Le stronzate di Pulcinella

Donne Simbolo, su alcune figure meno note dell'Antico Testamento

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view post Posted on 23/5/2012, 00:19
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esterp




Ester, la regina


Est - vari capitoli

Iddio ricorda il suo popolo per il coraggio della fede



Ester è una giovane ebrea deportata in Persia sotto il regno di Serse (detto anche Assuero). E’ la figura femminile più nominata nella Bibbia dopo Sara la moglie di Abramo. Per comprendere il suo intervento come regina nella storia di Israele, dobbiamo ricordare che Vasti, la donna che la precedette nelle grazie del potente e inflessibile re Assuero, fu per sempre bandita dalla corte per essersi rifiutata una volta di comparire ad un banchetto nonostante l’invito ricevuto.

Erano tempi pericolosi, quelli: era per esempio passibile di condanna a morte chiunque si presentasse al re senza essere stato convocato.

Entrata nelle grazie di Assuero, e diventata sua regina, Ester si trovò nella difficile situazione di dover proteggere il suo popolo (ed il re ignorava la sua nascita giudea) da un editto irrevocabile che ne decretava lo sterminio. Un “editto irrevocabile” era una legge che non poteva essere annullata in nessun caso: nemmeno dallo stesso re che l’aveva emessa. Per i curiosi aggiungerò che questa condanna era stata sollecitata da Haman, il principe prediletto, perché alcuni giudei si rifiutavano di riverirlo come divinità. L’ho detto che erano tempi duri!

Ester era amata e rispettata dalla gente che ne vedeva la saggezza, l’autocontrollo e la sollecitudine verso gli altri. Si rese conto che era questa la prova mandatale da Dio e, sostenuta anche da Mardocheo, suo tutore e custode in esilio della fedeltà al Signore, si prepara:
“và, raduna i Giudei che vivono in Susa e digiunate secondo la mia intenzione. Per tre giorni non mangiate né bevete: anch’io farò lo stesso insieme alle mie ancelle, poi mi presenterò al re, anche se è contro la legge, e se dovrò morire, morrò”. (Est 4,16)
Il re da oltre un mese non l’aveva più convocata.

Tanta fede non è ignorata dal Signore, “che volge a dolcezza il cuore di Assuero” , turbato certo anche dalle grazie e dal coraggio della sua sposa.

Ma il Signore, ed è questo un contenuto spirituale importante di questa storia, ricompensa assai più di quanto non ha avuto in offerta. Nel prosieguo del libro di Ester si legge come gli occhi acuti di questo re inesorabile ma giusto ravvisino i meriti misconosciuti di Mardocheo, schiavo fiero ma onesto e fedele e le sofferenze inique inferte ai giudei, e vedano anche la corruzione e la malizia del suo principe prediletto Aman.

Il “centuplo” per l’abnegazione di Ester viene ai giudei dall’editto di Serse che in pratica pone fine alla deportazione. Non è solo un atto di magnanimità del re. In quel documento ufficiale si riconosce a coloro che fin’ora erano schiavi il diritto a ribellarsi alle angherie, a difendersi anche con le armi e vendicare i torti ricevuti, restituendo loro quindi la dignità di popolo ed il diritto alla libertà.

La regina imperiale il cui nome Ester significa stella, deve essere una costante guida per noi cristiani, un esempio concreto di vivere eroico. Quel vivere che quotidianamente dovrebbe farci riconoscere fra le folle.


Lucio Musto 28 ott. 01 parole 517


 
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view post Posted on 3/6/2012, 12:16
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raab


Raab
Gs 2 – Gs 6
La scelta coraggiosa




Donna di Gerico che si fece complice delle spie inviate da Giosuè per preparare la conquista della città. Il suo nome significa “larga”. In ebraico la parola può derivare dalla radice zon, nutrire o da zana, sedurre, e quindi significare “albergatrice” o “prostituta”. Ma si trattava a quei tempi di due commerci che sconfinavano facilmente l'uno nell'altro e infatti nelle citazioni bibliche Raab è una pubblica peccatrice.

Mentre due spie militari inviate da Giosuè si trovavano presso di lei, il re di Gerico le intimò di consegnarli. Decisa invece a salvarli, la donna usò un sotterfugio: affermò che erano usciti sul far della notte e appena gli uomini del re corsero a inseguirli, nascose i figli d'Israele sulla terrazza, fra i covoni di lino da gramolare che vi aveva accatastato. Disse loro che anche lei credeva che il Signore avesse assegnato il paese a Israele e che era più forte degli dei pagani. Pregò poi le spie di Giosuè di lasciare in vita lei stessa e la sua famiglia quando il Signore avrebbe consegnato Gerico al suo popolo ed il loro esercito fosse entrato in città. Essi lo giurarono in nome della loro stessa vita.

Allora Raab li fece scendere con una corda dalla finestra, perché la sua casa era addossata al muro di cinta e raccomandò loro di restare nascosti sulla montagna per tre giorni finché gli abitanti di Gerico avessero desistito dall'inseguimento.
Si accordarono anche su un segno di riconoscimento: una cordicella di filo scarlatto legata alla finestra avrebbe indicato agli Ebrei, quando fossero entrati in città, che quella casa era da salvare.

Al momento della presa della città, Giosue mandò le spie alla ricerca di Raab e della sua famiglia che si era rifugiata nella sua casa, perché fossero salvati tutti secondo la promessa. Poi la città fu votata allo sterminio.

Da quel momento “Raab abitò in mezzo ad Israele”.

La figura di questa donna peccatrice è emblematica nella sua concretezza. Nel momento del massimo pericolo, quando il re di Gerico avrebbe potuto punirla di complicità col nemico fa la sua scelta coraggiosa, si affida al Dio straniero ammirata dalla fede che suscita nel suo popolo e rischia di persona. Ma non solo per sé stessa. Implora salvezza per sé ma non dimentica tutta la sua famiglia, trasmettendo anche a loro la sua fiducia. Infatti la Bibbia precisa che la famiglia “si era rifugiata nella sua casa”.

Una donna pagana. Una prostituta. Il suo esempio non viene ignorato.
Paolo, nella lettera agli Ebrei cita Raab come esempio di fede e S.Giacomo la loda per le sue opere.

La storia di Raab contribuisce a dimostrare che la salvezza non è garantita solo dalla discendenza di sangue dalla stirpe d'Israele o ai santi ed agli onesti ma viene dalla fede che è accessibile a tutti coloro che riconoscono nel Signore il “Dio lassù in cielo e quaggiù in terra”.


Lucio Musto 29 ott. 01 parole 495
 
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view post Posted on 5/7/2012, 17:40
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sefora





Zippora o Sefora
Es 4 Es 18
Il “primo posto” per Dio



Zippora è la moglie di Mosè, l’unica che gli si conosca. E nella Bibbia viene nominata solo tre volte. Quando viene concessa in moglie da suo padre Jetro il madianita, quando circoncide il figlio Ghersom, quando insieme al padre ed ai due figli va incontro al marito (Es 18) al Sinai dopo la vittoria contro gli Amaleciti.

Le poche parole che si riferiscono a “l’uccellino” (questo è il significato del nome), sono però di difficile interpretazione.

Mosè, convinto da Dio a tornare in Egitto per liberare gli Israeliti, porta con sé la moglie ed i figli, ma è colpito da una “malattia mortale”, e guarisce solo quando la moglie circoncide il figlio primogenito e dichiara “tu sei per me uno sposo di sangue”.
Non è certo chiarissimo il significato simbolico della malattia né la proprietà taumaturgica di una circoncisione “per procura”, anche se in effetti Mosè non era stato circonciso in quanto allevato in una casa egizia….

Poi la donna ed figli sono rimandati da Jetro, ma non c’è ripudio. Infatti tutti insieme vanno a salutare il Profeta sul monte di Dio ed offrono olocausti e pranzano anche con Aronne e gli altri anziani. E’ possibile che questa separazione sia stata imposta da motivi di sicurezza per la donna ed i figli, ma sembra strano che dopo l’Esodo non si parli di ricongiungimento della famiglia, ma di una “visita”.

Vien quindi da avanzare l’ipotesi che dietro i fatti raccontati ci sia un qualche significato profetico o simbolico e che il racconto stesso non sia solo una cronaca ma contenga qualche indicazione anche per noi.

Il ritorno di Mosè in Egitto è certamente simbolo di ritorno alla volontà di Dio dopo l’esperienza del deserto; per noi può essere un simbolo della libertà che ci lascia il Signore, per cui è per scelta personale che possiamo affermare: “sono libero di fare la volontà di Dio!”.
Ma anche per tornare a darsi totalmente a Dio non possiamo calpestare gli altri. Giustamente Mosé porta con sé moglie e figli… Ma ad un certo punto si impone la scelta, e l’Evangelico “… chi non lascia moglie e figli e buoi…” qui è più comprensibile.
La malattia “mortale” non è organica, ma quella dell’abbandono di quanto costruito nel tempo del deserto, nel tempo della scelta autonoma. La moglie, i figli, hanno anch’essi i propri diritti e l’impegno preso verso di loro non è carta straccia; nemmeno di fronte alla chiamata vocazionale.

Occorre un nuovo accordo, un nuovo matrimonio.

Mosè è libero solo quando la moglie Zippora capisce di non essere abbandonata, non perde il suo matrimonio, ma vede il suo sposo chiamato ad un impegno più alto, e reputa il figlio per quello che effettivamente è: il dono di Dio. E nella circoncisione del bambino da lei liberamente eseguita e nelle sue parole “tu sei per me uno sposo di sangue” viene stabilito un nuovo rapporto consacrato appunto dal sangue innocente, un nuovo patto che non discrimina nessuno, non offende nessuno e nemmeno distrugge il precedente legame umano.



Lucio Musto 27 dic. 01 parole 521
 
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view post Posted on 25/3/2013, 09:05
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Ester, la regina
Est - vari capitoli



Iddio ricorda il suo popolo per il coraggio della fede



Ester è una giovane ebrea deportata in Persia sotto il regno di Serse (detto anche Assuero). E’ la figura femminile più nominata nella Bibbia dopo Sara la moglie di Abramo. Per comprendere il suo intervento come regina nella storia di Israele, dobbiamo ricordare che Vasti, la donna che la precedette nelle grazie del potente e inflessibile re Assuero, fu per sempre bandita dalla corte per essersi rifiutata una volta di comparire ad un banchetto nonostante l’invito ricevuto.

Erano tempi pericolosi, quelli: era per esempio passibile di condanna a morte chiunque si presentasse al re senza essere stato convocato.

Entrata nelle grazie di Assuero, e diventata sua regina, Ester si trovò nella difficile situazione di dover proteggere il suo popolo (ed il re ignorava la sua nascita giudea) da un editto irrevocabile che ne decretava lo sterminio. Un “editto irrevocabile” era una legge che non poteva essere annullata in nessun caso: nemmeno dallo stesso re che l’aveva emessa. Per i curiosi aggiungerò che questa condanna era stata sollecitata da Haman, il principe prediletto, perché alcuni giudei si rifiutavano di riverirlo come divinità. L’ho detto che erano tempi duri!

Ester era amata e rispettata dalla gente che ne vedeva la saggezza, l’autocontrollo e la sollecitudine verso gli altri. Si rese conto che era questa la prova mandatale da Dio e, sostenuta anche da Mardocheo, suo tutore e custode in esilio della fedeltà al Signore, si prepara:
“và, raduna i Giudei che vivono in Susa e digiunate secondo la mia intenzione. Per tre giorni non mangiate né bevete: anch’io farò lo stesso insieme alle mie ancelle, poi mi presenterò al re, anche se è contro la legge, e se dovrò morire, morrò”. (Est 4,16)
Il re da oltre un mese non l’aveva più convocata.

Tanta fede non è ignorata dal Signore, “che volge a dolcezza il cuore di Assuero” , turbato certo anche dalle grazie e dal coraggio della sua sposa.

Ma il Signore, ed è questo un contenuto spirituale importante di questa storia, ricompensa assai più di quanto non ha avuto in offerta. Nel prosieguo del libro di Ester si legge come gli occhi acuti di questo re inesorabile ma giusto ravvisino i meriti misconosciuti di Mardocheo, schiavo fiero ma onesto e fedele e le sofferenze inique inferte ai giudei, e vedano anche la corruzione e la malizia del suo principe prediletto Aman.

Il “centuplo” per l’abnegazione di Ester viene ai giudei dall’editto di Serse che in pratica pone fine alla deportazione. Non è solo un atto di magnanimità del re. In quel documento ufficiale si riconosce a coloro che fin’ora erano schiavi il diritto a ribellarsi alle angherie, a difendersi anche con le armi e vendicare i torti ricevuti, restituendo loro quindi la dignità di popolo ed il diritto alla libertà.

La regina imperiale il cui nome Ester significa stella, deve essere una costante guida per noi cristiani, un esempio concreto di vivere eroico. Quel vivere che quotidianamente dovrebbe farci riconoscere fra le folle.


Lucio Musto 28 ott. 01 parole 517
 
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view post Posted on 26/3/2013, 11:14
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Gomer e l’altra moglie


Os 1-3
La moglie infedele



Quando il Signore cominciò a parlare per mezzo di Osea, gli disse: «Và, prenditi per moglie una donna portata all’infedeltà ed abbi figli da questa donna infedele, perché il paese non farà che fornicare lontano dal Signore»” (Os 1,2)

Così comincia il libro del profeta Osea, con l’esplosione di sdegno del Padre stanco da mille mancanze, aberrazioni, infedeltà, tradimenti.

Gli studiosi non sono concordi sulla persona di Gomer, sposa del profeta Osea. Gomer, è vista come una pubblica peccatrice, ovvero una “prostituta sacra” del culto pagano di Baal, ovvero una donna onesta ma marcia dentro e che perciò si travierà. Donna reale quindi oppure figura immaginaria, e si dà notizia di fatti veramente accaduti o forse è solo allegoria.

In ogni caso tutto il racconto è calzante simbolo di Israele che tradisce il Signore. Anche i nomi imposti ai tre figli di fornicazione rispecchiano lo strazio del marito tradito e deluso: Jezrael, che vuol dire “Dio-disperderà” è quello del primogenito, Lo’Ammi (non-mio-popolo) il minore ed infine Lo’Ruhamah (non-più-misericordia) dato alla femmina rispecchia la rottura del patto antico: “Io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo”(Ger 7,23 e altri). E possibile anche che Osea mise questi nomi ai figli per indicare che non erano suoi.

Infatti Gomer fu ripudiata , e tornò al meretricio. Ma Osea continuava ad amarla, e l’amore di Osea per lei è l’amore di Dio per il suo popolo. Tutto il secondo capitolo del libro è un carme di disperazione e rabbia e minaccia, ma anche di riscatto, speranza e purificazione:
Ma ecco, io l’attirerò e la condurrò nella solitudine, ove parlerò al suo cuore. Poi le restituirò le sue vigne […]e là ella mi risponderà di nuovo, come ai tempi della sua gioventù, quando felice uscì dall’Egitto” (Os 2,16-17)

Il testo riporta che Osea, ancora spinto dal Signore e dal suo grande amore, compra un’altra peccatrice per sposarla, (ma verosimilmente si tratta della stessa Gomer riscattata dal suo protettore) e la tiene per del tempo isolata, perché nella solitudine e nell’abbandono si purifichi dalle infedeltà e riscopra la bellezza del desiderio del suo sposo. Anche lui starà in solitudine e penitenza. Solo allora, in questo ritrovato bisogno di unità, si potrà ricostruire un nuovo patto d’amore, un nuovo fidanzamento, un nuovo sposalizio, ed i figli non saranno più maledizione ma grazia.

Ed anche in questo l’autore rappresenta l’atteggiamento di Dio verso il suo popolo. Il Signore toglie Israele dall’idolatria, meretricio dell’anima, e lo purifica con la solitudine della deportazione e dell’esilio, quando non avrà re, né giudici, né profeti, né sacerdoti per confortarlo; ma non sarà ripudiato, perché il Signore è fedele per sempre. Alla fine ritroverà il suo Davide e la sua fede.

Nel descriverci la totalitarietà di un amore umano Osea riesce a commuoverci all’amore di Dio.


Lucio Musto 10 gen. 02 parole 529
 
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view post Posted on 27/3/2013, 10:59
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rebeccaAllaSorg








Rebecca
Gn 24
Uno strumento di Dio




Rebecca, fu scelta come moglie di Isacco per ispirazione divina. L’emissario di Abramo inviato ad Haran città aramea espressamente per questo scopo, fu molto scrupoloso nel chiedere al Signore un segno sicuro della Sua volontà e lo ottenne.

Rebecca non ebbe figli per venti anni, ma alla fine, dopo infinite preghiere del pio Isacco, generò due gemelli Esaù e Giacobbe, che nacque per secondo strettamente afferrato al calcagno del fratello maggiore. Già durante la gravidanza la donna si lagnava delle lotte che sentiva accadere nel suo ventre fra i due fratelli. Ma il Signore le disse (Gn 25,23)

“Due nazioni sono nel tuo seno e due popoli sono divisi sin dalle tue viscere.
L’un popolo sarà più forte dell’altro, ma il maggiore servirà il minore”

In effetti da Esaù nascerà il popolo Idumeo, perenne nemico d’Israele, stirpe del secondogenito.

E’ arcinota la storia del piatto di lenticchie e la vendita della primogenitura di Esaù, ed anche lo stratagemma dei capretti e della loro pelle concepito da Rebecca per far sì che la perdita divenisse effettiva, che Isacco benedicesse come successore ed erede Giacobbe, destinato a realizzare la promessa fatta da Dio ad Abramo.

Quest’episodio mostra che nel patriarcato la successione non era un puro diritto ereditario. Bisognava mostrarsene degni. Ed il violento Esaù, tra l’altro, aveva disdegnato le donne del suo popolo, prendendo per mogli due donne ittite. E quando scoprì l’astuto tranello tesogli dalla madre e dal mite fratello proferì minacce di morte contro il fratello. E con questo spianò di nuovo la strada a Rebecca, strumento dei piani di Dio.

Isacco si convinse presto che era Giacobbe il prescelto da Dio ed accettò di buon grado il consiglio di Rebecca di mandarlo lontano, in Mesopotamia da Labano, suo fratello e cercare lì mogli del suo popolo.

Giacobbe, obbediente e pio come sempre andò e conobbe le due sorelle Rachele e Lia, che gli avrebbero generato i dodici figli capostipiti delle dodici tribù d’Israele.

In verità non appare integerrimo il comportamento di Ribecca e di Giacobbe, ma il racconto colpisce sopratutto perché in esso il compimento dei disegni divini si realizza attraverso le colpe e le bramosie degli uomini, che con i loro trucchi li servono inconsapevolmente.
Dio insomma traccia il percorso della storia spirituale del suo popolo seguendo le vie traverse dei suoi errori.

In linguaggio più teologico, l'epistola ai ROMANI invoca la sovrana libertà di scelta di Dio che si posò su Giacobbe invece che su Esaù: il loro destino era fissato prima che nascessero e quindi prima che potessero compiere il bene o il male.

L'epistola agli EBREI precisa che, le benedizioni diverse rivolte da Isacco a ciascuno dei suoi due figli furono un atto di fede nei disegni divini; Paolo aggiunge però una spiegazione morale secondo la quale Esaù fu punito perché aveva sacrificato all'appagamento di un appetito carnale l'eredità spirituale fondata sulla promessa fatta alla progenie di Abramo.


Lucio Musto 27 mar. 13 parole 497
 
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view post Posted on 28/3/2013, 12:28
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La Padrona di casa


Pv 31
La donna perfetta



In questa carrellata sulle figure femminili dell’antico Testamento non può mancare il tratteggio concreto della donna ideale così come magistralmente espresso nel libro dei proverbi; anche se non ci riferisce ad una persona concreta, viene qui riportata: tal quale com’è scritta, perché non abbisogna certo di commenti.
Al più si può fare un’osservazione, a solo beneficio di quanti affermano, spesso in malafede, che la donna nel passato vivesse in una condizione di inferiorità o quasi di semi schiavitù. Nel libro dei Proverbi invece, viene gratificata di grande dignità, ed il suo ruolo non è certo indicato come secondario. E’ solo nettamente separato da quello dell’uomo. L’unica amarezza è nella prima frase: la difficoltà di trovare una donna perfetta.

Una donna perfetta chi potrà trovarla? Ben superiore alle perle è il suo valore.
In lei confida il cuore del marito e non verrà a mancargli il profitto.
Essa gli dá felicità e non dispiacere per tutti i giorni della sua vita.
Si procura lana e lino e li lavora volentieri con le mani.
Ella è simile alle navi di un mercante, fa venire da lontano le provviste.
Si alza quando ancora è notte e prepara il cibo alla sua famiglia e dá ordini alle sue domestiche.
Pensa ad un campo e lo compra e con il frutto delle sue mani pianta una vigna.
Si cinge con energia i fianchi e spiega la forza delle sue braccia.
È soddisfatta, perché il suo traffico va bene, neppure di notte si spegne la sua lucerna.
Stende la sua mano alla conocchia e mena il fuso con le dita.
Apre le sue mani al misero, stende la mano al povero.
Non teme la neve per la sua famiglia, perché tutti i suoi di casa hanno doppia veste.
Si fa delle coperte, di lino e di porpora sono le sue vesti.
Suo marito è stimato alle porte della città dove siede con gli anziani del paese.
Confeziona tele di lino e le vende e fornisce cinture al mercante.
Forza e decoro sono il suo vestito e se la ride dell’avvenire.
Apre la bocca con saggezza e sulla sua lingua c’è dottrina di bontà.
Sorveglia l’andamento della casa; il pane che mangia non è frutto di pigrizia.
I suoi figli sorgono a proclamarla beata e suo marito a farne l’elogio:
“Molte figlie hanno compiuto cose eccellenti, ma tu le hai superate tutte! ”.
Fallace è la grazia e vana è la bellezza, ma la donna che teme Dio è da lodare.
Datele del frutto delle sue mani e le sue stesse opere la lodino alle porte della città.
(Pv 31,10-31)

Lucio Musto 2 feb. 02 parole 448
 
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view post Posted on 29/3/2013, 12:52
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La moglie di Giobbe




Gb 2. 19. 31.
La moglie “ umana”



La moglie di Giobbe ha sofferto quasi tutte le tribolazioni del marito. Egli ha perso tutto il suo bestiame, le mandrie, i cammelli e tutti i suoi figli; in più è malato di una malattia dolorosa e fastidiosa. Riconosce che tutto è volere di Dio e perciò tutto accetta.

Salute a parte, ha perso anche lei tutto: casa, la famiglia, proprietà.

Il suo atteggiamento e la sua reazione sono esattamente quelli che Satana si aspettava da Giobbe: l'obiettivo di Satana è stato realizzato nella moglie di Giobbe e non in Giobbe stesso.

La moglie di Giobbe si è resa conto che aveva ceduto alla manovra di Satana? Ha compreso di aver risposto alla disgrazia soltanto sulla base dei propri sentimenti, diventati in lei sorgente di amarezza? Non conosciamo la risposta a queste domande.
Tutto ciò che sappiamo è che ha reagito come la maggior parte della gente in quelle circostanze:
si è arrabbiata con Dio ed ha insistito perché Giobbe facesse lo stesso.
La maggior parte della gente avrebbe agito in quel modo. La maggioranza avrebbe suggerito la stessa cosa.
Il personaggio della moglie di Giobbe è introdotto dopo quello di Giobbe, uno dei più ricchi e più grandi uomini del suo tempo.

Mentre è seduto fuori delle mura della città, Giobbe non incolpa Dio di ciò che gli è successo. Sua moglie, probabilmente non così fedele e certamente non così paziente, e gli suggerisce:

"Ma lascia stare Dio, e muori!" (Gb 2:9)

La moglie di Giobbe senza dubbio considera la morte rapida come il metodo migliore per sfuggire alla situazione. E' una donna normale, che non riesce a sopportare con il marito la sofferenza e non riesce così a riportare la vittoria meravigliosa di fidarsi di Dio anche se non capisce le circostanze in cui vive.

Vi è tuttavia un altro lato della moglie di Giobbe. Aveva resistito di fronte all'afflizione del marito, alla perdita di tutti i loro figli e dei beni materiali: era sopravvissuta a queste prove. Come suo marito, era sconcertata in mezzo a così tante calamità. La causa del suo discorso potrebbe essere stata ispirata da compassione e amore verso il marito. Probabilmente preferiva vederlo morire che soffrire in quel modo.

Ogni volta che soffriamo, la nostra fede è messa alla prova.

Se lasciamo che le emozioni prendono il controllo, come la moglie di Giobbe, malediremo Dio e saremo come lei: amari, arrabbiati ed insensati.

La sofferenza mette alla prova la nostra fede in Dio.

Poiché l'ira Sua è solo per un momento,ma la Sua benevolenza è per tutta una vita.
La sera ci accompagna il pianto; ma la mattina viene la gioia. (Sal 30,5)



Dal Web http://digilander.iol.it/donnecristianenelweb/index.htm SARAGUIAT I (trascrizione libera autorizzata il 25/11/01) parole 456
 
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view post Posted on 30/3/2013, 04:23
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Abisag




1Re
L’incolpevole pietra dello scandalo



Abisag è una splendida vergine sunamita presa e data a Davide, ormai vecchio e malato, perché “lo riscaldasse”. La Bibbia non dice se fu per imposizione o la fanciulla fu consenziente; precisa però che ella si prese cura del re e che non ci fu fra loro rapporto coniugale.

Più oltre è di nuovo nominata poiché viene chiesta in moglie da Adonia che tenta una nuova furbizia per usurpare il trono del fratello Salomone; infatti era allora costume in Israele che la vedova di un re potesse sposare solo un altro re. Adonia riesce a raggirare la zia Betsabea al punto di mandare lei, ignara, a chiedere al re la mano della ragazza, ma non inganna l’avvedutezza di Salomone che ne smaschera la malizia e lo fa mettere a morte.

Non sappiamo il resto della storia di Abisag. La sua figura scompare nell’oblio lasciando nel lettore il senso malinconico del destino di una fanciulla che benché bellissima e virtuosa viene adoperata come un oggetto, un aggeggio qualsiasi: lo scaldapiedi di un vecchio, lo strumento per una usurpazione.

Ma forse non scompare del tutto del tutto. Alcuni studiosi vedono la bellezza della giovane sunamita esaltata nella figura della sposa nel “Cantico dei Cantici” , la dolcissima protagonista del celebre e appassionato poema d’amore. Se è così, anche lei ha avuto la giusta ricompensa per la sua disponibilità.


Lucio Musto 6 gen. 2002 parole 245
 
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view post Posted on 31/3/2013, 10:36
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Sara

Gn Is NT
La donna della Bibbia



Sara, moglie di Abramo, è la donna biblica per antonomasia; non a caso è quella, di gran lunga, citata più volte. Più di Eva, mamma di tutta l’umanità, più di Ester, eroina e vanto del popolo eletto. Anche più di Maria, madre santa di Gesù e madre nostra.

Il perché di tanta risonanza, mi piace ravvisarlo nel fatto che Sara è più “normale” di ogni altra donna citata nel Sacro Libro, più vicina nei comportamenti e nelle azioni alle nostre sorelle, alle nostre mogli. Come queste, noi vediamo la Donna Biblica come una santa, ma con la “s” minuscola. Una persona dabbene, piena di ogni virtù e capacità che conta, ma una donna normale. Che soffre, che s’indigna, lotta quando può e china il capo quando deve, umanamente incredula ma rispettosa sempre della Volontà del suo Dio. Fragile, umana, ma mai debole. Centoventisette anni di coerenza e dignità. Una santa appunto, con la “s” minuscola, come noi vediamo le nostre donne, come vorremmo che fossero.

I fatti della vita di Sara, peraltro arcinoti, si riassumono facilmente. Moglie del Patriarca Abramo era sterile; marchiata cioè della maggior umiliazione che potesse avere una moglie ebrea. Perché Abramo abbia comunque una discendenza ella consente, con quale prostrazione è facile immaginare, che egli abbia un figlio, Ismaele, da una schiava: Agar.

Ad un certo punto, la Bibbia ci tiene a precisare che Abramo ha cent’anni e Sara novanta, e che quindi sono rassegnati a non avere altri figli e ripongono ogni sogno futuro nel figlio della schiava al quale sono certo affezionati, tre sconosciuti, che solo vagamente si intuiscono come inviati di Dio affermano che Sara avrà, entro un anno, un figlio suo.

Da questi, figlio di donna libera e non di schiava (Gal 4,22-31) nascerà la stirpe di Abramo . Ismaele ed Agar saranno allontanati dalla casa, ma non senza benedizione o ricompensa divina: la loro funzione biblica era in questa sottolineatura, ed Ismaele sarà comunque “padre di dodici re” (Gn 17,20).

Sono gli atteggiamenti di Sara, a rendercela così vicina, così familiare. Quando si rende conto che per lei non ci sono più speranze (umane) di concepire si sacrifica, con dolore ma senza incertezze, al superiore interesse della famiglia, e porta lei stessa la schiava egizia al marito, ma quando questa, gravida si inorgoglisce e quasi spera di prendere il posto di padrona di casa, Sara con altrettanta fermezza fa valere il suo buon diritto e la sua dignità non solo verso la serva, ma anche verso il marito:

“L’oltraggio fatto a me ricada su di te! io ti ho dato in seno la mia serva e lei ora che ha concepito mi guarda con disprezzo. Il Signore sia giudice fra te e me!” (Gn 16,5)

Abramo non può far altro che riconoscere il buon diritto della moglie, che comunque non sa superare la sua gelosia e bistratta tanto la povera Agar finché questa è costretta ad andarsene. A noi fa certamente pena la mamma maltrattata, ma non riusciamo ad irritarci contro Sara: è così condividibile il suo astio!… Ed infatti anche l’Angelo del Signore non la castiga. Consola Agar, ma giustifica anche Sara.

Ride Sara, quando sente che il messaggero annuncia al marito la sua prossima maternità. Lei sa bene che non è una cosa possibile, e considera quelle parole un pietoso, affettuoso augurio dell’Ospite. Il Signore la rimprovera: perché si permette di pensare che esistano cose impossibili a Dio? Ma noi comprendiamo anche questa momentanea mancanza di fede. Quante volte capita anche a noi, di dubitare!

S. Paolo poi, ci fa capire che questo tentennamento fu addirittura premiato perché, umano, fu momentaneo e ci mostra la profondità dell’evento miracoloso:

Per fede anche Sara, benché fuori di età, ricevette forza di concepire, perché ritenne fedele colui che aveva fatto la promessa. (Eb 11,11)

Il figlio di Sara sarà Isacco, che significa “colui che ride” o “che porta gioia”. E’ il figlio della promessa, finalmente compiuta. Ancora bambino, sarà prefigurazione del Cristo, offerto in sacrificio dal Padre.


Lucio Musto 3 aprile 2002 parole 885
 
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La vedova di Sarepta

1Re 17
La Carità ospitale e la fiducia in Dio



… “Poi aggiunse: Nessun profeta è bene accetto in patria.
Vi dico anche: c'erano molte vedove in Israele al tempo di Elia,
quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi
e ci fu una grande carestia in tutto il paese;
ma a nessuna di esse fu mandato Elia, s
e non a una vedova in Sarepta di Sidone”.
(Lc 4:24 ss)

Con queste parole l’Evangelista Luca ci ricorda la donna di cui scriviamo adesso. Una vedova, cioè una persona di poca importanza ed uno scomodo peso per la comunità, secondo la cultura degli Giudei, e per di più di una città lontana è scelta, ancora una volta, dall’Ispiratore della Bibbia per insegnarci una virtù, una faccia particolare dell’Amore Universale.

Il fatto biblico è noto quanto la frase di S.Luca. Elia si ferma ad un pozzo e chiede ad una donna di dargli dell’acqua. Ai leviti ed ai profeti, secondo la legge era assicurata la sussistenza da tutto il popolo di Israele, ed Elia chiede alla donna di dargli anche da mangiare. Ma quella risponde che non ha nulla, se non un pugno di farina ed un po’ d’olio e conclude: “… ecco, stavo raccattando della legna per cuocere quel poco per me e mio figlio, mangiarlo e poi morire.” (1Re 17:12)

Elia la consola e le promette: dammi ad mangiare e non temere, la tua farina ed il tuo olio non si esauriranno fino al termine della carestia. La donna si fida, dandoci una prima testimonianza di fede, il miracolo si compie ed i tre ebbero da mangiare “per parecchio tempo”, precisa la Bibbia.

In questa figura di donna pagana che pur poverissima sacrifica il suo ultimo sostentamento per darlo all’uomo affamato che lo chiede, si riconosce un perfetto esempio di carità ospitale, una precisa indicazione di come dovrebbe essere il nostro quotidiano atteggiamento nei confronti di ogni nostro prossimo verso il quale di solito ci porgiamo maldisposti e diffidenti.

Ma non finisce qui l’insegnamento della vedova di Sarepta. Nel capoverso successivo il Libro dei Re ci racconta che, tempo dopo, il ragazzo si ammala e muore.
La donna inveisce contro Elia, ma non direttamente per la perdita che deve patire (come temo faremmo tanti di noi), ma dice “che ho a che fare con te, uomo di Dio? Sei venuto qui per rinnovarmi la memoria dei miei peccati e far così morire mio figlio?”. Ecco, se la piglia con i suoi peccati, e teme solo che la presenza del profeta possa aver richiamato l’attenzione di Dio sulle sue colpe scatenando la sua ira.

La sua fede è ancora imperfetta ed impastata di passioni umane ed ha bisogno ancora di una spinta. Ma quando vede che le insistenti preghiere di Elia riescono ad ottenere che il giovanetto sia rianimato non esita più ed esclama: “ora sì, riconosco in te un uomo di Dio, e che la Parola del Signore nella tua bocca è verità” .


Lucio Musto 1 apr. 2002 parole 541
 
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La Sulammita
Cn 1-8
Il canto all’Amore



La Sulammita è forse un nome generico, il modo comodo per citare una persona che non è una persona fisica, ma piuttosto un simbolo, un’immagine, un’archetipo di ciò che si vuole esaltare.
La Sulammita è la Sposa del Cantico dei Cantici, il più poetico, il più bello, il più umano dei libri dell’Antico Testamento. Il carme della Sulammita è il canto dell’Amore, il canto dell’amore gioioso.

177 versi d’amore, questo è il “Cantico dei Cantici” chiamato così, come notazione ebrea per sottolinearne la superlatività. Come il “Santo dei Santi” è il Santissimo, o il “Re dei Re” il massimo sovrano, così il “Cantico dei Cantici” è il canto per eccellenza, l’esplosione della gioia.

La storia è quella di una giovane promessa sposa, poi sposa, poi moglie, e del suo pretendente amato, poi fidanzato, poi marito. Ma chi sia la Sposa, chi sia l’Amato non si sa, non è detto.
I veri protagonisti non sono loro. E’ l’Amore.

Interpretazione letterale? Interpretazione allegorica? Ed allora si è voluto vedere nei versi dolcissimi un manuale di comportamento ed un insegnamento per l’amore casto coniugale, l’attenzione del Dio di Israele per il suo popolo, l’atteggiamento della Vergine alla richiesta dell’Angelo, una prefigurazione dell’amore del Cristo per la sua Chiesa, l’ineffabile dolcezza della preghiera che porta al perdono ed alla riconciliazione.

Ci si è voluto vedere la profondità dell’abbandono nell’amore casto:

Il mio diletto è mio ed io son sua. Egli pasce il suo gregge fra i gigli

Ci si è voluto vedere le premure prodigate alla fragilità della sposa:

Io vi scongiuro o figlie di Gerusalemme per le gazzelle e le cerve del campo,
non svegliate, né scuotete il mio amore, finché non piaccia a lui


E la gioia della donazione di se nell’Amore:

il mio diletto è sceso nel suo giardino fra le aiuole del balsamo
io sono del mio diletto ed egli è mio lui che pasce il suo gregge fra i gigli


Noi non oseremo dare una interpretazione definitiva all’ode della Sulammita, che comunque ci tocca per la sua dolcezza e musicalità.

Rendiamo oggi solo grazie per quell’intervento certamente divino che ispirò il Concilio di Iamnia (90-100 d.C.) a fissare quest’opera nel novero dei Libri ispirati e preservarlo così dall’oblio, e ci sentiamo di unirci ad Origene che esclamava:

Beato colui che entra nel Santo, più beato colui che entra nel Santo dei Santi.
E così beato chi comprende i Cantici, e di più chi apprezza il Cantico dei Cantici


Lucio Musto 2 apr. 2002 parole 422
 
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bibbiasusannailgiglio



Susanna – “il giglio”


Dn 13
La verità con Dio trionfa



Susanna è la protagonista di un apologo morale in appendice al libro di Daniele. Il fatto raccontato su di lei è arcinoto: è insidiata da due giudici ospiti nella casa del marito che cercano di sedurla ma lei, pur sapendo di creare una situazione di scandalo, resiste e si ribella “gridando a gran voce” per non “far ciò che è peccato al cospetto di Dio”. I due perfidi personaggi, irritati per esser stati respinti e per scagionarsi accusano Susanna di adulterio con un terzo immaginario uomo che sarebbe fuggito alle grida di lei. Forti anche della loro posizione sociale di giudici e notabili del luogo sostengono l’uno la testimonianza dell’altro e la giovane viene condannata per adulterio, alla lapidazione.

Ma la donna ha una chiara fede in Dio:
“«Dio Eterno, che conosci le cose segrete e tutto ti è noto prima ancora che avvenga, tu sai che è falsa la testimonianza deposta da questi contro di me; eppure ecco che io muoio, mentre non ho fatto nulla del male di cui costoro mi accusano». Ed il Signore ascoltò la sua voce.” (Dn 13,42-43)

Tutto in questo versetto è l’insegnamento della storia di Susanna. Di ingiustizie ed atrocità se ne commettevano tante all’epoca, come altrettante innumerevoli sono ancora ai nostri giorni e le vittime innocenti non si contano. Ma è la cristallina limpidezza della fede che in definitiva salva.
Susanna non impreca per la sua sorte, non si lamenta, non chiede esplicitamente giustizia. Non maledice nemmeno i suoi aguzzini. Si rivolge al Dio in cui crede, ne riconosce la potenza e gli espone il fatto secondo lei ingiusto che le accade; si sente in diritto di esprimere la sua opinione ma non suggerisce azioni. Per Susanna, il giudizio spetta solo a Dio.

“ed il Signore ascoltò la sua voce”. L’ultima frase del capitolo. Nella sua lapidarietà riecheggia le parole che Gesù ripeterà in più occasioni: “va, la tua fede ti ha salvato”. E’ l’indicazione di che cosa conta realmente nel rapporto col divino, e che dovrebbe farci riflettere su tante nostre titubanze e presunzioni...

Il Signore non impiega molto a risolvere il problema: dice la Bibbia: “…suscitò il Santo Spirito in un giovanetto di nome Daniele che si mise ad urlare «Io sono innocente del sangue di costei!»…” (Dn 13,46). E questo ragazzetto in quattro e quattr’otto fa cadere in contraddizione e condannare i due autorevoli e scaltri personaggi semplicemente interrogandoli separatamente e chiedendo loro sotto quale pianta avessero visto Susanna in fragranza di adulterio. “Sotto un leccio!” rispose uno e “sotto un lentisco” disse l’altro, in evidente contraddizione.

La saggezza che viene da Dio è assai più grande di ogni fama umana, la Sua potenza non è comparabile con le forze dell’uomo,anche quando si manifesta attraverso cose piccolissime come una semplice parola di testimonianza fallace, il suo volere non può essere oggetto di nostro giudizio. Siamo creature e dovremmo imparare a comportarci sempre come tali.


Lucio Musto 22 dicembre 2001
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martiriosettefratelli



Sette fratelli Martiri

2Mac 7
La fede senza compromessi



Nel secondo libro dei Maccabei si racconta di sette fratelli martirizzati per la loro ostinata ortodossia alla legge di Mosè. Ad ognuno di loro, dal primogenito al più giovane, viene ordinato di mangiare carne suina; ed al loro rifiuto ad uno ad uno vengono straziati pubblicamente fino alla morte.

La parte più agghiacciante del racconto è nell’atteggiamento della loro madre che, presente alle sevizie, non cerca di allontanare il loro supplizio ma al contrario li incoraggia ad essere forti ed affrontare ogni tortura con dignità nella certezza della resurrezione:

“… Egli, per la sua misericordia, renderà a ciascuno di voi lo spirito e la vita, perché voi ora, per amore delle Sue leggi, non vi curate di voi stessi.” (2Mac 7,23)

Il racconto continua dicendo come il re Antioco, quando dei giovani non rimaneva vivo che il minore, sollecitasse la donna per convincerlo all’abiura, anche promettendogli ricchezze e gioie. Ma la madre incita ancor più il figlio ad irridere il carnefice ed aver sprezzo della morte nella speranza di un glorioso ricongiungimento futuro. Conclusione scontata è che alla fine la donna viene uccisa anch’essa.

Sembra che in questo racconto non ci sia nulla che possa interessarci. Per la nostra mentalità è del tutto inconcepibile che il rifiuto di mangiare un cibo proibito sia giustificazione di esecuzione capitale per sette fratelli, e soprattutto che la madre non muova un dito per evitare la mattanza; ma gli Israeliti di quell’epoca, si sa, avevano una mentalità diversa. Superando poi la materia del racconto, troviamo una condotta spirituale precisa, ammirevole e da imitare; quella che trasforma alcuni perseguitati in martiri, alcuni uomini in eroi.

Il contegno che la madre sollecita nei suoi figli non è altro che la coerenza fra i propri principi e la propria vita fuori da ogni compromesso. Quel “vivere eroicamente la virtù” che, ci insegna la Chiesa, è alla base della Santità.

E non è il caso di defilarsi con la scusa sin troppo banale e consunta che queste cose sono solo appannaggio di persone particolari come appunto santi ed eroi. Ricordiamoci che Dio è padre, e come tale non ci opprimerà mai con prove che non possiamo sopportare. Gravose si, ma non insopportabili. La saggezza popolare ce lo indica chiaramente: “Dio dà il freddo secondo i panni”.
Dio Padre non potrà che indicarci amorevolmente la strada.

Per dirlo in altre e più immediate parole, possiamo farci prestare una frase da Chiara Lubich :

“Vivere la volontà di Dio nell’attimo presente con perfezione è trovare la via della propria santificazione. Non tutti infatti possono consacrarsi a Dio, non tutti possono fare pesanti penitenze e digiuni… Tutti, invece, possono fare la Volontà di Dio. Il fare la volontà di Dio è la carta d’accesso delle folle alla santità”


Lucio Musto 29 dicembre 2001
 
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view post Posted on 8/4/2013, 05:01
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La figlia di Iefte

Gdc 11
Il voto insensato



Il destino della figlia di Iefte è talmente grottesco che vogliamo ben sperare stia nel sacro Libro solo come occasione di ammonimento ed insegnamento, e non si sia realmente consumato così.

Il fatto è presto detto. Iefte, nell’ardore della battaglia contro gli Ammoniti, chiede aiuto al Signore. Prega perché col suo intervento gli arrida la vittoria. E come facciamo tutti noi quando cerchiamo di conquistarci la benevolenza divina, anche lui promette qualcosa:
“se mi dai la vittoria, quando ritorno a casa ti offro in olocausto la prima persona che incontro” – giura. Non è un voto da poco, ma anche la grazia richiesta è importante: evidentemente la battaglia si stava mettendo proprio male.
Iefte vince la battaglia ed è determinato a mantenere il suo voto. La sua fede nel Signore è fuori discussione. Torna, e la prima persona che gli si fa incontro, fra danze e canti gioiosi di vittoria, è sua figlia. Prima figlia ed unica, perché non ha fratelli né sorelle. Ancora giovane, e sola, perché non ha figli per garantire la discendenza. Infatti non è sposata ed è vergine.

Ma la parola del babbo viene prima di tutto, e la fanciulla si sottomette subito, esortando anzi Iefte a non tradire la sua promessa:
“Concedimi soltanto questo: lasciami libera ancora due mesi, perché io possa andare errando per i monti con le mie compagne a piangere la mia verginità” (Gdc 11,37)

La sua vita è importante, ma da ragazza costumata, l’onore della casa lo è di più. Ancora non sposata, piange soprattutto la posterità mancata per la famiglia.

Un paio di considerazioni sull’atroce scena.

La fede di Iefte è certamente grande ed incrollabile, ma è da imputare alla sua caparbietà, non ad un sano rapporto con Dio. Non è per il Signore il sacrificio umano: è precisato nella Legge, e c’è come esempio l’episodio di Isacco e di suo padre Abramo. Iefte, che è anche giudice d’Israele, lo conosce senz’altro. Ma lui, cieco e cocciuto, uccide la figlia, perché così ha detto.

Quante volte anche noi ci incaponiamo sulle nostre fissazioni ed andiamo dritti per la nostra strada senza metterci minimamente in discussione, senza pesare le nostre fisime!… Quante volte amiamo gli altri come ci sembra giusto, ma senza aprire gli occhi all’amore, senza chiederci come l’altro vorrebbe essere amato, creando così uno stato di disagio e di oppressione, portando quindi sofferenza dove volevamo portare gioia!. Forse è il caso di rifletterci su.

Del voto di Iefte c’è da dire che è un quanto meno inconsulto. Una sentenza di morte non può essere giustificata da una vittoria. Una sentenza di morte non è mai giustificata. Non per la legge di Dio, non per la coscienza dell’uomo. Un voto sacrilego nella sua formulazione, delittuoso nell’essere adempiuto. Certamente non gradito a Dio.

Nel nostro piccolo, anche noi dovremmo stare attenti alle nostre parole, ai nostri voti, ai nostri giuramenti. Spesso parliamo a vanvera, spinti da emotività o impeto del momento, senza soppesare quello che andiamo dicendo. E promettiamo cose che poi difficilmente potremo mantenere, o ci sarà molto costoso; e delle due l’una: o perdiamo la faccia, o ci rimettiamo le penne.


Lucio Musto 1 febbraio 2002
 
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