LA QUESTIONE DEL MEZZOGIORNO E GAETANO SALVEMINI
La questione meridionale fu un grande problema nazionale dell'Italia unita. Il problema riguardava le condizioni di arretratezza economica e sociale delle province annesse al Piemonte nel 1860-1861 (rispettivamente gli anni della spedizione dei Mille e della proclamazione del Regno d’Italia). I governi sabaudi avevano voluto instaurare in queste province un sistema statale e burocratico simile a quello piemontese. L’abolizione degli usi e delle terre comuni, le tasse gravanti sulla popolazione, la coscrizione obbligatoria e il regime di occupazione militare con i carabinieri e i bersaglieri, creò nel sud una situazione di forte malcontento. Da questo malcontento vennero fuori alcuni fenomeni: il brigantaggio, la mafia e l’emigrazione al nord Italia o all’estero.
Una volta debellato il brigantaggio, di cui abbiamo gia' parlato ampiamente, le condizioni economiche e sociali dell’Italia meridionale non migliorarono. Anzi, il fenomeno dell’emigrazione si manifestò in maniera consistente a causa delle difficili condizioni di vita nel sud Italia. Il motivo di tale fenomeno era perlopiù occupazionale. La difficoltà di trovare lavoro e di raggiungere un tenore di vita se non dignitoso almeno accettabile, portò ad un’ondata migratoria sia verso il nord Italia sia all’estero.
“Si stima che fra il 1876, anno in cui si cominciarono a rilevare ufficialmente i dati, e il 1985 circa 26,5 milioni di persone lasciarono il territorio nazionale”.
Furono diversi gli intellettuali (ma anche gli uomini di politica) che analizzarono le cause e denunciarono la questione meridionale.
Fra i più importanti troviamo lo storico socialista Gaetano Salvemini (1873-1957).
Egli denunciò l'arretratezza del Mezzogiorno se paragonata al decollo economico avviato nel nord soprattutto da Giolitti. Quest’ultimo venne da lui definito “il ministro della malavita” per il cinismo con cui, con l’aiuto della mafia, approfittava dell’arretratezza e dell’ignoranza del sud per raccogliervi consensi.
Il 14 marzo 1909 infatti Gaetano Salvemini pubblicò sull'"Avanti" un articolo contro il presidente del consiglio Giovanni Giolitti
accusandolo di aver incentivato la corruzione nel Mezzogiorno e di essersi procurato il voto dei deputati meridionali mettendo "nelle elezioni, al loro servizio, la malavita e la questura". Salvemini considerava l’industrializzazione estranea alle condizioni economiche e geografiche del sud e avrebbe voluto invece che si valorizzasse la vocazione agricola del meridione. Egli attaccò inoltre il Psi e la Cgil accusandoli di favorire la classe operaia settentrionale a danno dei contadini meridionali. Salvemini avrebbe voluto che il governo promuovesse la vocazione agricola del sud Italia. Chi teneva in quel momento le redini del Paese tuttavia non fu dello stesso avviso e agì a modo suo optando per leggi speciali e per interventi localizzati. Le leggi speciali prevedevano la concessione degli sgravi fiscali alle industrie e l’incremento delle opere pubbliche. Questo portò ad una crescita della spesa statale che andò ad alimentare i ceti improduttivi e parassitari. Tali ceti garantivano voti alla maggioranza al governo e in cambio ricevevano appalti di opere pubbliche insieme ad altri favori.
Un altro intellettuale di spicco, Antonio Gramsci (1891-1937), nel primo dopoguerra ideò una strategia che mirava all'alleanza tra operai del nord e contadini del sud al fine di realizzare una rivoluzione socialista italiana.
UMBERTO I DI SAVOIA (RE BUONO O DURO CONSERVATORE?)
Umberto Rainerio Carlo Emanuele Giovanni Maria Ferdinando Eugenio di Savoia fu Re d'Italia dal 1878 al 1900. Figlio di Vittorio Emanuele II e di Maria Adelaide d'Asburgo-Lorena. Il suo regno fu contrassegnato da diversi eventi, che produssero opinioni e sentimenti opposti.
Il monarca viene ricordato positivamente da alcuni per il suo atteggiamento dimostrato nel fronteggiare sciagure quali l'epidemia di colera a Napoli del 1884, prodigandosi personalmente nei soccorsi (perciò fu soprannominato "Re Buono"), e la promulgazione del cosiddetto codice Zanardelli che apportò alcune innovazioni nel codice penale.
Da altri fu aspramente avversato per il suo duro conservatorismo, il suo coinvolgimento nello scandalo della Banca Romana,[1] l'avallo alle repressioni dei moti popolari del 1898 e l'onorificenza concessa al generale Fiorenzo Bava Beccaris per l'azione di soffocamento delle manifestazioni del maggio dello stesso anno a Milano, azioni e condotte politiche che gli costarono vari attentati, fino a quello fatale a Monza, il 29 luglio 1900. Fu anche il destinatario di uno dei biglietti della follia di Friedrich Nietzsche.
L'ATTENTATO DI NAPOLI E GIOVANNI PASSANNANTE
Appena salito al trono, Umberto I predispose subito un tour nelle maggiori città del Regno al fine di mostrarsi al popolo e guadagnare almeno una parte della notorietà di cui aveva goduto il padre durante il Risorgimento. Venne accompagnato in questo viaggio dalla moglie Margherita
e dal primo ministro Benedetto Cairoli.
Giunto a Napoli, il 17 novembre 1878, venne attaccato, con un coltello, dall'anarchico lucano Giovanni Passannante,
il quale non riuscì nel proprio intento. Nel tentativo di ammazzare il monarca, Passannante urlò: «Viva Orsini, viva la repubblica universale.Passannante, colpito con una sciabolata alla testa dal capitano dei corazzieri Stefano De Gioannini, venne tratto in arresto. Sebbene avesse concepito l'attentato ed agito da solo, fu interrogato e torturato nel tentativo di fargli confessare un'inesistente congiura.
L'attentatore aveva compiuto il suo gesto con un coltellino avente una lama di 8 cm circa che, nonostante potesse rivelarsi pericoloso per la vita del re, venne definito "buono solo per sbucciare le mele", come dichiarato al processo dal proprietario del negozio ove Passannante aveva ottenuto l'arma barattandola con la sua giacca
Condannato a morte, la pena gli fu commutata all'ergastolo. La sua prigionia fu disumana e, dopo una lunga tribolazione che lo rese completamente pazzo, fu trasferito in manicomio dove passò il resto della sua vita.Passannante scontò in condizioni disumane a Portoferraio, sull'isola d'Elba la sua reclusione. Rinchiuso in una cella priva di latrina, posta sotto il livello del mare, rimase senza poter mai parlare con nessuno e visse in completo isolamento per anni tra i propri escrementi, caricato di diciotto chili di catene. Passannante era alto circa 1,60 m, la cella era alta solo 1,40 m.
LE PROTESTE IN ITALIA A SEGUITO DELL'ATTENTATOLa notizia dell'attentato produsse in tutta Italia opposti sentimenti di indignazione, da una parte, con numerosi cortei di protesta contro il tentato regicidio, cui si contrapposero coloro che invece si opponevano al re e al governo. Il giorno successivo, a Firenze alcuni anarchici lanciarono una bomba contro un corteo: due uomini e una ragazza restarono uccisi, e più di dieci persone furono ferite. Lo stesso accadde a Pisa e la notte del 18 novembre venne assalita una caserma di Pesaro. Accanto agli attentati, si registrarono diverse manifestazioni, anche apertamente favorevoli all'attentatore.Il poeta
Giovanni Pascoli, intervenendo in una riunione di aderenti ad ambienti socialisti a Bologna, diede pubblica lettura di una sua Ode a Passannante. Di tale ode nulla si conosce, se non il contenuto dei versi conclusivi, di cui è stata tramandata la parafrasi: Con la berretta d'un cuoco faremo una bandiera.
Subito dopo la lettura, Pascoli distrusse l'ode; in seguito fu arrestato per aver manifestato a favore degli internazionalisti che erano stati a loro volta tratti in arresto in seguito ai disordini generati dalla condanna di Passannante.
A seguito della precaria situazione nel Paese, l'11 dicembre 1878 un ordine del giorno favorevole al governo venne respinto a grande maggioranza dalle Camere e Cairoli si dimise il successivo 19.
LE REPRESSIONI ORDINATE DA UMBERTO IAll'agitazione che scuoteva il Paese si era tentato di fare fronte con una pesante opera di repressione che investì l'intero territorio italiano: la magistratura istruì circa 140 processi contro appartenenti a circoli anarchici.
L'intera famiglia dell'attentatore, composta dalla madre settantaseienne, due fratelli e tre sorelle - colpevoli solo d'essere consanguinei del Passannante - furono arrestati già il giorno dopo l'attentato e condotti nel manicomio criminale di Aversa dove furono internati fino alla morte. Solo il fratello Pasquale riuscì a fuggire
Il sindaco del paese di origine di Passannante, Salvia di Lucania, fu costretto a recarsi al cospetto del re implorando perdono e umiliandosi al punto di offrire di mutare il nome del comune in Savoia di Lucania, nome che porta ancor oggi. Parenti e omonimi del Passannante dovettero lasciare il paese trasferendosi nei paesi limitrofi.
Tali condizioni disumane di detenzione furono oggetto di una denuncia dell'on. Agostino Bertani e della giornalista Anna Maria Mozzoni, a seguito della quale il prigioniero, ormai ridotto alla follia, certificata da una perizia psichiatrica condotta dai professori Biffi e Tamburini, fu trasferito presso il manicomio criminale di Montelupo Fiorentino, ove morì.
DECAPITATO DOPO LA MORTE
Dopo la sua morte il corpo, in ossequio alle teorie lombrosiane miranti ad individuare supposte cause fisiche di "devianza", fu sottoposto ad autopsia e decapitato e si scoprì che aveva una fossetta dietro l'osso occipitale, e si cominciò a pensare che quella fossetta era il segnale della tendenza all’anarchia di un soggetto, tanto è vero che successivamente si iniziarono ad aprire la testa di tutti gli anarchici che decedevano ed in alcuni la fossetta si trovava in altri mancava.
Il cervello e il cranio di Passannante, assieme a suoi blocchi di appunti, studiati dai fautori della teoria eugenetica sviluppata dal criminologo Cesare Lombroso, rimasero esposti sino al 2007 presso il Museo Criminologico dell'Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia di Roma, dove si trovavano dal 1936, dopo essere stati conservati presso l'Istituto Superiore di Polizia associato al carcere giudiziario "Regina Coeli" di Roma.
La permanenza dei resti in esposizione presso il Museo ha causato proteste ed interrogazioni parlamentari. Il 23 febbraio 1999 l'allora ministro di Grazia e Giustizia, Oliviero Diliberto, firmò il nulla osta alla traslazione dei resti del Passannante da Roma a Savoia di Lucania, che tuttavia avvenne solo otto anni dopo
Il secondo attentato
Il 22 aprile 1897, il sovrano subì un secondo attentato da parte di
Pietro Acciarito. L'anarchico si mescolò tra la folla che salutava l'arrivo di Umberto I presso l'ippodromo delle Capannelle a Roma, e si buttò verso la sua carrozza armato di coltello. Il re notò tempestivamente l'attacco e riuscì a schivarlo rimanendo illeso. Acciarito venne arrestato e condannato all'ergastolo.
Analogamente a Passannante, la sua pena fu molto rigida ed ebbe gravi conseguenze sulla sua salute mentale.
Come il precedente tentato regicidio, si ipotizzò una cospirazione anti-monarchica (sebbene Acciarito avesse smentito tutto, dichiarando di aver agito da solo) e vennero arrestati diversi esponenti socialisti, anarchici e repubblicani che furono sospettati di aver avuto collusioni con l'estremista. Tra questi venne incarcerato un altro anarchico di nome
Romeo Frezzi, un amico di Acciarito, perché in possesso di una foto dell'attentatore.
Frezzi morì al terzo giorno d'interrogatorio. Sorsero alcune illazioni sul suo decesso (suicidio e aneurisma) ma l'autopsia confermò che la morte avvenne per sevizie subite dagli agenti di pubblica sicurezza, nel tentativo di estorcere una confessione di connivenza con Acciarito.La sua morte avviene in seguito a un durissimo interrogatorio nel carcere romano di San Michele, durante il quale la polizia tenta di estorcere una confessione di complicità con Acciarito. Sui fatti sono state fornite diverse versioni. La prima versione fornita dalla questura di Roma afferma che il Frezzi si è suicidato battendo ripetutamente la testa contro il muro. La seconda versione parla invece di un improvviso aneurisma. Secondo la terza versione, invece, si sarebbe suicidato lanciandosi da una finestra del carcere che si affacciava su un cortile interno. L'Avanti conduce una dura battaglia per far emergere la verità. L'autopsia rivelerà che la morte del Frezzi non può essere dovuta a un suicidio, ma sarebbe da attribuirsi a un inaudito pestaggio: si parla infatti di fratture al cranio, alla colonna vertebrale con distacco completo, alla spalla destra, alle costole e lesioni alla milza e al pericardio.
La vicenda suscitò sommosse popolari contro la monarchia.
Le proteste per l'omicidio di Romeo Frezzi
I funerali si tengono il 9 maggio e sono costituiti da una grande manifestazione contro la monarchia. Anche il 22 agosto, parte da Campo de' Fiori una manifestazione di 15000 persone contro gli assassini "morali e materiali" del Frezzi. Anche in Parlamento gli esponenti dell'estrema sinistra chiedono chiarezza sul caso, ma De Rudinì, allora capo del governo, si assume personalmente la responsabilità di fermare ogni indagine per scongiurare pericoli di sovversione. Il questore di Roma viene trasferito; le guardie carcerarie coinvolte vengono inizialmente arrestate, ma al processo (28 maggio) verranno assolte per "insufficienza di indizi" e lo stato si limiterà ad esonerarle dal servizio; i vertici della questura saranno invece assolti per "inesistenza di reato".
Il processo contro gli altri presunti complici di Pietro Acciarito, invece, si conclude nel novembre del 1897 con un "non luogo a procedere contro tutti gli imputati per difetto e insufficienza di indizi". Si tratta degli anarchici Pietro Colabona, Cherubino Trenta, Aristide Ceccarelli, Ernesto Diotallevi, Federico Gudino, Ettore Sottovia, Umberto Farina ed Eolo Varagnoli.
Le rivolte in Italia e l'uso dei cannoni contro la folla a MilanoAbbiamo visto che Negli anni immediatamente successivi all’unità, era stato particolarmente il Sud a esprimere un profondo malcontento attraverso il fenomeno del brigantaggio, tanto che nel 1863 il governo (di destra, retto da Minghetti) vara una — se non la prima — di quelle innumerevoli “leggi speciali” che sono tuttora il piatto forte della legislatura nostrana: la legge Pica, che stabilisce lo stato di guerra nei territori dell’ex Regno delle Due Sicilie e contempla l’adozione della legge marziale. Risolto, almeno in apparenza e alla piemontese, il problema del brigantaggio, ecco che fra il 1868 e il 1869 si assiste al sorgere dei cosiddetti moti del macinato, scaturiti dalla spontanea sollevazione popolare contro il rincaro del prezzo del pane. Con fasi alterne, la protesta serpeggia più o meno latente in tutta Italia fino al 1874 (secondo governo Minghetti), quando in Emilia Romagna si verifica un tentativo insurrezionale soffocato sul nascere dall’opportuno intervento di quelli che una volta si chiamavano delatori e che oggi si fregiano del titolo di “collaboratori di giustizia”.
La situazione si fa rovente a partire dagli anni Ottanta, che registrano una serie di scioperi nel Nord: (a Cremona nel 1882 e in provincia di Rovigo nel 1884, sotto il governo Depretis, di sinistra). La catastrofe di Dogali nel 1887 (26 gennaio, governo Depretis) e lo scandalo della Banca romana nel 1889 (governo Crispi, di sinistra) non migliorano l’immagine delle istituzioni statali e delle forze politiche che le rappresentano presso il popolo. Il decennio successivo si apre con altre violente sollevazioni popolari nel Sud della penisola, che confluiranno nella fondazione dei Fasci siciliani fra il 1893 e il 1894; contemporaneamente il mondo contadino si agita anche in Lunigiana. Crispi, succeduto a Giolitti dopo lo scandalo del 1889, reprime le rivolte di contadini e minatori con l’aiuto dell’esercito, ponendo la Sicilia in stato d’assedio e riportando in auge, a ottobre, leggi speciali “contro la sovversione sociale” che decretano lo scioglimento delle associazioni operaie e socialiste.
La sconfitta di Adua, nel 1896 (1° marzo, governo Crispi), dà la mazzata finale al già compromesso prestigio del governo: nei giorni successivi, in tutta Italia si riaccende l’avversione per l’avventura africana; a Milano, Genova, Ancona e Napoli la rabbia popolare esplode in manifestazioni spontanee al grido di “Via dall’Africa!” e “Abbasso Crispi!”. I fatti più gravi accadono a Milano, dove le truppe affrontano la folla e un soldato uccide un operaio con un colpo di baionetta; il 5 marzo i manifestanti invadono la stazione ferroviaria per impedire che interi reparti dell’esercito partano per l’Africa. Anche a Parma si svolgono scene analoghe, e nel giro di pochi giorni Crispi, travolto dalle proteste, deve dimettersi; gli succede un altro siciliano, il marchese Antonio Starabba di Rudinì
(il cui governo verrà detto “dei galantuomini”), che concede un’amnistia ai detenuti politici per calmare le acque – in sostanza la politica governativa non si sposta di una virgola, anzi il nuovo governo intensifica fino al parossismo le misure repressive contro i “sovversivi”.
La pessima annata del 1897 e la conseguente stagione di rincaro della vita esasperano gli animi: il 1898 segna l’esplosione di una irrefrenabile collera popolare accumulatasi in quarant’anni. Solo tenendo conto di questo panorama (qui peraltro solo abbozzato) si può comprendere in tutta la sua portata il peso politico degli accadimenti del 1898. Non è azzardato sostenere che il 1898 rappresenta un autentico spartiacque, il punto cruciale in cui convergono e si intrecciano molti problemi fondamentali dell’Italia contemporanea, e fra i quali forse si annidano anche i prodromi del terrorismo di Stato.
1898, annus horribilis e la rivolta del pane in tutta l'Italia
L’anno si apre con una vittima, la prima, proprio in Sicilia: è il 2 gennaio quando, a Siculana, la polizia spara sulla folla che protesta per avere pane e lavoro uccidendo un contadino. Innumerevoli manifestazioni, sempre represse dal governo, si svolgono in tutta Italia per il pane, il lavoro e contro le imposte (i contadini sono costretti a pagare un’imposta anche sugli animali da tiro): a Santeramo, nelle province di Modena e Bologna, a Canicattì, a Montescaglioso intervengono interi reparti di fanteria, e la polizia arresta decine di persone.
Il 15 gennaio il prezzo del pane viene portato da 45 a 50 centesimi al chilo. La reazione popolare non si fa attendere: il 16 gennaio la polizia carica i manifestanti a Forlì, e fra il 17 e il 20 la rabbia popolare esplode anche ad Ancona e a Senigallia, dove interviene un battaglione di fanteria inviato da Pesaro, nonché a Macerata, Matelica, Iesi, Osimo e Chiaravalle. Il 20 gennaio Ancona viene affidata al generale Baldissera il quale, assumendo i pieni poteri militari, ordina arresti di massa. Intanto il governo decreta la riduzione di due lire al quintale del dazio sul grano.
La rivolta viaggia in tutte le direzioni: si manifesta a Trapani, Gallipoli, Firenze, Voltri (dove gli scontri fra gli operai licenziati da un cotonificio e la polizia fanno due morti, quattro feriti e una quarantina di arrestati); nei giorni e nelle settimane seguenti, scioperi e tumulti si contano a decine in Sicilia, in Campania, nelle Marche. Il 3 febbraio Perugia è posta in stato d’assedio. Il 16 febbraio la polizia interviene contro una manifestazione a Palermo. Il 18, a Troiana, la truppa spara su disoccupati, donne e ragazzi: il bilancio è di cinque morti e ventotto feriti. Il paese, posto in stato d’assedio, viene letteralmente invaso da due compagnie di fanteria. Il 22 febbraio, a Modica, soldati e carabinieri fanno cinque morti.
In marzo, a Bassano sono gli alpini a intervenire contro la popolazione, mentre a Molinella vengono arrestati un sindacalista e cinquanta mondine, e sciolte le cooperative.
Le masse, già provate da un inverno durissimo, si riversano in piazza a Ferrara, Faenza, Pesaro, Napoli, Bari e Palermo. La protesta, mai così giustificata, divampa in tutto il paese, e le forze dell’ordine sono chiamate a intervenire dovunque. Il 25 aprile cavalleria e carabinieri occupano Bari, messa in stato d’assedio, mentre dal mare l’incrociatore Etruria punta i cannoni sulla città. Il 28 aprile il sindaco di Foggia viene costretto a ridurre il prezzo del pane, mentre le truppe reprimono la manifestazione con la consueta durezza. Il 30 aprile la polizia stronca numerose manifestazioni in Campania, dove la gente chiede soltanto “pane e lavoro”. I fermenti, non più contenuti dalle normali misure di pubblica sicurezza, si allargano a macchia d’olio coinvolgendo Rimini, Ravenna, Benevento e Molfetta, finendo con l’interessare, in breve tempo, gran parte della penisola. Il 1 ° maggio, a Molfetta si contano cinque morti, e il 5 maggio altri due. Da Bari accorre la fanteria, mentre anche a Minervino e altrove nella regione si accendono qua e là focolai di protesta: la situazione è critica, e il governo affida la Puglia al generale Pelloux. L’1 e il 2 maggio la truppa spara a Bagnacavallo: sei morti; il 2 maggio, un morto a Piacenza e uno a Figline Valdarno; il 4 maggio, 4 morti a Sesto Fiorentino. Il 5 maggio la protesta, ormai generalizzata, assume una svolta decisiva a Milano: comincia qui la tragica catena di eventi che sfoceranno in un epilogo sanguinoso.
L'uccisione di Muzio Musso, figlio del sindaco di Milano
e la rivolta della citta'In quello stesso giorno, infatti, a Pavia, la polizia fronteggia una manifestazione popolare. Il giovane Muzio Musso, figlio del sindaco di Milano, tenta un’opera di mediazione per evitare un eccidio, ma viene ucciso dagli agenti. A Milano, saputo il fatto, l’opinione pubblica al completo si commuove e si indigna. In meno di 24 ore l’organizzazione sindacale si attiva facendo stampare un manifesto e dei volantini di protesta, la distribuzione dei quali viene affidata ad alcuni iscritti.
Milano, 6-9 maggio 1898
È il 6 maggio: verso mezzogiorno, alcuni agenti di polizia si infiltrano tra gli operai della Pirelli di via Galilei; approfittando della pausa pranzo, in fabbrica si aggirano dei propagandisti che distribuiscono i volantini di protesta, su cui fra l’altro sta scritto che è il governo il vero responsabile della carestia che travaglia il paese. La polizia arresta sindacalisti e operai, e deve muoversi Filippo Turati (deputato dal 1896) per farli rilasciare praticamente tutti: in questura ne resta solo uno.
I lavoratori della Pirelli reclamano la liberazione del compagno, e la loro protesta riceve la solidarietà delle maestranze di altre fabbriche cittadine. La giornata volge al termine, ma non il braccio di ferro tra operai e polizia: verso sera, in risposta alla sassaiola di un gruppo di dimostranti, la polizia spara qualche colpo; una compagnia di soldati, che si stava recando sul luogo per presidiare la zona, accorre e senza neanche sapere cosa stia succedendo apre il fuoco. Il bilancio è di tre morti e numerosi feriti.La popolazione milanese reagisce compatta: per il giorno seguente, 7 maggio, viene proclamato uno sciopero generale di protesta al quale la cittadinanza aderisce in massa riversandosi nelle strade principali della città. Entra in azione la cavalleria, il cui effetto viene però vanificato dalle barricate prontamente erette e dalle tegole lanciate dai tetti delle abitazioni.
Nel pomeriggio di quella stessa giornata, il governo, irremovibile nel vedere dietro i disordini una inesistente trama rivoluzionaria, decreta per Milano lo stato d’assedio, affidando i pieni poteri al generale Fiorenzo Bava Beccaris
che insedia sotto una tenda da campo, in piazza del Duomo, il suo quartier generale.L’8 maggio i cannoni entrano in azione contro le barricate e la folla, composta come sempre anche da donne, vecchi e bambini. L’ordine è di sparare ad alzo zero: restano uccise centinaia di persone, e accanto ai morti si potranno contare oltre un migliaio di feriti più o meno gravi. Il numero esatto delle vittime non è mai stato precisato, ma stime ragionevoli lo fanno risultare senza dubbio superiore a quello dei milanesi “caduti per la patria” durante le famose Cinque giornate del 1848 — circa 350 (le autorità di allora giocarono al ribasso, fissando in un centinaio i morti e in circa 400 i feriti).
IL REGICIDIO
Era Il 29 luglio 1900, Umberto I fu invitato a Monza per onorare con la sua presenza la cerimonia di chiusura del concorso ginnico organizzato dalla società sportiva Forti e Liberi, a cui erano presenti le squadre di Trento e Trieste. Dopo aver cenato, si avviò verso il padiglione attraversando la folla festante.Sebbene fosse solito indossare una cotta di maglia protettiva sotto la camicia, a causa del gran caldo, e contrariamente ai consigli degli attendenti alla sicurezza, quel giorno fatidico non la indossò. Tra la folla si trovava anche l'attentatore, Gaetano Bresci, con in tasca un revolver a cinque colpi.
Il sovrano si intrattenne per circa un'ora, era di ottimo umore: «Fra questi giovanotti in gamba mi sento ringiovanire». Decise di andarsene verso le 22.30 e si recò verso la carrozza, mentre la folla applaudiva e la banda intonava la Marcia Reale. Approfittando della confusione, Bresci fece un balzo avanti con la pistola in pugno e sparò tre colpi in rapida successione. Umberto venne colpito a una spalla, al polmone e al cuore. Il re avrebbe balbettato: «Avanti, credo di essere ferito», rivolgendosi al generale Ponzio Vaglia.
Subito dopo, i carabinieri si scagliarono su Bresci (che non oppose resistenza) e lo arrestarono, sottraendolo al linciaggio della folla. Intanto la carrozza giunse alla reggia di Monza, la regina, avvisata, si precipitò all'ingresso gridando: «Fate qualcosa, salvate il re». Ma non c'era più nulla da fare, il re era già morto.
La sua salma venne tumulata nel Pantheon; il 13 agosto diventò giorno di lutto nazionale. Bresci venne processato il 29 agosto e condannato all'ergastolo, poiché il figlio di Umberto I, il nuovo re Vittorio Emanuele III, gli concesse la grazia (era in vigore la pena di morte per il regicidio e l'alto tradimento, oltre che per i crimini di guerra). Il luogo dell'attentato è segnato da una Cappella costruita nel 1910 su disegno dell'architetto Giuseppe Sacconi
GAETANO BRESCI SI SUICIDO'? O "FU SUICIDATO?"
L'attentatore di Umberto I fu processato un mese dopo i fatti , una vera e propria formalita' sbrigata in poco più di mezza giornata, affermò di non aver avuto complici, come invece l’accusa cercava di sostenere, ed ebbe comportamento fermo e lucido, rivendicando e motivando la giustezza del suo gesto.Poco potè fare il suo difensore Merlino, sarà condannato all’ ergastolo con sette anni di segregazione cellulare.Trasferito prima a Portolongone, poi a Santo Stefano di Ventotene, vi muore nel Maggio 1901; impiccandosi con un tovagliolo, secondo la versione“ufficiale”, (con “ elementi” che già lasciavano perplessi sulla dinamica dei fatti ) o più probabilmente assassinato, come sostenuto sin dall’inizio dagli anarchici. Recentemente la ricerca storica ha fatto emergere nuove incongruenze che sembrano sostenere questa tesi, come la scoperta di un ispettore mandato da Roma per indagare sul suicidio, e presente diversi giorni prima del fatto sull’isola .La circostanza, insieme allo stato del corpo segnalato dai medici all’autopsia, ( avanzata decomposizione in rapporto al tempo trascorso dalla morte) fa ipotizzare che Bresci possa essere deceduto prima di quanto detto .
Il Bresci passerà alla storia come il folle anarchico che uccise il re d’Italia, ma Umberto I passerà alla storia come il re che uccise i suoi sudditi
continua
Edited by Pulcinella291 - 27/4/2011, 08:50