Le stronzate di Pulcinella

attori non protagonisti e semplici comparse della II guerra mondiale

« Older   Newer »
  Share  
Pulcinella291
view post Posted on 31/3/2014, 09:28 by: Pulcinella291
Avatar

Pulcinella291 Forum

Group:
AMMINISTRAZIONE
Posts:
42,104

Status:


ITALIA

Era 10 giugno 1940 quando il Ministro degli Esteri Galeazzo Ciano convoco’ i due ambasciatori inglese e francese a Palazzo Chigi per le ore quattro e trenta del pomeriggio. Li accolse in divisa di ufficiale dell’aeronautica, la stessa che aveva indossato durante la guerra d’Etiopia e consegno' loro la dichiarazione di guerra. Alle sei del pomeriggio di quel tiepido 10 giugno 1940 Mussolini rende partecipe il suo popolo, raccolto in tutte le piazze d’Italia. Grido' "vinceremo!" Molti , moltissimi acclamarono , pochi restarono in silenzio.Comincio' cosi' la triste avventura Italiana . E noi qui, ora, racconteremo alcune storie di coloro che, in quel momento particolare, si fecero trasportare dal clamore tonante e degli altri che invece restarono in un tetro silenzio.

Nella steppa russa


Nel 1942 sul Don, nei pressi di Staligrado, le truppe italo-tedesche cedono sotto l'urto dell'Armata Rossa. In una terribile marcia di ritirata sulla neve, dei duecentoventimila soldati italiani ne sopravvivranno meno della metà attori non protagonisti e semplici comparse di una pagina epica e controversa della nostra ultima storia di guerra, come un po tutte le campagne militari impegnate dal nostro esercito, in una guerra che non era degli italiani (ne cercata e neanche voluta).

Tra il 5 agosto 1941 e il 30 luglio 1942, il CSIR ebbe 1.792 morti e dispersi, e 7.858 feriti e congelati. Tra il 30 luglio 1942 e il 10 dicembre 1942, l'ARMIR ebbe 3.216 morti e dispersi, e 5.734 feriti e congelati. Per quanto riguarda le perdite durante la battaglia sul Don e la ritirata (11 dicembre 1942 - 20 marzo 1943), le cifre ufficiali parlano di 84.830 militari che non rientrarono nelle linee tedesche, e che furono indicati come dispersi, oltre a 29.690 feriti e congelati che riuscirono a rientrare. Le perdite ammontarono quindi a 114 520 militari su 230 000[39]. Andarono inoltre perduti il 97% dei cannoni, il 76% di mortai e mitragliatrici, il 66% delle armi individuali, l'87% degli automezzi e l'80% dei quadrupedi.Circa il destino dei dispersi, l'unico dato certo è che a partire dal 1946 vennero rimpatriati dalla Russia 10.030 prigionieri di guerra italiani (gli ultimi 28 prigionieri, tra cui il maggiore MOVM Alberto Massa Gallucci furono rilasciati nel 1954, a oltre undici anni dall'armistizio del 3 settembre 1943); è quindi possibile calcolare che 74.800 militari italiani morirono in Russia, in quattro distinte fasi: durante i combattimenti sul Don; di stenti durante la ritirata; durante le marce di trasferimento verso i campi di prigionia, le famigerate "marce del Davaj" (dalla parola usata come incitamento dai soldati russi di scorta) e i successivi trasferimenti in treno; e durante la prigionia stessa. Ripartire i caduti tra le diverse fasi è molto difficile: come dato orientativo e molto discusso, si parla di circa 50.000 italiani morti nei campi di prigionia, durante il viaggio per raggiungerli o, seppure in cifre inferiori rispetto ai soldati tedeschi, uccisi nei momenti immediatamente successivi la cattura, sorte che toccava in particolar modo a chi non era in grado di compiere la marcia verso i campi di prigionia (feriti, congelati gravi, ammalati).

Alberto Massa Gallucci (Napoli, 1905 – Napoli, 13 novembre 1970)
Primo comandante della Divisione corazzata Pozzuolo del Friuli, ricostituita nel 1955, reduce di Russia, ove combatté con il grado di maggiore in servizio di stato maggiore presso il Quartier Generale della 9ª Divisione fanteria "Pasubio", meritò la medaglia d'oro al valor militare e rimase prigioniero dei sovietici fino al 1954.Le motivazioni della medaglia:«Ufficiale di Stato Maggiore del Comando Divisione « Pasubio », distintosi per ardire in precedenti azioni, inviato in un settore reggimentale già intaccato per infiltrazioni di pattuglie avversarie, eseguiva instancabilmente, con 36 gradi sotto zero, continue sortite, di giorno e di notte, per raccogliere sicure informazioni, riuscendo anche ad avere ragione, con l’aiuto di due carabinieri, di elementi avversari. Con tale generosa e temeraria opera, dava apporto decisivo al ristabilimento della situazione, così da consentire successivamente l’inizio ordinato del ripiegamento da parte del reggimento. Il secondo giorno del ripiegamento, rimasto isolato dalla colonna cui apparteneva, alla testa di un reparto di formazione riusciva a guidare in terreno irto di insidie, fra popolazioni ostili, combattendo strenuamente contro agguerrite truppe fra le quali catturava anche prigionieri. All’imbrunire, in impari lotta contro mezzi corazzati, dopo aver reiterato altissime prove di valore, con la fede dei forti iniziava il tormentoso travaglio di undici anni di prigionia, durante i quali riconfermava le sue luminose doti di capo e di soldato, opponendo fiera resistenza a minacce, sevizie, punizioni e condanne. Dimostrava così che si può essere vinti materialmente, ma spiritualmente invitti"
Scrisse sulla sua esperienza bellica il libro No! Dodici anni prigioniero in Russia, in cui ricorda le terribili vicende della prigionia degli italiani in Russia, e, con particolare evidenza quella degli ultimi 28 prigionieri italiani rimasti prigionieri in Russia (tra cui il tenente Italo Stagno, morto a pochi giorni dalla liberazione) dopo il 1946 e fino al 1954.


Italo Stagno era nato a Cagliari nel 1902. È famosa la sua preghiera, imparata a memoria e riportata in Italia dal Ten. Medico M.O.V.M. Enrico Reginato suo compagno di prigionia.
Fu assieme all’allora maggiore Alberto Massa Gallucci uno dei maggiori esponenti dell’opposizione alla propaganda sovietica tra i prigionieri italiani. Morì pochi giorni prima di essere liberato. Il generale Alberto Massa Gallucci, una volta tornato in Italia si batté per la concessione al tenente Stagno di una medaglia d'oro per il suo contegno sia in guerra che in prigionia.

« ... Sono stanco
e occorre che vada
che trovi l'ultimo lido
prima che venga notte ...
Dammi, o Signore, la strada! »
Dopo aver frequentato la scuola allievi ufficiali di complemento, svolge nel 1937 il servizio come sottotenente nel 7° reggimento alpini. Alla sua conclusione rientra quale funzionario del Ministero delle Corporazioni a Roma fino al successivo richiamo per istruzione nell’ottobre 1939. Ripresa la sua attività professionale, è già una nota figura del sindacalismo nazionale, valente giornalista e deputato al parlamento, viene promosso al grado di tenente dal 1° gennaio 1940 ed il 2 ottobre 1941 è richiamato in servizio per mobilitazione. Assegnato a disposizione del reparto comando del 7° reggimento alpini divisione “ Pusteria ” che opera in Montenegro, lo raggiunge in zona di guerra. Rientrato in Italia nel giugno 1942 è trasferito al 1° reggimento alpini della divisione “Cuneense” e, assegnato al comando reggimentale, il 28 luglio parte per il fronte russo. Il 25 settembre è in linea sul Don. Con la grande offensiva russa del gennaio 1943, il 17 inizia con l’ordine di ripiegamento la tragica odissea. Nei giorni che seguono emergono le sue doti che lo vedono, con eroici slanci, battersi sempre alla testa dei suoi uomini. Dopo dieci giorni di marce forzate ed aspri combattimenti, il 28 gennaio a Valujki sopraffatto dopo disperata resistenza viene catturato. Inizia così il calvario della prigionia affrontata in ogni circostanza con fierezza e generoso altruismo nei campi di concentramento a Susdal, campo 171 a Kazan, campo 5 a Kiev. Subisce più volte punizioni quale organizzatore di clandestine S.Messe, per le aperte difese dei compagni colpiti da ingiustizie e illegali vessazioni e per aver sempre respinto come ufficiale la revisione del proprio passato. Più volte leva la voce sopra tutti per esortare e ricordare il giuramento e il dovere di essere degni della bandiera e della fede per la dignità e memoria dei compagni caduti. Fra il novembre e dicembre 1946 scrive due sublimi lunghe preghiere che ne raccolgono ed evidenziano tutto il nobile animo. Colpito da grave morbo viene internato al Wald-Lazaret dove muore il 24 settembre 1947. Alla memoria dell’eroico ufficiale viene decretata la medaglia d’oro al valor militare.

Don Guido Maurilio Turla



era nato a Sulzano in Provincia di Brescia l’11 ottobre 1910. Entrato nei frati minori cappuccini è ordinato sacerdote nel 1935 e dopo vari incarichi nei conventi di Albino e Sovere, nel gennaio 1941 viene assegnato quale cappellano militare al battaglione “Saluzzo” del 2° reggimento alpini divisione “Cuneense” che opera sul fronte greco-albanese. Durante questo periodo idea la Madonna degli alpini tradotta poi al rientro in Italia nel maggio 1941 in un significativo quadro. Questa immagine, consacrata dall’Ordinario Militare Mons. Angelo Bartolomasi, viene riprodotta su una cartolina ed una medaglia adottata da tutti gli alpini. Il 5 agosto 1942 riparte con il “Saluzzo” destinato al fronte russo, dove ancora si distingue come sacerdote e soldato meritando nel dicembre la medaglia di bronzo al valor militare. Con il forzato ripiegamento dal Don, inizia dal 17 gennaio 1943 il suo calvario con le marce forzate ed i combattimenti, prodigandosi verso i feriti e congelati a rischio della propria vita ed è decorato di croce di guerra. Il 28 gennaio cade prigioniero a Waluiki. Internato nel campo di Krinowaja, qui nel marzo 1943 compone la Preghiera del prigioniero in Russia. La sua opera di dedizione e carità verso il prossimo, ma anche di sofferenza, prosegue nei campi di Oranki, Susdal e Odessa fino al 9 luglio 1946 quando finalmente liberato rientra in patria. Minato nel fisico deve sottoporsi a varie cure fino all’aprile 1951 quando, sufficientemente ristabilito, è designato parroco nel centro termale di Boario. Qui si dedica in particolare alla realizzazione di un tempio dedicato alla Madonna degli alpini quale voto fatto in prigionia. L’imponente opera portata a termine nel 1957 viene inaugurata il 29 settembre dall’Arcivescovo di Brescia con l’intervento di numerose autorità civili ed i suoi mai dimenticati alpini. Le sue memorie legate alla prigionia, compaiono a puntate già nel 1946 su alcuni giornali, poi raccolte in un primo libro pubblicato nel 1948, quindi in un secondo edito nel 1964 dal titolo “7 rubli al cappellano”. La sua vita terrena si chiude il 17 maggio 1976 ed è sepolto nella cripta all’interno del tempio con il commosso saluto degli alpini che ne onorano la bella figura di cappellano militare.

I prigionieri dei russi


Tragica fu infine la sorte dei soldati italiani caduti prigionieri dei sovietici durante la battaglia sul Don. Dei circa 68.000 prigionieri, circa 20.000 perirono già durante le durissime marce a piedi verso i campi di detenzione per le carenze logistiche e organizzative sovietiche e per il brutale trattamento subito. Altri 27.000 morirono nei campi a causa di malattie e delle scadenti condizioni di detenzione; solo circa 21.000 fecero ritorno in patria nel periodo 1945-1947.

Questi prigionieri furono costretti a marciare per centinaia di chilometri e poi a viaggiare su carri bestiame per settimane, in condizioni allucinanti, senza mangiare, senza poter riposare la notte, con temperature siberiane. Coloro che riuscirono a raggiungere i lager di smistamento — improvvisati, disorganizzati, con condizioni igieniche medioevali — erano talmente denutriti e debilitati che le epidemie di tifo e dissenteria ne falciarono ben presto la maggior parte. Esausti dalla lunga e faticosa ritirata, condotta in condizioni climatiche avverse nel lungo inverno russo, lungi dal trovare presso i reparti dai quali venivano catturati, comprensione e conforto materiale, essi furono esposti al più inumano dei trattamenti. Depredati di tutto con sadica gioia (dagli oggetti preziosi, fino agli occhiali, al fazzoletto, alle foto delle persone care) quelli che scamparono alla immediata fucilazione al momento della cattura (quanti furono trucidati unicamente perchè portavano i gradi di ufficiali e quanti soltanto per essersi chinati a raccogliere una foto strappata e gettata via con disprezzo! ) privati degli effetti di corredo più idonei a proteggere dal freddo intenso, essi venivano ordinati in interminabili colonne che si allungavano tragicamente, lente, nella steppa bianca, durante giornate, durante settimane, spesso oltre la durata di un mese. Sovente le colonne venivano arrestate in aperta steppa ventosa e deserta, e bisognava spogliarsi al solo scopo di una ulteriore depredazione. Nessuna pietà per chi, privato delle scarpe, avrebbe dovuto continuare la marcia coi piedi avvolti in qualche straccio andando incontro al sicuro congelamento, o per chi, gia depredato del pastrano, privato della giacca, rimaneva con la sola camicia alla temperatura di 25-30 gradi sottozero. Di notte, luride stalle senza imposte erano il ricovero insufficiente di quei poveri relitti umani, costretti per intere settimane a dormire accovacciati l'uno contro 1'altro per mancanza dello spazio necessario a sdraiarsi. E quando la stalla c'era, era una fortuna. Perchè tante furono le volte in cui il bisognò dormire sul pavimento gelido d'una chiesa sfinestrata o sotto una semplice tettoia.
Per intere settimane, non un tozzo di pane. Persino le brave donne ucraine ben disposte verso gl'italiani che avevano imparato a conoscere, venivano spesso cacciate via in malo modo, quando si avvicinavano ad offrire un tozzo di pane o un po' d'acqua. Il personale di scorta era stato imbestialito dalla propaganda. E lo stato di esaurimento cresceva inesorabilmente. I feriti, i congelati, gli esausti, sempre più di frequente si abbandonavano su un ciglio nevoso del pesante cammino. E l'unico conforto che ricevevano era la raffica liberatrice di un mitra (1). Man mano che si procedeva verso i primi campi di raccolta (lontani centinaia di chilometri dal fronte) diventavano più frequenti quei corpi cerei, nudi, stecchiti, che dal ciglio fissavano con occhi vitreo il cielo. E più nessuno vi faceva caso. Si possono contare sulle dita di una sola mano coloro i quali, tra i superstiti, non sono venuti a contatto di tali tragiche scene. Fu questa la prima colossale falcidia. Ma ben presto seguirono le altre, quelle dei campi di smistamento: Krinowaja, Tambow, Miciurinsk.

Kaput yest?
Dove i sovietici superarono se stessi fu nel campo di Krinovaja. Furono buttati l’un sull’altro sani ed ammalati, ridotti ormai tutti larve di uomini, carichi di pidocchi, nei locali destinati ai quadrupedi di una grande caserma, in 27 nel box destinato ad un solo cavallo, senza paglia, senza luce, senza vetri alle finestre per fortuna scarsissime, senza alcuna possibilità di lavarsi, senza un locale destinato alla soddisfazione dei bisogni corporali, senza altra possibilità di attingere acqua che ad un pozzo, nel quale si trovavano i cadaveri di diversi militari ungheresi.
Languivano ed agonizzavano nel campo alcune decine di migliaia di uomini di diverse nazionalità.
Il vitto per gli ufficiali, consisteva giornalmente in un centinaio di grammi di pane di segala a forte coefficiente di umidità e pieno di scorie, ed in due gavettini con sì e no qualche buccia di patata; e, per i soldati, della stessa razione, distribuita ogni 4 o 5 giorni. Ben pochi ne uscirono vivi. In poco più di 30 giorni tra febbraio e marzo morirono in quel campo circa 27.000 uomini. La fame e la psicosi da essa determinata erano tali che negli ultimi tempi si ebbero a riscontrare tra i soldati diversi casi di antropofagia al giorno. Inutile parlare dell’assenza assoluta di ogni trattamento sanitario. Ne molto migliori furono le condizioni nei campi di Tambow e di Miciurinsk dove la mortalità raggiunse del pari cifre altissime.
Si giunge cosi al periodo delle epidemie, le qua1i in simili condizioni ambientali trovarono il loro terreno più adatto (tifo petecchiale, tifo addominale, dissenteria, e più tardi difterite) (2). In tali condizioni ebbe luogo verso la meta di marzo 1943 il trasferimento dai campi di smistamento a quelli di concentramento. Ed ebbe luogo soltanto per quelli che riuscivano a trascinarsi o ad essere trascinati da qualche compagno in stato fisico migliore, per i chilometri che separavano i campi dalle stazioni. Gli altri rimasero. E mai più nessuno ne ha saputo nulla.
In treno, oltre al tormento della fame, quello della sete. Davano un pezzo di pesce secco salatissimo e impedivano persino di scendere a prendere un pugno di neve. Ci si concedeva il ghiaccio che si formava lungo le pareti dei vagoni. E quanti hanno bevuto la propria urina! Si stava chiusi in 45 per ogni carro merci. Mancava, come sempre ormai da mesi, e cioè dal giorno della cattura, lo spazio materiale per stendersi. Tuttavia, giorno per giorno, un po’ di spazio si faceva. Ogni mattina, infatti, al saluto di prammatica del russo di scorta: “Kaput jest?” (E’ morto qualcuno?), la pesante porta di ciascun carro scorreva cigolando lugubremente sulla sua rotaia per lasciar passare almeno un morto.
Poi, finalmente, i campi. Tutti vedevano in essi la resurrezione. Quanti vi trovarono invece la morte! Una nuova marcia nella neve, spesso di decine di chilometri, a passo di corteo funebre. E nei campi, la moria, il dilagare delle epidemie, la pellagra, la distrofia, le polmoniti, le cancrene da congelamento. Rapidamente la zona dei “lazzaretti” si estese a tutti i singoli locali dei campi. E si chiamavano lazzaretti, non perchè là si venisse curati, ché mancava ogni più elementare mezzo di cura e di assistenza, dai medicinali al letto, ma perchè lì si moriva.
L'alimentazione, alquanto maggiorata, era sempre fortemente deficiente; negli ospedali si riceveva allora 400 grammi del solito pane nero immangiabile, 10 grammi di zucchero, due zuppe assolutamente liquide in cui galleggiava qualche pezzo di verdura, e pochi cucchiai di “cascia” (cereali bolliti). In compenso era sorto pero nei russi il culto dell'igiene, il quale si esauriva nel farci fare il bagno. Ogni pochi giorni gli infermi di qualsiasi malattia, e in qualsiasi stato, venivano accompagnati, seminudi, attraverso interminabili, gelidi cortili, spesso privi di sensi, e perciò barellati, al bagno. Ed il bagno mieté anch'esso le sue vittime. Quanti vi rimasero. E quanti morirono delle conseguenze!Comparse semplici comparse di questa immane tragedia.
Continua
 
Web  Top
23 replies since 19/3/2014, 09:24   8074 views
  Share