Le stronzate di Pulcinella

GENOVA per VOI: storia, arte, tradizioni, cultura, gastronomia, sport, entroterra

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view post Posted on 4/4/2021, 19:40
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“Emmo za daeto!”

Nascita di una frase emblematica


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“Emmo za daeto!” la storia dell’espressione che ci rende ancor oggi orgogliosi…
Così risposero i delegati genovesi, per bocca di Oberto Spinola, convocati insieme agli altri rappresentanti italici alla Dieta di Roncaglia del 1158, alle richieste del Barbarossa.
Questi infatti, pretendeva omaggi e tributi per convalidare quanto già concesso dai suoi predecessori, l’autonomia della Repubblica, per altro
riconosciuta già nel 958 da Adalberto in quanto situazione di fatto.

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Queste le parole che pronunciò Oberto: “Bene hanno fatto gli altri ad accettare le tue imposizioni.

I Genovesi, con tutto il rispetto dovuto, non si sentono legati da obblighi così fatti e possono darne ragione.

Da tempi remoti gli imperatori romani concessero agli abitanti di Genova il privilegio di essere liberi da ogni contribuzione e che verso l’Impero avessero il solo obbligo della fedeltà e della difesa dei mari dai Barbari, altre pretese non possono essere imposte loro in nessun modo.
I Genovesi da Roma a Barcellona hanno adempiuto ai loro doveri ricacciando i Barbari dal litorale in modo che tutti possano dormire tranquilli e dedicarsi al fico e alla vigna.
Per questo motivo per nessuna ragione può esser loro richiesto ciò a cui non sono tenuti.
Inoltre, a differenza delle altre popolazioni italiche che devono il loro benessere dalla terra, i Genovesi traggono la loro ricchezza dal mare e dai traffici commerciali, attività sulle quali l’Impero non ha alcuna giurisdizione”.

“Emmo za daeto!”


E, ormai, se ne sono impossessati in tanti, senza neppure sapere l'orgoglio e la forza racchiusi in questa frase. Questo è stata Genova, questa è la sua storia.

Fonte: amezena.net
 
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view post Posted on 4/4/2021, 21:31
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Giugno 1960


“La Resistenza continua…”


Fatti_di_Genova_luglio_1960_piazza_De_Ferrari




Sabato 14 maggio 1960, il Movimento Sociale Italiano decise di convocare il sesto congresso a Genova, città decorata di medaglia d'oro della Resistenza e da cui era partita l'insurrezione del 25 aprile, fu considerata come un'occasione per indebolire il governo Tambroni. Il precedente congresso missino si era svolto a Milano, città anch'essa decorata con la medaglia d'oro, senza nessuna protesta (a Milano i missini appoggiavano la giunta comunale fin dal 1956). Inizialmente la convocazione del congresso missino al teatro Margherita, in via XX Settembre, non suscitò alcun tipo di reazione in città.

A Genova sia la situazione politica sia quella sociale erano molto tese, anche a causa della recente chiusura di diverse industrie, tra cui l'azienda meccanica Ansaldo-San Giorgio. Nonostante si fosse nel pieno di quello che è stato definito il "boom economico", le lotte sindacali contro le chiusure e le riduzioni di personale in generale si protraevano in città da circa un decennio.

Politicamente fino ad allora la città aveva visto la Democrazia Cristiana come partito di maggioranza relativa, seppur con una percentuale di voti inferiore alla media nazionale. Nelle elezioni del 1958, per la Camera dei deputati, a Genova la DC aveva ottenuto 169.648 voti (pari al 33,7%, contro il 42,4% nazionale), seguita dal Partito Comunista Italiano con 124.603 voti (24,7%, contro il 22,7% nazionale) e dal Partito Socialista Italiano con 104.956 voti (20,8%, contro il 14,2% nazionale); in quella tornata elettorale il Movimento Sociale Italiano era risultato il quinto partito cittadino, con 24.695 voti (4,9%, a livello nazionale era il quarto partito, con il 4,8% dei voti). Queste elezioni furono le uniche il cui l'MSI ebbe un risultato percentuale a Genova migliore della media nazionale.

Nelle elezioni comunali del 1960 venne eletto per la terza volta il democristiano Vittorio Pertusio. Tra i partiti che avevano ottenuto dei seggi in consiglio comunale, la DC aveva ottenuto 166.452 voti (33,3% e 27 seggi), il PCI 130.987 voti (26,2%, 22 seggi), il PSI 105.713 voti (21,1%, 17 seggi), il PSDI 38.632 voti (7,7%, 6 seggi), il MSI 24.037 voti (4,8%, 4 seggi), il PLI 19.519 voti (3,9%, 3 seggi) e il PRI 6.577 voti (1,3%, con 1 solo seggio).

Il 25 maggio 1960 la giunta guidata da Pertusio si dimise, a causa dell'impossibilità di raggiungere una maggioranza per l'approvazione dei bilanci, per via del voto contrario del MSI. A Pertusio subentrerà il 1º giugno il commissario straordinario Nicio Giuliani, che rimarrà in carica fino all'8 febbraio 1961.

Dalle successive elezioni politiche del 1963 il PCI diverrà partito di maggioranza in città, con un forte aumento dei propri votanti (passato in città dal 24,7% del 1958 al 30,8% del 1963, su scala nazionale dal 22,7% al 25,3%), e un vero e proprio crollo dei voti cittadini per la DC (passata in città dal 33,7% al 25,8%, su scala nazionale dal 42,4,7% al 38,3%). La posizione di primo partito cittadino verrà confermata nelle successive elezioni comunali del 1964 (dove il PCI otterrà il 31,7% dei voti e 26 seggi, contro il 27,4% e 22 seggi della DC, ma che vedranno nuovamente eletto il democristiano Pertusio alla carica di sindaco), e in generale in tutte le consultazioni successive.

Il 2 giugno il senatore comunista Umberto Terracini (che era stato presidente dell'Assemblea costituente), durante un discorso tenuto a Pannesi, nel comune di Lumarzo (un comune della Val Fontanabuona, in provincia di Genova), nella ricorrenza della Festa della Repubblica, invitò le forze che si rifacevano ai valori della Resistenza a organizzare una riunione contro il congresso del MSI, ritenuto una provocazione contro Genova.

Il 5 giugno l'Unità, nella sua edizione genovese, pubblicò una lettera-appello scritta da un operaio, in cui si chiedeva che la città prendesse posizione contro l'annunciato congresso del MSI.

Il giorno successivo, il 6 giugno, su iniziativa della federazione del PSI, i rappresentanti locali dei partiti comunista, radicale, socialdemocratico, socialista e repubblicano, dopo essersi riuniti per decidere una posizione comune sul congresso, stamparono un manifesto in cui, denunciando il congresso missino come "una grave provocazione", lo additavano al "disprezzo del popolo genovese nei confronti degli eredi del fascismo".

Il 13 giugno alla richiesta di non fare svolgere il congresso si aggiunse in maniera ufficiale la Camera del lavoro. Due giorni dopo, il 15 giugno, una manifestazione indetta con lo scopo di protestare contro il suo svolgimento vide la partecipazione stimata di 20.000 persone e si registrarono i primi scontri (poi sedati dai carabinieri), nella zona di via San Lorenzo (strada adiacente all'omonima cattedrale), tra un gruppo di manifestanti e alcuni neofascisti.

Il 24 giugno un comizio di protesta contro il congresso, indetto dalla Camera del lavoro, che si doveva svolgere nella zona del porto, fu vietato dalla Questura, con la motivazione che l'autorizzazione non era stata chiesta coi tre giorni di anticipo previsti dalla legge.

Il 25 giugno, durante un nuovo corteo di protesta organizzato dalle federazioni giovanili del PCI, del PSI, del PSDI, del PRI e dei radicali, a cui aderirono anche i portuali, vi furono nuovi scontri, questa volta in via XX Settembre, tra manifestanti e polizia. Nel corso di quel corteo si decise d'indire per il 2 luglio un comizio, nel quale sarebbe intervenuto Ferruccio Parri.

Il 27 giugno 1960 al presidente del consiglio Tambroni fu consegnato, da parte dei dirigenti del MSI, un rapporto, in cui si diceva che il deputato missino ligure Giuseppe Gonella aveva raccolto informazioni che portavano a ritenere il prossimo congresso a rischio di disordini. Secondo questa nota, in parte a causa delle condizioni precarie di povertà e disoccupazione in cui vivevano i lavoratori del porto, in cerca di uno sfogo per il malcontento accumulato, in parte per la configurazione stessa del centro storico, che poteva favorire eventuali scontri, la situazione sarebbe potuta degenerare. Nella nota il MSI informava Tambroni che era stato ipotizzato dal segretario Michelini di chiedere al governo la proibizione del congresso per motivi d'ordine pubblico, in modo da evitare il pericolo, senza però che si sapesse che la decisione era stata richiesta dagli stessi missini; ma la proposta era stata fermamente respinta dagli altri dirigenti del partito. In conclusione, il MSI rendeva noto d'aver deciso di celebrare il congresso, ma anche di far giungere a Genova "almeno un centinaio di attivisti romani, scelti tra i più pronti a menar le mani": decisione quest'ultima che venne resa pubblica tramite la stampa, e sottoposta a critiche nei giorni successivi agli scontri.

A rendere ancora più incandescente la situazione intervenne la notizia, riportata dal quotidiano Il Giorno, della partecipazione ai lavori del congresso di Carlo Emanuele Basile, sottosegretario all'Esercito e prefetto della città ai tempi della Repubblica Sociale Italiana. Basile era conosciuto a Genova per gli "editti" del marzo 1944 contro lo sciopero bianco e le proteste indette dagli operai, a cui succedette nel mese di giugno la deportazione di alcune centinaia di lavoratori nei campi di lavoro della Germania nazista. Per le sue azioni durante la guerra Basile venne prima assolto, poi condannato a morte, per poi essere nuovamente assolto dopo ulteriori ricorsi, grazie anche a una serie di amnistie e condoni, continuando nel dopoguerra la sua attività politica all'interno del MSI.

Secondo Donato Antoniello e Luciano Vasapollo, in Eppure il vento soffia ancora (2006), la presenza di Carlo Emanuele Basile invece sarebbe stata annunciata dai dirigenti del MSI insieme con quella di Junio Valerio Borghese. I due saggisti citano come riferimento il libro di Nicola Tranfaglia Le Piazze. L'ipotesi relativa alla possibile presenza di Borghese è saltuariamente ricordata dalla pubblicistica che tratta di questi avvenimenti (anche solo per smentirla).

È stato ipotizzato che la presenza di Basile fosse un errore dovuto a un caso di omonimia, e che a essere ospite al congresso sarebbe stato Michele Basile, avvocato di Vibo Valentia e futuro senatore del MSI nella IV Legislatura.

Il 28 giugno venne indetta una manifestazione di protesta, nel corso della quale Sandro Pertini, affermando la sua opposizione al congresso, disse:

“Gente del popolo, partigiani e lavoratori, genovesi di tutte le classi sociali. Le autorità romane sono particolarmente interessate e impegnate a trovare coloro che esse ritengono i sobillatori, gli iniziatori, i capi di queste manifestazioni di antifascismo. Ma non fa bisogno che quelle autorità si affannino molto: ve lo dirò io, signori, chi sono i nostri sobillatori: eccoli qui, eccoli accanto alla nostra bandiera: sono i fucilati del Turchino, della Benedicta, dell’Olivetta e di Cravasco, sono i torturati della casa dello Studente che risuona ancora delle urla strazianti delle vittime, delle grida e delle risate sadiche dei torturatori. Nella loro memoria, sospinta dallo spirito dei partigiani e dei patrioti, la folla genovese è scesa nuovamente in piazza per ripetere “no” al fascismo, per democraticamente respingere, come ne ha diritto, la provocazione e l’offesa.
Io nego – e tutti voi legittimamente negate – la validità della obiezione secondo la quale il neofascismo avrebbe diritto di svolgere a Genova il suo congresso. Infatti, ogni atto, ogni manifestazione, ogni iniziativa, di quel movimento è una chiara esaltazione del fascismo e poiché il fascismo, in ogni sua forma è considerato reato dalla Carta Costituzionale, l’attività dei missini si traduce in una continua e perseguibile apologià di reato.
Si tratta del resto di un congresso che viene qui convocato non per discutere, ma per provocare, per contrapporre un vergognoso passato alla Resistenza, per contrapporre bestemmie ai valori politici e morali affermati dalla Resistenza.
Ed è ben strano l’atteggiamento delle autorità costituite le quali, mentre hanno sequestrato due manifesti che esprimevano nobili sentimenti, non ritengono opportuno impedire la pubblicazione dei libelli neofascisti che ogni giorno trasudano il fango della apologia del trascorso regime, che insultano la Resistenza, che insultano la Libertà.
Dinanzi a queste provocazioni, dinanzi a queste discriminazioni, la folla non poteva che scendere in piazza, unita nella protesta, né potevamo noi non unirci ad essa per dire no come una volta al fascismo e difendere la memoria dei nostri morti, riaffermando i valori della Resistenza.
Questi valori, che resteranno finché durerà in Italia una Repubblica democratica sono: la libertà, esigenza inalienabile dello spirito umano, senza distinzione di partito, di provenienza, di fede. Poi la giustizia sociale, che completa e rafforza la libertà, l’amore di Patria, che non conosce le follie imperialistiche e le aberrazioni nazionalistiche, quell’amore di Patria che ispira la solidarietà per le Patrie altrui.
La Resistenza ha voluto queste cose e questi valori, ha rialzato le glorie del nostro nuovamente libero paese dopo vent’anni di degradazione subita da coloro che ora vorrebbero riapparire alla ribalta, tracotanti come un tempo. La Resistenza ha spazzato coloro che parlando in nome della Patria, della Patria furono i terribili nemici perché l’hanno avvilita con la dittatura, l’hanno offesa trasformandola in una galera, l’hanno degradata trascinandola in una guerra suicida, l’hanno tradita vendendola allo straniero. Noi, oggi qui, riaffermiamo questi principi e questo amor di patria perché pacatamente, o signori, che siete preposti all’ordine pubblico e che bramate essere benevoli verso quelli che ho nominato poc’anzi e che guardate a noi, ai cittadini che gremiscono questa piazza, considerandoli nemici della Patria, sappiate che coloro che hanno riscattato l’Italia da ogni vergogna passata, sono stati questi lavoratori, operai e contadini e lavoratori della mente, che noi a Genova vedemmo entrare nelle galere fasciste non perché avessero rubato, o per un aumento di salario, o per la diminuzione delle ore di lavoro, ma perché intendevano battersi per la libertà del popolo italiano, e, quindi, anche per le vostre libertà.
E’ necessario ricordare che furono quegli operai, quegli intellettuali, quei contadini, quei giovani che, usciti dalle galere si lanciarono nella guerra di Liberazione, combatterono sulle montagne, sabotarono negli stabilimenti, scioperarono secondo gli ordini degli alleati, furono deportati, torturati e uccisi e morendo gridarono “Viva l’Italia”, “Viva la Libertà”. E salvarono la Patria , purificarono la sua bandiera dai simboli fascista e sabaudo, la restituirono pulita e gloriosa a tutti gli italiani.Dinanzi a costoro, dinanzi a questi cittadini che voi spesso maledite, dovreste invece inginocchiarvi, come ci si inginocchia di fronte a chi ha operato eroicamente per il bene comune.
Ma perché, dopo quindici anni, dobbiamo sentirci nuovamente mobilitati per rigettare i responsabili di un passato vergognoso e doloroso, i quali tentano di tornare alla ribalta?
Ci sono stati degli errori, primo di tutti la nostra generosità nei confronti degli avversari. Una generosità che ha permesso troppe cose e per la quale oggi i fascisti la fanno da padroni, giungendo a qualificare delitto l’esecuzione di Mussolini a Milano. Ebbene, neofascisti che ancora una volta state nell’ombra a sentire, io mi vanto di avere ordinato la fucilazione di Mussolini, perché io e gli altri, altro non abbiamo fatto che firmare una condanna a morte pronunciata dal popolo italiano venti anni prima.
Un secondo errore fu l’avere spezzato la solidarietà tra le forze antifasciste, permettendo ai fascisti d’infiltrarsi e di riemergere nella vita nazionale, e questa frattura si è determinata in quanto la classe dirigente italiana non ha inteso applicare la Costituzione là dove essa chiaramente proibisce la ricostituzione sotto qualsiasi forma di un partito fascista ed è andata più in là, operando addirittura una discriminazione contro gli uomini della Resistenza, che è ignorata nelle scuole; tollerando un costume vergognoso come quello di cui hanno dato prova quei funzionari che si sono inurbanamente comportati davanti alla dolorosa rappresentanza dei familiari dei caduti.
E’ chiaro che così facendo si va contro lo spirito cristiano che tanto si predica, contro il cristianesimo di quegli eroici preti che caddero sotto il piombo fascista, contro il fulgido esempio di Don Morosini che io incontrai in carcere a Roma, la vigilia della morte, sorridendo malgrado il martirio di giornate di tortura. Quel Don Morosini che è nella memoria di tanti cattolici, di tanti democratici, ma che Tambroni ha tradito barattando il suo sacrificio con 24 voti, sudici voti neofascisti.
Si va contro coloro che hanno espresso aperta solidarietà, contro i Pastore, contro Bo, Maggio, De Bernardis, contro tutti i democratici cristiani che soffrono per la odierna situazione, che provano vergogna di un connubio inaccettabile.
Oggi le provocazioni fasciste sono possibili e sono protette perché in seguito al baratto di quei 24 voti, i fascisti sono nuovamente al governo, si sentono partito di governo, si sentono nuovamente sfiorati dalla gloria del potere, mentre nessuno tra i responsabili, mostra di ricordare che se non vi fosse stata la lotta di Liberazione, l’Italia, prostrata, venduta, soggetta all’invasione, patirebbe ancora oggi delle conseguenze di una guerra infame e di una sconfitta senza attenuanti, mentre fu proprio la Resistenza a recuperare al Paese una posizione dignitosa e libera tra le nazioni.
Il senso, il movente, le aspirazioni che ci spinsero alla lotta, non furono certamente la vendetta e il rancore di cui vanno cianciando i miserabili prosecutori della tradizione fascista, furono proprio il desiderio di ridare dignità alla Patria, di risollevarla dal baratro, restituendo ai cittadini la libertà. Ecco perché i partigiani, i patrioti genovesi, sospinti dalla memoria dei morti sono scesi in Piazza: sono scesi a rivendicare i valori della Resistenza, a difendere la Resistenza contro ogni oltraggio, sono scesi perché non vogliono che la loro città, medaglia d’oro della Resistenza, subisca l’oltraggio del neofascismo.
Ai giovani, studenti e operai, va il nostro plauso per l’entusiasmo, la fierezza., il coraggio che hanno dimostrato. Finché esisterà una gioventù come questa nulla sarà perduto in Italia.
Noi anziani ci riconosciamo in questi giovani. Alla loro età affrontavamo, qui nella nostra Liguria, le squadracce fasciste. E non vogliamo tradire, di questa fiera gioventù, le ansie, le speranze, il domani, perché tradiremmo noi stessi. Così, ancora una volta, siamo preparati alla lotta, pronti ad affrontarla con l’entusiasmo, la volontà la fede di sempre.
Qui vi sono uomini di ogni fede politica e di ogni ceto sociale, spesso tra loro in contrasto, come peraltro vuole la democrazia. Ma questi uomini hanno saputo oggi, e sapranno domani, superare tutte le differenziazioni politiche per unirsi come quando l’8 settembre la Patria chiamò a raccolta i figli minori, perché la riscattassero dall’infamia fascista.
A voi che ci guardate con ostilità, nulla dicono queste spontanee manifestazioni di popolo? Nulla vi dice questa improvvisa ricostituita unità delle forze della Resistenza?
Essa costituisce la più valida diga contro le forze della reazione, contro ogni avventura fascista e rappresenta un monito severo per tutti. Non vi riuscì il fascismo, non vi riuscirono i nazisti, non ci riuscirete voi.
Noi, in questa rinnovata unità, siamo decisi a difendere la Resistenza, ad impedire che ad essa si rechi oltraggio.
Questo lo consideriamo un nostro preciso dovere: per la pace dei nostri morti, e per l’avvenire dei nostri vivi, lo compiremo fino in fondo, costi quello che costi.”


30-giugno-1960-2



A questa manifestazione parteciparono circa 30.000 persone. Il discorso di Pertini, particolarmente appassionato, verrà soprannominato in genovese u brichettu (letteralmente "il fiammifero") per aver simbolicamente "incendiato" la popolazione genovese.

Il 29 giugno la Camera del Lavoro cittadina indisse uno sciopero generale nella provincia genovese per la giornata del 30, dalle 14 alle 20, a cui si sarebbe aggiunto un lungo corteo per le strade della città, mentre il presidente dell'ANPI invitò tutti gli iscritti a partecipare alla manifestazione del 30.

Ad aumentare la tensione si aggiunsero alcune decisioni prese dalle forze dell'ordine, che vennero percepite come ulteriori provocazioni: la visita del comandante generale dell'Arma dei Carabinieri per un'ispezione della città, la sostituzione del questore Alfredo Ingrassia (che aveva chiesto il pensionamento) con Giuseppe Lutri, noto per la sua attività anti-resistenziale a Torino durante la dittatura fascista, e l'arrivo della Celere di Padova, specializzata in tattiche di anti-guerriglia urbana.

Oltre ai partiti e ai sindacati durante il mese di giugno anche l'Università (soprattutto l'Istituto di Fisica diretto da Ettore Pancini) si attivò con un appello, firmato da intellettuali di vario orientamento politico, contro lo svolgimento del congresso, e numerosi studenti e ricercatori parteciparono alle varie manifestazioni.

La manifestazione del 30 giugno
Sia l'accesso alla zona di Portoria, sia alcuni cantieri del nascente centro dirigenziale di Piccapietra, vennero bloccati e presidiati dalle forze dell'ordine, mentre venne chiuso per lavori (fittizi) il vicino parco dell'Acquasola.

Tra i sindacati la UIL si oppose alla manifestazione prevista, mentre la CISL lasciò ai propri iscritti libertà di scelta sulla partecipazione o meno.

Il 30 la manifestazione, seppur in un'atmosfera tesa, si svolse inizialmente senza particolari problemi: partendo dal primo pomeriggio da piazza dell'Annunziata, i manifestanti proseguirono per via Cairoli, via Garibaldi, via XXV Aprile, piazza De Ferrari, via XX Settembre (dove furono deposti fiori davanti al sacrario dei caduti, situato sotto al ponte Monumentale), per poi terminare in piazza della Vittoria, con un comizio dal segretario della Camera del Lavoro. Nelle foto della manifestazione si vedono sia politici sia comandanti partigiani che sfilano preceduti dai Gonfaloni della città.

Al termine della manifestazione parte dei manifestanti risalirono verso piazza De Ferrari, fermandosi lungo la strada sia davanti al teatro Margherita (controllato da gruppi di Carabinieri, che verranno fischiati) sia davanti al Sacrario dei Caduti, dove furono cantati degli inni della Resistenza. I manifestanti giunsero così in piazza de Ferrari, dove molti si fermarono nei dintorni della fontana centrale ove erano presenti alcuni mezzi motorizzati della polizia, oltre ad agenti a piedi, e la situazione cominciò a peggiorare. Ai canti partigiani e slogan dei manifestanti contro le forze dell'ordine, quest'ultime provarono a disperdere la folla con un idrante, per poi passare a cariche intorno alla fontana.

A questo punto lo scontro divenne aperto: le camionette e le jeep della celere effettuarono cariche sia nella piazza, sia nelle vie limitrofe, sia sotto i porticati della parte alta di via XX Settembre. I manifestanti, che continuavano a fluire nella zona, nel frattempo si procurarono attrezzi da lavoro, spranghe di ferro e alcuni pali di legno dai vicini cantieri edili, con cui colpire le camionette che si fermarono e gli agenti a terra, mentre le forze dell'ordine cominciarono a impiegare, oltre che i lacrimogeni, anche alcune armi da fuoco (tuttavia solo una persona risulterà ricoverata per ferite da arma da fuoco). Alcune delle camionette della celere furono incendiate (segni in parte ancora visibili sui mosaici del pavimento del porticato). Alcuni degli esponenti delle forze dell'ordine, tra cui il comandante della celere finito nella vasca della fontana, rimasti isolati e soggetti a violenze, vennero portati fuori dagli scontri da alcuni dei manifestanti.

Nella descrizione di un giornalista del Corriere della Sera gli scontri furono così raccontati:

«Giovanotti muscolosi si applicavano a divellere cassette di immondizie, a staccare dalle pareti di un portico riquadri con i programmi dei cinematografi, a spaccare i cavalletti che recingevano un piccolo cantiere di lavori in piazza De Ferrari. Nelle mani dei manifestanti comparvero, stranamente bombe lacrimogene. La sassaiola contro la polizia era incessante. Un agente fu buttato nella vasca della fontana di piazza De Ferrari, altri vennero colpiti dalle pietre e andarono sanguinanti a medicarsi»

Gli scontri si spostarono anche nei vicini "caruggi", gli stretti vicoli tipici del centro storico genovese, dove la popolazione residente "bombardò" con vasi e pietre lasciati cadere dalle finestre gli esponenti delle forze dell'ordine che inseguivano i manifestanti. Gli scontri proseguirono e gli organizzatori della manifestazione temettero che, per porvi fine, venisse ordinato alle forze dell'ordine di aprire il fuoco sulla folla, azione che avrebbe causato numerosi morti. Il presidente dell'ANPI, Giorgio Gimelli, si accordò quindi con alcuni ex-partigiani, tra cui un funzionario di polizia, per impegnare gli aderenti all'associazione per fermare gli scontri, ricevendo in cambio l'assicurazione che le forze dell'ordine si sarebbero ritirate senza effettuare nessun arresto. Al termine degli scontri si registrarono 162 feriti tra gli agenti e circa 40 feriti tra i manifestanti.

Manifestazioni e scioperi di protesta contro il governo Tambroni si svolsero nello stesso giorno anche a Roma, Torino, Milano, Livorno e Ferrara[14].

I giorni successivi e l'annullamento del congresso
Il 1º luglio si registrarono diversi scontri tra forze dell'ordine e manifestanti in diverse parti d'Italia, tra cui Torino (manifestazione organizzata dal PCI, svoltasi in piazza Solferino) e San Ferdinando di Puglia (assemblea indetta dalla locale Camera del Lavoro). In un suo discorso alla Camera dei Deputati relativo agli scontri del giorno precedente, Sandro Pertini accuserà la Polizia ("a provocare gli incidenti non sono stati i carabinieri, non le guardie di finanza: è stata la polizia"), aggiungendo che questa avesse mantenuto un comportamento fazioso anche nelle manifestazioni dei giorni precedenti al 30 giugno.

Il 2 luglio, il primo giorno del congresso dell'MSI, la Camera del Lavoro di Genova indisse uno sciopero generale. Il prefetto Luigi Pianese convocò i responsabili della manifestazione e dell'MSI, proponendo un compromesso: il congresso del partito si sarebbe tenuto, ma al teatro Ambra di Nervi (come il Teatro Margherita di proprietà della SARP di Fausto Gadolla, imprenditore genovese e al tempo da poco ex presidente del Genoa), mentre l'ANPI e le altre forze della sinistra avrebbero effettuato una manifestazione altrove. I missini rifiutarono l'accordo, sostenendo che avrebbero accettato il trasferimento solo se ai manifestanti fosse stato vietato di sfilare per il centro della città. La tensione in città cominciò a salire di nuovo. Il prefetto fece arrivare in città diversi reparti delle forze dell'ordine e dell'esercito, schierandoli in zone in cui potessero in qualche modo impedire l'afflusso dei manifestanti provenienti dai quartieri industriali verso il centro della città.

Il prefetto e il questore, ritenendo che il PCI e l'ANPI avrebbero potuto far intervenire alla manifestazione alcuni ex-partigiani per dar vita a incidenti di piazza, valutarono quindi come possibile l'uso delle armi da fuoco. Il questore tuttavia giudicò che il teatro Margherita fosse troppo vicino al sacrario dei caduti (50 metri circa), e che quindi l'unico modo per evitare nuovi scontri fosse lo spostamento della sede del congresso. Il giorno seguente la stessa SARP negò la disponibilità del teatro Margherita, dicendosi disponibile a ospitare l'incontro presso il teatro Ambra, ma il direttivo del Movimento Sociale, guidato da Arturo Michelini, respinse la proposta e decise di annullare la manifestazione denunciando: "le gravissime responsabilità che da un lato i sovversivi e dall'altro il governo si sono assunti nel rendere praticamente irrealizzabile un congresso di partito e nel tollerare una sfrontata violazione del codice penale vigente".[35] La Camera del Lavoro e i sindacati annullarono lo sciopero previsto per il 2 luglio, mentre il giorno 3 si svolse una manifestazione con la partecipazione di politici ed esponenti dell'antifascismo, tra cui Luigi Longo, Umberto Terracini, Pietro Secchia, Franco Antonicelli e Domenico Riccardo Peretti Griva, durante la quale si sostenne che i manifestanti arrestati agirono per legittima difesa.

Gli scontri dei giorni seguenti
Nel periodo seguente si ebbero diversi scontri in diverse parti d'Italia, spesso nati da manifestazioni di protesta dei lavoratori o da commemorazioni di avvenimenti della lotta antifascista. Al contrario di Genova, in queste occasioni si registrò un uso frequente delle armi da fuoco da parte delle forze dell'ordine, con diversi morti e numerosi feriti tra i manifestanti.

Il 5 luglio a Licata gli scontri a seguito di una manifestazione di protesta del sindacato e del relativo blocco della stazione ferroviaria ci fu un morto e 24 feriti. A Milano venne distrutta la sede del Partito Radicale, a Roma alcuni ordigni esplosivi vennero gettati contro una sede locale del PCI, mentre a Ravenna, durante le ore notturne, un gruppo di neofascisti incendiò l'abitazione di Arrigo Boldrini, segretario nazionale dell'ANPI.

Il 6 luglio a Roma, presso la Porta San Paolo, fu indetta una nuova manifestazione contro il governo, che prevedeva la deposizione di alcune corone di fiori presso la lapide in ricordo degli scontri del settembre 1943. La manifestazione, vietata all'ultimo momento, venne ugualmente organizzata (con la partecipazione di una cinquantina di parlamentari provenienti dal PCI, PSI e PRI) e i reparti a cavallo della polizia caricarono violentemente i manifestanti con il tentativo di disperderli. Lo scontro che seguì portò a incidenti con la polizia nel corso dei quali venne ferito l'agente Antonio Sarappa, che morì circa due mesi dopo. Dopo gli scontri si registrarono numerosi fermi e arresti nel quartiere Testaccio: la rivista L'Espresso, nel successivo numero del 17 luglio, a questo proposito scrisse "Per molte ore, in quelle zone, chiunque non aveva la cravatta veniva fermato interrogato, spesso bastonato".

Il 7 luglio una manifestazione sindacale a Reggio Emilia, con 20.000 partecipanti (contro i soli 600 posti della Sala Verdi concessa dalla questura per la manifestazione), finì in tragedia quando la polizia e i carabinieri spararono sulla folla in rivolta, provocando 5 morti. In totale le forze dell'ordine esplosero 500 colpi durante gli scontri.

L'8 luglio il democristiano Cesare Merzagora, presidente del Senato, propose una "tregua" di due settimane, chiedendo la sospensione di tutte le manifestazioni di protesta indette dai partiti di sinistra, dall'ANPI e dai sindacati, e il contemporaneo ritiro nelle caserme delle forze di polizia. La proposta venne accettata dal PCI, PSI, PSDI, PRI e dal Partito radicale, con riserva dalla DC, e vide l'opposizione dei partiti di destra. Nel pomeriggio dello stesso giorno avvennero nuovi scontri a Palermo (due morti e 36 feriti da arma da fuoco, altre fonti riportano 4 morti, e circa 300 fermati) e Catania (un morto, Salvatore Novembre). Sempre l'8 luglio a Firenze, una manifestazione di protesta relativa ai recenti avvenimenti di Reggio Emilia venne caricata dalla polizia.

Cominciò a circolare l'ipotesi (sposata per esempio dal The New York Times in un articolo sugli scontri dell'11 luglio intitolato Violence in Italy) che le manifestazioni che stavano avvenendo in tutta Italia e le relative violenze fossero organizzate dal PCI, facendo riferimento a un recente (dal 21 giugno al 4 luglio) viaggio di Togliatti a Mosca.

Il 13 luglio la direzione della DC emise un documento in cui dichiarava esaurito il compito del governo, dicendosi pronta e favorevole a cercare la creazione di un nuovo esecutivo. Il giorno seguente Tambroni, nel riferire alla Camera dei deputati, riprese la tesi delle violenze organizzate dal PCI, e il collegamento di queste con il viaggio a Mosca di Togliatti. Durante il consiglio dei ministri negò l'ipotesi di dimissioni, evidenziando che queste avrebbero potuto sembrare un "cedimento alla piazza", mettendo al corrente i ministri che gli scontri avrebbero destato preoccupazioni anche all'estero, compresi gli Stati Uniti.

Il 18 luglio la rivista Il Mulino pubblicò un appello, sottoscritto da 61 intellettuali cattolici, in cui si affermava la necessità di rifiutare le politiche autoritarie e le alleanze con le forze politiche neofasciste, anche quando queste servirebbero a difendere i "valori cristiani contro il marxismo".

A seguito delle proteste e dello sfaldarsi della propria maggioranza il Governo Tambroni si dimise il 19 luglio.

Il processo per i fatti di Genova
Nel processo che seguì gli scontri vennero imputate 43 persone, di cui 7 già agli arresti. La Corte di Cassazione decise lo spostamento del processo a Roma. Gli imputati, difesi dal senatore Terracini, e supportati durante la durata del processo con raccolte di fondi dall'ANPI, verranno quasi tutti condannati nel luglio 1962: ci furono 41 condanne, per pene massime di 4 anni e 5 mesi. In un caso, quello di Giuseppe Moglia, la condanna sarà di un solo mese e mezzo, nonostante l'imputato fosse stato trattenuto in carcere da ben due anni.

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Fonti: wikipedia, amezena.net (testo discorso di Pertini)
 
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Il torrente Bisagno

e la sua storia


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Genova si sviluppa partendo dal nucleo del centro storico e lentamente espandendosi verso l’esterno. Esistono degli elementi naturali che per secoli si pongono come confini dello spazio urbano: da un lato il colle di S.Benigno, che separa la città dalla valle accanto (la Val Polcevera) e dall’altro il torrente Bisagno. Quando la città comincia ad allargarsi anche oltre i tradizionali confini, le due vallate si pongono come ovvie zone di urbanizzazione lungo direttrici di fondo valle che salgono verso l’interno del territorio. Ancora prima di questo, però, la Val Bisagno mantiene con Genova un dialogo molto stretto basato su rapporti economici e sulla soddisfazione di esigenze cui la città – limitata nel suo ridotto spazio protetto da mura – non può provvedere da sola.

Scende dalle pendici meridionali del monte Spina, a quota 600m, tra le valli di Fontanabuona e del Lentro, a sinistra, e tra quelle dello Scrivia e della Val Polcevera, a destra. Il Bisagno, antico Feritore, porta un nome dall’origine incerta. Secondo G.Poggi (1856-1919) potrebbe nascere da” pisa” per estrapolazione da “piselli” che crescevano con altri ortaggi sulle sue rive, quando la zona era, ancora, aperta campagna. Da pisa, dunque, sarebbe derivato Pisagno ed infine Bisagno. Pare più congruente, però, la sua etimologia da “bis amnis” (due fiumi) ricordando che, all’origine, il torrente è formato da due confluenti: il fossato di Bargagli e quello di Viganego.

Scendendo dal passo della Scoffera, il Bisagno si snoda per l’omonima valle, lungo un percorso di circa 26 Km, ricevendo l’acqua di molti ruscelli minori come il Consasca, il rio Torbido, il Geirato, il Veilino, il Fereggiano. Nel suo primo tratto, fino alla Presa, alcuni lo chiamano “Bargaglino” perché attraversa il territorio, segnando un confine naturale fra il comune di Bargagli e quello di Davagna.

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Lo si considerava fiume perché anticamente non aveva carattere torrentizio e l’acqua scorreva nel suo letto regolarmente per tutto l’anno, tanto che veniva detto anche feritore, fiume.
Gli studiosi ritengono che la portata d’acqua un tempo più regolare fosse dovuta ad una maggiore copertura boschiva della media e alta valle; le attività umane di approvvigionamento del legname per gli usi più svariati, riducendo sensibilmente tale macchia boschiva, portano il Bisagno ad assumere carattere torrentizio entro il Settecento, quando le testimonianze iconografiche che abbiamo a disposizione restituiscono l’immagine di una percentuale boschiva relativamente simile a quella attuale.

La valle, la cui formazione risale al periodo cretacico, presenta caratteristiche orografiche che variano moltissimo man mano che si risale il corso del torrente, dalla Foce fino alla sorgente, nei pressi del Passo della Scoffera. Queste peculiarità hanno naturalmente condizionato le modalità di insediamento e sviluppo delle attività umane.

La piana del Bisagno è la zona di Genova che presenta le testimonianze più antiche in assoluto della presenza dell’uomo: le prime tracce, rinvenute attraverso scavi, risalgono addirittura al periodo neolitico (V-IV millennio a.C.), nelle zone di Molassana e Traso, e dimostrano che gli spostamenti venivano compiuti, com’è ovvio, seguendo le direttrici di valle, come accade anche in epoca preromana. Gli insediamenti aumentano poi in epoca romana e sensibilmente dopo il Mille, in dipendenza di un aumento demografico che interessa l’intera vallata: d’altronde il popolamento della valle è legato strettamente alle attività della vicina Genova, poiché la Val Bisagno ne soddisfa costantemente nel tempo il fabbisogno di prodotti agricoli e di manovalanza (il termine genovese besagnino col significato di fruttivendolo deriva proprio dal fatto che gli abitanti della valle erano detti bisagnini, da Bisagno, ed erano per la maggioranza contadini).

I numerosi edifici religiosi oggi esistenti il cui impianto originario risale al Medioevo sono prova del suddetto aumento, e anche nei secoli successivi si può seguire la crescita demografica seguendo il sorgere di nuove chiese. Relativamente alla divisione territoriale ecclesiastica, anticamente la valle è divisa in tre pievi: S.Nazaro, sulla costa, cui fa capo la bassa valle, S.Siro, nella media valle, e Bargagli, nella alta. Alcune note di interesse: la pieve di S.Siro – la cui chiesa è perfettamente conservata – rivendica i natali del santo omonimo, vescovo di Genova vissuto nel IV secolo (a lui è intitolata la cattedra episcopale cittadina); la chiesa di S.Nazaro alla Foce invece, risulta essere, negli annali del Giustiniani, la prima chiesa in cui sia mai stata celebrata pubblicamente la messa in Italia, “secondo l’opinione comune”. Man mano che i vari borghi si ingrandiscono ottengono lo status di parrocchie indipendenti.

Con l’acqua del Bisagno nel medioevo si azionavano le ruote dei mulini, si facevano funzionare le fornaci e venivano irrigati i “terrazzani” cioè gli orti, lungo il suo corso. Il “Giro del Fullo” poco prima di Struppa deriva il suo nome dalle antiche attrezzature per la follatura della lana, i cosiddetti “folloni” che battevano i panni di lana rassodandoli e infeltrendoli. Per centinaia di anni la riva sinistra del Bisagno è stata ricca di boschi mentre quella di destra era dedicata all’agricoltura. Tra il ‘500 e il ‘700 la piana del Bisagno era una grande distesa di campi coltivati e la produzione ortofrutticola era una tale specialità che il fruttivendolo a Genova è ancora oggi chiamato dai più anziani “u besagnin”. Sul greto del fiume si poteva incontrare oltre ai contadini un’altra figura molto popolare e amata: la lavandaia. Erano donne e ragazze (ma c’erano anche degli uomini) che raccoglievano la biancheria in città per andare a poi a lavarla, a pagamento, sul fiume. Un’attività per povera gente ma che faceva delle lavandaie le protagoniste di tante storie e aneddoti. Dalla loro abitudine a cantare mentre lavavano dopo che fu costruito il cimitero di Staglieno si trasse il detto per chi moriva che “era andato a sentire cantare le lavandaie”.

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Il legame secolare della valle col capoluogo si individua anche a livello architettonico con la presenza di diverse tipologie edilizie, tutte funzionali ad esigenze della vicina città. L’acquedotto è forse l’opera più importante, e la sua presenza lungo la vallata si snoda attraverso le epoche, con ingrandimenti realizzati in tappe successive e costanti miglioramenti strutturali, dal Medioevo all’Ottocento (quando viene realizzato il ponte sifone sul Veilino).
(dell'acquedotto ne abbiamo già parlato qui)

La presenza dell’acquedotto è percepita con non poca insofferenza dagli abitanti della valle, perché sottrae acqua ai loro campi: in tutte le epoche essi cercano, finché possono, di trarre irrigazione per le coltivazioni dai fossati del percorso dell’acquedotto, ma la prevaricazione degli interessi locali a beneficio dell’urbe viene portata avanti senza indugi, spesso con l’uso delle armi.

Nondimeno il Bisagno è stato nei secoli forte elemento di preoccupazione, una catastrofe imminente sulla città, uno tsunami che invece di arrivare dal mare arrivava dai monti portando rovina, distruzione e morte.

Detto che le alluvioni di cui Genova è stata vittima recentemente non sono sempre dovute allo straripamento del torrente ma, a volte, dei suoi principali affluenti (nel 2013 fu il caso del Fereggiano) i disastri provocati dal Bisagno sono all’ordine del giorno e fanno più parte della cronaca che non della storia. E’ giusto anche dire che pure in epoche in cui l’edilizia soffocante degli anni ’30 in poi non aveva imprigionato il torrente i disastri si erano verificati ugualmente. Gli annalisti di un tempo parlano di una rovinosa alluvione nel 1278 ed è grazie al poeta George Byron che ci è arrivata sino a noi attraverso le sue lettere una vera e propria cronaca dell’alluvione del 1822 con il classico copione che tutti conosciamo bene: esondazione, allagamento della zona di Brignole e delle via adiacenti. La forza delle onde portò via parte del ponte di S. Agata e provocò diverse vittime.

Negli anni ’30 si decise con un’operazione non particolarmente lungimirante di coprire l’ultimo tratto del Bisagno, quello che da Brignole va sino al mare. I lavori cambiarono profondamente il volto di Genova, vennero dismesse le ormai obsolete “fronti basse” e sparì ponte Pila. Il Bisagno fu rivestito di cemento e quell’area venne intensamente utilizzata per ulteriori costruzioni come Corte Lambruschini con un attrezzatissimo mercato dei fiori.

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La reazione del Bisagno arrivò nel 1970 con una delle più disastrose alluvioni della sua storia. La città moderna, più densamente abitata e popolata anche nelle zone dove precedentemente il torrente poteva allargarsi senza particolari danni, finì letteralmente sott’acqua e si contarono alla fine 25 morti con danni incalcolabili. Fabrizio De Andrè in “Dolcenera” nei suoi versi esprime tutta l’angoscia provocata dall’orribile immagine della massa d’acqua che si abbatteva sulla città.



Ma l’esperienza devastante di allora servì a poco.

Nel 2014 Genova finisce nuovamente sott’acqua per colpa del Bisagno e si conta ancora un morto con ulteriori profonde ferite al tessuto economico e commerciale della città (dopo che nel 2011 era stato il Fereggiano a esondare con altre sei vittime).

Oggi dopo fiumi di inchiostro oltre che di acqua per comprendere il problema e trovare le soluzioni il torrente resta un gravoso problema che incombe sulla città anche a causa dei cambiamenti climatici e dei disastrosi rovesci che avvengono su Genova periodicamente. La cattiva gestione urbanistica dagli anni ’30 in poi con una indiscriminata costruzione sopra il torrente e i suoi affluenti ha ulteriormente aggravato la situazione. Leggendo la storia appare chiaro che si evidenzi la necessità non di una corsa a rimedi stagionali e temporanei ma di una rilettura del tessuto urbanistico di Genova stessa, qualcosa che la politica amministrativa degli ultimi anni non sembra non solo in grado di comprendere ma neanche di elaborare.

Ma torneremo a parlare di Bisagno, perchè qui ho parlato dell'ultimo ponte antico rimasto, ma poi voglio parlare del ponte di Sant'Agata che non c'è più

Fonti: guidadigenova.it, genova.erasuperba.it, genovaquotidiana.com
 
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Aprile 1849 – Il sacco di Genova

Quando i piemontesi regredirono nel medioevo


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A seguito della dissoluzione della napoleonica Repubblica Ligure, il Congresso di Vienna nel 1815 unì la Liguria al Regno di Sardegna (e specifichiamo: NON PER SCELTA DEI LIGURI)

La situazione in “Italia” era complicata ed in continuo tumulto. Dopo l’armistizio firmato il 25 marzo del ’49 da Vittorio Emanuele II di Savoia, i liguri (popolo storicamente “pronto” a manifestare il suo pensiero senza paura), perduta l’indipendenza e ostili verso i Sabaudi, sfociarono nei cosiddetti “moti di Genova”.
Il bullezumme creato dai genovesi portò alla restaurazione di un governo provvisorio autonomo, a Genova.


Le premesse sembrano esserci tutte affinché Genova possa a buon diritto riprendersi il suo ruolo di prestigio a livello commerciale e imprenditoriale. Fin qui l’appoggio dei Savoia è incontrastato. Solo che adesso le parti si sono clamorosamente invertite ed è Carlo Alberto a non fidarsi dei Genovesi. O meglio: finché parliamo di soldi e di imprenditori l’affidabilità è garantita dalle reciproche convenienze. Ma guai ad azzardarsi a estendere il concetto a livello politico. I Genovesi, attraverso una sommessa delegazione, ritengono che ai primi del ’48 (anno che diventerà peraltro proverbiale e in cui Carlo Alberto promulgherà lo “statuto albertino”) i tempi siano maturi per inoltrare le caute richieste della città: il ripristino della libertà di stampa e l’allestimento di una guardia civica. Ma il re gli sbatte la porta in faccia, o meglio non gliela apre neppure.

Il segnale è chiaro.

Mossa poco lungimirante: ché Genova ribolle, anche alla luce delle insurrezioni che coinvolgono Parigi, dove il re è costretto ad abdicare, e le vicine Milano e Venezia, che cacciano gli Austriaci, già in difficoltà di loro in quanto anche a Budapest la loro situazione non è rosea.

Lì per lì la situazione tiene: i Genovesi accorrono a dar man forte alle truppe sabaude quando si tratta di cacciare gli austriaci da Milano, nella speranza, forse addirittura una mezza convinzione, che il momento sia maturo per unire finalmente l’Italia. Ma è ancora presto, e quando Austria e Savoia firmano l’armistizio siamo daccapo.

Tanto più che Genova nel frattempo ha ottenuto poco o niente: un sindaco al posto del governatore e la formazione della guardia civica di cui sopra. Ma dell’idea di smantellare l’odiato Castelletto non si parla proprio.

I Genovesi non ci stanno e come al solito fanno di testa loro: il 16 agosto di quello stesso 1848 assaltano la fortezza provocando gravi danni. Questa volta l’appoggio del popolo c’è, e a Torino fanno bene a preoccuparsi. Tanto più che un gruppo di mazziniani radicali, insieme ad altri democratici, fonda il Circolo italiano, che non va per il sottile e trova modo di coinvolgere le masse. La “richiesta” è la ripresa delle ostilità contro l’Austria e l’accusa nei confronti dei Savoia di avere rimesso al nemico Milano e Venezia.

Per tutta risposta il governo piemontese mette agli arresti Filippo De Boni, uno dei capi del movimento. Apriti cielo! La folla prende di mira il palazzo del governatore e si prende le armi. Vista la mala parata, De Boni viene liberato, ma le acque si chetano fino a un certo punto.

A dicembre la gente è ancora in piazza e chiede la democrazia. Il commissario straordinario fa chiudere il Circolo italiano, reo di istigare la popolazione. Ma si ferma lì: arrestare i capi o andarci giù pesante con i manifestanti potrebbe solo gettare altra benzina sul fuoco. Meglio andarci cauti, al punto che buona parte della guarnigione piemontese viene smantellata e a mantenere l’ordine pubblico resta la sola guardia nazionale.

Solo che a questo punto è il comando dell’esercito piemontese a inalberarsi.

A placare ancora una volta le acque sembrano mettercisi, almeno lì per lì, i fattori esterni: nel marzo 1849 scoppia ancora la guerra contro gli Austriaci ma è questione di pochi giorni. I piemontesi perdono “in casa” a Novara e addirittura si vocifera di tradimenti da parte dei militari sabaudi.

La situazione sì fa incandescente: il re abdica, le istituzioni di ogni genere e grado si paralizzano e i focolai della ribellione si riattizzano un po’ ovunque, da Venezia a Roma, dalla Toscana a… e beh, certo: Genova.

A scaldare vieppiù, sempre che ce ne fosse stato bisogno, gli animi, si diffonde in città la notizia che gli austriaci vittoriosi a Novara stiano calando a Genova. Attraverso il sindaco i genovesi in armi chiedono di poter gestire in proprio i forti Begato e Sperone per organizzare una difesa decente: 800 fucili vengono consegnati ai camalli in porto e addirittura la curia chiede di potersi armare.

Il presidio piemontese può contare su un numero contenuto di uomini, mentre i rivoltosi, comandati da Giuseppe Avezzana, dispongono di forze assai maggiori. Rischia di finire male, anche perché Avezzana stenta a tenere a bada i suoi uomini; pare che anche i Savoia stiano marciando su Genova con cospicui rinforzi.

Risultato: i ribelli piombano in Darsena e sequestrano le armi, cannoni compresi, fraternizzando peraltro con i soldati piemontesi. Poi attaccano la caserma dei carabinieri, che risponde al fuoco uccidendo 25 genovesi e contando cinque vittime fra le proprie fila. De Asarta, il comandante delle truppe piemontesi intende reprimere la ribellione ma i suoi soldati si ammutinano: ormai le idee risorgimentali stanno prendendo campo, e i militari non ci stanno a imbracciare i fucili contro degli italiani…

Senonché nel frattempo la situazione a Torino si è ricomposta: il nuovo re Vittorio Emanuele ii non può accettare l’idea di perdere Genova né di creare un pericoloso focolaio di ribellione. La rivolta va repressa con la massima intransigenza, i Genovesi, si sa, sono pericolosi.

Così affida al suo fedelissimo generale Alfonso La Marmora il compito di marciare su Genova.

Avezzana cerca di rassicurare il nuovo sovrano, dicendogli che la ribellione era dovuta all’armistizio firmato con gli austriaci e nulla più: ma non gli crede nessuno. Su Genova marciano 10.000 soldati piemontesi, che comprendono due reggimenti di bersaglieri.

In città non tutti sono pronti alla battaglia: i moderati si fanno da parte ma ormai il dado è tratto: il 4 aprile 1849 La Marmora arriva sulle alture di Sampierdarena e attacca i forti San Benigno e Tenaglia. Propone la resa ma Avezzana rifiuta con sdegno.

A quel punto le sue truppe, aizzate dallo stesso generale, si accaniscono contro la città, che subisce il giorno dopo un pesante bombardamento che danneggia in modo assai pesante anche l’ospedale di Pammatone.

Solo a questo punto il governo, allontanato Avezzana che rimane irriducibile, si arrende e chiede clemenza. Ma La Marmora è furente: dà carta bianca ai suoi uomini, liberi di darsi al saccheggio, a stupri, a violenze, per un giorno intero.

Cose che non si vedevano dal Medioevo…

Un atteggiamento che creerà un solco di rancore nei confronti dei piemontesi destinato a perdurare nel tempo…

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Il carnefice La Marmora



Per sedare la rivolta, il Re inviò il generale Alfonso La Marmora con l’esercito sardo e il corpo speciale dei Bersaglieri.
Dopo alcuni giorni di scontri, il 5 aprile, un vascello del Regno Unito, il Vengeance, intervenne a favore dei piemontesi.

I maledetti bevitori di thè iniziarono a cannoneggiare la città senza preavviso e, contemporaneamente, presero la batteria del molo.

La Marmora, d’altro canto, manifestò sin dall’inizio una totale mancanza di umanità e una ferocia quasi “medioevale”. Giunto di fronte alla porta della Lanterna, finse di voler trattare con i genovesi, salvo poi attaccare il comando. Colti alla sprovvista, i genovesi persero le postazioni di San Benigno.

Mentre il fronte a mare combatteva aspramente, anche sui bricchi non si scambiavano carezze. Qui veniamo a conoscenza dell’eroica azione del giovane savonese Alessandro De Stefanis che, nel tentativo di riprendere il Forte Begato, venne ferito ad una gamba e si rifugiò in un casolare. Il brigantino, però, venne scoperto da un manipolo di bersaglieri che infierirono sul giovane ferendolo gravemente e lasciandolo morire di stenti. De Stefanis morì dopo un mese di agonia in casa di un ufficiale indipendentista che, trovandolo giorni dopo senza forze, provò a salvarlo invano.

È noto come i Genovesi confidassero nell’arrivo della Divisione Lombarda. Avrebbero potuto invertire le sorti dell’assedio, ma il comando di questi era affidato al generale Manfredo Fanti (conosciuto come fondatore del Regio Esercito). La divisione Lombarda operò in modo tale da non giungere in tempo a soccorrere la città. (Per dover di cronaca, così da spegner subito l’odio-random per i milanesi: I volontari, si narra, volessero accorrere in aiuto, ma fu il generale a desistere, probabilmente per non incorrere nelle ire del suo neo-Re Vittorio Emanuele II)

In aiuto dei genovesi, arrivò una legione militare polacca distaccatasi dalla Legione di Mickiewicz e guidata dal colonnello Breański. Troppo poco per poter resistere ai 25/30mila uomini sabaudi che arrivarono di lì a poco.

Sin dalle prime fasi del bombardamento si era capito come i Piemontesi giocassero duro e non gli importasse molto della città in se’. Presero di mira le abitazioni civili e persino l’ospedale di Pammatone, sparando a raffica dalle batterie di San Benigno. Nel mentre, i soldati del Regno Unito continuarono il bombardamento via mare.

I genovesi riuscirono a resistere fino all’11 aprile.
Da questo momento i piemontesi scelsero di regredire nel medioevo, violentando donne, uccidendo padri di famiglia e sparando alle finestre alla gente che vi si affacciava.

I soldati dei Savoia, che già nei giorni precedenti si erano abbandonati ad eccessi nelle colline, si disseminarono in tutta la città come un'orda di barbari, sparando su chi si affacciava alle finestre. Penetrarono a mano armata nelle abitazioni, al grido "denari, denari o la vita", strappando con percosse alla gente catenelle d'oro, orologi, anelli, e persino le camicie e le scarpe. Spogliate le persone, rastrellavano il denaro e le cose preziose. Dicevano: "I Genovesi son tutti Balilla, non meritano compassione, dobbiamo ucciderli tutti ". Un povero facchino, cui avevano ucciso il figlio di undici anni, fu obbligato giorno e notte a preparare minestre alle diverse squadre di soldati. Ci fu chi venne ucciso per rubargli solo un po' di verdura! La soldataglia dei Savoia stuprò e violentò le donne, anche alla presenza dei figli. Furono profanati e saccheggiati le chiese ed i Santuari, le case dei Missionari, i conventi.

Alcuni degli insorti arresisi furono passati per le armi, molti altri furono condotti a calci e pugni al forte della Crocetta. Derubati, furono rinchiusi in celle affollate. Per due giorni non fu somministrato cibo di sorta, e due nei successivi una sola galletta per giorno. Fu loro negata anche l'acqua, a chi ne chiedeva i soldati rispondevano: "bevete l'orina". L'inumano trattamento era completato dalle percosse e dalle continue minacce di fucilazione.

Nel rapporto ufficiale della Commissione Municipale, nominata dopo l'inserruzione, furono riportate ben 463 relazioni di singoli misfatti compiuti delle truppe dei Savoia.

La ferita dei genovesi con il Savoia non si potrà mai ricucire, specialmente dopo che venne resa nota la lettera che egli scrisse al suo generale:

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E questo è il "figlio del macellaio" Vittorio Emanuele II



«Mio caro generale,
vi ho affidato l’affare di Genova perché siete un coraggioso. Non potevate fare di meglio e meritate ogni genere di complimenti.

Spero che la nostra infelice nazione aprirà finalmente gli occhi e vedrà l’abisso in cui si era gettata a testa bassa.

Occorre molta fatica per trarla fuori ed è proprio suo malgrado che bisogna lavorare per il suo bene; che ella impari per una volta finalmente ad amare gli onesti che lavorano per la sua felicità e a odiare questa vile e infetta razza di canaglie di cui essa si fidava e nella quale, sacrificando ogni sentimento di fedeltà, ogni sentimento d’onore, essa poneva tutta la sua speranza. Dopo i nostri tristi avvenimenti, di cui avrete avuto i dettagli in seguito a un mio ordine, non so neppure io come sia riuscito in mezzo a tante difficoltà a trovarmi al punto in cui siamo. Ho lavorato costantemente notte e giorno, ma se ciò continua così ci lascio la pelle, che avrei voluto piuttosto lasciare in una delle ultime battaglie.

Parlerò alla deputazione con prudenza; saprà tuttavia la mia maniera di pensare. Vedrete le condizioni; mi è stato necessario combattere con il Ministero, perché Pinelli spesso si mostra molto debole.

Penso di lasciarvi ancora qualche tempo a Genova; fate tutto quel che giudicherete opportuno per il meglio. Ricordatevi, molto rigore con i militari compromessi. Ho fatto mettere De Asarta e il Colonnello del Genio in Consiglio di guerra. Ricordatevi di far condannare dai tribunali tutti i delitti commessi da chiunque e soprattutto nei confronti dei nostri ufficiali; di cacciare immediatamente tutti gli stranieri e di farli accompagnare alla frontiera e di costituire immediatamente una buona polizia.

Ci sono pochi individui compresi nella nota, ma si dice che occorre clemenza. Informateci su ciò che succederà, sullo stato della città, sul suo spirito, su coloro che hanno preso più parte alla rivolta, e cercate se potete di far sì che i soldati non si lascino andare a eccessi sugli abitanti, e fate dar loro, se necessario, un’alta paga e molta disciplina soprattutto per coloro che vi inviamo; saranno seccati di non arrivare a tempo.

Conservatemi la vostra cara amicizia, e conservatevi per altri tempi che, a quanto credo, non saranno lontani, in cui avrò bisogno dei vostri talenti e del vostro coraggio.

Li 8 aprile 1849
Vostro affezionatissimo
Vittorio»


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Il 26 novembre 2008 il consiglio comunale di Genova, ha fatto apporre sul marciapiede di fronte alla statua del re Vittorio Emanuele II, sita in piazza Corvetto, una targa che ricorda i tragici fatti dell’aprile 1849.

«Nell’aprile 1849
le truppe del Re di Sardegna Vittorio Emanuele II
al comando del generale Alfonso La Marmora
sottoposero l’inerme popolazione genovese
a saccheggi bombardamenti e crudeli violenze
provocando la morte di molti pacifici cittadini
aggiungendo così alla forzata annessione
della Repubblica di Genova al Regno di Sardegna del 1814
un ulteriore motivo di biasimo
affinché ciò che è stato troppo a lungo rimosso
non venga più dimenticato
il comune di Genova pose»


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Fonti:

Per la parte non corsiva: Fabrizio Calzia - Breve storia di Genova

Per la parte corsiva: ilmugugnogenovese.it, ilportaledelsud.org

Fotografie da francobampi.it, genovaquotidiana.org, ilmugugnogenovese.it

Edited by marmari - 7/4/2021, 10:04
 
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L'antico ponte Sant'Agata

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L’antico ponte di Sant’Agata fu costruito in età Medievale, attorno al VII secolo (ma alcuni sostengono più tardi, nel VIII sec.) e, spesso erroneamente, è stato indicato come struttura di costruzione di epoca romana.

Perché scambiato per “ponte romano”?
Il percorso che attraversava era quello dell’Antica Via Aurelia e proprio in corrispondenza del ponte si ipotizza che vi fosse una preesistente struttura costruita in epoca romana, collegante Genova alla vecchia strada che portava al levante ligure, alla quale si arrivava percorrendo le attuali Via San Vincenzo e Via Borgo Incrociati.Il percorso che si delineava non era molto diverso da quello attuale, attraversato dalle vie di San Fruttuoso: salita della Noce, vie delle Casette, Vernazza, Pontetti, via Romana di Quarto, via Romana della Castagna, via Romana di Quinto.

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Il ponte è posto sul torrente Bisagno (area golenale). Prima delle riduzioni dovute all’ ingrandimento del quartiere, il ponte era composto da ventotto arcate e attraversava un lungo tratto che andava da Borgo Incrociati sino alla chiesa di Sant’Agata. Tra l’Ottocento ed il Novecento la costruzione di corso Sardegna, come lo conosciamo oggi, ha ridotto l’area golenale del fiume e diminuito le dimensioni del ponte; infatti, delle 28 arcate di cui si parlava in alcuni documenti, ne sono rimaste ben poche, demolendo e/o seppellendo nel sottosuolo quelle “di troppo”.

Le arcate visibili nella foto più recente (qui sopra) eran cinque, lasciate in quanto patrimonio storico-artistico di fronte al Borgo Incrociati. Il 7 novembre 1970 il ponte fu pesantemente danneggiato da un’alluvione, causando il crollo di due delle cinque arcate lasciate libere. Nei successivi fenomeni alluvionali degli anni novanta, il ponte ebbe altri cedimenti, decretandone la definitiva chiusura. Quello che oggi possiamo osservare dell’antico ponte sono solo pochi resti, due arcate cui sono stati inseriti alcuni tiranti metallici per evitare il crollo totale e pochi metri di “ingresso” dalla parte opposta.

Forti analogie sono riscontrabili, se si confronta questo antico ponte medievale, con un’altra costruzione: il ponte del borgo marinaro di Bogliasco. Tutt’ora percorribile, fu costruito in pietra dai romani, con la stessa funzione del ponte di Sant’Agata, ovvero utilizzato come percorso della via Aurelia, costruita per l’avanzata contro i galli.

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Una curiosità?
Era il più lungo del mondo con le sue già citate 28 arcate. Ben 360 metri di mattoni e maestria artigiana.

Per riqualificare questo pezzo di storia si battono da anni Umberto Solferino, presidente del Civ Corso Sardegna e l’architetto Matteo Marino (fonte ilsecoloxix.it), “che nel 2009 ha presentato un progetto per riqualificare l’opera spazzata via dall’acqua nel 1970 e nel 1992.”

«Le arcate mancanti verrebbero ricostruite e il ponte diventerebbe una pista ciclopedonale, per un costo di 100mila euro – spiega l’architetto Marino – I soldi c’erano ma con l’alluvione del 2011 le cose si sono complicate».

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Fonti: ilmugugnogenovese.it, fosca.unige.it/
 
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Mamma, li turchi!

Porta Siberia (o antica porta del molo)


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Per la costruzione della Porta del Molo o Ciberia l’architetto perugino Galeazzo Alessi si ispirò al progetto della porta di San Miniato di Firenze eseguito da Michelangelo.



Edificio massiccio risalente al 1551-53, opera di Galeazzo Alessi, faceva parte delle mura cinquecentesche. Il nome deriva da “cibaria”, poiché attraverso questo varco transitavano le derrate alimentari che giungevano via mare e quelle in partenza destinate ad altri porti del Mediterraneo.

“… Fu chiamato dai genovesi con suo molto onore a’ servigii di quella repubblica, per la quale la prima opera che facesse si fu racconciare e fortificare il porto et il molo, anzi quasi farlo un altro da quello che era prima. Conciò sia che allargandosi in mare per buono spazio”… annota il Vasari ( e il molo s’allungò di più di 600 passi) riportando il racconto di Filippo Alberti,” fece fare un bellissimo portone” (la porta del Molo in seguito chiamata Sibaria o Siberia, realizzata fra il 1553 e il 1555), che giace in mezzo circolo, molto a!dorno di colonne rustiche e di nicchie a quelle intorno. All’estremità di quel circolo si congiungono due baluardotti, che difendono detto portone. In sulla piazza poi, sopra il molo, alle spalle di detto portone, verso la città fece un portico grandissimo, il quale riceve il corpo della guardia, d’ordine dorico e, sopra esso, quanto è lo spazio che egli tiene, et insieme i due baluardi e porta, resta una piazza spedita per comodo dell’artiglieria, la quale a guisa di cavaliere sta sopra il molo e difende il porto dentro e fuora. Et oltre questo che è fatto, si dà ordine per suo disegno, e già dalla Signoria è stato approvato il modello dell’accrescimento della città, con molta lode di Galeazzo, che in queste et altre opere ha mostrato di essere ingegnosissimo”.

La porta è collegata con le Mura di Malapaga da un lato e con il Mandraccio dall’altro. Sul fronte mare si presenta a tenaglia con due bastioni laterali mentre il prospetto interno è costituito da un porticato classicheggiante a lesene doriche con fregi di armi e scudi della Repubblica.

A completare il sistema difensivo insieme a quella principale del Molo, altre due porte minori: della Marinetta o Giarretta e di S. Marco accanto all’omonima chiesa.

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Legata alla costruzione della porta è la leggenda che narra di una delle versioni più note inerenti l’etimo della parola “massacan”: I manovali che stavano lavorando alla sommità dell’edificio videro in lontananza le navi turche pararsi minacciose all’orizzonte. Non solo furono i primi a lanciare l’allarme ma, al grido di “Ammassae, ammassae i chen”, si scagliarono coraggiosamente contro il nemico respingendo il saraceno invasore.

Sul fornice la lapide datata 1553 proclama:

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“Aucta ex s.c. Mole Extructaq / Poreta Propvgnacolo Mvnita / Vrbem Cingebant Moenibvs / Qvacunque Allvitrur Mari/ ann. MDLIII” (Per decreto del Senato, dopo aver prolungato il molo , munita con difese, i cittadini cingevano con mura la città lungo tutta la parte è lambita dal mare). L’iscrizione è attribuita all’illustre storico ed umanista genovese Jacopo Bonfadio.

Secondo alcuni storici, l’origine del nome sarebbe legata alla nobile famiglia dei Cybo illustre casata genovese che dette alla città un Papa, Innocenzo VIII e diversi cardinali e che proprio nel ‘500 ebbe il suo periodo di maggior splendore.

Il nome “Cibaria”, storpiato poi nei secoli in “Siberia”, deriverebbe dal fatto che era il varco dal quale transitavano principalmente le merci di carattere alimentare destinate ai vicini magazzini dell’Abbondanza.

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In realtà quella che si crede essere la Porta Siberia corrisponde alla Porta del Molo, così chiamata anche ai tempi dell’architetto perugino. Nelle antiche mappe infatti, il nome Siberia compare solo nel 1869 ed è il varco, come attestato da relativa lapide in Via del Molo, aperto a metà dell’800 nei pressi di Calata Marinetta. Ne resta traccia nella costruzione lato mare che l’ha inglobata tra il Ristorante le Tre Caravelle e il Baluardo.

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Da diversi anni la struttura della Porta del Molo, oltre a fungere, fino al 2019 da degna cornice per il museo e la Fondazione Luzzati intitolati ad Emanuele, il grande artista e scenografo genovese, scomparso nel 2007, costituisce spettacolare accesso al Porto Antico. Varcata la quinta… Genova sale sul palcoscenico…

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Fonti: amezena.net, visitgeoa.it, genovacittasegreta.com
 
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La tragedia della London Valour, la nave che affondò due volte









Soffiava un forte vento di Libeccio quella mattina a Genova. Era il 9 aprile 1970. Per chi andava al lavoro al porto era chiaro che sarebbe stata una giornata difficile e soprattutto molto lunga. I curiosi si fermavano a guardare la spettacolare mareggiata che si infrangeva sulla costa. Quella mattina Edward Muir comandante della Bulk carrier “London Valour” che batteva bandiera inglese ancorata non distante dagli scogli della diga foranea “Duca di Galliera” si appresta a smontare i propulsori della nave per una revisione che deve avvenire assolutamente. La libecciata che i marinai conoscono molto bene e che rende la vita difficile alle navi che devono entrare in porto aumenta d’intensità nel corso della mattinata: alle 13.00 il mare è a forza 7, un’intensità che si potrebbe definire catastrofica. Parte dalla radio della Guardia Costiera l’avviso che la situazione sarebbe ulteriormente peggiorata. Un messaggio che non arrivò mai alla London Valour. E’ a quel punto che dalla riva, dalla zona della Foce del Bisagno, chi osserva quel devastante spettacolo si accorge che la London Valour è troppo vicina alla diga. Avendo smontato i propulsori, la nave inglese non riesce a manovrare e a trattenere la furia delle onde, resta solo la pesante ancora buttata sul fondo che però di fronte a quella forza non basta più. Scatta l’allarme. La situazione precipita. La nave in balia delle onde viene trascinata pericolosamente a ridosso della diga. I rimorchiatori del porto si staccano dalla loro banchina e si dirigono verso il mare aperto per portare soccorso ma nessuno di questi riesce ad avvicinare la London Valour. Alle 14.00 è chiaro che si sta consumando una terribile tragedia. L’equipaggio composto da marinai indiani e filippini dal ponte lancia messaggi disperati di soccorso, alcuni cadono in acqua e vengono spinti dalle onde contro gli scogli: una morte terribile. Tutta Genova, attraversata dalle sinistre sirene delle ambulanze assiste impotente al naufragio davanti al porto. Anche le imbarcazioni della Capitaneria di porto, dei piloti e dei carabinieri che arrivano nei pressi della London Valour non riescono a portare aiuto. La situazione è tale che ogni semplice azione di soccorso per riuscire salvare i marinai intrappolati a bordo è un atto di eroismo. Dalla diga si riesce ad agganciare la nave con una fune di nylon: l’intento è quello di apprestare una rudimentale carrucola per effettuare il trasbordo dell’equipaggio a terra. ma non c’è limite al peggio. Lo scafo della London Valour ormai irrimediabilmente compromesso si spezza. A quel punto la fune che appariva la seppur flebile possibilità di salvezza diventa un’orrenda macchina da morte. Il troncone di nave a cui era legato ondeggiando violentemente tra i marosi tende e rilassa il cavo come se fosse l’elastico di una fionda lanciando i marinai contro la banchina e sugli scogli.
A bordo della nave si consuma un’ulteriore tragedia nella tragedia. La moglie del comandante Dorothy viene sbalzata in mare dalle onde e il marito per salvarla, indossato il salvagente, si lancerà in mare. Entrambi moriranno. Intanto, nessuno dei soccorritori genovesi pur a rischio della propria vita demorde pur di salvare più vite possibile. La motovedetta CP233 guidata dal tenete di vascello Giuseppe Telmon riesce, correndo rischi incredibili, ad accostarsi alla nave e a trarre in salvo 26 naufraghi. La pilotina “Teti” guidata dal capitano Giovanni Santagata che coordinava i soccorsi salverà cinque naufraghi. Ma nulla impressionerà di più i genovesi come l’arrivo dal cielo della “libellula” (un elicottero AB 47 G) del capitano dei vigili del fuoco Rinaldo Enrico che con spericolate acrobazie sopra il relitto volteggerà tutto il pomeriggio lanciando salvagenti ai naufraghi. Un’impresa incredbile considerando che il vento soffiava a 100 km orari e nessuno con i mezzi di allora sarebbe riuscito non solo a portare i soccorsi come fece lui ma tenere anche un normale assetto di volo. Alla fine della giornata la nave affonderà portando con sé il comandante, la moglie, il radiotelegrafista e sedici membri dell’equipaggio. L’anno successivo si cercò di spostare la London Valour in fondale più profondo ma a causa delle cattive condizioni dello scafo il relitto si staccò riaffondando una seconda volta. Oggi la nave si trova a 90 miglia dal porto di Genova a 2600 metri di profondità. Il “capitano Enrico” così come verrà da allora ricordato, morì qualche tempo dopo il naufragio durante un’esercitazione. La tragedia ispirò una delle più belle canzoni di Fabrizio De Andrè che trattò l’episodio come un’allegoria della situazione politica del suo tempo. Sicuramente, come per altre sue canzoni, alcuni versi sono schegge di straordinaria drammaticità e bellezza che ricordano i tragici eventi di quel giorno: “E la radio di bordo è una sfera di cristallo/dice che il vento si farà lupo il mare si farà sciacallo” … “E le ancore hanno perduto la scommessa e gli artigli/i marinai uova di gabbiano piovono sugli scogli”… “E con uno schiocco di lingua parte il cavo dalla riva/ruba l’amore del capitano attorcigliandole la vita”

Non avevo ancora nove anni e ricordo quella giornata come se fosse ieri ... tutto era strano: il vento, il colore del cielo, le sirene della ambulanze che non tacevano mai, tantissima gente in Corso Italia a passeggiare (si era nel periodo Pasquale) e quello strano elicottero che sembrava cadere da una momento all'altro ... una foto, pubblicata sul Corriere Mercantile, mi "perseguitò" per anni ... quella di uno dei superstiti appena tratto in salvo, totalmente sporco di nafta.
Mi sembrava, nella mia mente di bambino, uno appena tornato dall'inferno


fonte: www.google.com/url?sa=t&rct=j&q=&e...WKAy7Cce2VYwKiL

le foto inserite sono a solo scopo ludico/istruttivo; non si intende violare alcun diritto di autore
 
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salve
oggi iniziamo, insieme a questi due ragazzi (lei friulana ma innamorata di Genova) un lungo percorso che ci porterà attraverso i suoi sentieri, monti e valli.
Oggi si parte con una escursione urbana. Buona visione


un saluto
Piero
 
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La Bella di Torriglia

Chi era e perchè è famosa?


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Chiunque in Liguria se sente parlare de “La bella di Torriglia” non potrà mai negare di averlo sentito!

La Bella di Torriglia è una figura leggendaria e… direi anche “controversa”.

Controversa, appunto: solitamente quando si raccontano delle storiedipaese si conclude con un “ehhh non si sa/ non esiste / è solo una storia“, ma in questo caso, forse, si può dar una risposta.

La Bella di Torriglia è esistita per davvero, ma… Non è che abbiamo capito bene chi sia!

Rosa Garaventa (nata a Torriglia in data sconosciuta e morta nel 1868) sarebbe la famosa Bella de Torriggia! Un suo ritratto venne pubblicato sul periodico umoristico-letterario Farfalla. Teneva fra le mani un mazzolino di fiori e la dedica diceva: “Regina di Torriglia accende i cuor / si chiama Rosa e un fior essa è tra i fior“.

La leggenda vuole Rosa Garaventa esser stata la Bella di Torriglia, ma viene messa in discussione da altre di “storiedipaese“. Una fra tutte? Risalente al XVI secolo, vi è un’altra “teoria”, secondo la quale la vera Bella di Torriglia sarebbe stata tale Clementina (o Celestina), amante di Sinibaldo Fieschi, Signore di Torriglia.

Clementina, si dice, gli rimase fedele per tutta la vita anche se la relazione venne interrotta dall’esilio genovese della famiglia Fieschi.

Ma a Rosa Garaventa e alla misteriosa Clementina, altre fonti, oppongono una terza pretendente al ruolo di Bella di Torriglia: sulla facciata di una casa del comune ligure vi è un bel ritratto di fantasia, a piena figura, opera del pittore locale Pietro Lumachi, che raffigura tale Maria Traverso, morta nel 1886, altra possibile Bella torrigliese.

Secondo l’antica e famosa filastrocca, è colei che “tutti la vogliono, ma nessuno se la piglia” (in genovese: A l’é a bella de Torriggia: tutti a vêuan e nisciûn s’a piggia). La locuzione è divenuta un modo comune per indicare qualcosa di molto ambito solo in apparenza.

Ci sono pure alcune varianti della filastrocca, per esempio questa:

A bella de Torriggia cô çento galanti a l’é morta figgia. (La bella di Torriglia con cento galanti è morta signorina).
Oppure questa, dove però il significato cambia completamente:

A l’é a bella de Torriggia: tutti a vêuan e nisciûn s’a piggia, ma quando poi a s’é maiâ, tutti orieivan aveila sposâ. (È la bella di Torriglia: tutti la vogliono e nessuno se la piglia. Ma quando poi si è maritata, tutti avrebbero voluto averla sposata).
Oppure questa, dove traspare l’amaro rimpianto di essere stata forse eccessivamente incontentabile in gioventù:

A dixe a figgia de Torriggia: chi vêu troppo, ninte piggia. (Dice la ragazza di Torriglia: chi troppo vuole, niente piglia).

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Articolo di Gabriele Rastaldo

Fonte: ilmugugnogenovese.it
 
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salve
oggi i nostri amici ci portano sul Monte Reale; posto meraviglioso che ho avuto occasione di "scalare" durante una massacrante (ma molto divertente) gara di corsa in montagna
buona visione

 
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Le Famiglie Nobili Genovesi

di Guido Zunino

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uando, nella storia umana, si passa dai ricordi tramandati per via orale (riservati perciò solo ad un ambito locale in cui tutti si potevano conoscere) a quelli riportati in varie forme di scrittura (con riferimenti validi quindi in territori molto più estesi e lontani), si accentua la necessità di definire meglio l'identificazione di un individuo con la sua appartenenza ad un preciso determinato gruppo sociale.
Ecco dunque la necessità e la nascita dei "Lignaggi Parentali" per distinguere ed identificare singoli individui di cui si devono ricordare o l'esistenza o le gesta, o l'importanza sociale.
Nasce così il secondo "Nome" (che sarà poi chiamato "Cognome", e che si aggiungerà al primo: "Nome di Battesimo") identificante l'individuo, e diversificandolo da altri, in base a semplici classificazioni:

appartenenza a gruppi famigliari (Es.: De Marini, Di Negro, De Martino);

zone territoriali di provenienza (Es.: Montanari, Pedemonte, Lombardi);

abilità operative acquisite (Es.: Ferrari, Carbone, Pastore, Sarti);

caratteristiche fisico-somatiche (Es.: Basso, Rossi, Peloso, Negri).

La "Famiglia", in quanto nucleo sociale di base, acquisterà così una grande importanza e, spesso in mancanza della definizione di regole di convivenza da parte delle istituzioni civili a causa della loro discontinuità ed instabilità, fornirà anche quelle che saranno le prime fondamentali regole di vita comunitaria.
Le prime forme "Cognominali" Genovesi nascono all'epoca della Prima Crociata attorno al 1100, anche se non mancano notizie di alcune genealogie derivanti da periodi molto più antichi.
Il "COGNOME" diventa quindi, per la storia genovese, il vero BLASONE che comporta onori, prestigio, potere sia in campo sociale ed economico che politico-amministrativo.

"I NOBILI di Genova, fra l'altro, si distinguevano da tutti gli altri patrizi italiani, escluso quelli veneziani, in quanto potevano, tutti, aspirare alla carica di "DOGE", che era un vero e proprio sovrano. Quindi potevano giungere ad una carica che ebbe sempre più connotazioni di regalità, nel contempo la nobiltà genovese, legata al potere per legge, si sentì consacrata al suo ruolo e ne divenne prigioniera. Questa nobiltà onnipotente, intoccabile, sacralizzata, legata allo Stato e a Genova, costrinse buona parte dei patrizi a vivere, lavorare, morire e sacrificare armonie e felicità familiari per il governo della città. Nelle leggi di CASALE erano previste anche multe salate per i patrizi che si fossero rifiutati di ricoprire le cariche loro affidate. - (C.CATTANEO MALLONE - La nobiltà genovese, in Atti del convegno di studi sui ceti dirigenti -V,Genova 1985 pagg.265 e 393)".

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La "Famiglia" ed il "Lignaggio" diventano anche il metodo più pratico e funzionale per mantenere, tramandare e trasferire la proprietà e le ricchezze raggiunte, e quindi il "Potere", ad altri consanguinei nello stesso gruppo famigliare; il "Blasone" dei Genovesi era quindi anche il cognome che garantendo una continuità proteggeva il grado sociale raggiunto.

Le Famiglie Genovesi più importanti iniziano per consolidare in modo sicuro la loro esistenza e la loro ricchezza formeranno delle prime associazioni sociali chiamati: la COMPAGNA, il COMUNE e la REPUBBLICA.

Poiché la ricchezza delle Famiglie Genovesi derivava solo da attività internazionali di commercio (ricchezza investita poi sul territorio) spesso la disputa e le lotte tra le varie Famiglie per avere l'egemonia e il potere saranno il frutto di alleanze strategiche o il risultato di lotte sanguinose tra le stesse Famiglie.

Altro fattore di autoprotezione delle singole Famiglie sarà quello di "Consorziarsi" in gruppi di potere chiamati: ALBERGHI, controllando così il formarsi e la possibile concorrenza anche economica di nuove Famiglie emergenti, che saranno definite "Popolari" , mentre le "vecchie" saranno identificate in: "Nobili" o "Patrizie".

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Mentre le "nuove" famiglie "Popolari" appartenevano ancora, nella maggioranza dei casi, alla classe mercantile, alla classe cioè che prevedeva una possibilità di mantenimento della ricchezza raggiunta, con la vecchia tradizione marinara e commerciale, il potere e l'autorità di decisioni rimasero in mano ai vecchi "Nobili", che decisero per una politica di alleanze con stati esteri (specialmente la SPAGNA) essenzialmente basata sul gioco della finanza.
Da ricordare è Andrea DORIA(Oneglia 1466-Genova 1560) che fu Ammiraglio, stratega e uomo politico genovese di grande prestigio e alla sua opera si devono molte scelte che contribuiranno a rendere Genova una delle capitali europee dell'epoca.
Nel 1528, ad esempio, rifiutò l'alleanza con FRANCESCO I di Francia, alleandosi invece con CARLO V di Spagna e con questa potente alleanza dirigerà la politica genovese per un trentennio ai massimi livelli, portando ricchezze ed onori alla città. Di lui si ricordano specialmente l'ASIENTO e gli ALBERGHI.
L 'ASIENTO , ad esempio, era un patto firmato appunto nel 1528 tra Andrea DORIA e la monarchia spagnola, in cui l'Ammiraglio genovese impegnava le sue dodici galere al servizio dell' Imperatore. Da quel momento la formula degli "Asientos" , per cui si metteva al servizio della Spagna una flotta di galere in cambio di cospicui pagamenti, venne utilizzata anche da altri imprenditori genovesi.
Gli ALBERGHI, fu una riforma del 1528, in cui si indicava che i cittadini più ricchi che possedevano sei o più case originassero un "Albergo". Questa "Associazione" doveva proteggere la ricchezza ed il potere delle famiglie più benestanti, infatti, eseguito un censimento di controllo risultarono formati ben 28 "Alberghi".

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Molte furono le esclusioni clamorose come quelle degli ADORNO e dei FREGOSO che molto avevano dedicato alla conduzione/governo della città già dal 1400. Ogni anno potevano essere inseriti 10 uomini di estrazione plebea purché avessero solide garanzie economiche, definendo così una classe dirigente "Nobiliare per censo".
La "Nobiltà genovese" prima del 1500 era una oligarchia molto ristretta, che nei secoli precedenti, aveva intrapreso coraggiose iniziative sul mare con i commerci marittimi e la gestione delle colonie genovesi in oriente, ma che era stata sempre divisa da fazioni e rivalità, spesso in competizione tra di loro.
Dopo il 1500 il comportamento del "Patriziato Genovese" (cioè le famiglie più benestanti) diventerà sempre più "spagnoleggiante".
Infatti, non giudicando più conveniente investire in galere o imprese marittimo-commerciali la grande disponibilità di denaro precedentemente raccolto, e non potendo questo rimanere inutilizzato a lungo nella banche o nelle casse di risparmio, sarà investito nella costruzione di imponenti e ricchi palazzi di rappresentanza: residenze belle, solenni, fastose come regge, chiamati "I ROLLI" (150 edifici inscritti in cinque elenchi o "rolli degli alloggiamenti pubblici"), che saranno anche usati per ricevere ed ospitare i Re, Ambasciatori e Nobili stranieri in visita in città, anche perché non esistevano adatti edifici di proprietà della REPUBBLICA, e l' "onore" e l' "onere" erano a carico della Famiglia estratta a sorte utilizzando il sistema dei "bussoli" o "pissidi" in cui le famiglie patrizie, a seconda della categoria della residenza, inserivano i biglietti con i propri nomi.

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Genova avrà così la fama in Europa di " Città dei Palazzi ". Gli investimenti verranno rivolti, oltre che alla edilizia di prestigio, anche a tutti quei prodotti e manufatti dell'attività artistica e artigianale di pregio che completavano l'arredo di queste fastose dimore: tappeti, arazzi, affreschi, statue, mobili, argenteria. Questa scelta porterà lavoro e ricchezza anche al ceto medio degli artigiani, che non più impiegato nelle imprese marinare, si sarebbe gravemente impoverito creando problemi ad una vasta parte della cittadinanza genovese.
Circa trecento furono i palazzi o ville costruite in un secolo: "Si strappa alla selvaggia natura tutto lo spazio necessario alle abitazioni. Scogli e dirupi diventano giardini" (E.Poleggi-P.Cervini "Le città nella storia d'Italia-Genova" Ed. LATERZA, Bari 1981-pag.118).

L'attuale via Garibaldi nasce in questo periodo come: Via Aurea, diventerà poi Strada Maggiore, ed infine sarà Strada Nuova. Ai suoi lati le famiglie genovesi, in competizione tra di loro, faranno a gara a costruire le loro residenze cittadine più lussuose e rappresentative.
Nello stesso periodo saranno costruite anche importanti opere pubbliche come le MURA della città di Genova (Cinta del 1500) che racchiudevano tutta la città, percorrendo le colline circostanti per circa 10 miglia dalla LANTERNA alla FOCE. Furono erette anche grandi Basiliche come quella dell' ALESSI a Carignano.
Una frase dell'epoca diceva:" L'oro nasceva nelle Indie, moriva in Spagna, ma veniva sepolto a Genova".
Successivamente, scomparso Andrea DORIA, nel 1576 verranno promulgate le "Leges Novae" che porteranno ad una perdita di importanza politica degli ALBERGHI, ma che conserveranno per il complesso politico genovese l'aspetto di un ordinamento esclusivo e rigidamente aristocratico.

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Alcuni genovesi illustri, come Giorgio CENTURIONE (uomo di governo, diplomatico, politico, ambasciatore genovese a Roma, Ratisbona, e presso i SAVOIA) si dedicheranno all'attività diplomatica intuendo che Genova aveva iniziato ormai una inarrestabile decadenza militare era perciò indispensabile dedicarsi alla diplomazia per restaurare l'antico prestigio della città. "La diplomazia genovese era rappresentata da quelle famiglie nobiliari che consideravano come cosa propria l'amministrazione dello Stato e se ne tramandavano ereditariamente il diritto. (V.VITALE - "Breviario della storia di Genova" - Soc.Lig. di Storia Patria, Genova 1955 - pag.251)".
Ed anche: "Il feudo di Zuccarello era un piccolo ma importante centro strategico e di transito sulla strada del San Bernardo, dalla piana di Albenga al Piemonte via Garessio; nel 1622 l'imperatore FERDINANDO I lo vendette a Genova per 220 mila fiorini, ma Carlo Emanuele I di SAVOIA che vide fallito il suo tentativo di acquistarlo, si vendicò scatenando la guerra del 1625. Per il possesso di questo feudo molto si adoperò Giorgio CENTURIONE. (G.CASANOVA- "La Liguria centro occidentale e l'invasione Franco-Piemontese del 1625" Ed. Erga, Genova 1983 pag.11)".

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NOTA: riprenderemo gli argomenti di Compagna Communis e Albergo

Fonte: vegiazena.it foto: Vegia Zena, Filippo Giunta.
 
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ecco di nuovo i nostri amici per sentieri; oggi Valbrevenna ... un posto sperttacolare


un saluto
Piero
 
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A Compagna e gli Alberghi

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Compagna Comunis

Compagna Communis è il nome che fu dato all'organizzazione territoriale della Genova medievale.

Nell'anno 958 un diploma concesso da re Berengario II dette piena libertà giuridica alla collettività, garantendo il possedimento delle proprie terre in forma di signorie fondiarie.

Con tale provvedimento si dette avvio al processo che porterà, alla fine dell'XI secolo alla costituzione del libero comune.

Nel 1097 il vescovo Arialdo riunendo i principali detentori del potere, vale dire i visconti (ovvero i signori feudali imperiali) e le otto Compagne Rionali (antica divisione in quartieri cittadini), fondò un'associazione di tutti i cittadini, la Compagna Communis.

A differenza di quasi tutte le altre città occidentali Genova non possedeva una piazza principale sede dei poteri pubblici, ma un groviglio di vicoli e piazzette che rappresentavano altrettante delimitate zone di potere delle singole famiglie.
Si formarono così delle libere associazioni di marinai e mercanti con scopo di solidarietà corporativa dette, appunto, Compagne.

In origine furono tre:
1) di Castello da Sarzano a Ravecca 2) di Macagnana da S. Ambrogio a Canneto 3) di Piazzalonga da S. Bernardo e S. Donato a Giustiniani, poi aumentarono a sette;
4) di S. Lorenzo dalla Cattedrale alle zone circostanti 5) della Porta da S. Pietro ai quartieri limitrofi 6) di Sussilia dai macelli alla zona di Banchi 7) di Prè da Fossatello a S. Agnese e, in ultimo, divennero nel 1134, otto, con l’aggiunta di 8) Portanuova da S. Siro alla Maddalena.
Quattro dentro e quattro fuori le Mura.
Ciascuna veniva rappresentata da Consoli che erano ad un tempo giudici, governatori e generali.
Il Caffaro racconta come, probabilmente già da prima ma, certamente dal 1099, queste costrinsero la nobiltà feudale a giurare fedeltà alla Compagna Comunis e ad eleggere la propria dimora all’interno delle mura, dando origine alla nuova organizzazione del libero Comune.

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L'organizzazione rionale mantenne un significato politico/sociale per secoli, tanto che ancora nel 1382 i membri del Gran Consiglio erano classificati in accordo alla compagna d'appartenenza oltre che secondo la fazione politica ("nobili" o "popolari").

Nel 1099 Genova viene retta da Consoli, figure politiche dotate di tutti e tre i poteri, eletti tra le importanti famiglie. Qui iniziò il contrasto politico tra gli esclusi dalle famiglie elettrici. È un periodo di pace, ma la rivalità fra le due famiglie dominanti si manifesta in una corsa agli armamenti da parte dei Maneciano e dei Carmandino. I primi, che stanno al potere dal 1099 al 1122 si impossessano di privilegi commerciali nel Mediterraneo dell'Est, sfaldando quell'equilibrio competitivo che si era creato con i Carmandino, al potere dal 1123 al 1149. Ciò indebolisce Genova sotto il profilo commerciale, soprattutto nei confronti di Pisa.

Nel 1060 Genova iniziò ufficialmente la lotta con Pisa, che sarà la sua attività primaria per circa due secoli, assieme alle varie crociate e alla fondazione delle colonie. La scintilla del conflitto avvenne per il possesso della Corsica, più tardi anche della Sardegna.

La fondazione della Compagna Communis, cioè del Comune, sancì l'inizio della Repubblica vera e propria; essa fu retta da un numero variabile di Consoli, eletti da un Parlamento composto da tutti i cittadini maschi tra i 16 e i 70 anni d'età, veri cittadini soldato che in caso di guerra dovevano provvedere al proprio equipaggiamento tranne che per le imprese in terre lontane, come le Crociate, o in mare aperto: essi si riunivano nella cattedrale di San Lorenzo per esercitare il voto. Il vincitore entrava in carica il 2 febbraio.

Gli ex-Consoli e i cittadini illustri formavano il Consilium (cioè il Senato), che aveva diritto di veto sulle decisioni consolari, similmente a come accadeva nell'Antica Roma (per le votazioni usavano sassolini bianchi o neri).

Tra i compiti dei Consoli erano il comando delle flotte, dell'esercito e la convocazione del Parlamento. Tuttavia solo il Consilium poteva disporre la chiamata alle armi dei cittadini.

All'interno del Consilium esisteva il Consiglio di Credenza, formato dai Silenziari, i quali votavano le questioni da tenere segrete come le regalie da dare alla Santa Sede per il suo sostegno (accade probabilmente per ottenere la Corsica contro Pisa, visto che il Papa la consegnò spiritualmente a Genova già nel 1123, cosa che porterà alla prima guerra contro Pisa).

In tutto questo l'Arcivescovo esercitava una funzione solo rappresentativa, ma veniva ad ogni modo avvisato di ogni strategia messa in pratica dal consiglio.

Dopo la Prima crociata l'ordinamento politico venne cambiato alcune volte: dapprima furono separati i Consoli dei Placiti da quelli del Comune, variato il loro numero e abbassato il loro periodo di carica da 4 anni ad un solo anno.

Fu inoltre separata l'amministrazione finanziara, affidata ai Clavigeri, otto magistrati che possedevano le chiavi dell'erario.

I Placiti cioè i magistrati, amministravano la giustizia secondo tre elementi legislativi: la consuetudine, il breve e la legge, cioè rispettivamente le norme romano-bizantine del vivere comune (il codice civile), gli argomenti legali specifici (con attenzione alle nuove sentenze, proprio come oggi) e le questioni penali e di pubblica sicurezza.

Tra gli altri incarichi, si ricorda quello del Cintraco, ovvero il banditore del comune, che poteva convocare i cittadini ed eseguiva le sentenze pubbliche, tra cui la flagellazione, e ammonire i cittadini sulla vigilanza contro gli incendi.

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Gli Alberghi

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Si riferisce sempre l'ascrizione agli Alberghi alla data del 1528, che è quella della riforma di Andrea Doria e dalla quale si trae sia l'elenco completo dei 28 Alberghi genovesi formati allora, sia la lista di tutte le famiglie che vi furono aggregate. L' 'Albergo' fu un'istituzione molto antica che già troviamo nel 1135, quando la città era divisa in otto 'Compagne' o 'Compagnie di Borgo'. In quel tempo trovò la sua più alta realizzazione l' Albergo della Maona di Scio, che aveva dimora nel palazzo dei Giustiniani. L' Accinelli ci segnala, sempre in quell'epoca, Alberghi intitolati ai De Castro, De Zurbis, De Vedereto, De Nigro, St. Laurentij, De Camilla, De Nigro Bianchij, De Gentilibus, De Centurionibus e nei quali sono incorporati quasi tutti i grandi nomi di famiglie che, nel 1528, formeranno Albergo a se stante.
Negli Alberghi, gli aderenti abbandonavano il loro cognome ed assumevano quello della famiglia più importante del consesso. Sebbene di ispirazione genovese e ligure, gli Alberghi non furono una prerogativa soltanto di Genova ma, sullo stesso esempio, ne sorsero anche in Asti, in Chieri, in Savigliano ed in altre città italiane. Lo scopo dell' Albergo era quello di contrapporsi al potere popolare ed il suo fine, oltre che politico, era anche economico. Ben presto, però, anche i borghesi, i mercanti e gli artigiani che non avevano alle spalle nobiltà feudale o viscontile, ma soltanto quella mercantilee del lavoro, si radunarono in associazioni a cui diedero la stessa impronta ed il nome di Albergo.
A Genova le consorterie degli Adorno e dei Fregoso, che erano di estrazione popolare, erano contrapposte a quelle di antico ceto nobile e feudale dei Grimaldi, dei Doria, degli Spinola, dei Fieschi, ecc., dando così adito a guerre civili ed a sommovimenti che rendevano il potere politico instabile e soggetto all'influenza di potenze straniere quali la Francia e la Spagna.
Nel 1528, Andrea Doria, nell'intento di mettere ordine e pace in Genova, cercò di riunire i nobili antichi e quelli civili e popolari in un corpo unico con pari diritti e doveri e fece approvare un complesso di leggi che dovevano formare la nuova Costituzione della Repubblica. Le famiglie che in base a tale Costituzione ebbero facoltà di formare Albergo furono 28, delle quali 23 nobili e 5 popolari. Eccone l'elenco: Calvi - Cattaneo - Centurione - Cibo - Cicala - D' Oria - Fieschi - Fornari (popolare) - De Franchi (popolare) - Gentile - Giustiniani (popolare) - Grillo - Grimaldi - Imperiale - Interiano - Lercari - Lomellini - De Marini - Di Negro - Negrone - Pallavicino - Pinelli - Promontorio (popolare) - Salvago - Sauli (popolare) - Spinola - Usodimare - Vivaldi. Per motivi politici furono escluse le famiglie Adorno e Fregoso, che vennero però inserite: la prima dentro l' Albergo Pinelli con 24 rami ascritti e la seconda in quello De Fornari. Una disposizione della costituzione dava facoltà di formare Albergo solo a quei casati che avessero 'almeno sei case aperte in Genova'; chi ne avesse avute in numero maggiore poteva formare doppio Albergo, se minore doveva abbandonare nome e blasone del proprio casato. Avvenne così che molte famiglie aggregate, pur essendo più nobili ed antiche delle aggreganti, delle quali assumevano il cognome, dovettero abbandonare nome ed insegne, che erano il loro più antico ed ambìto retaggio.
L' Accinelli, in una sua cronaca manoscritta dei Dogi ed Arcivescovi di Genova ci segnala, vicino al nome di alcuni Dogi eletti e che appartenevano a famiglie che avevano assunto il nome dell' Albergo, il nome originario che era stato abbandonato, in questo modo: Oberto Cattaneo olim Lazario - Cristoforo Grimaldo olim Robbio - Gian Andrea Giustiniano olim Longo - Andrea Centurione olim Pietra Santa - Benedetto Gentile olim Pevere - Gaspare Grimaldi olim Bracelli - Agostino Pinello olim Ardimenti - Pietro Gio Cibo olim Chiavega - Gio Batta Calvi olim Giudice - Battista Cicala olim Zovagli - Ottavio Gentile olim Oderico - Paolo Giustiniano olim Moneglia - Giacomo Grimaldo olim Durazzo - Prospero Centurione olim Fatinanti - che fu l'ultimo prima dell'abolizione degli Alberghi. La Costituzione del 1528 non raggiunse però gli scopi che si era prefissi, in quanto i nobili vecchi, o di San Luca, in contrasto con quelli nuovi, o di San Pietro, dettero adito ad altri turbamenti ed acerrime inimicizie che portarono alla famosa congiura del 2 gennaio 1547 di Gian Luigi Fieschi contro il Doria.

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Dopo il fallimento della congiura occorsero nuovi provvedimenti per consolidare il regime politico e per adottare norme per una più equa distribuzione delle cariche e degli uffici governativi fra le due classi di nobiltà. Fu varata così la legge del quarantasette, detta volgarmente 'del Garibetto', perchè il Doria soleva dire, in dialetto genovese, che con tale legge si dava un poco di garbo o sesto alle cose pubbliche. Ma anche questo provvedimento non riuscì a placare il malcontento che manifestavano i nobili nuovi, appoggiati dalla popolazione, che li voleva con più rappresentatività e responsabilità nel governo della Repubblica. Il Doria morì nell'autunno del 1560 e se, finchè visse, la sua autorità e la sua diplomazia riuscirono a mantenere Genova abbastanza forte e tranquilla all'interno, dopo qualche anno dalla sua morte risorsero le opposizioni e i malumori che covavano dal 1547. Sorse la questione delle aggregazioni, perchè la nobiltà vecchia, o di San Luca, non voleva immettere negli elenchi nobiliari e negli Alberghi le famiglie che per servizi resi alla Repubblica in vari modi potevano ritenersi meritevoli di partecipare al governo. Venne così chiesta dal popolo e dalla nobiltà nuova, o di San Pietro, l'abolizione definitiva della legge del Garibetto e la costituzione di un nuovo 'Portico dei Nobili'.
Per l'intervento pacificatore di Gian Andrea Doria, nipote dell' Ammiraglio, fu chiesto un arbitrato di personalità e tecnici spagnoli e di altre potenze che, sotto il patrocinio del Re di Spagna Filippo II, elaborarono in Casale un complesso di leggi che i genovesi capi delle due fazioni giurarono solennemente di accettare e rispettare, nella Cattedrale di San Lorenzo il 17 di marzo del 1576. Questa radicale modifica delle leggi della Repubblica comportava anche la soppressione degli Alberghi e la formazione del 'Libro d' Oro', dove tutte le famiglie nobili furono inscritte riprendendo il proprio antico cognome e stemma che nel 1528 avevano abbandonato. Questo stato di cose durò fino al 1797 quando, con l'avvento delle nuove idee proclamate dalla Rivoluzione Francese e la formazione della nuova Repubblica Democratica Ligure, i Libri d' Oro della nobiltà genovese furono dati alle fiamme sulla pubblica piazza.

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Fonti: Wikipedia, amezena.net, nonsoloovada.it
 
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view post Posted on 20/4/2021, 21:29
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Stasera una curiosità

La Matita e il Matitone

Di Roberto Orlando


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Ecco quindi – forse per la prima volta nello stesso fotogramma – la Matita e il Matitone, la causa e l’effetto di un’operazione architettonica e urbanistica che a distanza di decenni fa ancora discutere. La Matita, per così dire, è la torre campanaria della chiesa di San Donato, nel centro storico; il Matitone, come noto, è invece la grande torre inaugurata nel 1992 a San Benigno. In comune hanno la forma, a matita appunto, e non per caso: gli architetti del famoso studio di Chicago Skidmore, Owings and Merrill, con i colleghi italiani Mario Lanata e Andrea Messina, si sono ispirati proprio alla pianta ottagonale del campanile di San Donato per disegnare il nuovo centro direzionale. L’obiettivo era quello di realizzare una torre che non risultasse un corpo estraneo, ma che fosse in sintonia con il resto della città, imitando appunto uno dei suoi più noti e pregevoli edifici. Come vedi, l’aspetto del campanile e quello del Matitone sono pressoché identici e in questa foto per giunta anche le dimensioni, grazie alla prospettiva, risultano simili. La chiesa di San Donato risale al 1186 ed è un dei più tipici esempi di stile romanico genovese. Nel corso dei secoli ha subito poche trasformazioni e molto marginali. Un intervento più radicale viene eseguito invece da Alfredo D’Andrade verso la fine dell’Ottocento, quando nel corso del lungo restauro viene pure aggiunto un terzo anello di bifore alla torre nolare. Anche il Matitone, se ci fai caso, richiama il motivo delle bifore all’ultimo livello, con una terrazza protetta da vetrate, appena sotto la punta della “matita”

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Fonte: ilmugugnogenovese.it
 
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view post Posted on 21/4/2021, 16:40
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Una nuova galleria dell’acquedotto storico a Genova!

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Sotto i nostri piedi sembra esserci veramente un’altra città!

Così descrivono loro:

La Galleria scomparsa.
Ripercorriamo insieme a uno dei massimi esperti, Luciano Rosselli (socio C.L.S.M.), una vecchia galleria dell’acquedotto storico Genovese, che si pensava ormai perduta nel tessuto urbano. Non possiamo rivelare l’ubicazione precisa perché è ancora in fase di studio e esplorazione. La galleria rimanendo in contesto privato e con proibitivo accesso, si presenta senza alcuna traccia umana, snodandosi con curve e deviazioni per circa 200 metri nel sottosuolo cittadino. Un cancello in ferro e un’altro di cui abbiamo trovato solo le tracce lungo il percorso, sembra avrebbero impedito il passaggio del nemico nelle mura della città attraverso le gallerie. Pozzi, colori, scale e molto altro in questo fantastico viaggio.

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Fonte: ilmugugnogenovese.it
 
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