Le stronzate di Pulcinella

LE STORIE PROIBITE DELL'UNITA' D'ITALIA(l'altra faccia del Risorgimento)

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icon4  view post Posted on 10/4/2011, 19:21
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Pulcinella291 Forum

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FRANCESCO CRISPI E LO SCANDALO DELLA BIGAMIA
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Del Francesco Crispi politico si sa quasi tutto,che fu presidente del Consiglio dei ministri italiano nei periodi 29 luglio 1887 - 6 febbraio 1891 e 15 dicembre 1893 - 10 marzo 1896, che fu prima repubblicano e poi monarchico sfegatato pure , ma non tutti sanno che quest'uomo integerrimo il quale organizzo' anche la spedizione dei mille aveva sposato Rosalia Montmasson

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che conobbe durante l'esilio in Piemonte . La donna di umili origini ,svolgeva le mansioni di lavandaia e stiratrice, mentre Crispi era un giovane rivoluzionario.In seguito al soffocamento della cospirazione mazziniana a Milano, nel 1853, Crispi fu costretto a lasciare il Piemonte e ripararsi a Malta. Rose lo seguì e i due si sposarono, nell'isola mediterranea, per poi trasferirsi a Parigi, dove vissero fino al 1858, quando furono espulsi dalla Francia, sospettati di complicità con Felice Orsini, e forzati a raggiungere Giuseppe Mazzini a Londra.
La coppia tornò in Italia nel 1859, durante la seconda guerra d'indipendenza, subito prendendo contatto con le compagnie garibaldine che preparavano lo sbarco in Sicilia e collaborandovi attivamente.
Rosalia si dimostro' una vera e propria patriota .

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Nel marzo 1860,infatti, Rose s'incaricò di raggiungere Messina a bordo di un vapore postale, affinché i patrioti siciliani rendessero possibile lo sbarco di Rosolino Pilo e Giovanni Corrao. Proseguì poi per Malta per avvertire i rifugiati Italiani dell'imminente spedizione e, sempre con il vapore postale, tornò a Genova, in tempo per unirsi ai Mille, dei quali fu l'unica partecipante femminile.[1] La leggenda vuole che si travestì da militare per imbarcarsi sul "Piemonte", contravvenendo all'ordine del marito di restare a Quarto.Durante la spedizione dei Mille si occupò prevalentemente della cura dei feriti ,operò tra i combattenti per portare in salvo i colpiti e, nell'occasione, imbracciò il fucile. Prestò il suo servizio nelle ambulanze di Vita, Salemi e Alcamo, dove i siciliani la ribattezzarono Rosalia, nome che contrassegnò poi tutta la sua esistenza, tanto da essere trasposto come vero anche sulla sua lapide.
Dopo la nomina a deputato del marito, seguirono alcuni anni di vita relativamente tranquilla, terminata qualche tempo dopo il trasferimento della coppia a Roma, quando venne ripudiata da Crispi, il quale denunciò l'irregolarità del matrimonio contratto a Malta. Il motivo di litigio tra i due, probabilmente, fu il voltafaccia di Crispi che abbandonò i repubblicani per schierarsi con i monarchici; una scelta che nella visione di Rosalia dovette apparire come un tradimento dei compagni di tante avventure e degli ideali per i quali avevano combattuto.
Il 26 gennaio 1878, Crispi prese in moglie Lina Barbagallo, giovane leccese, di nobile ceppo borbonico, dalla quale aveva avuto una figlia cinque anni prima. Il matrimonio provocò un grande scandalo che coinvolse anche la regina Margherita di Savoia, la quale si rifiutò pubblicamente di stringere la mano al ministro Crispi, dopo aver presa visione della copia fotografica dell'atto di matrimonio celebrato a Malta. Lo scandalo portò a un processo per bigamia nel quale Crispi venne assolto, avendo i giudici accertata l'irregolarità formale del matrimonio maltese, dovuta al fatto che il prete celebrante era in quel momento sospeso a divinis, per la sua attività patriottica.
Rosalia rimase a Roma, sopravvivendo con la pensione assegnata ai Mille; morì in povertà, tanto che la sua salma venne tumulata in un semplice loculo, concesso gratuitamente dal comune nel cimitero del Verano, ove ancora riposa



Pontelandolfo e Casalduni un eccidio premeditato

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" Maggiore, lei avrà sentito parlare di sicuro del doloroso ed infame fatto di Casalduni e Pontelandolfo; ebbene, il generale Cialdini non ordina, ma desidera che quei due paesi debbano fare la fine di Gaeta, ossia devono essere rasi al suolo ed i suoi cittadini massacrati": Con queste parole il generale Piola-Caselli diede gli ordini al maggiore Melegari .Poi continuo':"Ella, Sig. Maggiore, ha carta bianca ed è autorizzata a ricorrere a qualunque mezzo.Infligga a quei due paesi la piú severa delle punizioni e ai suoi abitanti faccia desiderare la morte. Ha ben capito? ".
Il maggiore Piola caselli aveva fin troppo bene compreso.

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Comincio' cosi' una carneficina.Alle quattro del mattino il 18° battaglione, comandato dal maggiore Melegari e guidato verso Casalduni dal liberale Jacobelli e dalla spia Tommaso Lucente, ricco nobilotto di Sepino, aveva già circondato il paese. Melegari si attenne agli ordini ricevuti dal generale Piola-Caselli e fece disporre a schiera le quattro compagnie di cento militi ciascuna. Dovevano aprire il fuoco di fila per incutere paura ai partigiani, che, secondo le informazioni ricevute, avrebbero dovuto difendere Casalduni da attacchi esterni; e poi attaccare il paese, baionetta in canna, di corsa, concentricamente. Le quattro compagnie ebbero il comando di carica alla baionetta dall'eroico Melegari e cominciarono la carneficina ed il saccheggio delle case e delle chiese come erano soliti fare per poi passare ad incendiarle. La prima casa ad essere bruciata fu quella del sindaco Ursini, indicata alla truppa dal servo nonché traditore Tommaso Lucente da Sepino. Sentendo gli spari e le grida dei bersaglieri, i pochi rimasti in paese uscirono quasi nudi; cercavano la montagna e trovarono la morte, infilzati dalle baionette dei piemontesi. Un certo Lorenzo D'Urso commerciante, fattosi sull'uscio per salutare i soldati, fu crivellato di colpi e poi infilzato dalle baionette; e cosí moltissimi cittadini inermi. L'eccidio fu meno feroce che a Pontelandolfo perché appunto, la gente, avvertita, era scappata. Dopo aver messo a ferro e fuoco Casalduni ed aver sterminato gli abitanti ivi rimasti, l'azzurro ed eroico maggiore Melegari chiamò a sé il tenente Mancini e gli ordinò di andare a Pontelandolfo per ricevere istruzioni dal generale De Sonnaz. Dopo un' ora il tenente ritornò, scese da cavallo e rivolgendosi al suo maggiore disse: - Possiamo tornarcene a San Lupo1 il colonnello Negri ha distrutto completamente Pontelandolfo. Ho visto mucchi di cadaveri, forse cinquecento, forse ottocento, forse mille, una vera carneficina!. Melegari: - Ci hanno fregati quelli del 36° fanteria! Casalduni era quasi vuota, qualcuno ha avvertito la popolazione!. Dalle alture i partigiani osservavano ciò che stava accadendo nei due paesi sanniti. I morti furono tanti a Pontelandolfo e Casalduni, molti di piú che a Montefalcione, San Marco e Rignano, pure eccidiate ed incendiate ……. A Pontelandolfo e Casalduni i morti superarono sicuramente il migliaio, ma le cifre reali non furono mai svelate dal governo piemontese, come mai è stato svelato il numero dei morti della guerra civile del 1860-70.

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Il Popolo d'Italia , giornale filo governativo e quindi interessato a nascondere il piú possibile la verità sui morti, indicò in 164 le vittime di quell'eccidio destando l'indignazione persino del giornale francese Patrie, filo unitario, e quella del mondo intero. Ma nessuno intervenne presso il governo dei carnefici piemontesi.


Edited by Pulcinella291 - 11/4/2011, 11:17
 
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view post Posted on 12/4/2011, 07:54
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VITTORIO EMANUELE II FU REALMENTE FIGLIO DI CARLO ALBERTO?

Partiamo col dire che Vittorio Emanuele non apparteneva alla dinastia dei Savoia ma ad un suo ramo cadetto ,i Carignano e anche nell'aspetto assomigliava pochissimo a suo padre Carlo Alberto

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altissimo di statura, smilzo, col viso lungo mentre Vittorio gia'a 40 anni era un uomo grasso ,precocemente invecchiato e con i capelli incanutiti, tanto che doveva ricorrere a continue tinture.
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Sulla sua vera identita' qualcuno avanzo' piu' di un dubbio , tutto a causa di un incidente che andiamo qui a narrare.
Nella sera del 16 settembre 1822, la nutrice di Vittorio Emanuele, Teresa Zanotti, essendosi accostata col lume in mano al lettino di lui, appiccò inavvertitamente il fuoco alle cortine di mussola che lo ricoprivano. Le fiamme si svolsero con tanta rapidità che l’augusto bambino sarebbe perito tra orribili spasimi se quella affettuosa donna, incurante di sé, non l’avesse pigliato tra le braccia e portato in mezzo della camera, dove, depostolo, gli versò acqua sopra. Quest’atto eroico salvò il bambino il quale non riportò che due scottature, una alla mano destra, l’altra al fianco sinistro; ma il fuoco appigliandosi alle vesti della nutrice, così orribilmente la devastava che essa morì, dopo quindici giorni di indicibili e strazianti dolori . Vittorio Emanuele era talmente dissimile dal padre Carlo Alberto da avvalorare l’ipotesi che non ne fosse figlio, essendo il vero erede bruciato vivo nel rogo della culla e sostituito con il figlio di un macellaio di Porta Romana a Firenze, un certo Tanaca. In effetti, la culla andò in fiamme e l’incidente è menzionato in un rapporto della polizia di Firenze; a Poggio Imperiale infatti Carlo Alberto soggiornava con la famiglia nel settembre del 1822. La cosa fu risaputa e molti si meravigliarono che il fantolino fosse sopravvissuto . Massimo d’Azeglio di tutto questo ne era convinto .



VITTORIO EMANUELE E LE MALVERSAZIONI

Pare che il Re non avesse il senso dell'economia e che prima di tutto badasse di mantenere intatto il prestigio della casa reale, tanto cfhe si era allegramente addossato le spese di manutenzione di palazzi e riserve di caccia che erano appartenuti a una mezza dozzina di dinastie spodestate.
Arrivò persino a comprare o a farsi assegnare nuove tenute per soddisfare la sua insaziabile passione per la caccia. Amava fare lussuosi regali alle sue amanti. Si vantava di essere solito corrompere gli uomini politici con regali e di servirsi di una sua polizia privata. Era circondato da truffatori di ogni genere, che sfruttavano la sua ingenuità e la sua generosità; e in fatto di contabilità amministrativa la gestione economica della casa reale non aveva fatto molti passi avanti dai tempi di suo padre. La frequenza con cui Letizia Rattazzi parla nelle sue memorie di malversazioni della casa reale, induce a pensare che suo marito Urbano debba essere stato debitore della sua influenza a corte anche all’abilità dimostrata nel districare il re da difficoltà economiche; in particolare ella ricorda quanto discredito gettassero sul re alcune equivoche operazioni finanziarie riguardanti i beni ecclesiastici e la concessione di appalti ferroviari a compagnie straniere (VE). Letizia Rattazzi aggiunse con una punta di malizia, naturalmente senza fornirne le prove, che il re percepiva con regolarità parecchi milioni l’anno dagli stanziamenti per l’esercito e che nel 1868 intascò la bella somma di venti milioni, un peccatuccio che nel bilancio fu nascosto con difficoltà (VE). Nel 1864 si fece molto chiasso intorno alla generosità regale che acconsentiva a diminuire di tre milioni la lista civile di Vittorio Emanuele; ma questa riduzione seguiva di poco l’aumento del suo reddito annuale da quattro milioni a dieci e poi a diciassette. Questa riduzione non era niente altro che un bel gesto, ed è chiaro che le spese di corte non furono ridotte in proporzione; il tesoriere di corte non aveva altro mezzo che far accumulare i debiti e ricorrere quindi al governo perché vi ponesse rimedio. I radicali protestavano perché la lista civile di Vittorio Emanuele II era superiore a quella inglese e americana (VE). Le finanze della corte costituivano sempre un problema delicato. Nel 1867 Vittorio Emanuele aveva fatto ancora un altro bel gesto, quello di rinunciare a quattro milioni della sua lista civile. Meno reclamizzato era il fatto che per far ciò egli aveva posto come condizione di ricevere in cambio una somma molto maggiore con la quale pagare i suoi debiti, minacciando in caso contrario di fare uno scandalo e di accumulare nuovi debiti. Il ministro delle finanze Sella era convinto che questa fosse una delle cause dei gravi problemi finanziari dell’Italia e in parlamento si rivolse al re, senza nominarlo apertamente, invitandolo a dare alla nazione miglior esempio di economia e di moralità (VE). Il 31 luglio 1867 Vittorio Emanuele telegrafava al Rattazzi: "Posto che la Camera è ancora in numero, La prego di fare in modo onde passi legge Lista civile, senza di ciò dichiaro di fare nuovi debiti e di non pagare gli antichi: forse ciò sarebbe un mezzo termine che potrebbe andare. Giudichi Lei se esso è adattato alla stagione" (AL).



VITTORIO EMANUELE II E LO SCANDALO DELLA REGIA DEI TABACCHI-TANGENTI E FAVORI

Lo scandalo della Regìa maturò tra il 1868 e il 1869. Presidente del consiglio era Luigi Federico Menabrea,

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uomo di assoluta fiducia dei Savoia Carignano, già aiutante di campo di Vittorio Emanuele II.Ministro delle finanze, e promotore dell’operazione, era il marchese Luigi Guglielmo Cambray Digny,

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esponente della grande proprietà terriera.La situazione finanziaria era più che preoccupante. Il nuovo Regno d’Italia si era dovuto assumere il debito pubblico degli Stati preunitari; e la guerra all’Austria, che si era conclusa con l’annessione del Veneto grazie ai successi della Prussia nostra alleata, nonostante le pessime figure fatte dall’Esercito italiano a Custoza e dalla Marina a Lissa, aveva ulteriormente dissanguato le casse dello Stato. Tirava aria di bancarotta. Il governo fece sondaggi presso banchieri italiani ed esteri, ma il disavanzo pubblico era tale che nessuno voleva concedere prestiti. Questa almeno fu la versione del governo per giustificare la clamorosa soluzione adottata: impegnare il monopolio dei tabacchi appaltandolo ad ambienti finanziari privati (ST). La cosa non era del tutto priva di precedenti: Regìe dei Tabacchi appaltate a privati o cointeressate, cioè a capitale misto, erano esistite in alcuni Stati italiani prima dell’unità. Tuttavia era inevitabile che la proposta suscitasse, oltre alla reazione scontata dei deputati della opposizione, anche molte perplessità e critiche tra i parlamentari governativi. Nel decalogo dell’uomo di potere, un comandamento fondamentale insegna, quando si vuole imporre una certa scelta, a contrabbandarla come una riforma. Usava così anche allora. E poiché nella conduzione della Regìa c’erano sprechi, inefficienza, sacche di parassitismo, la proposta di ricorrere al capitale privato fu motivata dal ministro con l’opportunità di risanare e razionalizzare l’azienda. Si riteneva utile affidare la Regìa dei Tabacchi, disse il ministro Cambray Digny alla Camera, a "una associazione di capitalisti, la quale, svincolata dai molti legami e tradizioni degli uffici governativi, potesse sradicare gli abusi, procedere a decisive riforme, ed avere l’interesse privato a sprone nell’introdurvi quelle norme e quei sistemi più semplici e capaci di cavarne un prodotto maggiore" (ST). Considerazioni: È curioso: lo Stato italiano aveva sette anni, e già un suo ministro, piemontese, parlava in termini così spregiativi di "legami e tradizioni degli uffici governativi"! (ST).
Nel campo dell’alta finanza, patrono dell’operazione Regìa fu il banchiere Domenico Balduino, amministratore delegato del Credito Mobiliare. Questi mise insieme un gruppo di finanzieri interessati all’affare, che si preannunziava ghiotto e tale fu. All’orgia di quelle che negli anni novanta del ventesimo secolo le cronache della corruzione hanno definito tangenti, e che il linguaggio meno tecnologico di allora definiva zuccherini, parteciparono sicuramente personaggi di primo piano della politica e dell’ambiente bancario. Lo stesso presidente del consiglio Menabrea, che una ventina di anni dopo, divenuto ambasciatore a Parigi, dimostrò un’estrema disinvoltura nel coltivare interessati rapporti con affaristi di fama dubbia, era uomo tutt’altro che sopra possibili sospetti. Il faccendiere internazionale Cornelius Herz, ebreo, il cui nome si ritroverà nelle polemiche seguite allo scandalo della Banca Romana, e che aveva ricevuto da Crispi una importante onorificenza italiana, era stato presentato proprio dall’ambasciatore Menabrea all’intelligente e graziosa sposa dell’illustre primo ministro d’Italia, cioè alla signora Lina Crispi. Non solo: emerse in termini certi che Cornelius Herz aveva fatto a Menabrea una serie di grossi favori per acquisirne la benevola mediazione con Crispi: aveva assunto come impiegato in una propria azienda un figlio dell’ambasciatore allo stipendio, allora favoloso, di mille lire al mese. La convenzione fra il ministro delle finanze Cambray Digny e il gruppo rappresentato dal banchiere Domenico Balduino fu firmata il 23 giugno 1868. Sulla base di quell’intesa, dal gennaio successivo una società anonima privata avrebbe gestito il monopolio dei tabacchi per venti anni (la durata fu poi ridotta a quindici) e, in cambio, avrebbe versato allo Stato italiano una anticipazione di 180 milioni di lire oro. Veramente al ministro Cambray Digny, per riassestare le finanze nazionali, occorreva una cifra superiore ma nei magazzini della Regìa c’erano tabacchi grezzi e lavorati per circa 50 milioni. E il gruppo di Balduino li acquistò. Per validità della convenzione era necessario, naturalmente il sì della Camera (l’assenso del Senato, che non era un organismo elettivo ed esprimeva in pieno le posizioni governative, era scontato). Nella sede fiorentina di Palazzo Vecchio i deputati furono convocati il 4 agosto 1868. Era già tempo di vacanza, ma il governo aveva fretta di concludere. La seduta durò quattro giorni e fu molto movimentata. Molti e autorevoli gli interventi contrari alla proposta ministeriale. Il presidente della Camera, Giovanni Lanza,

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scese dal suo seggio per poter parlare come semplice deputato e criticò duramente l’operazione: "I monopoli o bisogna sopprimerli, disse, o che li tenga il governo". Fra coloro che presero posizione contro la proposta fu anche Urbano Rattazzi. Paradossalmente il suo intervento finì col giocare a favore della proposta Cambray Digny. Appariva infatti inevitabile, in caso di bocciatura parlamentare della convenzione, la caduta del governo, ed era molto diffuso, il timore di un possibile ritorno al potere di Urbano Rattazzi, il cui nome era legato a due esperienze governative non certo felici. Circolava già insistente la voce che il ministro delle finanze, su esplicito suggerimento del banchiere Domenico Balduino, avesse provveduto a corrompere taluni deputati indecisi per assicurarsene il voto. Il clima di sospetto accresceva la tensione. Un deputato propose una sospensiva. La sospensiva fu respinta con lieve margine: 182 voti contro 201. Il governo l’aveva spuntata. Per protesta, Giovanni Lanza si dimise immediatamente dalla presidenza della Camera. Le indiscrezioni che circolavano trovavano credito, anche perché un personaggio di riconosciuta serietà come Giovanni Lanza era venuto a conoscenza di fatti che ponevano il problema del monopolio tabacchi in una luce diversa da come l’aveva presentato Cambray Digny. Risultò che all’estero alcuni banchieri si erano offerti di concedere allo Stato italiano il necessario prestito senza chiedere in cambio la privatizzazione della Regìa. Perché, allora, il governo aveva fatto ricorso alla soluzione estrema? I si dice non risparmiarono re Vittorio Emanuele: il suo zuccherino, secondo le voci, sarebbe stato di 6 milioni. Della propensione al guadagno facile dimostrata dal generale Menabrea si è già detto. Quanto al ministro Cambray Digny, manovratore principale della operazione, era inevitabile che fosse oggetto di sussurro. C’era poi il ministro della giustizia Michele Pironti, che, a giudicare dall’insistenza con cui intervenne sui magistrati, potrebbe essere stato sulla lista dei corrotti. E quanti altri ministri? Quanti deputati?


Edited by Pulcinella291 - 14/4/2011, 08:22
 
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bluab
view post Posted on 14/4/2011, 14:23




Ho letto con molto interesse questi racconti di un Italia che c'era e non c'era ma mi sa che già dava il meglio di sè...grazie del lavoro fatto, certe cose non te le racconta nessuno.
 
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view post Posted on 15/4/2011, 07:31
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Vittorio Emanuele II Re godereccio e spendaccione.

Pare che il primo re d'Italia alla sua morte nel 1878 lascio' 40 milioni di debiti .Nel 1868 il deputato Cancellieri si accorse che un residuo di venti milioni di moneta bronzea era scomparso dal bilancio. Si affrettò ad interrogare il ministero Cambray Digny, ma il ministro negò per due volte l’esistenza nelle casse dello Stato di quella somma non iscritta nella contabilità, e in genere di somme non iscritte nella contabilità statale. Dinanzi a tali dinieghi, il deputato Cancellieri, che conosceva i suoi uomini, non si ritenne soddisfatto, ma continuò le sue indagini, obbligò il ministro a confessare che la somma veramente avrebbe dovuto figurare nell’attivo del bilancio; e la Camera, per pudore, ringraziò il deputato che aveva ricuperato alla nazione venti milioni smarritisi... nella tasca di influenti personaggi. Il Petruccelli della Gattina , che fu un giornalista, patriota e politico italiano

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espresse il sospetto che il Re Galantuomo si era appropriato di una parte di quella somma e che, ormai obbligato a restituirla, lo fece grazie a una forte partecipazione che ebbe nell’affare della Regìa dei tabacchi (SM). D’altronde, quattrini finiti chissà dove ne erano corsi parecchi in quegli anni, se nel 1870 il rigoroso ministro Quintino Sella

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si trovò costretto, davanti a spese ingiustificate per centinaia di milioni avvenute fra il 1862 e il 1868, a chiedere alla Camera un voto di sanatoria con la formula pro bono arbitrio (ST). In merito alla disinvolta avidità di Vittorio Emanuele, manca una documentazione diretta, con ogni probabilità perché gli ambienti della Corona, d’accordo con i governi, provvidero a distruggere quelle carte compromettenti che lo stesso re non aveva potuto distruggere di persona.
A parere del presidente del consiglio Ricasoli, il re non avrebbe dovuto accumulare tanti debiti, né frequentare compagnie equivoche, né concedere titoli per motivi banali, bensì svolgere il ruolo assegnatogli ponendosi come esempio alla vita pubblica, cercando di spendere di più per il patrimonio artistico e meno per le donne. Vittorio Emanuele smentì la maggior parte delle accuse di Ricasoli in una replica dignitosa piena di amaro risentimento per una simile intrusione nella sua vita privata, sebbene ammettesse esplicitamente di essere stato ricattato per anni da giornalisti che minacciavano di divulgare la sua vita privata e benché aggiungesse che "s’è stabilita in Torino una camorra per succhiargli il denaro"



 
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bluab
view post Posted on 15/4/2011, 17:20




Epperò, la storia è sempre uguale: donne, soldi pubblici, giornalisti alla Corona che ricattano,sesso ; ma veramente cambia tutto e non cambia niente, come dice il gattoprdiano detto?
 
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view post Posted on 18/4/2011, 09:58
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Pulcinella291 Forum

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LA QUESTIONE DEL MEZZOGIORNO E GAETANO SALVEMINI



La questione meridionale fu un grande problema nazionale dell'Italia unita. Il problema riguardava le condizioni di arretratezza economica e sociale delle province annesse al Piemonte nel 1860-1861 (rispettivamente gli anni della spedizione dei Mille e della proclamazione del Regno d’Italia). I governi sabaudi avevano voluto instaurare in queste province un sistema statale e burocratico simile a quello piemontese. L’abolizione degli usi e delle terre comuni, le tasse gravanti sulla popolazione, la coscrizione obbligatoria e il regime di occupazione militare con i carabinieri e i bersaglieri, creò nel sud una situazione di forte malcontento. Da questo malcontento vennero fuori alcuni fenomeni: il brigantaggio, la mafia e l’emigrazione al nord Italia o all’estero.
Una volta debellato il brigantaggio, di cui abbiamo gia' parlato ampiamente, le condizioni economiche e sociali dell’Italia meridionale non migliorarono. Anzi, il fenomeno dell’emigrazione si manifestò in maniera consistente a causa delle difficili condizioni di vita nel sud Italia. Il motivo di tale fenomeno era perlopiù occupazionale. La difficoltà di trovare lavoro e di raggiungere un tenore di vita se non dignitoso almeno accettabile, portò ad un’ondata migratoria sia verso il nord Italia sia all’estero.
“Si stima che fra il 1876, anno in cui si cominciarono a rilevare ufficialmente i dati, e il 1985 circa 26,5 milioni di persone lasciarono il territorio nazionale”.
Furono diversi gli intellettuali (ma anche gli uomini di politica) che analizzarono le cause e denunciarono la questione meridionale.
Fra i più importanti troviamo lo storico socialista Gaetano Salvemini (1873-1957).

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Egli denunciò l'arretratezza del Mezzogiorno se paragonata al decollo economico avviato nel nord soprattutto da Giolitti. Quest’ultimo venne da lui definito “il ministro della malavita” per il cinismo con cui, con l’aiuto della mafia, approfittava dell’arretratezza e dell’ignoranza del sud per raccogliervi consensi.
Il 14 marzo 1909 infatti Gaetano Salvemini pubblicò sull'"Avanti" un articolo contro il presidente del consiglio Giovanni Giolitti

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accusandolo di aver incentivato la corruzione nel Mezzogiorno e di essersi procurato il voto dei deputati meridionali mettendo "nelle elezioni, al loro servizio, la malavita e la questura". Salvemini considerava l’industrializzazione estranea alle condizioni economiche e geografiche del sud e avrebbe voluto invece che si valorizzasse la vocazione agricola del meridione. Egli attaccò inoltre il Psi e la Cgil accusandoli di favorire la classe operaia settentrionale a danno dei contadini meridionali. Salvemini avrebbe voluto che il governo promuovesse la vocazione agricola del sud Italia. Chi teneva in quel momento le redini del Paese tuttavia non fu dello stesso avviso e agì a modo suo optando per leggi speciali e per interventi localizzati. Le leggi speciali prevedevano la concessione degli sgravi fiscali alle industrie e l’incremento delle opere pubbliche. Questo portò ad una crescita della spesa statale che andò ad alimentare i ceti improduttivi e parassitari. Tali ceti garantivano voti alla maggioranza al governo e in cambio ricevevano appalti di opere pubbliche insieme ad altri favori.
Un altro intellettuale di spicco, Antonio Gramsci (1891-1937), nel primo dopoguerra ideò una strategia che mirava all'alleanza tra operai del nord e contadini del sud al fine di realizzare una rivoluzione socialista italiana.


UMBERTO I DI SAVOIA (RE BUONO O DURO CONSERVATORE?)

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Umberto Rainerio Carlo Emanuele Giovanni Maria Ferdinando Eugenio di Savoia fu Re d'Italia dal 1878 al 1900. Figlio di Vittorio Emanuele II e di Maria Adelaide d'Asburgo-Lorena. Il suo regno fu contrassegnato da diversi eventi, che produssero opinioni e sentimenti opposti.
Il monarca viene ricordato positivamente da alcuni per il suo atteggiamento dimostrato nel fronteggiare sciagure quali l'epidemia di colera a Napoli del 1884, prodigandosi personalmente nei soccorsi (perciò fu soprannominato "Re Buono"), e la promulgazione del cosiddetto codice Zanardelli che apportò alcune innovazioni nel codice penale.

Da altri fu aspramente avversato per il suo duro conservatorismo, il suo coinvolgimento nello scandalo della Banca Romana,[1] l'avallo alle repressioni dei moti popolari del 1898 e l'onorificenza concessa al generale Fiorenzo Bava Beccaris per l'azione di soffocamento delle manifestazioni del maggio dello stesso anno a Milano, azioni e condotte politiche che gli costarono vari attentati, fino a quello fatale a Monza, il 29 luglio 1900. Fu anche il destinatario di uno dei biglietti della follia di Friedrich Nietzsche.

L'ATTENTATO DI NAPOLI E GIOVANNI PASSANNANTE

Appena salito al trono, Umberto I predispose subito un tour nelle maggiori città del Regno al fine di mostrarsi al popolo e guadagnare almeno una parte della notorietà di cui aveva goduto il padre durante il Risorgimento. Venne accompagnato in questo viaggio dalla moglie Margherita
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e dal primo ministro Benedetto Cairoli.
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Giunto a Napoli, il 17 novembre 1878, venne attaccato, con un coltello, dall'anarchico lucano Giovanni Passannante,

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il quale non riuscì nel proprio intento. Nel tentativo di ammazzare il monarca, Passannante urlò: «Viva Orsini, viva la repubblica universale.Passannante, colpito con una sciabolata alla testa dal capitano dei corazzieri Stefano De Gioannini, venne tratto in arresto. Sebbene avesse concepito l'attentato ed agito da solo, fu interrogato e torturato nel tentativo di fargli confessare un'inesistente congiura.
L'attentatore aveva compiuto il suo gesto con un coltellino avente una lama di 8 cm circa che, nonostante potesse rivelarsi pericoloso per la vita del re, venne definito "buono solo per sbucciare le mele", come dichiarato al processo dal proprietario del negozio ove Passannante aveva ottenuto l'arma barattandola con la sua giacca
Condannato a morte, la pena gli fu commutata all'ergastolo. La sua prigionia fu disumana e, dopo una lunga tribolazione che lo rese completamente pazzo, fu trasferito in manicomio dove passò il resto della sua vita.Passannante scontò in condizioni disumane a Portoferraio, sull'isola d'Elba la sua reclusione. Rinchiuso in una cella priva di latrina, posta sotto il livello del mare, rimase senza poter mai parlare con nessuno e visse in completo isolamento per anni tra i propri escrementi, caricato di diciotto chili di catene. Passannante era alto circa 1,60 m, la cella era alta solo 1,40 m.


LE PROTESTE IN ITALIA A SEGUITO DELL'ATTENTATO
La notizia dell'attentato produsse in tutta Italia opposti sentimenti di indignazione, da una parte, con numerosi cortei di protesta contro il tentato regicidio, cui si contrapposero coloro che invece si opponevano al re e al governo. Il giorno successivo, a Firenze alcuni anarchici lanciarono una bomba contro un corteo: due uomini e una ragazza restarono uccisi, e più di dieci persone furono ferite. Lo stesso accadde a Pisa e la notte del 18 novembre venne assalita una caserma di Pesaro. Accanto agli attentati, si registrarono diverse manifestazioni, anche apertamente favorevoli all'attentatore.Il poeta Giovanni Pascoli, intervenendo in una riunione di aderenti ad ambienti socialisti a Bologna, diede pubblica lettura di una sua Ode a Passannante. Di tale ode nulla si conosce, se non il contenuto dei versi conclusivi, di cui è stata tramandata la parafrasi: Con la berretta d'un cuoco faremo una bandiera.
Subito dopo la lettura, Pascoli distrusse l'ode; in seguito fu arrestato per aver manifestato a favore degli internazionalisti che erano stati a loro volta tratti in arresto in seguito ai disordini generati dalla condanna di Passannante.
A seguito della precaria situazione nel Paese, l'11 dicembre 1878 un ordine del giorno favorevole al governo venne respinto a grande maggioranza dalle Camere e Cairoli si dimise il successivo 19.

LE REPRESSIONI ORDINATE DA UMBERTO I
All'agitazione che scuoteva il Paese si era tentato di fare fronte con una pesante opera di repressione che investì l'intero territorio italiano: la magistratura istruì circa 140 processi contro appartenenti a circoli anarchici.

L'intera famiglia dell'attentatore, composta dalla madre settantaseienne, due fratelli e tre sorelle - colpevoli solo d'essere consanguinei del Passannante - furono arrestati già il giorno dopo l'attentato e condotti nel manicomio criminale di Aversa dove furono internati fino alla morte. Solo il fratello Pasquale riuscì a fuggire
Il sindaco del paese di origine di Passannante, Salvia di Lucania, fu costretto a recarsi al cospetto del re implorando perdono e umiliandosi al punto di offrire di mutare il nome del comune in Savoia di Lucania, nome che porta ancor oggi. Parenti e omonimi del Passannante dovettero lasciare il paese trasferendosi nei paesi limitrofi.
Tali condizioni disumane di detenzione furono oggetto di una denuncia dell'on. Agostino Bertani e della giornalista Anna Maria Mozzoni, a seguito della quale il prigioniero, ormai ridotto alla follia, certificata da una perizia psichiatrica condotta dai professori Biffi e Tamburini, fu trasferito presso il manicomio criminale di Montelupo Fiorentino, ove morì.

DECAPITATO DOPO LA MORTE

Dopo la sua morte il corpo, in ossequio alle teorie lombrosiane miranti ad individuare supposte cause fisiche di "devianza", fu sottoposto ad autopsia e decapitato e si scoprì che aveva una fossetta dietro l'osso occipitale, e si cominciò a pensare che quella fossetta era il segnale della tendenza all’anarchia di un soggetto, tanto è vero che successivamente si iniziarono ad aprire la testa di tutti gli anarchici che decedevano ed in alcuni la fossetta si trovava in altri mancava.

Il cervello e il cranio di Passannante, assieme a suoi blocchi di appunti, studiati dai fautori della teoria eugenetica sviluppata dal criminologo Cesare Lombroso, rimasero esposti sino al 2007 presso il Museo Criminologico dell'Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia di Roma, dove si trovavano dal 1936, dopo essere stati conservati presso l'Istituto Superiore di Polizia associato al carcere giudiziario "Regina Coeli" di Roma.

La permanenza dei resti in esposizione presso il Museo ha causato proteste ed interrogazioni parlamentari. Il 23 febbraio 1999 l'allora ministro di Grazia e Giustizia, Oliviero Diliberto, firmò il nulla osta alla traslazione dei resti del Passannante da Roma a Savoia di Lucania, che tuttavia avvenne solo otto anni dopo


Il secondo attentato

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Il 22 aprile 1897, il sovrano subì un secondo attentato da parte di Pietro Acciarito. L'anarchico si mescolò tra la folla che salutava l'arrivo di Umberto I presso l'ippodromo delle Capannelle a Roma, e si buttò verso la sua carrozza armato di coltello. Il re notò tempestivamente l'attacco e riuscì a schivarlo rimanendo illeso. Acciarito venne arrestato e condannato all'ergastolo.

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Analogamente a Passannante, la sua pena fu molto rigida ed ebbe gravi conseguenze sulla sua salute mentale.

Come il precedente tentato regicidio, si ipotizzò una cospirazione anti-monarchica (sebbene Acciarito avesse smentito tutto, dichiarando di aver agito da solo) e vennero arrestati diversi esponenti socialisti, anarchici e repubblicani che furono sospettati di aver avuto collusioni con l'estremista. Tra questi venne incarcerato un altro anarchico di nome Romeo Frezzi, un amico di Acciarito, perché in possesso di una foto dell'attentatore.
Frezzi morì al terzo giorno d'interrogatorio. Sorsero alcune illazioni sul suo decesso (suicidio e aneurisma) ma l'autopsia confermò che la morte avvenne per sevizie subite dagli agenti di pubblica sicurezza, nel tentativo di estorcere una confessione di connivenza con Acciarito.La sua morte avviene in seguito a un durissimo interrogatorio nel carcere romano di San Michele, durante il quale la polizia tenta di estorcere una confessione di complicità con Acciarito. Sui fatti sono state fornite diverse versioni. La prima versione fornita dalla questura di Roma afferma che il Frezzi si è suicidato battendo ripetutamente la testa contro il muro. La seconda versione parla invece di un improvviso aneurisma. Secondo la terza versione, invece, si sarebbe suicidato lanciandosi da una finestra del carcere che si affacciava su un cortile interno. L'Avanti conduce una dura battaglia per far emergere la verità. L'autopsia rivelerà che la morte del Frezzi non può essere dovuta a un suicidio, ma sarebbe da attribuirsi a un inaudito pestaggio: si parla infatti di fratture al cranio, alla colonna vertebrale con distacco completo, alla spalla destra, alle costole e lesioni alla milza e al pericardio.
La vicenda suscitò sommosse popolari contro la monarchia.

Le proteste per l'omicidio di Romeo Frezzi

I funerali si tengono il 9 maggio e sono costituiti da una grande manifestazione contro la monarchia. Anche il 22 agosto, parte da Campo de' Fiori una manifestazione di 15000 persone contro gli assassini "morali e materiali" del Frezzi. Anche in Parlamento gli esponenti dell'estrema sinistra chiedono chiarezza sul caso, ma De Rudinì, allora capo del governo, si assume personalmente la responsabilità di fermare ogni indagine per scongiurare pericoli di sovversione. Il questore di Roma viene trasferito; le guardie carcerarie coinvolte vengono inizialmente arrestate, ma al processo (28 maggio) verranno assolte per "insufficienza di indizi" e lo stato si limiterà ad esonerarle dal servizio; i vertici della questura saranno invece assolti per "inesistenza di reato".
Il processo contro gli altri presunti complici di Pietro Acciarito, invece, si conclude nel novembre del 1897 con un "non luogo a procedere contro tutti gli imputati per difetto e insufficienza di indizi". Si tratta degli anarchici Pietro Colabona, Cherubino Trenta, Aristide Ceccarelli, Ernesto Diotallevi, Federico Gudino, Ettore Sottovia, Umberto Farina ed Eolo Varagnoli.

Le rivolte in Italia e l'uso dei cannoni contro la folla a Milano

Abbiamo visto che Negli anni immediatamente successivi all’unità, era stato particolarmente il Sud a esprimere un profondo malcontento attraverso il fenomeno del brigantaggio, tanto che nel 1863 il governo (di destra, retto da Minghetti) vara una — se non la prima — di quelle innumerevoli “leggi speciali” che sono tuttora il piatto forte della legislatura nostrana: la legge Pica, che stabilisce lo stato di guerra nei territori dell’ex Regno delle Due Sicilie e contempla l’adozione della legge marziale. Risolto, almeno in apparenza e alla piemontese, il problema del brigantaggio, ecco che fra il 1868 e il 1869 si assiste al sorgere dei cosiddetti moti del macinato, scaturiti dalla spontanea sollevazione popolare contro il rincaro del prezzo del pane. Con fasi alterne, la protesta serpeggia più o meno latente in tutta Italia fino al 1874 (secondo governo Minghetti), quando in Emilia Romagna si verifica un tentativo insurrezionale soffocato sul nascere dall’opportuno intervento di quelli che una volta si chiamavano delatori e che oggi si fregiano del titolo di “collaboratori di giustizia”.
La situazione si fa rovente a partire dagli anni Ottanta, che registrano una serie di scioperi nel Nord: (a Cremona nel 1882 e in provincia di Rovigo nel 1884, sotto il governo Depretis, di sinistra). La catastrofe di Dogali nel 1887 (26 gennaio, governo Depretis) e lo scandalo della Banca romana nel 1889 (governo Crispi, di sinistra) non migliorano l’immagine delle istituzioni statali e delle forze politiche che le rappresentano presso il popolo. Il decennio successivo si apre con altre violente sollevazioni popolari nel Sud della penisola, che confluiranno nella fondazione dei Fasci siciliani fra il 1893 e il 1894; contemporaneamente il mondo contadino si agita anche in Lunigiana. Crispi, succeduto a Giolitti dopo lo scandalo del 1889, reprime le rivolte di contadini e minatori con l’aiuto dell’esercito, ponendo la Sicilia in stato d’assedio e riportando in auge, a ottobre, leggi speciali “contro la sovversione sociale” che decretano lo scioglimento delle associazioni operaie e socialiste.
La sconfitta di Adua, nel 1896 (1° marzo, governo Crispi), dà la mazzata finale al già compromesso prestigio del governo: nei giorni successivi, in tutta Italia si riaccende l’avversione per l’avventura africana; a Milano, Genova, Ancona e Napoli la rabbia popolare esplode in manifestazioni spontanee al grido di “Via dall’Africa!” e “Abbasso Crispi!”. I fatti più gravi accadono a Milano, dove le truppe affrontano la folla e un soldato uccide un operaio con un colpo di baionetta; il 5 marzo i manifestanti invadono la stazione ferroviaria per impedire che interi reparti dell’esercito partano per l’Africa. Anche a Parma si svolgono scene analoghe, e nel giro di pochi giorni Crispi, travolto dalle proteste, deve dimettersi; gli succede un altro siciliano, il marchese Antonio Starabba di Rudinì

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(il cui governo verrà detto “dei galantuomini”), che concede un’amnistia ai detenuti politici per calmare le acque – in sostanza la politica governativa non si sposta di una virgola, anzi il nuovo governo intensifica fino al parossismo le misure repressive contro i “sovversivi”.

La pessima annata del 1897 e la conseguente stagione di rincaro della vita esasperano gli animi: il 1898 segna l’esplosione di una irrefrenabile collera popolare accumulatasi in quarant’anni. Solo tenendo conto di questo panorama (qui peraltro solo abbozzato) si può comprendere in tutta la sua portata il peso politico degli accadimenti del 1898. Non è azzardato sostenere che il 1898 rappresenta un autentico spartiacque, il punto cruciale in cui convergono e si intrecciano molti problemi fondamentali dell’Italia contemporanea, e fra i quali forse si annidano anche i prodromi del terrorismo di Stato.

1898, annus horribilis e la rivolta del pane in tutta l'Italia


L’anno si apre con una vittima, la prima, proprio in Sicilia: è il 2 gennaio quando, a Siculana, la polizia spara sulla folla che protesta per avere pane e lavoro uccidendo un contadino. Innumerevoli manifestazioni, sempre represse dal governo, si svolgono in tutta Italia per il pane, il lavoro e contro le imposte (i contadini sono costretti a pagare un’imposta anche sugli animali da tiro): a Santeramo, nelle province di Modena e Bologna, a Canicattì, a Montescaglioso intervengono interi reparti di fanteria, e la polizia arresta decine di persone.

Il 15 gennaio il prezzo del pane viene portato da 45 a 50 centesimi al chilo. La reazione popolare non si fa attendere: il 16 gennaio la polizia carica i manifestanti a Forlì, e fra il 17 e il 20 la rabbia popolare esplode anche ad Ancona e a Senigallia, dove interviene un battaglione di fanteria inviato da Pesaro, nonché a Macerata, Matelica, Iesi, Osimo e Chiaravalle. Il 20 gennaio Ancona viene affidata al generale Baldissera il quale, assumendo i pieni poteri militari, ordina arresti di massa. Intanto il governo decreta la riduzione di due lire al quintale del dazio sul grano.

La rivolta viaggia in tutte le direzioni: si manifesta a Trapani, Gallipoli, Firenze, Voltri (dove gli scontri fra gli operai licenziati da un cotonificio e la polizia fanno due morti, quattro feriti e una quarantina di arrestati); nei giorni e nelle settimane seguenti, scioperi e tumulti si contano a decine in Sicilia, in Campania, nelle Marche. Il 3 febbraio Perugia è posta in stato d’assedio. Il 16 febbraio la polizia interviene contro una manifestazione a Palermo. Il 18, a Troiana, la truppa spara su disoccupati, donne e ragazzi: il bilancio è di cinque morti e ventotto feriti. Il paese, posto in stato d’assedio, viene letteralmente invaso da due compagnie di fanteria. Il 22 febbraio, a Modica, soldati e carabinieri fanno cinque morti.

In marzo, a Bassano sono gli alpini a intervenire contro la popolazione, mentre a Molinella vengono arrestati un sindacalista e cinquanta mondine, e sciolte le cooperative.
Le masse, già provate da un inverno durissimo, si riversano in piazza a Ferrara, Faenza, Pesaro, Napoli, Bari e Palermo. La protesta, mai così giustificata, divampa in tutto il paese, e le forze dell’ordine sono chiamate a intervenire dovunque. Il 25 aprile cavalleria e carabinieri occupano Bari, messa in stato d’assedio, mentre dal mare l’incrociatore Etruria punta i cannoni sulla città. Il 28 aprile il sindaco di Foggia viene costretto a ridurre il prezzo del pane, mentre le truppe reprimono la manifestazione con la consueta durezza. Il 30 aprile la polizia stronca numerose manifestazioni in Campania, dove la gente chiede soltanto “pane e lavoro”. I fermenti, non più contenuti dalle normali misure di pubblica sicurezza, si allargano a macchia d’olio coinvolgendo Rimini, Ravenna, Benevento e Molfetta, finendo con l’interessare, in breve tempo, gran parte della penisola. Il 1 ° maggio, a Molfetta si contano cinque morti, e il 5 maggio altri due. Da Bari accorre la fanteria, mentre anche a Minervino e altrove nella regione si accendono qua e là focolai di protesta: la situazione è critica, e il governo affida la Puglia al generale Pelloux. L’1 e il 2 maggio la truppa spara a Bagnacavallo: sei morti; il 2 maggio, un morto a Piacenza e uno a Figline Valdarno; il 4 maggio, 4 morti a Sesto Fiorentino. Il 5 maggio la protesta, ormai generalizzata, assume una svolta decisiva a Milano: comincia qui la tragica catena di eventi che sfoceranno in un epilogo sanguinoso.

L'uccisione di Muzio Musso, figlio del sindaco di Milano
e la rivolta della citta'


In quello stesso giorno, infatti, a Pavia, la polizia fronteggia una manifestazione popolare. Il giovane Muzio Musso, figlio del sindaco di Milano, tenta un’opera di mediazione per evitare un eccidio, ma viene ucciso dagli agenti. A Milano, saputo il fatto, l’opinione pubblica al completo si commuove e si indigna. In meno di 24 ore l’organizzazione sindacale si attiva facendo stampare un manifesto e dei volantini di protesta, la distribuzione dei quali viene affidata ad alcuni iscritti.

Milano, 6-9 maggio 1898


È il 6 maggio: verso mezzogiorno, alcuni agenti di polizia si infiltrano tra gli operai della Pirelli di via Galilei; approfittando della pausa pranzo, in fabbrica si aggirano dei propagandisti che distribuiscono i volantini di protesta, su cui fra l’altro sta scritto che è il governo il vero responsabile della carestia che travaglia il paese. La polizia arresta sindacalisti e operai, e deve muoversi Filippo Turati (deputato dal 1896) per farli rilasciare praticamente tutti: in questura ne resta solo uno.

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I lavoratori della Pirelli reclamano la liberazione del compagno, e la loro protesta riceve la solidarietà delle maestranze di altre fabbriche cittadine. La giornata volge al termine, ma non il braccio di ferro tra operai e polizia: verso sera, in risposta alla sassaiola di un gruppo di dimostranti, la polizia spara qualche colpo; una compagnia di soldati, che si stava recando sul luogo per presidiare la zona, accorre e senza neanche sapere cosa stia succedendo apre il fuoco. Il bilancio è di tre morti e numerosi feriti.La popolazione milanese reagisce compatta: per il giorno seguente, 7 maggio, viene proclamato uno sciopero generale di protesta al quale la cittadinanza aderisce in massa riversandosi nelle strade principali della città. Entra in azione la cavalleria, il cui effetto viene però vanificato dalle barricate prontamente erette e dalle tegole lanciate dai tetti delle abitazioni.
Nel pomeriggio di quella stessa giornata, il governo, irremovibile nel vedere dietro i disordini una inesistente trama rivoluzionaria, decreta per Milano lo stato d’assedio, affidando i pieni poteri al generale Fiorenzo Bava Beccaris

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che insedia sotto una tenda da campo, in piazza del Duomo, il suo quartier generale.L’8 maggio i cannoni entrano in azione contro le barricate e la folla, composta come sempre anche da donne, vecchi e bambini. L’ordine è di sparare ad alzo zero: restano uccise centinaia di persone, e accanto ai morti si potranno contare oltre un migliaio di feriti più o meno gravi. Il numero esatto delle vittime non è mai stato precisato, ma stime ragionevoli lo fanno risultare senza dubbio superiore a quello dei milanesi “caduti per la patria” durante le famose Cinque giornate del 1848 — circa 350 (le autorità di allora giocarono al ribasso, fissando in un centinaio i morti e in circa 400 i feriti).

IL REGICIDIO


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Era Il 29 luglio 1900, Umberto I fu invitato a Monza per onorare con la sua presenza la cerimonia di chiusura del concorso ginnico organizzato dalla società sportiva Forti e Liberi, a cui erano presenti le squadre di Trento e Trieste. Dopo aver cenato, si avviò verso il padiglione attraversando la folla festante.Sebbene fosse solito indossare una cotta di maglia protettiva sotto la camicia, a causa del gran caldo, e contrariamente ai consigli degli attendenti alla sicurezza, quel giorno fatidico non la indossò. Tra la folla si trovava anche l'attentatore, Gaetano Bresci, con in tasca un revolver a cinque colpi.

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Il sovrano si intrattenne per circa un'ora, era di ottimo umore: «Fra questi giovanotti in gamba mi sento ringiovanire». Decise di andarsene verso le 22.30 e si recò verso la carrozza, mentre la folla applaudiva e la banda intonava la Marcia Reale. Approfittando della confusione, Bresci fece un balzo avanti con la pistola in pugno e sparò tre colpi in rapida successione. Umberto venne colpito a una spalla, al polmone e al cuore. Il re avrebbe balbettato: «Avanti, credo di essere ferito», rivolgendosi al generale Ponzio Vaglia.

Subito dopo, i carabinieri si scagliarono su Bresci (che non oppose resistenza) e lo arrestarono, sottraendolo al linciaggio della folla. Intanto la carrozza giunse alla reggia di Monza, la regina, avvisata, si precipitò all'ingresso gridando: «Fate qualcosa, salvate il re». Ma non c'era più nulla da fare, il re era già morto.

La sua salma venne tumulata nel Pantheon; il 13 agosto diventò giorno di lutto nazionale. Bresci venne processato il 29 agosto e condannato all'ergastolo, poiché il figlio di Umberto I, il nuovo re Vittorio Emanuele III, gli concesse la grazia (era in vigore la pena di morte per il regicidio e l'alto tradimento, oltre che per i crimini di guerra). Il luogo dell'attentato è segnato da una Cappella costruita nel 1910 su disegno dell'architetto Giuseppe Sacconi

GAETANO BRESCI SI SUICIDO'? O "FU SUICIDATO?"


L'attentatore di Umberto I fu processato un mese dopo i fatti , una vera e propria formalita' sbrigata in poco più di mezza giornata, affermò di non aver avuto complici, come invece l’accusa cercava di sostenere, ed ebbe comportamento fermo e lucido, rivendicando e motivando la giustezza del suo gesto.Poco potè fare il suo difensore Merlino, sarà condannato all’ ergastolo con sette anni di segregazione cellulare.Trasferito prima a Portolongone, poi a Santo Stefano di Ventotene, vi muore nel Maggio 1901; impiccandosi con un tovagliolo, secondo la versione“ufficiale”, (con “ elementi” che già lasciavano perplessi sulla dinamica dei fatti ) o più probabilmente assassinato, come sostenuto sin dall’inizio dagli anarchici. Recentemente la ricerca storica ha fatto emergere nuove incongruenze che sembrano sostenere questa tesi, come la scoperta di un ispettore mandato da Roma per indagare sul suicidio, e presente diversi giorni prima del fatto sull’isola .La circostanza, insieme allo stato del corpo segnalato dai medici all’autopsia, ( avanzata decomposizione in rapporto al tempo trascorso dalla morte) fa ipotizzare che Bresci possa essere deceduto prima di quanto detto .Il Bresci passerà alla storia come il folle anarchico che uccise il re d’Italia, ma Umberto I passerà alla storia come il re che uccise i suoi sudditi




continua

Edited by Pulcinella291 - 27/4/2011, 08:50
 
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ANTONIO GRAMSCI E LE SUE CRITICHE AL NOSTRO RISORGIMENTO

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La critica al Risorgimento ha una lunga tradizione. Cominciò nel momento stesso in cui fu proclamato il Regno d'Italia, nel 1861, per voce di coloro che si erano battuti per un altro esito, diverso da quello rappresentato dalla monarchia cavouriana. Da allora in poi quella critica ha occupato un posto centrale nel discorso pubblico del Paese. Non a caso tutte le culture politiche dell'Italia del Novecento, dal socialismo al nazionalfascismo, al cattolicesimo politico, all'azionismo, al comunismo gramsciano, si sono fondate per l'appunto su una visione a dir poco problematica del modo in cui era nata l'Italia. Basta ricordare i nomi di alcuni loro fondatori: Oriani, Sturzo, Gobetti, Gramsci. Ma attenzione: questa critica, sebbene spesso assai aspra, ha sempre osservato un limite. E cioè si è sempre ben guardata dal divenire una critica all'unità in quanto tale, non ha mai ceduto alla tentazione di mettere in dubbio il carattere positivo dell'esistenza dello Stato nazionale.
Gramsci discusse molto su tutto il processo storico che porto' all'Unita' d'Italia che defini', una " rivoluzione mancata " - e la causa e la natura di tale "mancanza" sono state essenzialmente di carattere sociale".
Egli ritenne che il risorgimento avrebbe potuto e dovuto ugualmente assumere un carattere rivoluzionario, acquisendo il consenso dei contadini. Proprio questi ultimi costituivano, infatti, quella massa popolare la cui partecipazione all' azione risorgimentale le avrebbe dato un sostanziale contenuto sociale e un adeguato impulso rinnovatore. Invece il processo storico , secondo Gramsci favori' non solo l' unificazione della penisola ma anche la crescita della borghesia, gettando con ciò alcune premesse per lo sviluppo di una fase capitalistica in Italia.

Il sud abbandonato

In effetti, per un verso il neonato capitalismo (concentrato nelle sole regioni settentrionali), non ha potuto usufruire di un adeguato mercato per i suoi prodotti, a causa dell' arretratezza economica della società italiana, soprattutto meridionale. Per un altro verso le masse indigenti (in primo luogo i ceti contadini) abbandonate sostanzialmente a loro stesse, non sono riuscite a divenire parte attiva della nuova compagine statuale.
La celebre frase di Antonio Gramsci sul “risorgimento”, che dimostra come il giudizio negativo non sia solo appannaggio della cosiddetta destra legittimista: “Quella piemontese è stata una feroce dittatura che ha messo a ferro ed a fuoco l’ITALIA Meridionale e le isole, crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli “scrittori salariati” tentarono di infamare con il marchio di Briganti.”



L'ANNESSIONE DEL VENETO FU PLEBISCITO O TRUFFA???


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Dopo la Seconda guerra d'indipendenza, che portò all'annessione del 1859 della Lombardia al regno di Sardegna, tutta la penisola venne unita sotto un unico regno con l'esclusione dello Stato pontificio, del Trentino, del Veneto e della Venezia Giulia.

L'occasione per l'annessione del Veneto venne con quella che in Italia viene definita terza guerra di indipendenza, in realtà evento correlato alla guerra austro-prussiana del 1866. L'Italia si alleò con la Prussia contro l'Austria, rifiutando anche l'offerta di Napoleone III per la neutralità in cambio della Venezia Euganea. L'intervento italiano fu un fiasco, tranne le operazioni di Giuseppe Garibaldi in Trentino, ma, con la Pace di Vienna, l'Italia ottenne il Veneto che fu ceduto dall'Austria a Napoleone e da questi ai Savoia, con il patto che essi si impegnassero a non attaccare da sud l'Impero e a svolgere dei plebisciti, i quali sancirono una schiacciante vittoria per l'unità.

Veniva così risolta la questione veneta con l'annessione all'Italia
La questione veneta è ritornata alla ribalta negli ultimi decenni, sfociando al noto assalto al campanile di San Marco ad opera dei Serenissimi (8 maggio 1997).

Il punto su cui si basano le ragioni di coloro che oggi mettono in discussione questione veneta è nelle modalità con cui venne condotto il plebiscito nel 1866. Qualche storico ha considerato infatti che si fosse proceduto ad una "farsa": in pratica i votanti non erano censiti in liste elettorali e il voto non era segreto. Il popolo, in pratica, sempre secondo questa tesi, non era libero di esprimersi liberamente, ma si ipotizzava un clima intimidatorio da parte delle truppe dei Savoia e dei veri e propri brogli elettorali.

Il problema che bisogna comunque ricordare è che i Veneti non erano chiamati ad esprimersi a ricostituire la Repubblica Veneta, ma semplicemente ad indicare se essere annessi all'Italia o se continuare a rimanere come stato formalmente autonomo (Regno Lombardo-Veneto) sotto l'Austria. Quindi, ammesso che la teoria del plebiscito-farsa risultasse vera (d'altronde gran parte dei plebisciti del genere all'epoca, fino a dopo la seconda guerra mondiale, in tutta Europa lo erano probabilmente stati, da quelli per annettere Nizza alla Francia o la Sicilia all'Italia a quelli per l'annessione dei Paesi Baltici all'URSS, dati i risultati delle votazioni spesso favorevoli oltre il 99%), occorre anche considerare che, alla luce dei moti del 1848-'49 e delle politiche autoritarie del governo austriaco (l'autonomia lombardo-veneta non aveva avuto alcun reale significato) il voto reale avrebbe potuto comunque favorire l'Italia. Rimane il fatto che, se i Leoni di San Marco poterono essere nuovamente issati sulle colonne delle principali piazze di Veneto e Friuli solo dopo la fine del dominio austriaco, una parte consistente della popolazione, ed anche della classe dirigente, rimase sotto forte influenza dalla cultura austriaca (tedesca) fino a dopo la seconda guerra mondiale, per cui l'effettivo risultato potrebbe rimanere a lungo oggetto di discussione.




Edited by Pulcinella291 - 27/4/2011, 19:08
 
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bluab
view post Posted on 28/4/2011, 10:38




Ti leggo e sono sempre più atterrita con le analogie con la brutalità di eventi degli anni 70 e di come mamma mia! che tragedia fu l'unione italiana dopo i Mille.
Mi sa che alla fine divento leghista del sud
Grazie di questa tstimonianza storica stupenda e credo molto obbiettiva
 
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view post Posted on 15/11/2015, 10:48
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DA rileggere please
 
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Andrea Cammarota
view post Posted on 29/10/2018, 20:36




Ehi Pulcinella, quante notizie storiche..., grazie..., da leggere e rileggere con passione piano piano e con estrema attenzione riflessiva..., siamo sempre di più, ci stiamo rendendo conto, stiamo aprendo gli occhi, siamo ormai in tanti, e questo ci fa onore, "abbiamo il sole, il mare, l'aria, la terra, ci stiamo riprendendo le nostre verità, un passo dopo l'altro, stiamo andando avanti, credo, nella giusta direzione, con l'apporto di notizie vere, con prove vere e accertate date da tanti ricercatori come voi e tanti altri bravi come voi, di storie semplici e complesse, piccole e grandi di vite realmente vissute, ognuno nel suo spazio, piccolo o grande che sia, sempre più grande...; sì, ma quando, quando, quando ancora dovremo attendere per vedere, per sentire, per provare, per vivere, per toccare con mano realmente e fattivamente sulle nostre terre natie, i risultati pratici delle nostre Grandi Sacrosante Verità Storiche? Quando vedremo finalmente la nuova recente Real Casa di Borbone delle Due Sicilie sul trono che le spetta di diritto? Nella sua integerrima nobiltà, onestà e dignità, la Real Casa di Borbone delle Due Sicilie continua ad essere acclamata e osannata, (almeno dalle notizie anche fotografiche che ho appreso da varie associazioni meridionaliste) in molti paesi del Sud Italia e, smentendo, mi sembra, false notizie apparse sui mass media di parte, S.A.R. il Principe Carlo di Borbone delle Due Sicilie Duca di Castro, sembra, se non ricordo male, abbia dichiarato con estrema fermezza e decisione, che non ha mai e poi mai, rinunciato alla corona del Regno delle Due Sicilie.
Sono commosso ed entusiasta per l'apprezzamento calorosissimo ed amoroso che tutta la gente di molti comuni del Sud Italia ha mostrato alla venuta dei nuovi eredi di Casa Reale di Borbone, S.A.R. il Principe Carlo di Borbone delle Due Sicilie Duca di Castro, S.A.R. la Principessa Camilla di Borbone delle Due Sicilie Duchessa di Castro, S.A.R. la Principessa Maria Carolina di Borbone delle Due Sicilie, S.A.R. la Principessa Maria Chiara di Borbone delle Due Sicilie, S.A.R. la Principessa Beatrice di Borbone delle Due Sicilie, S.A.R. la Principessa Anna di Borbone delle Due Sicilie, una vera Grande famiglia unita. Quindi, da ciò, si dovrebbe dedurre, se non erro, che tutti gli altri, gli invasori perfidi nordisti, i piemontesi, i savoiardi, i garibaldini, la cricca malefica anglosassone, i risorgimentalisti, la dannatissima storiografia ufficiale di parte nordista, i vermiciattoli traditori, i corrotti e i corruttori, i falsari e i malfattori, i mandanti e i mandati, i beneficiari e i lecchini, ecc., ecc., siano stati obliati, esclusi, abbandonati, insomma siano stati tutti mandati via affangulooo, fischiati, con pernacchie, calci in culo e quant'altro appresso meritano...??? Le tantissime foto, peraltro molto ben riuscite delle tante manifestazioni e iniziative organizzate in onore dei principi reali di Borbone, sembrano avvalorare, senza alcun dubbio, il grande amore che la gente di questi luoghi del Sud prova per i Borbone.
Ciao carissimo Pulcinella, sono stanchissimo con gli occhi e con la mente; non riesco ad essere lucido in questo momento, non riesco a rileggere ciò che ho scritto, anche se apprendo giorno per giorno sempre cose nuove, interessantissime e ringrazio tutti, ma mi servono pause di riflessione e tanto, tanto riposo, solo pause e riposo, non incazzamenti e scazzamenti, nooo! Non sono proprio il tipo, anche se una mia lontanissima estroversa parente, poetessa, diceva a mio padre Mattia, mi sembra, in perfetta lengua napulitana, non so se la scrivo bene: "Mattì..., acqua ca nun puzza, fète!" - Quindi, io, che sono a prima vista un tipo calmo (in realtà non lo sono mai dentro di me), tengo tutto dentro, attendo il trascorrere del tempo, sperando che le intricate questioni si risolvino in modo pacifico, nel momento in cui, per la troppa saturazione interna, arrivassi a quell'apice critico di non ritorno, e dovessi putacaso esplodere, buttando fuori tutto il contenuto tenuto chiuso dentro per anni ed anni, che succederebbe??? Punto interrogativo.
Grazie Pulcinella, mi rendo conto che questo spazio è realmente ricco di notizie interessantissime.
 
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view post Posted on 10/12/2023, 11:50
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