Rovegno è un piccolo comune al centro della Valtrebbia, a circa 50 km da Genova e da Piacenza.
Tra i boschi che sovrastano il paese sorse una colonia costruita in soli sette mesi nel 1934 dal regime Costruita in soli sette mesi e inaugurata il 29 Luglio 1934 dal Segretario Amministrativo del P.N.F On. Giovanni Marinelli, la Colonia è alta tre piani, dotata di grandi dormitori, refettori, cucine, uffici, infermeria, servizi igienici con doccia, terrazze, piscina e palestra.
La colonia era stata voluta per ospitare bambini poco abbienti e che avevano spesso problemi polmonari. In ogni turno dava ospitalità a circa 500 bambini e 200 persone di servizio, era dotata delle più moderne attrezzature e di un notevole apparato sportivo quale palestra, piscina, campi da tennis e calcio.
Nel 1944-45 la colonia divenne infatti base delle bande partigiane e prigione per militari e civili della R.S.I. Quel luogo, sperduto tra le montagne e non controllabile dalle formazioni repubblicane, fu, per gli sfollati più abbienti che vivevano nei paesi vicini, per gli abitanti di fede fascista e soprattutto per i militi ed i soldati catturati in imboscate nella provincia di Genova e nel basso Piemonte, sinonimo di terrore, violenza e morte. Decine, tra militi della G.N.R., bersaglieri e alpini della Monterosa, squadristi della “Silvio Parodi”, catturati negli attacchi ai posti di blocco che circondavano la grande Genova furono infatti portati alla colonia di Rovegno. Ad essi vennero uniti, nel marzo 1945, oltre ottanta militi della Brigata Nera di Alessandria, distaccamento di Tortona, Novi e Serravalle i quali, insieme a circa quaranta militari tedeschi erano stati circondati e costretti alla resa presso l’abitato di Garbagna (AL) dopo aver perduto sedici uomini in combattimento. In tutti questi casi la resa era avvenuta per la sproporzione del numero, la posizione favorevole dei partigiani, ma soprattutto la convinzione dei combattenti repubblicani che i loro nemici, italiani come loro, avrebbero risparmiato le loro vite rispettando le convenzioni internazionali. Una pia illusione subito smentita dai fatti. A Rovegno non vi era la base di un reparto militare, ma un covo. Dal 22 marzo 1945 si susseguirono uccisioni ed i boschi attorno alla colonia si riempirono di fosse: cadono i militi diciassettenni, viene ucciso il Maggiore Garibaldo, ufficiale dei bersaglieri eroe della Grande Guerra, muore sotto le raffiche di sten la giovane Bianca Canavesi accompagnata alla morte da un anziano magistrato, viene assassinato il giovanissimo Dino Campora di Sarezzano (AL), muoiono gli ufficiali tedeschi e cadono i loro soldati, quei “mongoli” della 134ma Divisione Turkestan volontari contro il comunismo. Si svuota la bella colonia e si riempiono le fosse; in una, la più grande, verranno trovate 39 salme. Gli ultimi a cadere sotto il piombo inglese sparato da mano fratricida sono le due persone più “importanti”, il Maggiore Celeste Giannelli, comandante della Brigata Nera di Tortona, il cui figlio è già stato ucciso, ed il militare Paolo Grazzini, figlio del vicefederale di Genova. Forse avrebbero potuto servire per uno scambio di prigionieri, ma quel giorno non servono più, è il 29 aprile, la guerra è finita. Nei mesi successivi inizia il calvario dei familiari per il recupero delle salme, dalle fosse vengono estratti i miseri resti deturpati dalla decomposizione e dagli animali: 72 italiani e 3 tedeschi avranno un nome, per altri 85 uomini nessuno potrà mai testimoniare l’identità. Quando la sorella di Grazzini chiese ad un partigiano “Perché li avete uccisi?”, ricevette una risposta agghiacciante “Erano fascisti e poi non potevamo lasciarli andare per come erano ridotti”. Solo Dio conosce il numero dei prigionieri della colonia di Rovegno, per anni i contadini videro i resti spuntare dal terreno e li coprirono con una palata di terra od una fascina di legna, certamente più di 200 persone non tornarono da essa (nel 1946 la Prefettura ed il Comune di Genova parlarono di 600 salme sparse per i boschi della zona).
Dal dicembre del 1944 al 30 aprile 1945 la colonia divenne teatro di tragici eventi: un numero imprecisato di prigionieri , compresi quelli civili, furono fucilati e gettati in più fosse comuni nei boschi limitrofi. I corpi venivano sepolti in svariate fosse sparse per i boschi attorno alla colonia. Le esecuzioni continuarono fino al termine delle ostilità. L'episodio storico è citato in alcune opere di Giampaolo Pansa e descritto nel suo racconto Il bambino che guardava le donne.