Giugno 1960
“La Resistenza continua…”
Sabato 14 maggio 1960, il Movimento Sociale Italiano decise di convocare il sesto congresso a Genova, città decorata di medaglia d'oro della Resistenza e da cui era partita l'insurrezione del 25 aprile, fu considerata come un'occasione per indebolire il governo Tambroni. Il precedente congresso missino si era svolto a Milano, città anch'essa decorata con la medaglia d'oro, senza nessuna protesta (a Milano i missini appoggiavano la giunta comunale fin dal 1956). Inizialmente la convocazione del congresso missino al teatro Margherita, in via XX Settembre, non suscitò alcun tipo di reazione in città.
A Genova sia la situazione politica sia quella sociale erano molto tese, anche a causa della recente chiusura di diverse industrie, tra cui l'azienda meccanica Ansaldo-San Giorgio. Nonostante si fosse nel pieno di quello che è stato definito il "boom economico", le lotte sindacali contro le chiusure e le riduzioni di personale in generale si protraevano in città da circa un decennio.
Politicamente fino ad allora la città aveva visto la Democrazia Cristiana come partito di maggioranza relativa, seppur con una percentuale di voti inferiore alla media nazionale. Nelle elezioni del 1958, per la Camera dei deputati, a Genova la DC aveva ottenuto 169.648 voti (pari al 33,7%, contro il 42,4% nazionale), seguita dal Partito Comunista Italiano con 124.603 voti (24,7%, contro il 22,7% nazionale) e dal Partito Socialista Italiano con 104.956 voti (20,8%, contro il 14,2% nazionale); in quella tornata elettorale il Movimento Sociale Italiano era risultato il quinto partito cittadino, con 24.695 voti (4,9%, a livello nazionale era il quarto partito, con il 4,8% dei voti). Queste elezioni furono le uniche il cui l'MSI ebbe un risultato percentuale a Genova migliore della media nazionale.
Nelle elezioni comunali del 1960 venne eletto per la terza volta il democristiano Vittorio Pertusio. Tra i partiti che avevano ottenuto dei seggi in consiglio comunale, la DC aveva ottenuto 166.452 voti (33,3% e 27 seggi), il PCI 130.987 voti (26,2%, 22 seggi), il PSI 105.713 voti (21,1%, 17 seggi), il PSDI 38.632 voti (7,7%, 6 seggi), il MSI 24.037 voti (4,8%, 4 seggi), il PLI 19.519 voti (3,9%, 3 seggi) e il PRI 6.577 voti (1,3%, con 1 solo seggio).
Il 25 maggio 1960 la giunta guidata da Pertusio si dimise, a causa dell'impossibilità di raggiungere una maggioranza per l'approvazione dei bilanci, per via del voto contrario del MSI. A Pertusio subentrerà il 1º giugno il commissario straordinario Nicio Giuliani, che rimarrà in carica fino all'8 febbraio 1961.
Dalle successive elezioni politiche del 1963 il PCI diverrà partito di maggioranza in città, con un forte aumento dei propri votanti (passato in città dal 24,7% del 1958 al 30,8% del 1963, su scala nazionale dal 22,7% al 25,3%), e un vero e proprio crollo dei voti cittadini per la DC (passata in città dal 33,7% al 25,8%, su scala nazionale dal 42,4,7% al 38,3%). La posizione di primo partito cittadino verrà confermata nelle successive elezioni comunali del 1964 (dove il PCI otterrà il 31,7% dei voti e 26 seggi, contro il 27,4% e 22 seggi della DC, ma che vedranno nuovamente eletto il democristiano Pertusio alla carica di sindaco), e in generale in tutte le consultazioni successive.
Il 2 giugno il senatore comunista Umberto Terracini (che era stato presidente dell'Assemblea costituente), durante un discorso tenuto a Pannesi, nel comune di Lumarzo (un comune della Val Fontanabuona, in provincia di Genova), nella ricorrenza della Festa della Repubblica, invitò le forze che si rifacevano ai valori della Resistenza a organizzare una riunione contro il congresso del MSI, ritenuto una provocazione contro Genova.
Il 5 giugno l'Unità, nella sua edizione genovese, pubblicò una lettera-appello scritta da un operaio, in cui si chiedeva che la città prendesse posizione contro l'annunciato congresso del MSI.
Il giorno successivo, il 6 giugno, su iniziativa della federazione del PSI, i rappresentanti locali dei partiti comunista, radicale, socialdemocratico, socialista e repubblicano, dopo essersi riuniti per decidere una posizione comune sul congresso, stamparono un manifesto in cui, denunciando il congresso missino come "una grave provocazione", lo additavano al "disprezzo del popolo genovese nei confronti degli eredi del fascismo".
Il 13 giugno alla richiesta di non fare svolgere il congresso si aggiunse in maniera ufficiale la Camera del lavoro. Due giorni dopo, il 15 giugno, una manifestazione indetta con lo scopo di protestare contro il suo svolgimento vide la partecipazione stimata di 20.000 persone e si registrarono i primi scontri (poi sedati dai carabinieri), nella zona di via San Lorenzo (strada adiacente all'omonima cattedrale), tra un gruppo di manifestanti e alcuni neofascisti.
Il 24 giugno un comizio di protesta contro il congresso, indetto dalla Camera del lavoro, che si doveva svolgere nella zona del porto, fu vietato dalla Questura, con la motivazione che l'autorizzazione non era stata chiesta coi tre giorni di anticipo previsti dalla legge.
Il 25 giugno, durante un nuovo corteo di protesta organizzato dalle federazioni giovanili del PCI, del PSI, del PSDI, del PRI e dei radicali, a cui aderirono anche i portuali, vi furono nuovi scontri, questa volta in via XX Settembre, tra manifestanti e polizia. Nel corso di quel corteo si decise d'indire per il 2 luglio un comizio, nel quale sarebbe intervenuto Ferruccio Parri.
Il 27 giugno 1960 al presidente del consiglio Tambroni fu consegnato, da parte dei dirigenti del MSI, un rapporto, in cui si diceva che il deputato missino ligure Giuseppe Gonella aveva raccolto informazioni che portavano a ritenere il prossimo congresso a rischio di disordini. Secondo questa nota, in parte a causa delle condizioni precarie di povertà e disoccupazione in cui vivevano i lavoratori del porto, in cerca di uno sfogo per il malcontento accumulato, in parte per la configurazione stessa del centro storico, che poteva favorire eventuali scontri, la situazione sarebbe potuta degenerare. Nella nota il MSI informava Tambroni che era stato ipotizzato dal segretario Michelini di chiedere al governo la proibizione del congresso per motivi d'ordine pubblico, in modo da evitare il pericolo, senza però che si sapesse che la decisione era stata richiesta dagli stessi missini; ma la proposta era stata fermamente respinta dagli altri dirigenti del partito. In conclusione, il MSI rendeva noto d'aver deciso di celebrare il congresso, ma anche di far giungere a Genova "almeno un centinaio di attivisti romani, scelti tra i più pronti a menar le mani": decisione quest'ultima che venne resa pubblica tramite la stampa, e sottoposta a critiche nei giorni successivi agli scontri.
A rendere ancora più incandescente la situazione intervenne la notizia, riportata dal quotidiano Il Giorno, della partecipazione ai lavori del congresso di Carlo Emanuele Basile, sottosegretario all'Esercito e prefetto della città ai tempi della Repubblica Sociale Italiana. Basile era conosciuto a Genova per gli "editti" del marzo 1944 contro lo sciopero bianco e le proteste indette dagli operai, a cui succedette nel mese di giugno la deportazione di alcune centinaia di lavoratori nei campi di lavoro della Germania nazista. Per le sue azioni durante la guerra Basile venne prima assolto, poi condannato a morte, per poi essere nuovamente assolto dopo ulteriori ricorsi, grazie anche a una serie di amnistie e condoni, continuando nel dopoguerra la sua attività politica all'interno del MSI.
Secondo Donato Antoniello e Luciano Vasapollo, in Eppure il vento soffia ancora (2006), la presenza di Carlo Emanuele Basile invece sarebbe stata annunciata dai dirigenti del MSI insieme con quella di Junio Valerio Borghese. I due saggisti citano come riferimento il libro di Nicola Tranfaglia Le Piazze. L'ipotesi relativa alla possibile presenza di Borghese è saltuariamente ricordata dalla pubblicistica che tratta di questi avvenimenti (anche solo per smentirla).
È stato ipotizzato che la presenza di Basile fosse un errore dovuto a un caso di omonimia, e che a essere ospite al congresso sarebbe stato Michele Basile, avvocato di Vibo Valentia e futuro senatore del MSI nella IV Legislatura.
Il 28 giugno venne indetta una manifestazione di protesta, nel corso della quale Sandro Pertini, affermando la sua opposizione al congresso, disse:
“Gente del popolo, partigiani e lavoratori, genovesi di tutte le classi sociali. Le autorità romane sono particolarmente interessate e impegnate a trovare coloro che esse ritengono i sobillatori, gli iniziatori, i capi di queste manifestazioni di antifascismo. Ma non fa bisogno che quelle autorità si affannino molto: ve lo dirò io, signori, chi sono i nostri sobillatori: eccoli qui, eccoli accanto alla nostra bandiera: sono i fucilati del Turchino, della Benedicta, dell’Olivetta e di Cravasco, sono i torturati della casa dello Studente che risuona ancora delle urla strazianti delle vittime, delle grida e delle risate sadiche dei torturatori. Nella loro memoria, sospinta dallo spirito dei partigiani e dei patrioti, la folla genovese è scesa nuovamente in piazza per ripetere “no” al fascismo, per democraticamente respingere, come ne ha diritto, la provocazione e l’offesa.
Io nego – e tutti voi legittimamente negate – la validità della obiezione secondo la quale il neofascismo avrebbe diritto di svolgere a Genova il suo congresso. Infatti, ogni atto, ogni manifestazione, ogni iniziativa, di quel movimento è una chiara esaltazione del fascismo e poiché il fascismo, in ogni sua forma è considerato reato dalla Carta Costituzionale, l’attività dei missini si traduce in una continua e perseguibile apologià di reato.
Si tratta del resto di un congresso che viene qui convocato non per discutere, ma per provocare, per contrapporre un vergognoso passato alla Resistenza, per contrapporre bestemmie ai valori politici e morali affermati dalla Resistenza.
Ed è ben strano l’atteggiamento delle autorità costituite le quali, mentre hanno sequestrato due manifesti che esprimevano nobili sentimenti, non ritengono opportuno impedire la pubblicazione dei libelli neofascisti che ogni giorno trasudano il fango della apologia del trascorso regime, che insultano la Resistenza, che insultano la Libertà.
Dinanzi a queste provocazioni, dinanzi a queste discriminazioni, la folla non poteva che scendere in piazza, unita nella protesta, né potevamo noi non unirci ad essa per dire no come una volta al fascismo e difendere la memoria dei nostri morti, riaffermando i valori della Resistenza.
Questi valori, che resteranno finché durerà in Italia una Repubblica democratica sono: la libertà, esigenza inalienabile dello spirito umano, senza distinzione di partito, di provenienza, di fede. Poi la giustizia sociale, che completa e rafforza la libertà, l’amore di Patria, che non conosce le follie imperialistiche e le aberrazioni nazionalistiche, quell’amore di Patria che ispira la solidarietà per le Patrie altrui.
La Resistenza ha voluto queste cose e questi valori, ha rialzato le glorie del nostro nuovamente libero paese dopo vent’anni di degradazione subita da coloro che ora vorrebbero riapparire alla ribalta, tracotanti come un tempo. La Resistenza ha spazzato coloro che parlando in nome della Patria, della Patria furono i terribili nemici perché l’hanno avvilita con la dittatura, l’hanno offesa trasformandola in una galera, l’hanno degradata trascinandola in una guerra suicida, l’hanno tradita vendendola allo straniero. Noi, oggi qui, riaffermiamo questi principi e questo amor di patria perché pacatamente, o signori, che siete preposti all’ordine pubblico e che bramate essere benevoli verso quelli che ho nominato poc’anzi e che guardate a noi, ai cittadini che gremiscono questa piazza, considerandoli nemici della Patria, sappiate che coloro che hanno riscattato l’Italia da ogni vergogna passata, sono stati questi lavoratori, operai e contadini e lavoratori della mente, che noi a Genova vedemmo entrare nelle galere fasciste non perché avessero rubato, o per un aumento di salario, o per la diminuzione delle ore di lavoro, ma perché intendevano battersi per la libertà del popolo italiano, e, quindi, anche per le vostre libertà.
E’ necessario ricordare che furono quegli operai, quegli intellettuali, quei contadini, quei giovani che, usciti dalle galere si lanciarono nella guerra di Liberazione, combatterono sulle montagne, sabotarono negli stabilimenti, scioperarono secondo gli ordini degli alleati, furono deportati, torturati e uccisi e morendo gridarono “Viva l’Italia”, “Viva la Libertà”. E salvarono la Patria , purificarono la sua bandiera dai simboli fascista e sabaudo, la restituirono pulita e gloriosa a tutti gli italiani.Dinanzi a costoro, dinanzi a questi cittadini che voi spesso maledite, dovreste invece inginocchiarvi, come ci si inginocchia di fronte a chi ha operato eroicamente per il bene comune.
Ma perché, dopo quindici anni, dobbiamo sentirci nuovamente mobilitati per rigettare i responsabili di un passato vergognoso e doloroso, i quali tentano di tornare alla ribalta?
Ci sono stati degli errori, primo di tutti la nostra generosità nei confronti degli avversari. Una generosità che ha permesso troppe cose e per la quale oggi i fascisti la fanno da padroni, giungendo a qualificare delitto l’esecuzione di Mussolini a Milano. Ebbene, neofascisti che ancora una volta state nell’ombra a sentire, io mi vanto di avere ordinato la fucilazione di Mussolini, perché io e gli altri, altro non abbiamo fatto che firmare una condanna a morte pronunciata dal popolo italiano venti anni prima.
Un secondo errore fu l’avere spezzato la solidarietà tra le forze antifasciste, permettendo ai fascisti d’infiltrarsi e di riemergere nella vita nazionale, e questa frattura si è determinata in quanto la classe dirigente italiana non ha inteso applicare la Costituzione là dove essa chiaramente proibisce la ricostituzione sotto qualsiasi forma di un partito fascista ed è andata più in là, operando addirittura una discriminazione contro gli uomini della Resistenza, che è ignorata nelle scuole; tollerando un costume vergognoso come quello di cui hanno dato prova quei funzionari che si sono inurbanamente comportati davanti alla dolorosa rappresentanza dei familiari dei caduti.
E’ chiaro che così facendo si va contro lo spirito cristiano che tanto si predica, contro il cristianesimo di quegli eroici preti che caddero sotto il piombo fascista, contro il fulgido esempio di Don Morosini che io incontrai in carcere a Roma, la vigilia della morte, sorridendo malgrado il martirio di giornate di tortura. Quel Don Morosini che è nella memoria di tanti cattolici, di tanti democratici, ma che Tambroni ha tradito barattando il suo sacrificio con 24 voti, sudici voti neofascisti.
Si va contro coloro che hanno espresso aperta solidarietà, contro i Pastore, contro Bo, Maggio, De Bernardis, contro tutti i democratici cristiani che soffrono per la odierna situazione, che provano vergogna di un connubio inaccettabile.
Oggi le provocazioni fasciste sono possibili e sono protette perché in seguito al baratto di quei 24 voti, i fascisti sono nuovamente al governo, si sentono partito di governo, si sentono nuovamente sfiorati dalla gloria del potere, mentre nessuno tra i responsabili, mostra di ricordare che se non vi fosse stata la lotta di Liberazione, l’Italia, prostrata, venduta, soggetta all’invasione, patirebbe ancora oggi delle conseguenze di una guerra infame e di una sconfitta senza attenuanti, mentre fu proprio la Resistenza a recuperare al Paese una posizione dignitosa e libera tra le nazioni.
Il senso, il movente, le aspirazioni che ci spinsero alla lotta, non furono certamente la vendetta e il rancore di cui vanno cianciando i miserabili prosecutori della tradizione fascista, furono proprio il desiderio di ridare dignità alla Patria, di risollevarla dal baratro, restituendo ai cittadini la libertà. Ecco perché i partigiani, i patrioti genovesi, sospinti dalla memoria dei morti sono scesi in Piazza: sono scesi a rivendicare i valori della Resistenza, a difendere la Resistenza contro ogni oltraggio, sono scesi perché non vogliono che la loro città, medaglia d’oro della Resistenza, subisca l’oltraggio del neofascismo.
Ai giovani, studenti e operai, va il nostro plauso per l’entusiasmo, la fierezza., il coraggio che hanno dimostrato. Finché esisterà una gioventù come questa nulla sarà perduto in Italia.
Noi anziani ci riconosciamo in questi giovani. Alla loro età affrontavamo, qui nella nostra Liguria, le squadracce fasciste. E non vogliamo tradire, di questa fiera gioventù, le ansie, le speranze, il domani, perché tradiremmo noi stessi. Così, ancora una volta, siamo preparati alla lotta, pronti ad affrontarla con l’entusiasmo, la volontà la fede di sempre.
Qui vi sono uomini di ogni fede politica e di ogni ceto sociale, spesso tra loro in contrasto, come peraltro vuole la democrazia. Ma questi uomini hanno saputo oggi, e sapranno domani, superare tutte le differenziazioni politiche per unirsi come quando l’8 settembre la Patria chiamò a raccolta i figli minori, perché la riscattassero dall’infamia fascista.
A voi che ci guardate con ostilità, nulla dicono queste spontanee manifestazioni di popolo? Nulla vi dice questa improvvisa ricostituita unità delle forze della Resistenza?
Essa costituisce la più valida diga contro le forze della reazione, contro ogni avventura fascista e rappresenta un monito severo per tutti. Non vi riuscì il fascismo, non vi riuscirono i nazisti, non ci riuscirete voi.
Noi, in questa rinnovata unità, siamo decisi a difendere la Resistenza, ad impedire che ad essa si rechi oltraggio.
Questo lo consideriamo un nostro preciso dovere: per la pace dei nostri morti, e per l’avvenire dei nostri vivi, lo compiremo fino in fondo, costi quello che costi.”A questa manifestazione parteciparono circa 30.000 persone. Il discorso di Pertini, particolarmente appassionato, verrà soprannominato in genovese u brichettu (letteralmente "il fiammifero") per aver simbolicamente "incendiato" la popolazione genovese.
Il 29 giugno la Camera del Lavoro cittadina indisse uno sciopero generale nella provincia genovese per la giornata del 30, dalle 14 alle 20, a cui si sarebbe aggiunto un lungo corteo per le strade della città, mentre il presidente dell'ANPI invitò tutti gli iscritti a partecipare alla manifestazione del 30.
Ad aumentare la tensione si aggiunsero alcune decisioni prese dalle forze dell'ordine, che vennero percepite come ulteriori provocazioni: la visita del comandante generale dell'Arma dei Carabinieri per un'ispezione della città, la sostituzione del questore Alfredo Ingrassia (che aveva chiesto il pensionamento) con Giuseppe Lutri, noto per la sua attività anti-resistenziale a Torino durante la dittatura fascista, e l'arrivo della Celere di Padova, specializzata in tattiche di anti-guerriglia urbana.
Oltre ai partiti e ai sindacati durante il mese di giugno anche l'Università (soprattutto l'Istituto di Fisica diretto da Ettore Pancini) si attivò con un appello, firmato da intellettuali di vario orientamento politico, contro lo svolgimento del congresso, e numerosi studenti e ricercatori parteciparono alle varie manifestazioni.
La manifestazione del 30 giugnoSia l'accesso alla zona di Portoria, sia alcuni cantieri del nascente centro dirigenziale di Piccapietra, vennero bloccati e presidiati dalle forze dell'ordine, mentre venne chiuso per lavori (fittizi) il vicino parco dell'Acquasola.
Tra i sindacati la UIL si oppose alla manifestazione prevista, mentre la CISL lasciò ai propri iscritti libertà di scelta sulla partecipazione o meno.
Il 30 la manifestazione, seppur in un'atmosfera tesa, si svolse inizialmente senza particolari problemi: partendo dal primo pomeriggio da piazza dell'Annunziata, i manifestanti proseguirono per via Cairoli, via Garibaldi, via XXV Aprile, piazza De Ferrari, via XX Settembre (dove furono deposti fiori davanti al sacrario dei caduti, situato sotto al ponte Monumentale), per poi terminare in piazza della Vittoria, con un comizio dal segretario della Camera del Lavoro. Nelle foto della manifestazione si vedono sia politici sia comandanti partigiani che sfilano preceduti dai Gonfaloni della città.
Al termine della manifestazione parte dei manifestanti risalirono verso piazza De Ferrari, fermandosi lungo la strada sia davanti al teatro Margherita (controllato da gruppi di Carabinieri, che verranno fischiati) sia davanti al Sacrario dei Caduti, dove furono cantati degli inni della Resistenza. I manifestanti giunsero così in piazza de Ferrari, dove molti si fermarono nei dintorni della fontana centrale ove erano presenti alcuni mezzi motorizzati della polizia, oltre ad agenti a piedi, e la situazione cominciò a peggiorare. Ai canti partigiani e slogan dei manifestanti contro le forze dell'ordine, quest'ultime provarono a disperdere la folla con un idrante, per poi passare a cariche intorno alla fontana.
A questo punto lo scontro divenne aperto: le camionette e le jeep della celere effettuarono cariche sia nella piazza, sia nelle vie limitrofe, sia sotto i porticati della parte alta di via XX Settembre. I manifestanti, che continuavano a fluire nella zona, nel frattempo si procurarono attrezzi da lavoro, spranghe di ferro e alcuni pali di legno dai vicini cantieri edili, con cui colpire le camionette che si fermarono e gli agenti a terra, mentre le forze dell'ordine cominciarono a impiegare, oltre che i lacrimogeni, anche alcune armi da fuoco (tuttavia solo una persona risulterà ricoverata per ferite da arma da fuoco). Alcune delle camionette della celere furono incendiate (segni in parte ancora visibili sui mosaici del pavimento del porticato). Alcuni degli esponenti delle forze dell'ordine, tra cui il comandante della celere finito nella vasca della fontana, rimasti isolati e soggetti a violenze, vennero portati fuori dagli scontri da alcuni dei manifestanti.
Nella descrizione di un giornalista del Corriere della Sera gli scontri furono così raccontati:
«Giovanotti muscolosi si applicavano a divellere cassette di immondizie, a staccare dalle pareti di un portico riquadri con i programmi dei cinematografi, a spaccare i cavalletti che recingevano un piccolo cantiere di lavori in piazza De Ferrari. Nelle mani dei manifestanti comparvero, stranamente bombe lacrimogene. La sassaiola contro la polizia era incessante. Un agente fu buttato nella vasca della fontana di piazza De Ferrari, altri vennero colpiti dalle pietre e andarono sanguinanti a medicarsi»
Gli scontri si spostarono anche nei vicini "caruggi", gli stretti vicoli tipici del centro storico genovese, dove la popolazione residente "bombardò" con vasi e pietre lasciati cadere dalle finestre gli esponenti delle forze dell'ordine che inseguivano i manifestanti. Gli scontri proseguirono e gli organizzatori della manifestazione temettero che, per porvi fine, venisse ordinato alle forze dell'ordine di aprire il fuoco sulla folla, azione che avrebbe causato numerosi morti. Il presidente dell'ANPI, Giorgio Gimelli, si accordò quindi con alcuni ex-partigiani, tra cui un funzionario di polizia, per impegnare gli aderenti all'associazione per fermare gli scontri, ricevendo in cambio l'assicurazione che le forze dell'ordine si sarebbero ritirate senza effettuare nessun arresto. Al termine degli scontri si registrarono 162 feriti tra gli agenti e circa 40 feriti tra i manifestanti.
Manifestazioni e scioperi di protesta contro il governo Tambroni si svolsero nello stesso giorno anche a Roma, Torino, Milano, Livorno e Ferrara[14].
I giorni successivi e l'annullamento del congresso
Il 1º luglio si registrarono diversi scontri tra forze dell'ordine e manifestanti in diverse parti d'Italia, tra cui Torino (manifestazione organizzata dal PCI, svoltasi in piazza Solferino) e San Ferdinando di Puglia (assemblea indetta dalla locale Camera del Lavoro). In un suo discorso alla Camera dei Deputati relativo agli scontri del giorno precedente, Sandro Pertini accuserà la Polizia ("a provocare gli incidenti non sono stati i carabinieri, non le guardie di finanza: è stata la polizia"), aggiungendo che questa avesse mantenuto un comportamento fazioso anche nelle manifestazioni dei giorni precedenti al 30 giugno.
Il 2 luglio, il primo giorno del congresso dell'MSI, la Camera del Lavoro di Genova indisse uno sciopero generale. Il prefetto Luigi Pianese convocò i responsabili della manifestazione e dell'MSI, proponendo un compromesso: il congresso del partito si sarebbe tenuto, ma al teatro Ambra di Nervi (come il Teatro Margherita di proprietà della SARP di Fausto Gadolla, imprenditore genovese e al tempo da poco ex presidente del Genoa), mentre l'ANPI e le altre forze della sinistra avrebbero effettuato una manifestazione altrove. I missini rifiutarono l'accordo, sostenendo che avrebbero accettato il trasferimento solo se ai manifestanti fosse stato vietato di sfilare per il centro della città. La tensione in città cominciò a salire di nuovo. Il prefetto fece arrivare in città diversi reparti delle forze dell'ordine e dell'esercito, schierandoli in zone in cui potessero in qualche modo impedire l'afflusso dei manifestanti provenienti dai quartieri industriali verso il centro della città.
Il prefetto e il questore, ritenendo che il PCI e l'ANPI avrebbero potuto far intervenire alla manifestazione alcuni ex-partigiani per dar vita a incidenti di piazza, valutarono quindi come possibile l'uso delle armi da fuoco. Il questore tuttavia giudicò che il teatro Margherita fosse troppo vicino al sacrario dei caduti (50 metri circa), e che quindi l'unico modo per evitare nuovi scontri fosse lo spostamento della sede del congresso. Il giorno seguente la stessa SARP negò la disponibilità del teatro Margherita, dicendosi disponibile a ospitare l'incontro presso il teatro Ambra, ma il direttivo del Movimento Sociale, guidato da Arturo Michelini, respinse la proposta e decise di annullare la manifestazione denunciando: "le gravissime responsabilità che da un lato i sovversivi e dall'altro il governo si sono assunti nel rendere praticamente irrealizzabile un congresso di partito e nel tollerare una sfrontata violazione del codice penale vigente".[35] La Camera del Lavoro e i sindacati annullarono lo sciopero previsto per il 2 luglio, mentre il giorno 3 si svolse una manifestazione con la partecipazione di politici ed esponenti dell'antifascismo, tra cui Luigi Longo, Umberto Terracini, Pietro Secchia, Franco Antonicelli e Domenico Riccardo Peretti Griva, durante la quale si sostenne che i manifestanti arrestati agirono per legittima difesa.
Gli scontri dei giorni seguenti
Nel periodo seguente si ebbero diversi scontri in diverse parti d'Italia, spesso nati da manifestazioni di protesta dei lavoratori o da commemorazioni di avvenimenti della lotta antifascista. Al contrario di Genova, in queste occasioni si registrò un uso frequente delle armi da fuoco da parte delle forze dell'ordine, con diversi morti e numerosi feriti tra i manifestanti.
Il 5 luglio a Licata gli scontri a seguito di una manifestazione di protesta del sindacato e del relativo blocco della stazione ferroviaria ci fu un morto e 24 feriti. A Milano venne distrutta la sede del Partito Radicale, a Roma alcuni ordigni esplosivi vennero gettati contro una sede locale del PCI, mentre a Ravenna, durante le ore notturne, un gruppo di neofascisti incendiò l'abitazione di Arrigo Boldrini, segretario nazionale dell'ANPI.
Il 6 luglio a Roma, presso la Porta San Paolo, fu indetta una nuova manifestazione contro il governo, che prevedeva la deposizione di alcune corone di fiori presso la lapide in ricordo degli scontri del settembre 1943. La manifestazione, vietata all'ultimo momento, venne ugualmente organizzata (con la partecipazione di una cinquantina di parlamentari provenienti dal PCI, PSI e PRI) e i reparti a cavallo della polizia caricarono violentemente i manifestanti con il tentativo di disperderli. Lo scontro che seguì portò a incidenti con la polizia nel corso dei quali venne ferito l'agente Antonio Sarappa, che morì circa due mesi dopo. Dopo gli scontri si registrarono numerosi fermi e arresti nel quartiere Testaccio: la rivista L'Espresso, nel successivo numero del 17 luglio, a questo proposito scrisse "Per molte ore, in quelle zone, chiunque non aveva la cravatta veniva fermato interrogato, spesso bastonato".
Il 7 luglio una manifestazione sindacale a Reggio Emilia, con 20.000 partecipanti (contro i soli 600 posti della Sala Verdi concessa dalla questura per la manifestazione), finì in tragedia quando la polizia e i carabinieri spararono sulla folla in rivolta, provocando 5 morti. In totale le forze dell'ordine esplosero 500 colpi durante gli scontri.
L'8 luglio il democristiano Cesare Merzagora, presidente del Senato, propose una "tregua" di due settimane, chiedendo la sospensione di tutte le manifestazioni di protesta indette dai partiti di sinistra, dall'ANPI e dai sindacati, e il contemporaneo ritiro nelle caserme delle forze di polizia. La proposta venne accettata dal PCI, PSI, PSDI, PRI e dal Partito radicale, con riserva dalla DC, e vide l'opposizione dei partiti di destra. Nel pomeriggio dello stesso giorno avvennero nuovi scontri a Palermo (due morti e 36 feriti da arma da fuoco, altre fonti riportano 4 morti, e circa 300 fermati) e Catania (un morto, Salvatore Novembre). Sempre l'8 luglio a Firenze, una manifestazione di protesta relativa ai recenti avvenimenti di Reggio Emilia venne caricata dalla polizia.
Cominciò a circolare l'ipotesi (sposata per esempio dal The New York Times in un articolo sugli scontri dell'11 luglio intitolato Violence in Italy) che le manifestazioni che stavano avvenendo in tutta Italia e le relative violenze fossero organizzate dal PCI, facendo riferimento a un recente (dal 21 giugno al 4 luglio) viaggio di Togliatti a Mosca.
Il 13 luglio la direzione della DC emise un documento in cui dichiarava esaurito il compito del governo, dicendosi pronta e favorevole a cercare la creazione di un nuovo esecutivo. Il giorno seguente Tambroni, nel riferire alla Camera dei deputati, riprese la tesi delle violenze organizzate dal PCI, e il collegamento di queste con il viaggio a Mosca di Togliatti. Durante il consiglio dei ministri negò l'ipotesi di dimissioni, evidenziando che queste avrebbero potuto sembrare un "cedimento alla piazza", mettendo al corrente i ministri che gli scontri avrebbero destato preoccupazioni anche all'estero, compresi gli Stati Uniti.
Il 18 luglio la rivista Il Mulino pubblicò un appello, sottoscritto da 61 intellettuali cattolici, in cui si affermava la necessità di rifiutare le politiche autoritarie e le alleanze con le forze politiche neofasciste, anche quando queste servirebbero a difendere i "valori cristiani contro il marxismo".
A seguito delle proteste e dello sfaldarsi della propria maggioranza il Governo Tambroni si dimise il 19 luglio.
Il processo per i fatti di GenovaNel processo che seguì gli scontri vennero imputate 43 persone, di cui 7 già agli arresti. La Corte di Cassazione decise lo spostamento del processo a Roma. Gli imputati, difesi dal senatore Terracini, e supportati durante la durata del processo con raccolte di fondi dall'ANPI, verranno quasi tutti condannati nel luglio 1962: ci furono 41 condanne, per pene massime di 4 anni e 5 mesi. In un caso, quello di Giuseppe Moglia, la condanna sarà di un solo mese e mezzo, nonostante l'imputato fosse stato trattenuto in carcere da ben due anni.
Fonti: wikipedia, amezena.net (testo discorso di Pertini)