Le stronzate di Pulcinella

LA STORIA E I PERSONAGGI CHE ATTENTARONO ALLA VITA DI MUSSOLINI

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view post Posted on 4/1/2013, 11:07
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Pulcinella291 Forum

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Dopo essere divenuto capo del governo Mussolini è poi oggetto di una serie di attentati, ma gia' il 28 ottobre 1922 , giorno della marcia su Roma , rischio' di morire quando uno dei suoi squadristi, inciampando , lascio'partire dal suo fucile un colpo che lo sfioro' ad un orecchio.
Il primo attentato fu ideato il 4 novembre 1925 dal deputato social-unitario Tito Zaniboni

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e dal generale Luigi Capello. Zaniboni avrebbe dovuto far fuoco con un fucile di precisione austriaco da una finestra dell'albergo Dragoni, fronteggiante il balcone di Palazzo Chigi da cui si sarebbe dovuto affacciare il Duce per celebrare l'Anniversario della vittoria, ma le forze di polizia guidate dal questore Giuseppe Dosi sventarono tempestivamente la minaccia.Zaniboni non sapeva che del suo gruppo faceva parte un informatore di polizia (tale Carlo Quaglia) e che quindi tutte le sue mosse erano fino a quel momento sorvegliate dal questore Giuseppe Dosi. L'operazione di polizia scattò quando Zaniboni, giunto in albergo, si apprestò a salire nella propria camera. In un armadio della camera fu rinvenuto il fucile e nei pressi della piazza San Claudio fu trovata parcheggiata una Lancia Dilambda che aveva acquistato pochi giorni prima e che sarebbe servita per la fuga[1]. Zaniboni fu quindi arrestato tre ore prima dell'attentato insieme al generale Luigi Capello.
Nei giorni giorni seguenti fu sciolto il Partito Socialista Unitario e chiuso il quotidiano La Giustizia che ne era l'organo ufficiale.
Il processo per "alto tradimento" e la carcerazione
Dopo essere rimasto in carcere fin dalla cattura il processo incominciò l'11 aprile 1927 dopo la promulgazione delle Leggi fascistissime. In un primo tempo durante l'istruttoria Zaniboni respinse le accuse dichiarando di non aver intenzione di uccidere nessuno, al massimo Roberto Farinacci, ma non Mussolini[3]. Infine a sorpresa, nel dibattimento, rivendicò le proprie responsabilità:
« Dichiaro senz'altro che il giorno 4 novembre 1925 era mia intenzione sopprimere il Capo del Governo, Benito Mussolini. Se la P.S. invece di giungere all'Albergo Dragoni alle 8.30 fosse giunta alle 12.30 io avrei senza alcun dubbio compiuto il mio gesto. Il delitto aveva lo scopo di rimettere il potere nelle mani di Sua Maestà il Re. »
Insieme a lui fu processato anche il generale Luigi Capello

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accusato di aver partecipato all'organizzazione dell'attentato che fu condannato a trent'anni. Capello respinse sempre tutte le accuse arrivando a definire Zaniboni "un energumeno" e dichiarò di averlo incontrato il 2 novembre soltanto per elargirgli un prestito di 300 lire che serviva per finanziare una manifestazione di reduci antifascisti.. Il coinvolgimento di Capello emerse ugualmente e Zaniboni cercò inutilmente di scagionarlo dal fallito attentato. ammettendone però il coinvolgimento disse: "avevo notato la sua avversione alla mia azione e l'intenzione a staccarsi da me".
Zaniboni fu condannato per alto tradimento a venticinque anni di reclusione, poi commutati nel confino a Ponza. Nel corso del processo ammise anche di aver ottenuto finanziamenti in tal senso dal capo del governo cecoslovacco Tomáš Masaryk..Nel 1927 fu e condannato a trent'anni di carcere, di cui ne scontò solo dieci, venendo liberato il 22 gennaio 1936. Passò gli ultimi anni in un appartamento in via stazione san Pietro a Roma e l'estate a Grottaferrata
Nel 1935 Zaniboni scrisse una lettera in cui ringraziò Mussolini per aver aiutato economicamente la figlia a terminare gli studi universitari e nel 1939 fece per iscritto alcune affermazioni compromettenti in favore del fascismo.

il secondo attentanto

Il 7 aprile 1926 Violet Gibson,

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un’aristocratica inglese che nel 1926 tentò di uccidere Mussolini. Mentre il duce era in Piazza Campidoglio a Roma in mezzo alla folla, la donna sparò un colpo d’arma da fuoco, mancandolo per pochissimi centimetri. Il proiettile infatti sfiorò il naso di Mussolini, ferendolo e causandogli una copiosa perdita di sangue. Il giorno dopo il duce si presentò in visita ufficiale in Libia col naso bendato, come mostrano diverse foto.

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La donna fu sottratta a fatica dal tentativo di linciaggio della folla, e venne subito arrestata. Le indagini non furono mai in grado di chiarire il movente del delitto. La pista del complotto è stata sondata, ma non ha portato ad alcun risultato. Le dichiarazioni della Gibson furono contraddittorie e non aiutarono a risolvere il caso. Le perizie psichiatriche la dichiararono insana di mente, motivo per il quale venne chiusa per sei mesi in un manicomio di Roma, durante le indagini. Alla fine, il Tribunale speciale per la difesa dello Stato dichiarò la donna incapace di intendere e di volere ed emise sentenza di non luogo a procedere. Violet Gibson venne subito trasferita in Inghilterra, e lì finì in un altro ospedale psichiatrico, a Northampton, dove morì nel 1956.L’attentato della Gibson salì agli onori della cronaca i giorni immediatamente successivi, ma poi i giornali fecero cadero il silenzio. Venne esaltata la forza e l’invulnerabilità del Duce, che “coraggioso” continuava a presentarsi in pubblico nonostante i pericoli. L’attentato venne usato a fini di propaganda, e fu uno dei tanti pretesti per emanare le famose “fascistissime leggi”.

III ATTENTATO
Alle ore 10.20 di sabato 11 settembre 1926, sul piazzale di Porta Pia a Roma,l'anarchico Gino Lucetti

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esce dal riparo che si era scelto dietro ad un chiosco di giornali e lancia una bomba, fornitagli secondo la versione ufficiale dal cugino Gino Bibbi, contro l'automobile su cui viaggiava il dittatore.La bomba rimbalza sulla macchina ed esplode a terra. Lucetti venne arrestato e in commissariato dichiarò: «Non sono venuto con un mazzo di fiori per Mussolini. Ero intenzionato di servirmi anche della rivoltella qualora non avessi ottenuto il mio scopo con la bomba».La bomba rimbalzò contro lo sportello della vettura ed esplose in strada ferendo 8 persone.
Venne processato nel giugno 1927 e condannato all'ergastolo (la pena di morte venne reintrodotta nell'ordinamento italiano solo in seguito). Con lui vennero condannati a vent'anni come complici anche Leandro Sorio e Stefano Vatteroni (al Vatteroni si imputava, tra l'altro, d'aver commentato un passo del "Principe" in cui si parla dell'uccisione del tiranno), ma sull'organizzazione dell'attentato non è mai stata fatta piena luce:Due altri anarchici, a carico dei quali si può provare soltanto che sono amici del Lucetti, vengono ugualmente condannati a gravi pene. (Attentato a Mussolini, ferimento, tentativo di provocare pubblico tumulto) Lucetti Gino Avenza (Ms) nato 31-8-1900 marmista 30 anni; Vatteroni Stefano Avenza (Ms) nato 21-2-1897 stagnino 18 anni 9 mesi; Sorio Leandro Brescia nato 30-3-1899 cameriere 20 anni»
Una parte della storiografia, ha avanzato l'ipotesi che il gesto di Lucetti fosse stato accuratamente preparato e l'organizzazione avesse coinvolto numerose persone di varie città italiane. Comunque sia, in seguito, Vincenzo Baldazzi, uno dei massimi esponenti degli Arditi del Popolo e poi fra i capi della Resistenza romana, fu condannato per aver fornito la pistola a Lucetti, in seguito lo stesso Vincenzo Baldazzi fu nuovamente condannato per un aiuto finaziario fornito alla mamma di Lucetti.
Nel 1943, dopo 17 anni di detenzione, Lucetti fu liberato dagli Alleati ma morì poco dopo ad Ischia a causa di un bombardamento il 17 settembre 1943.
Mussolini restò particolarmente turbato dal fatto che un potenziale tirannicida potesse arrivargli tranquillamente a pochi passi e per attenatare alla sua vita. Quasi immediatamente, per reazione, ordinò la sostituzione del capo della polizia.

IV ATTENTATO:non fu fatta mai chiarezza
La sera del 31 ottobre 1926, durante la commemorazione della marcia su Roma a Bologna e per inaugurare lo Stadio Littoriale

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appostatosi in piazza del Nettuno, il quindicenne Anteo Zamboni

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spara, senza successo, un colpo di pistola verso il capo del governo, sfiorandone il petto. Additato dai gerarchi fascisti, fu linciato sul posto dalle camicie nere di Leandro Arpinati con numerose coltellate.Il proiettile colpì il cordone dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro che Mussolini indossava a tracolla e si conficcò nella tuba del sindaco Umberto Puppini.l tenente del 56º fanteria che per primo individuò e bloccò il giovane attentatore fu Carlo Alberto Pasolini, padre di Pier Paolo Pasolini. Non sono ancora stati chiariti i motivi del gesto di Zamboni: la memoria collettiva lo ricorda come giovane anarchico, proveniente da famiglia di anarchici.
L'episodio fu poi usato da Mussolini come pretesto per un giro di vite che aumentò la repressione e l'autoritarismo dello Stato.Le indagini di polizia si svolsero inizialmente negli ambienti squadristi bolognesi ipotizzando in un primo tempo un coinvolgimento di capisquadra locali come Farinacci ed Arpinati, ma che non diedero alcun risultato. A quel punto si concluse che l'attentato non poteva che essere opera di un elemento isolato. Una ulteriore indagine sollecitata dal Ministero degli Interni fu svolta ancora dai magistrati del Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato, ma anch'essa approdò alle medesime conclusioni conseguite dalla polizia. Il padre di Zamboni sostenne che la paternità dell'attentato era del figlio, il quale aveva agito "con pieno senso di responsabilità".
I procedimenti penali successivi condannarono a 30 anni di prigione il padre Mammolo e la zia dell'attentatore (Virginia Tabarroni, amante di Mammolo Zamboni) per aver comunque influenzato il giovane nelle sue scelte ma, pochi anni dopo (1932), Mussolini decise di graziare i due condannati e di sovvenzionarne il fratello Assunto che si trovava in difficoltà economiche e si era deciso ad arruolarsi come delatore per l'OVRA.
Mussolini ebbe modo di condannare il linciaggio di Zamboni con queste parole:
« Degli attentati da me subiti, quello di Bologna non fu mai completamente chiarito. Certo che me la cavai per miracolo. L'esecutore, o presunto tale, fu invece linciato dalla folla. Con questo atto barbarico, che deprecai, l'Italia non dette certo prova di civiltà. »

ATTENTATI SVENTATI
Negli anni venti e trenta del Novecento numerosi anarchici italiani in esilio, individualmente o collettivamente, concepirono piani per attentare alla vita di Benito Mussolini, nella convinzione che la sua uccisione potesse produrre la crisi del regime fascista, dato lo stretto legame esistente tra il fascismo e la personalità carismatica del suo capo. Si trattava da un lato di scelte che implicavano una dose di coraggio inusitato in chi si assumeva personalmente il compito di sopprimere il tiranno, dal momento che tali missioni erano pressoché suicide, dall'altro di azioni molto rischiose sotto il profilo politico: mancare il bersaglio poteva significare – come avvenne poi effettivamente – contribuire inintenzionalmente ad accrescere il consenso per lo Stato totalitario. Ci furono due casi in cui gli attentatori, Michele Schirru e Angelo Pellegrino Sbardellotto, furono arrestati prima di compiere l'attentato: il Tribunale Speciale, servendosi delle leggi eccezionali introdotte dallo Stato fascista nel novembre del 1926 dopo "l'attentato Zamboni" , che reintroducevano in Italia la pena di morte abrogata nel 1888, estendendola agli attentatori contro il capo del governo, e che equiparavano l'intenzione di commettere il reato al reato compiuto, li condannarono a morte mediante fucilazione.
Michele Schirru (Padria, 19 ottobre 1899 – Roma, 29 maggio 1931) era un anarchico italiano naturalizzato statunitense.

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Nato a Padria (SS) e cresciuto a Pozzomaggiore (SS), paese natale della madre, in Sardegna, emigrò giovanissimo negli Stati Uniti d'America e vi prese la cittadinanza: risale a quel periodo la sua adesione all'anarchismo, ne "L'Adunata dei Refrattari" di New York. Qui commerciò banane al mercato di Arthur Avenue, North Bronx; fu in prima fila nelle lotte a sostegno di Sacco e Vanzetti, come nella latente guerra civile fra fascisti ed oppositori nella comunità degli emigrati italiani.Ritorna in Europa attraverso Parigi, luogo di ritrovo di molti esuli antifascisti. Schirru coltiva un'idea fissa, che diverrà immediatamente una sua ferma convinzione: uccidere Mussolini come unica soluzione per liquidare il fascismo. Il 2 gennaio 1931 si avvia verso l'Italia con l'intenzione di realizzare il piano.
Giunge a Roma la sera di lunedì 12 gennaio, alloggiando all'albergo Royal, scelto come luogo strategico rispetto agli itinerari abituali di Mussolini, che vi transita quattro volte al giorno. Per due settimane studia attentamente il tragitto attraverso Villa Torlonia, Porta Pia, il Viminale, Via Nazionale e Piazza Venezia, senza incrociare una sola volta le trasferte dell'obiettivo. Scoraggiato e velocemente sfiduciato, conosce una ballerina ungherese di 24 anni, Anna Lucovszky, di cui si innamora e a cui dedica le sue giornate. Ma la sera di martedì 3 febbraio viene arrestato da un maresciallo all'Hotel Colonna, luogo degli incontri con Anna. Al commissariato tenta il suicidio con la propria pistola: il proiettile trapassa entrambe le gote e sopravviverà, sfigurato. Nonostante il reato non potesse in alcun modo essere punito con la pena di morte, Schirru fu processato dal Tribunale Speciale Fascista davanti al quale dichiarò il suo odio sia per il Fascismo, sia per il Comunismo. In data 28 maggio 1931, lo condannò alla fucilazione (che fu eseguita il giorno seguente) con questa motivazione, riportata nella sentenza:«Chi attenta alla vita del Duce attenta alla grandezza dell'Italia, attenta all'umanità, perché il Duce appartiene all'umanità». La fucilazione avvenne a Casal Braschi e il plotone fu formato da militi sardi offertisi volontariamente.. Morì urlando: "Viva l'Anarchia!"

Angelo Pellegrino Sbardellotto (Vanie, 1º agosto 1907 – Roma, 17 giugno 1932)

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Quintogenito di undici figli, era nato il 1 agosto 1907 a Villa di Villa, frazione di Mel (BL), piccolo paese costruito su una collina posta sulla riva sinistra del Piave, tra Feltre e Belluno. Nei primi mesi del 1924, ancora minorenne, aveva seguito nell'emigrazione il padre, Luigi: prima in Francia, poi in Lussemburgo, infine in Belgio, lavorando come minatore e come operaio meccanico. È questo certamente il periodo in cui il suo antifascismo maturò nel senso di una entusiastica adesione all'ideale anarchico.
Nel 1928 la madre, con l'ausilio della maestra, gli scrisse per convincerlo a tornare in Italia, dato che era arrivata la cartolina per la chiamata alle armi. Angelo rispose con una lettera assai polemica nei confronti dell'esercito e del fascismo, dichiarando la sua fede anarchica e affermando di volere sottrarsi alla coercizione militare. La madre, Giovanna, cattolica osservante e di mentalità tradizionalista, trasalì quando la maestra le lesse la risposta del figlio, e chiese consiglio al parroco del paese. Uno di questi due – il parroco o la maestra – pensò bene di segnalare alle autorità il contenuto della lettera: così si ricava da una informativa del 1929 spedita a Roma al casellario politico centrale dal prefetto di Belluno. Fu allora che Sbardellotto venne iscritto nel registro dei renitenti alla leva e nella Rubrica di Frontiera, schedato come anarchico, segnalato tra i 270 antifascisti italiani più pericolosi del Belgio e sottoposto a sorveglianza a Seraing, in provincia di Liegi (Belgio), dove risiedeva (in una pensione sita in Rue de Marai 91) e dove lavorava (nella miniera di carbone di Ougrer Marihai.
Gli ambienti degli antifascisti italiani in esilio all'estero, dei "fuoriusciti", come venivano chiamati allora, pullulavano di spie, di confidenti della polizia politica fascista, di infiltrati: per gli anarchici, come per gli altri gruppi antifascisti, era difficile sottrarsi ai tentacoli dell'Ovra.
Rientrato in Italia, venne arrestato il 4 giugno del 1932 con un passaporto falso, una pistola e un’ordigno e confessò di avere avuto l’intenzione di uccidere Mussolini. Dopo la confessione o presunta tale si svolse una rapida istruttoria di due soli giorni (11-13 giugno 1932), condotta dal procuratore generale Vincenzo Balzamo. La mattina del 16 (dalle 9.00 alle 11.15) nella famosa aula della IV sezione del palazzo di giustizia di Roma, Sbardellotto venne rapidamente e sommariamente giudicato colpevole dei reati ascrittigli dal Tribunale Speciale presieduto da Guido Cristini e condannato a morte. Nelle ore successive alla lettura della sentenza egli evitò di presentare la domanda di grazia. "Ma che pentito e pentito, io rimpiango solo di non averlo ammazzato", pare abbia detto all'avvocato d'ufficio che lo aveva invitato ad elemosinare pietà al duce. All'alba del giorno seguente, alle ore 5.45 del 17 giugno, dopo aver rifiutato il prete, Sbardellotto fu fucilato a Forte Bretta da un drappello di militi capitanati da Armando Giuia.
 
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