Le stronzate di Pulcinella

Gli Italiani:foto della seconda guerra mondiale

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Pulcinella291
view post Posted on 1/3/2015, 09:20 by: Pulcinella291
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Luglio del 1941 e il febbraio del 1943:l'impietosa campagna di Russia


Il Corpo di Spedizione Italiano in Russia, inviato sul fronte russo, inizia la sua attività il 10 luglio del 1941. Questa grande unità corrispondeva al XXXV Corpo d'armata del Regio Esercito ed integrava anche reparti di Camicie Nere della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e truppe straniere (come la Legione croata ed il Gruppo squadroni cosacchi "Campello").
Alla fine del 1942 iniziò la grande controffensiva sovietica a Stalingrado e sul Don, fronte tenuto da italiani, rumeni, ungheresi e tedeschi. Lo sfondamento travolse l’intera Ottava Armata Italiana. Per non rimanere accerchiati, i nostri soldati, mal vestiti, malnutriti e impreparati al durissimo inverno russo, si ritirarono; ma, ben presto, tra bufere di neve a quaranta gradi sotto zero, la ritirata diventerà una rotta. Gli alpini rimasero indietro per cercare di fermare l’avanzata dei carri armati russi.
l 17 gennaio 1943 gli alpini furono accerchiati. Marciavano nella neve per cercare di uscire dalla sacca in cui si erano venuti a trovare sotto i continui attacchi nemici. Chi non moriva colpito da arma da fuoco, moriva di gelo e di stenti nella lunga ed estenuante marcia sulle piste ghiacciate. Solo il 26 gennaio 1943 il comandante Reverberi della Divisione Alpina Tridentina compì un assalto disperato contro l’accerchiamento sovietico per cercare di raggiungere Nikolaevka e la via di fuga.
L’attacco riuscì e la colonna con i nostri soldati superstiti potè uscire dall’accerchiamento e iniziare la marcia di rientro, sempre in condizioni disperate.
Dei 227.000 partiti per la Russia, 100.000 non tornarono, 30.000 i ricoverati negli ospedali, feriti o assiderati. Gli alpini subirono perdite durissime. Dei 16.000 componenti la Divisione Giulia, 12.600 morirono o furono fatti prigionieri. Dei 17.000 uomini della Cuneense, ne tornarono in Patria solo 1300.













I soldati italiani nei campi di concentramento sovietici



chi restava indietro veniva ucciso con un colpo di parabellum dagli uomini della scorta che chiudevano la colonna. Ma spesso non ce n'era bisogno. I soldati cadevano ai margini della pista innevata in uno stato di torpore, preludio del congelamento .


Una volta giunti ai treni, i prigionieri italiani venivano caricati su carri bestiame nel numero di quasi cento per vagone, passeggeri di un viaggio della morte che sarebbe durato settimane. I treni con i prigionieri dovevano cedere la precedenza a quelli con i soldati russi diretti al fronte: nelle interminabili attese sui binari morti, i vagoni restavano chiusi, con temperature intorno ai 30 gradi sotto zero. 200 grammi di pane e, talvolta, un'aringa al giorno era il vitto di quel terrificante alloggio.
Nulla, nei campi di concentramento, era stato preparato per l'accoglienza dei prigionieri: "del resto l'Unione Sovietica non aveva aderito alla Convenzione di Ginevra e quindi non riconosceva le norme che garantivano il corretto trattamento dei prigionieri di guerra". Il trasferimento degli italiani avvenne così in circa 400 campi, alcuni dispersi ai confini con l'Afghanistan e la Cina: sono i campi di Krinovaja, Oranki, Susdal, Tambow, che a un orecchio comune non possono provocare certo la stessa agghiacciante sensazione dei nomi dei celebri lager nazisti incastonati nel cuore dell'Europa "civilizzata".
"Dei 50mila italiani giunti nei campi alla fine dell'inverno 1942-'43 ne torneranno a casa solo 10mila". I russi pensarono poi ad applicare il principio del divide et impera tra i prigionieri, utile a un loro miglior controllo. Nei primi mesi di permanenza la percentuale dei decessi raggiunse punte del 90%, essendo tra l'altro l'assistenza sanitaria nulla.


 
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