48   831 views
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