Le stronzate di Pulcinella

La serenata alle stelle, - di Alberto Carusi

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view post Posted on 14/4/2014, 16:12
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La serenata alle stelle



Essendo quella strana abitudine l’unica cosa originale del vecchio, in paese nessuno ci faceva più caso. E quando la gente lo vedeva, nelle sere di sereno incamminarsi verso la collina con la chitarra su di una spalla non commentava nemmeno più quella stranezza.

La stranezza era che il vecchio, nelle notti serene, d’inverno e ovviamente ancor più d’estate, passava la notte a suonare sulla collina.

Solo lui sapeva il perché, solo lui, il vecchio, sapeva delle sue serenate alle stelle, solo lui conosceva le struggenti emozioni che il pulsare di quel magnifico firmamento generavano in tutto il suo essere. All’inizio il suo smarrimento si era limitato ad una passiva osservazione di quello spettacolo che non lo appagava mai. Poi aveva sentito il bisogno di restituire in qualche modo bellezza alla bellezza. L’unica cosa che gli era sembrata adeguata a quella armonia era stata proprio la musica.

E, provando provando, era riuscito a trovare le note che sembravano andare in sintonia con il lieve pulsare di quelle infinite luci. E suonando immaginava il percorso che quelle luci percorrevano prima di arrivare fino a lui, sfiorando pianeti ed asteroidi, attraversando comete, nell’infinito di quello spazio, fino a precipitarsi su quel pianeta, puntando sulla collina dove lui aspettava.

Alle volte gli sembrava che le stelle esistessero solo per lui, e come in un gioco di bambino, volgeva le spalle al cielo per poi rigirarsi di scatto per vedere se le stelle erano ancora li anche quando lui non le guardava. E più si convinceva che quello spettacolo fosse solo per lui, più la necessità di adeguare la sua musica al firmamento aumentava. E il ritmo delle note seguiva l’andare della luce, più veloce per le stelle più grandi o vicine, più lento per le stelle più piccole, fioche, lontane.

In qualche occasione individuava alcuni astri che più degli altri gli sembravano stare ad ascoltarlo, ed a questi rivolgeva il suo dolce canto. Quasi che su quelle stelle si trovasse un amore perduto.

La sua musica era bellissima aveva sentenziato qualcuno che si era trovato a passare di notte nei pressi della collina ed aveva sentito il canto del vecchio. Bellissima ma diversa da tutte quelle conosciute, in fondo incomprensibile.

E probabilmente era vero perché parlava di una infinita profondità, di una grandezza, di una armonia che solo il vecchio riusciva a percepire ed a tradurre in musica.

Una volta capitò in paese un giovane cieco, si trattava del figlio di un paesano emigrato in una grande città. Tutti facevano a gara ad essere gentili con lui, ed a raccontargli dei fatti trascorsi della sua famiglia, delle storie del paese, di qualche pettegolezzo, e tra queste notizie gli parlarono, ovviamente, del vecchio che suonava sotto le stelle.
Il giovane volle conoscere il vecchio e tra loro nacque immediatamente una intesa. Una sintonia, una complicità, di quelle che nascono solo tra “diversi”. E il ragazzo approfittandosi della simpatia e della difficoltà che tutti avevano di fronte alla sua menomazione, strappò all’anziano la promessa di portarlo con lui sotto le stelle.

Quella sera il paese vide il vecchio ed il ragazzo, mano nella mano, che si incamminavano, chitarra al seguito, verso la collina.

Che cosa successe quella notte non fu dato sapere a nessuno, la cosa che stupì il paese fu, il giorno successivo, vedere il ragazzo, cieco dalla nascita, disegnare su un foglio, con tratto deciso, un magnifico cielo stellato.





Autore: Alberto Carusi 19 aprile 2005

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Racconto a quattro mani


C’era un ragazzo che andava in giro per il mondo.

Non avrebbe saputo dire se il mondo gli piacesse o no.

Tutti, in verità, erano gentili con lui, lo aiutavano, lo coccolavano.

Cercavano di confortarlo nella sua solitudine, il suo babbo infatti era emigrato in una grande città, ma sopratutto avevano pietà di lui.

Una grande pietà, perché il ragazzo era cieco dalla nascita.

Il ragazzo era ben conscio della sua menomazione, ma naturalmente non poteva figurarsela bene; lui, la luce, i colori, i panorami non li aveva mai visti e doveva basarsi solo sull’immaginazione.

Ma qualcosa non gli quadrava comunque, dentro. Pensava che gli altri, tutti quelli che avevano la vista, quella cosa meravigliosa come dicevano e che a lui mancava, avrebbero dovuto essere completamente felici, pieni di quella gioia che solo la consapevolezza di conoscere tutto quello che è intorno può dare.

Ed invece sentiva insoddisfazione, intorno a sé. La gente sembrava triste, forse ancora più triste di lui, che non vedeva.

Questo fatto gli era incomprensibile. Il mondo degli uomini appariva incompleto, monco di qualcosa di importante, oscurato da un’ombra, privato di un qualcosa di essenziale alla sua completezza.

La sua sensibilità, resa più acuta dalla menomazione congenita, glielo faceva intuire chiaramente. Paradossalmente vedeva. Al mondo degli uomini mancava la luce.

Fortunatamente in paese c’era il vecchio bizzarro, quello che ogni notte andava sulla collina. Che facesse freddo o caldo, fosse inverno o estate, andava con la sua chitarra a suonare quella strana, fascinosa, incomprensibile musica. Il ragazzo cieco lo cercò.

E quella notte si videro andare insieme, il vecchio strambo ed il ragazzo cieco, lentamente avanzare sul viottolo in salita, verso la piccola altura. La gente guardò, scrollando la testa, dubbiosa... un vecchio mezzo andato, ed un povero ragazzo minorato. E ne ebbe pietà.

Al mattino, erano di nuovo in piazza. Ed il giovane cieco, con un pezzo di gesso e un carbone, disegnò sul tavolino del bar, la bellezza infinita di un cielo stellato rilucente dell’amore di Dio.




Lucio Musto 19 aprile 2005
 
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