Le stronzate di Pulcinella

SANGHENAPULE

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view post Posted on 23/4/2017, 22:33
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SANGHENAPULE
Vita straordinaria di San Gennaro
testo e drammaturgia
Roberto Saviano e Mimmo Borrelli


IL BOIA
Mannaggia a Ggiove,
’u Febbo Apollo,
ca ’u carro move
c’ ’u sole ’ncuollo.
’Nnaggia Plutone,
Dite e Diana.
’Nnaggia Ggiunone
e ’u Dio Vulcano.
’A morte arriva.
’A morte vene.
’A morte priva
sanghe a li vvene.
’A mmorte ’mpazza.
’A morte annozza,
lu cuoddo spazza.
’A morte strozza.
Me chiamme Bboia,
so’ de Miseno.
Nun tenco gioia,
nun tenco ggenio.
Accico ’a gente.
Accico sempe.
Accico ’i chiante
de li pariente.
A vvote sbaglio,
mentre te taglio.
Nu colpo avasta.
Nun tremmo basta.
Chistu mestiere
me fa prua’:
sulo disprezzo
pe’ ll’umanità.
Ero nu toro,
nu gladiatoro.
Fernut’ ’a gloria,
pe’ grazia e onore,
m’hanno cuncesso
la libertà
2
cu na prumessa:
si faje chello ch’hia fa’.
Nun tenco foja:
è sulo assente.
Accussì è ’u bboia,
nun sente niente.
Ricordo ’u primmo,
’u muzzaje a cruro.
Era ’u caimmo
de nu criaturo,
“Nun me scannate!”
“Mo statte zitto!!”
Parlava ’u pate:
“Dio smaleditto!”
“È nu siconto,
nun sinte niente.
Nun chiagne”
- “Sconto,
na vita ’i stiente”
’U primmo colpe,
’u pigliaje ’mbaccia.
’Rapiette ’u cuorpo,
mascella e vraccia.
Pecché sbajaje??
Pe’ cummuzione:
si pietà allaje
faje malazione.
Mannaggia ’a vista
cecata ’i fede,
monoteista
pe’ chi s’avvede,
che tremma e stenta,
e pure chisto:
more pe’ niente
pe’ nu certo Ggiesucristo.
Me chiammo Ciro,
so de Miseno.
Pe’ fato acciro,
’npozze fa’ a meno.
Ll’urtemo schianto
3
al mio ceppario:
era nu Santo
… nu certo Ianuario.
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BOIA
“Se il mondo intero fosse minacciato da un secondo diluvio, San Gennaro non alzerebbe
nemmeno il mignolo per impedirlo; ma se la minima goccia d’acqua dovesse nuocere ai raccolti
della sua buona città, San Gennaro muoverebbe cielo e terra per ricondurre il bel tempo.”
Alexandre Dumas, 1841
Mi vedete qui seduto a raccontare la più straordinaria delle storie, la storia di Napoli e di San
Gennaro. Ho deciso di raccontarla narrandola con un compare e con i nostri fantasmi.
Questa è la storia di san Gennaro quindi, una storia in cui verità è leggenda e leggenda è verità.
Quella che voglio raccontare è una delle storie di San Gennaro, non la storia di San Gennaro. Non
esiste una sola storia di San Gennaro.
È la storia dei napoletani, di cui il santo è fratello, padre, madre, nonno, nonna, figlio e protettore.
In genere i santi li immaginiamo in cielo, e invece San Gennaro è quaggiù, è sulla terra. In genere i
santi li immaginiamo sempre pronti all’ascolto e invece San Gennaro ascolta solo noi, solo i
napoletani. Fa un’unica singolare eccezione, e la fa per gli emigrati italiani. Proprio così: un
milanese per farsi ascoltare da San Gennaro dovrebbe andare a pregarlo all’estero, ma non da
turista, da emigrato.
San Gennaro è il santo più terreno che esista, è un santo che media tra cielo e terra, tra morte e
vita. Certo – starete pensando – come tutti i santi. Ma in questo caso la terra è veramente terra e
la vita è veramente vita.
San Gennaro non è un santo a cui rivolgerti solo promettendo di essere migliore o garantendogli
di comportarti bene. Perché San Gennaro è un santo che prescinde dai dogmi e conosce quanto sia
faticoso campare. Sa che ogni legge di Dio deve avere poi la sua applicazione nel contesto della
vita. Puoi rivolgerti a lui anche per chiedergli un aiuto per faccende illegali. Capisce tutto. Capisce
anche quando chiedi la grazia per poter rubare, sperando di non doverlo fare mai più. Entra nel
merito. Se rubi, ti chiederà di non essere avido e violento. Se hai un amante, a lui puoi chiedere di
non farti scoprire per non far soffrire. San Gennaro sa che ogni peccato è dettato da un motivo, da
una causa. Accompagna il napoletano nella sua vita. Non lo giudica lo aiuta al di là di quello che
sarebbe giusto o sbagliato fare. Lui c’è qualunque cosa accada. Perché San Gennaro è così, sa
adattare la regola, è consapevole che la fame vince sulla morale.
San Gennaro per i napoletani è nato a Napoli. Il suo cognome, Ianuarius, era un cognome patrizio,
da qui Gennaro: il cognome che poi diventa nome. Era vescovo di Benevento.
Le sue peripezie iniziano quando, nel 305 d.C., va a Miseno con il diacono Festo e il lettore
Desiderio a trovare Sosio che era in prigione. Sosio era stato arrestato perché aveva osato mettere in
discussione i vaticini della Sibilla Cumana, ai quali voleva sostituire il racconto di Cristo. “Perché
senza motivo è tenuta in carcere questa creatura di Dio?”, pare che siano bastate queste semplici
parole di Gennaro riferite a Sosio per scatenare l’ira del terribile giudice Dragonzio. Gennaro e i
suoi vennero arrestati. Potevano scegliere: offrire libagioni agli dei o essere sbranati dagli orsi
nell’anfiteatro di Pozzuoli. Non ebbero dubbi, piuttosto che offrire un po’ di vino a quelli che
consideravano falsi dei, preferirono pensarsi masticati da enormi bestie e dar spettacolo.
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E qui ci sono due storie. Una basata sugli Atti Vaticani, secondo la quale San Gennaro e i suoi
amici furono portati nell’anfiteatro pieno di persone ma, quando entrarono, gli orsi e i leoni affamati
non li aggredirono, ma anzi si accucciarono a leccare i piedi di Gennaro e farsi accarezzare. L’altra
storia è raccontata dagli Atti Bolognesi, più attendibili, e racconta che il giudice Dragonzio, a causa
di alcune incombenze della sua carica, non avrebbe fatto in tempo ad assistere allo spettacolo, che
quindi fu sospeso. I poveri Gennaro, Sosio, Festo e Desiderio furono quindi condotti alla Solfatara
di Pozzuoli per essere decapitati.
La Solfatara è un luogo antichissimo, un cratere vulcanico. Luogo di fumi, zolfo e pozze di fango.
Gennaro adagia la testa sulla pietra e con lo sguardo chiede al boia d’esser senza alcuna pietà. Il
boia umano e con emozioni è un boia che crea macello: taglia per errore il naso, porta via le
orecchie, rischia di sfasciare una spalla. Il boia che fa meno male è il boia senza cuore, spietato
carnefice in grado di ottenere un taglio netto.
Nel momento in cui la lama del boia si abbatte sul collo, Gennaro d’istinto tenta di proteggersi
con la mano e la lama gli trancia anche un dito. La pietra si copre di sangue.
I persecutori permettevano di raccogliere con spugne, fazzoletti e fialette il sangue dei martiri.
Così fece Eusebia, la nutrice di Gennaro, colei che lo aveva allattato e che ora assisteva al suo
massacro. Lei con una spugna raccoglie il sangue dalla pietra e poi lo strizza in due ampolle di
vetro.
Era il 19 settembre del 305 dopo Cristo. Gennaro moriva privato della testa e di un dito. Aveva 33
anni, il Cristo dei napoletani.
6
PRIMMO ACTO DE SANGHE
IANUARIO
Mater soffreo.
Sumt portato,
ubi offreo
el decullato.
Mater prego.
Dio … me uxide?
Mater vego:
me deride?
Me cumprime!
La mattanza!
Me supplime!
La calcanza.
Me percosse.
Me frattosse.
Me regnosse
de spintosse.
Et me piasciant
in la testa.
Me despregisciant
omni gesta.
Dio respundi.
Dio meo immondo.
Dio sprufundi.
Dio iracondo.
Siam nucenti!
Dio me senti??
Cristulenti!!
Mei lamenti?!
Flagellato.
Deflorato.
Martizzato.
Ensanguenato.
Cala Boia.
Cala scure.
Cala gioia.
Caput pure.
7
Ab la bocca de l’Averno, già meo abisso,
bisso evocat abisso, et scuretude,
mater mea, me portant in ceppi misso
adlo volcani Sorfatara, quem no chiude
olezzo de zufeo, impraegnatur sànguine.
Lo meo! Que fuge dritto a Diavolario.
Mater: Ianuario, cognome et nomine,
inzozzo, immundo vegne biastemario,
ab plura gense, quem quome, ut, fiere bestie,
no mansuete quem leonis in arenario,
Anfiteatro Flavio, chine eorum teste,
fronte a nos martire, facent baccanario.
Me dixe: “Ereticus! Qui seque lo Judeo!”
Profanus mene, que sequitor Cristo.
Maledixe, sputeme, flagellant: “Fariseo!
Dux! Rex! Apostulo de lo Anticristo!”
Sanghe acclamat sanghe, calamitade in vite.
Gratia gene gratia, lite gene lite.
Boia, no sumto pazzo, no este mia follia!!!
Ad solo parleo ut me faciat cumpagnia.
Ad mei cumpagni cum toda la paura
facio ei curaggio, sine riuscitura:
“Est giusto nostro exemplo, no disfacta.
Incedite cum caput et anema intacta.”
Dum, mentre ego dixe talis sermone,
me stisso, no credit in esta horatione.
Ce pote frange la gente, ce spezza,
ma no flecte la mea fede, que desprezza.
Este geremiade meco me cunfortant.
Este ire in sacramentum me riscaldant.
Febbris, febbra! Corpus ’nfecto lebbra!
Vulgaritade excesso!! Teppaglia ebbra!!
Icastico simulacrio de contumelie,
suburra de blasfemie e vitupèrie.
Brandeggio tuo verbo! Segnor la parola
s’istoria in mea anema, sed no consola.
Plura gente plus, in moltitude ride.
Febbre!!! No sento el dolore quem me uxcide.
Aiuto mamma, me appellant empostore:
“Folle Ianuario! Omnipotente more!!”
Se isto est meo destino accetterossi,
sarò lo loro sancto e ammennerossi
.
Memoria corpus que more et cade,
nasce de novus, resorto da l’Ade.
8
Follia est sicura, certam in que uxide.
Follia est anquo in que habe fede.
Follia est in Cristo que se suixide.
Follia est in Deo que mai recede,
Follia est crepire pro solum ideale cum presuntione de scumfigere il male.
Me collo tendeo, in un sol colpo ispere,
que boia, subìte, mortem fere.
Deus meo!!!!!! Noooo!! Addio cara mater!!
Deus meo deluso habe tuo projecto!!
Deus meo, Cristus!!! Perdoname o pater!!
Padre t’ho deluso! No sum stato recto.
Qui ama periculo, perisce, in ello more,
ma in vilitade se more de rancore.
M’habe
o conducto
ad sulfataro.
M’habe reducto
in macellaro.
Pro la mea lengua,
la mea superbia,
la mea delinqua,
la mea protervia.
M’han torturato,
spezzato un braccio.
Acefalato,
sarò a l’addiaccio.
Una pia donna
Me fissa e chiance,
me mater sonna
spadoni et lance.
O nenna nenna!
In processione.
La mea cotenna
me da ragione.
No sumto l’homo
que salverà,
le culpe, il pomo
de l’hominità.
Et il silentio
cala a la folla.
9
Spuzzo d’essentio
de cacca molla.
Me sumt cagato,
pisciato addosso
sumt decollato
de l’atto grosso.
Et se coagula
lo sentimiento.
No gatto miacola,
lecca cuntento.
Pirsecutione
de Dioclitiano,
la destrutione
di un Dio cristiano.
No sarò Santo
per esta gente,
voleo nullanto,
non voleo niente.
Vorrei tornare
da papà…
Et lì reistare
como se sta.
Napoli mia.
Napoli prena
de la poesia,
mamma sirena.
Te voleo bene,
oh mamma mia!
Moro serene
et così sia.
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VESUVIO
Il corpo di san Gennaro era destinato ad essere gettato in uno sterrato per essere sbranato dai cani
e lasciato decomporre al pubblico ludibrio.
Di notte, però, un gruppo di fedeli napoletani andò a recuperarlo e lo nascose. Per 126 anni
rimase nascosto in una località quasi mitica chiamata Marciano, fino quando il vescovo di Napoli
Giovanni I decise di spostare le spoglie di Gennaro alle catacombe di Capodimonte. Durante il
tragitto, si narra che la pia donna Eusebia, la nutrice che ormai doveva avere circa 200 anni,
consegnò le ampolle con il sangue di Gennaro al vescovo. Il sangue del santo era nelle mani di
Napoli.
E qui ha origine la storia di protezione e amore tra san Gennaro e Napoli.
Nel 472, infatti, il Vesuvio tuonò. Era il 5 novembre e la cenere vesuviana piovve persino su
Costantinopoli. Il fumo saturava l’aria e le pietre ardenti arrivavano ovunque. Molti napoletani
trovarono rifugio nelle catacombe cristiane e proprio lì si imbatterono nel sepolcro di San
Gennaro. Iniziarono a pregarlo e lui non poté fare a meno di ascoltarlo, quel suo sventurato popolo,
quella massa di disperati. Il Vesuvio si placò, e per i napoletani ciò era avvenuto per intercessione
di san Gennaro.
Tutti volevano san Gennaro, arma invincibile di protezione. La reliquia era il simbolo intorno a
cui il popolo si raccoglieva. Era una sorta di televisione dell’epoca, perché da essa si dipanava una
narrazione in grado di legittimare il potere di chi ne venisse in possesso. Che fosse il prepuzio di
Gesù quando fu circonciso, o la coda dell’asino cavalcato da Cristo al suo ingresso a Gerusalemme,
o l'anello nuziale che San Giuseppe donò alla Vergine Maria, le reliquie servivano a creare un
racconto di intrattenimento che avvicinava la gente al culto.
E così in molti tentarono di trafugare il corpo di San Gennaro, di sottrarlo, di rapirlo. Ci
riuscirono i longobardi, che lo volevano a tutti i costi. Fu Sicone, principe di Benevento, a
penetrare nelle catacombe di Capodimonte nell’831 e a rubare le spoglie di san Gennaro.
666: non è solo il numero della bestia nell’Apocalisse, ma è anche e soprattutto, in questa storia, il
numero degli anni che il corpo di san Gennaro ha passato lontano da Napoli.
Tornerà solo per volontà di papa Alessandro VI Borgia. Riportando il corpo di san Gennaro a
Napoli voleva non solo conquistarsi la benevolenza del popolo napoletano, ma anche l’ammirazione
delle famiglie nobili europee che ormai si erano tutte appassionate alla storia del santo napoletano e
del suo sangue che muore e resuscita.
Quando l’arcivescovo di Napoli Alessandro Caràfa entrò in città con le spoglie di san Gennaro il
sangue nelle ampolle si sciolse e si racconta che la città trovò un po’ di sollievo da una piaga che la
stava devastando da quando erano arrivati i mercenari del re francese Carlo VIII, che stava
assediando Napoli. In Italia e nel mondo quel male era chiamato mal francese, solo in Francia era
chiamato il mal napolitain. Per la scienza quel male si chiama sifilide.
Cosa ci sia in quelle ampolle nessuno lo sa davvero, non è mai stato concesso di fare delle analisi
chimiche sulla sostanza perché la Chiesa vuole che sia garantita l’integrità delle reliquie. Nel 1902
due fisici fecero un’analisi che non richiedeva l’apertura delle ampolle: usarono uno spettroscopio,
uno strumento che, sfruttando la luce, è in grado di rivelare l’entità di una sostanza. Risultò che lo
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spettro di assorbimento prodotto dalla sostanza nell’ampolla era quello caratteristico del sangue.
Solo che esistono altre sostanze che producono uno spettro simile a quello del sangue, come la
fucsina, un colorante che tra le altre cose si usa per tingere di rosso i tessuti. Quindi potrebbe essere
sangue ma potrebbe anche non esserlo.
Per la scienza il sangue morto non può tornare in vita, ma come succede in tutti gli accadimenti
non dimostrabili scientificamente, è solo la volontà a decretarne la veridicità. Per chi ci crede quel
sangue è di San Gennaro, e il suo seccarsi e rinascere è il più potente messaggio che Napoli dà al
mondo.
Proprio così: se il 19 settembre il sangue non si scioglie, se si scioglie in anticipo o in ritardo, per i
devoti è considerato presagio di imminenti sventure. Sono stati due studiosi, Giovanni Battista
Alfano e Antonio Amitrano, nel 1924 a mettere a confronto gli anni in cui si erano verificate
sventure per la città e gli anni in cui il sangue non si era sciolto o si era sciolto male, e arrivarono
alla conclusione che San Gennaro aveva presagito:
• 22 epidemie,
• 11 rivoluzioni,
• 3 siccità,
• un’invasione dei turchi,
• 13 morti di arcivescovi,
• 3 persecuzioni religiose,
• 7 piogge disastrose,
• 9 morti di papi,
• 11 eruzioni del Vesuvio,
• 19 terremoti,
• 3 carestie,
• 4 guerre.
Fa sorridere no? Le disgrazie avvengono anche quando il sangue si scioglie, ovviamente, ma per
chi crede nel culto di san Gennaro sono disgrazie che non riguardano il santo. Così importante è per
i napoletani che il miracolo avvenga, che fino a non molti anni fa ad alcune donne, le cosiddette
“parenti” di San Gennaro, era concesso di incitare il Santo a sciogliere il sangue con appellativi non
proprio garbati: “Ti si addurmuto?”, “San Gennar’ sta facendo a latrina…”, “pecché non ce vuò fa’
‘a grazia, faccia ‘ngialluta”, faccia gialla, per via dell’imbusto dorato. È l’unico caso in cui in
chiesa un santo può essere insultato per essere incitato a fare il miracolo. Ma San Gennaro non si
arrabbia, perché sa che è fatto a fin di bene.
La disgrazia che più temono i napoletani ha sempre avuto soltanto un nome: Vesuvio. Il Vesuvio
è il ricordo perenne del rischio, la vita minacciata all’improvviso. La minaccia ti ricorda che ogni
progetto, ogni amore, ogni risparmio può finire in ogni istante. Ed è il vulcano che ti impone di
goderti la vita, perché è lì piantato davanti ai tuoi occhi, a ricordarti che tutto può finire in ogni
momento.
In una delle narrazioni che preferisco, il Vesuvio nasce da uno scontro. Quando Lucifero,
angelo ribelle, viene cacciato dal Paradiso, prima di sprofondare nell’abisso impatta sulla terra, a
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Napoli e la sua coda rimane intersecata alle viscere della città. Resta quindi appeso per un po’
Lucifero, tra la terra e l’abisso. Ma proprio perché viene dal cielo, ha addosso alle sue ali pezzi di
paradiso e, agitandosi per liberarsi, questi frammenti si diffondono tutto intorno e plasmano il
golfo di Napoli. L’impatto tra Lucifero e la terra genera il Vesuvio.
È dal 472 d.C. che a San Gennaro viene chiesto di tenere la città immune dall’ira del Vulcano. San
Gennaro non fa arrivare la lava a Napoli nemmeno in occasione delle eruzioni più distruttive. La
lava non arriva nel 512, non arriva nel 685; non arriva nel 1139. Dopodiché i napoletani credettero
che san Gennaro avesse spento il Vulcano, perché per quasi 5 secoli vi furono solo piccole e
innocue manifestazioni. Ma San Gennaro non aveva spento il Vesuvio: del resto il Vesuvio è opera
di Lucifero, non risponde totalmente a Gennaro. E nel 1631 si manifestò con tutta la sua forza:
l’esplosione fu talmente potente che la cima del Vulcano fu distrutta, 500 milioni di metri cubi di
lava inondarono Barra, S. Sebastiano, Portici, Resìna, Torre del Greco. Vi furono oltre 6mila
vittime, ma nemmeno una nella città di Napoli.
San Gennaro vegliò su Napoli in tutte le eruzioni che da quel momento divennero sempre più
frequenti. La difese nel 1717 quando dal cielo cadevano le “cacate del diavolo”, quegli spruzzi di
lava che si solidificano in cielo ed esplodono a terra; la difese nel 1767, quando la paura fu così
grande che dopo che il Vesuvio si placò i napoletani decisero di erigere una statua a San Gennaro
sul ponte della Maddalena con braccio teso rivolto al Vesuvio come a dire “fermati”; la difese nel
1771, quando le cascate di lava erano così spettacolari che anche re Ferdinando e sua moglie si
recarono a vederle; la difese nel 1861, quando nel mare si formarono fumarole che fecero morire
moltissimi pesci e l’acqua era talmente calda che si potevano buttare a mare i maccheroni, dicono
alcuni. San Gennaro difese Napoli che tremava nel 1929, mentre il resto del mondo tremava per la
grande Depressione. E infine, la difese dall’eruzione del 1944, quella che nessuno vuole
pronunciare, perché tutti sperano che sia l’ultima.
Nei secoli per invocare l’aiuto di san Gennaro è stato fatto di tutto: dai monaci che si
cospargevano con la cenere del Vulcano, agli uomini che, per espiazione, sposavano le prostitute
con cui erano stati.
Si arrivava persino ad avere prudenza quando a teatro c’era il tutto esaurito: si temeva che i nobili
che andavano a teatro dimenticassero le sofferenze di Napoli e che quindi San Gennaro potesse
dimenticare di placare il Vesuvio. E allora – mi hanno raccontato - per non farlo inquietare,
spesso veniva lasciata una poltrona vuota in platea come posto riservato a San Gennaro.
Anche noi, quindi, questa sera, abbiamo lasciato un posto, qui, per san Gennaro.
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SECUNDO ACTO DE SANGHE
IANUARIO
Qui me, exhortat, evocat et acclama?!
Colui que de Napoli, suis storia ama?!
In te veggo una anima che no quaere,
no chiede gratia, ma solum de sapere.
Io me scioglierò ad omne tua oratione.
Eo coagulerò ad omne evocatione:
de Sanghenapule reciterò per te,
resurgerò santo, padrone et ré.
Tremuote te cuntarraggio:
’a storia de sta città.
De sanghe sarrà stu viaggio
scritto pe’ ce sulleva’.
Ecce lo primo attore, ’u primmo effluvio:
ecce Lucifero … maschera de lo Vesuvio.
VESUVIO
Il Vesuvio è nu vulcano dormiente,
che sogna nel pericolo costante,
ma destinato sol periodicamente
a svegliarsi senza nisciuna attenuante.
Vesuvio nuosto ca staje n’ta sta fossa,
santificamme ’u cratere, na mossa,
senza catarro o nu colpo ’i tossa,
mai venga al tuo regno, schioppa ’nt’ ’a ll’ossa.
Duorme e ghiarde a culo ’ncielo, ma ’nterre
nun cangheria’ ’a cuorpe n’abbisse.
Scrisceta ’a svava ca ’a vocca te scorre
e ’a toja malussanta ’nfam’ apucalisse.
Besùvio, Besbio, Besùbio.
Bèbio, Mèulo, Vesùbio.
Bèmbio, Vèsulo, Bìsvio.
Vèsuro, Esbio, Vìsbio.
Mèvio, Vesbiùs, Vesevùsse
Vesuvio Iuppitèrre Summanùsse.
Monte sacro all’olimpico Giove…
’A quanne ’u ffuoco dette ’a vita ’u cchiove!!!!
San Gennaro vole ’a pietà r’ ’u Vesuvio!”
M’appara’ nu guaio è ’u peggio malaurio.
Me vuo’ da’ pace … ma mo’ è troppe tarde
Votto fore!!! Je so buono sulo a ghiarde!!!
’Nnaggia ’u Pataterno che m’ha sprufunnato,
sulo pecché troppo cchiù ’i ll’ate aggio amato!!
Chisto è ’u peccato che m’ha ghiastemmato??
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Chisto è l’ardire che m’ha cundannato??!!
Chisto è ll’ardore pe’ n’ammore priato
e ’nfunno a ll’ummetore è stato ricusato.
Quando venni ingiustamente scacciato
r’ ’u Paraviso addo’ ero assaje ammirate
p’esse l’angelo cchiù buono e apprezzato
ra Dio!! Lucifero!! Sulo pe na zenniate,
’a Madonna avutaje ’a faccia a n’atu lato,
’u Bammeniello muto nun chiagnette,
San Paolo cu ’a faccia ’nt’ ’u schifato,
San giuseppe ’nt’ ’i spalle se strignette
l’arcagelo Gabriele sguainaje a spata
e chillu vojo ’i San Pietro cu ’i ccorne arapette
’i cataratte r’ ’u cielo ca russo se facette,
’U celeste marrò s’appecundrette
’u sole cu ’a luna ’nt’ ’u sole se scagnette,
l’arcubbaleno niro se scurette
tempesta ’i nuvole senz’acqua rummanette,
mentre je chiagnevo tutte ’i lacreme chiante
’i quante hanne sprecate in ogni epoca ll’amante.
Aggio chiagnuto e di questo ho fatto un mare
versanne ’u sanghe pure ’i chi po’ m’era care
Je so’ ’u Vesuvio, da “ves”: ’u ffuoco.
Je so’ ’u cuntrario ’i Ddio ca s’è mbriacato.
Ammore esiste in Dio, allo’ pe’ sfoco:
je so’ ’u cuntrario pe’ cuntrario fato.
Je songhe Giesucristo ca ghiastemma ’a mamme!
Je songhe ’u bbammeniello nato senza gamme.
IANUARIO
Piatate no pe’ me, pe’ Napule, p’ ’a gente.
Piatate pe’ chi campa e vive legalmente.
Piatate pe’ chi arrobba senza vergogna
Piatate pe’ chi nu munno nuovo agogna
.
Oggi starai calmo!! Vesuvio deflagrerai
solo a lo meo cummando pone exploderai;
Duorme ’nt’ ’u presente ’ddo’ te ne si’ sciso:
que la mea sangue, coaguli tua bava!
Duorme angiulillo scacciato r’ ’u Paraviso.
La mia mano io oppongo, alla tua lava!
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CIRILLO
La Costituzione americana nasce a Napoli. Non sembri un’esagerazione eh? A Napoli nasce anche
quel principio che divenne il passaggio più bello della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati
Uniti: il diritto alla felicità. Gaetano Filangieri ne fu l’ispiratore.
Era di Cercola, vicino Napoli. Benjamin Franklin, uno dei Padri fondatori degli Stati Uniti che stava
redigendo la Dichiarazione d’Indipendenza, non era soddisfatto di un passaggio, è cioè l’elenco dei
diritti inalienabili dell’uomo che era stato suggerito dal filosofo John Locke: “vita, libertà e
proprietà”. Era questo proprietà che non convinceva Franklin, che quindi si rivolse a un grande
intellettuale europeo dell’epoca con cui era in contatto epistolare per migliorare il concetto. E
Filangieri trasformò la proprietà nel “perseguimento della Felicità”. Una sola parola, eppure una
rivoluzione culturale che avrebbe segnato le sorti di un Paese e del mondo.
Nella sua opera “La Scienza della Legislazione”, che ispirò i giuristi di tutto il mondo, Filangieri
pone un principio fondamentale: la politica deve assolvere all’unico dei suoi compiti, far vivere
bene le persone. Per lui felicità non era qualcosa di astratto eh: al contrario, lui concretizza il
percorso che può portare alla felicità, solo che per Filangieri questa non poteva venire solo dal
denaro, dalla proprietà, ma doveva venire dal diritto. Filangieri scrive che una vita dignitosa
dipende da leggi imparziali, da carceri giuste, da scuole libere, da una più equa distribuzione delle
ricchezze. La sua opera è una specie di manuale per governare bene e far vivere bene i cittadini.
Gaetano Filangieri chiederà a Benjamin Franklin, che della sua opera fa costituzione, se può
aiutarlo ad andare a vivere negli Stati Uniti perché non ce la fa più a stare in Italia, dove ogni
riforma sembra impossibile e l’aristocrazia continua a governare. Gli scrive una lettera, gli dice:
“Dopo aver conosciuta ed apprezzata la società de' cittadini, potrei io desiderare il consorzio de'
cortigiani e degli schiavi?”. Ma Filangieri non riuscirà mai ad andare in America.
Napoli in quel periodo era governata dai Borboni, sul trono c’era Ferdinando IV. Suo padre, Carlo,
era stato un sovrano illuminato, con una visione riformista del potere (sognò di risolvere il problema
dei mendicanti napoletani, dell’accattonaggio, costruendo l’Albergo dei poveri) e quando se ne
andò per diventare re di Spagna nel 1759 non portò via nulla degli ori e degli oggetti d’arte del
Regno. Portò con sé solo un po’ del sangue di San Gennaro. Questo sarebbe il motivo per cui
l’ampolla più piccola contiene solo alcuni grumi di sangue attaccati alle pareti.
Dopo di lui il regno di Napoli si sclerotizza intorno al potere dei baroni, intorno al latifondo. È
una burocrazia lenta e gestibile solo con la corruzione.
Il regno di Napoli ha sempre vissuto un conflitto politico abnorme: da una parte il tentativo di
sperimentare nuove idee politiche come unica strada per affrancarsi dal dominio straniero,
dall’altra invece le più feroci forze reazionarie, nemiche di ogni riforma, che bloccavano ogni
cambiamento e davano lealtà solo al potere di turno. Da Napoli del resto sono passati tutti:
bizantini, normanni, svevi, angioini, aragonesi, austriaci, spagnoli, francesi…, quindi l’unico modo
per pensare di cambiare Napoli non era migliorare i governi – che erano tutti stranieri e la
consideravano una colonia – ma creare nuove idee per governare. Ecco perché Napoli diventa un
laboratorio rivoluzionario. Napoli non costruisce mai idee di bieco nazionalismo da opporre ai
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governi stranieri, anzi, Napoli risponde con principi universali che possono essere utilizzati e
riconosciuti anche dai popoli i cui governi stanno vessando Napoli. I rivoluzionari napoletani non
hanno mai considerato la loro emancipazione possibile senza l’emancipazione di tutto il genere
umano.
Ed è qui, a Napoli, che nasce la prima e unica rivoluzione italiana. Quando le truppe francesi
che stanno avanzando verso Sud arrivano a Napoli, non si trovano a conquistare una città, ma
semplicemente ad agevolare quello che era il club della classe rivoluzionaria napoletana. Questo
gruppo di intellettuali partiva dal presupposto che ciò che era stato fatto in Francia durante la
Rivoluzione Francese poteva essere fatto anche a Napoli, perché ciò che era stato fatto in Francia
si basava sui principi di libertà dei pensatori napoletani: Gaetano Filangieri, Antonio Genovesi e
Ferdinando Galiani.
Mentre la popolazione viveva una condizione disperata di miseria per i retaggi del malgoverno e
per la guerra delle truppe francesi contro le truppe borboniche, questi rivoluzionari cercavano di
dare al popolo parole per reinterpretare la realtà e nuove leggi per cambiarla.
Nei momenti della Rivoluzione si era parlato di grandi progetti, tra i sogni di questi intellettuali
c’erano delle proposte romantiche e di grande visionarietà sociale: la prima, per rendere il
popolo napoletano non più suddito ma cittadino bisognava sfruttare i suoi momenti conviviali:
quindi grandi tavolate in giro per la città in cui la gente potesse sedersi e parlare, discutere; la
seconda è la proposta più romantica delle proposte di legge mai fatte da un consesso politico, e cioè
per evitare un morbo che già allora distruggeva la città, l’abusivismo, teorizzarono il diritto per
ogni napoletano a vedere il mare.
L’illusione dei repubblicani fu quella di credere che si potesse educare in poco tempo masse di
ignoranti che consideravano il dominio del re una legge di natura. I repubblicani chiedevano al
popolo uno sforzo per trasformarsi e migliorare, invece al sovrano il popolo andava bene così
com’era. In una Repubblica che sembrava distante dai “lazzaroni”, il tramite tra i rivoluzionari e il
popolo fu San Gennaro, che sciolse il sangue all’instaurarsi della Repubblica napoletana e in
questo modo la legittimò.
San Gennaro si è fatto giacobino, gridavano. Il popolo, che stava con il Re, vide un tradimento nel
miracolo di San Gennaro e quindi lo destituì ufficiosamente da Vescovo di Napoli sostituendolo
con Sant’Antonio. Non solo, ma fu messa in piedi una macchina del fango contro San Gennaro.
Vennero attaccati per tutta Napoli manifesti dove il santo appariva impegnato in orge,
sodomizzazioni e nudità: “Ecco San Gennaro se la fa nei postriboli, è femminiello, è un vizioso…
ecco perché è giacobino”.
La Repubblica napoletana durò 144 giorni. Venne distrutta dall’esercito del Card. Fabrizio Ruffo,
l’esercito a sostegno dei Borboni chiamato Armata della Santa Fede: un esercito straccione, cupo,
con santini sul petto come a proteggerli dai proiettili. Un esercito inquietantemente simile all’Isis
di oggi. Anche i sanfedisti organizzavano esecuzioni pubbliche e chiedevano agli infedeli
conversione a Cristo e fedeltà al Re.
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I sanfedisti entrarono a Napoli il 13 giugno 1799, giorno di sant’Antonio, diventato loro protettore.
I francesi, nonostante fossero stati sconfitti, vollero fare un ultimo dispetto ai sanfedisti prima di
battere in ritirata: il generale francese MacDonald andò da San Gennaro e il sangue si sciolse
all’istante. Per la gente di Napoli san Gennaro era reo, ancora una volta, di essere dalla parte dei
giacobini.
Tutti gli intellettuali napoletani che avevano appoggiato la Repubblica verranno messi a morte
dopo processi farsa. Il sogno della rivoluzione si chiude a Piazza mercato, dove avvengono le
esecuzioni.
Rimasero inascoltati gli appelli della monarchia europea per salvare la vita di questi intellettuali.
Lo zar Paolo I scrisse a Re Ferdinando di risparmiare la vita a Mario Pagano: “Io ti ho mandato i
miei battaglioni, ma tu non ammazzare il fiore della cultura europea, il più grande giurista dei
nostri tempi”. Invece Mario Pagano fu ucciso.
Quando processarono il repubblicano Domenico Cirillo, geniale medico napoletano, il giudice,
vedendolo lacero in quel momento, lo dileggiò elencando tutti i suoi titoli: medico, professore
universitario, presidente della Commissione legislativa della Repubblica napoletana…. E poi gli
disse: con tutti questi titoli, ora, in faccia a me cosa sei? “In faccia a te? Io sono un uomo, tu un
servo.” Anche Cirillo fu condannato a morte.
Ognuno dei repubblicani napoletani avrebbe potuto avere la vita risparmiata se solo avesse
rinnegato pubblicamente le idee repubblicane. Nessuno di loro lo fece e furono condannati a
morte in 122.
Nel 1799, in piazza Mercato, viene sterminata la migliore generazione politica che Napoli abbia
mai avuto.
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TERZO ACTO DE SANGHE
DOMENICO CIRILLO
Il giudice disse: nome cognome generalità
Domenico Cirillo, fu Innocenzo
e Caterina Capasso all’anagrafe,
chiedo a codesto tribunal lo consenzo
de parola senza farne epigrafe.
Riconosce l’autorità di questo tribunale, in nome di re Ferdinando IV di Borbone
Non recognosco la vostra autorità,
ma me cunfronto, a vostra differenza.
La Repubblica era un bene de prosperità
voluto anco da Dio, a cui ’ndonghe aurienza.
Da Grumo Nevano, figlio d’un medeco,
a sedici anni iscritto all’università,
lauriato en medicina, poi botaneco,
vinsi quella cattedra che me condurrà
a viaggiare in Franza ed Anglaterra,
cunobbi nove duttrine e a la mia terra:
reportai co le idee de liberalismo
e de repubblica et equalitarismo.
L’arte salutare, che s’adda esercità
a sullievo de miseria e umanità.
La finisca con queste idiozie e retaggi di follia legate alle sconsiderate idee di libertà e
repubblica
Quisto vaneggiamento da Repubblicano,
questa follia ferita, de idee ipocrite,
così come voi lo definite, insano:
è solo lo sacro giuramento d’Ippocrate.
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Lo so che sto crepando e me ne more,
ma da omo libero co tutte ll’onore.
Il popolo è dalla parte del Re e della Santa fede
No,Lo popolo è già unto e pesto del fetore
r’ ’a sussistenza. Chesta cunziderazione,
che Napule ’nfosse pronta p’ ’a revoluzione
è stato, l’unico nosto grave errore.
La prebbe meridionale, rozza et ignorante,
immersa en una fede superstiziosa,
formalmente cattolica et osservante,
ma pagana, cancrenosa et irosa,
è raggirata in ogne epoca a schierarsi
coi suoi oppressori, senza ribellarsi:
i latifondisti, confusi, millantatori
in dei magnanimi gran benefattori.
sotto-umanitade preda r’ ’a reazione
fatta d’espedienti e d’elargizione
Ne la miseria financo la miseria
va custodita co l’abnegazione:
è na ricchezza ca ’rreporta ’a cattiveria,
ll’uneca fonte de sustentazione.
Voi siete dei sedicenti millantatori, in nome dell’eguaglianza e della libertà ingannate il
popolo solo per la vostra folle bramosia di potere
E ancora ci definite senza clamori:
adunanza di sediziosi novatori.
In ultimo jodecati da chi non ha morale …
Veniamo condotti alla pena capitale,
Anco San Gennaro c’ha dato ragione,
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anco si eravamo indetti infedeli.
Com’isso crediamo in una revolutione.
Com’isso e come Cristo in terra et celi.
Ognun con la propria fede, il proprio io,
con o senza … ma al cospetto de Dio.
Perdere oggi. Exemplo de domani,
nel sanghe ca scorre da le vostre mani.
L’uneco gravoso errore commesso
è n’ave’ capito lo popolo stesso:
Napule è no munno ca nunn’accetta
chi fa lo professore de verità, sospetta.
Vole n’ommo ghiusto e non lo Stato:
ca ’ntene core, perversione e sciato,
uno comm’isso, fallace de peccate
ca sbaglia appriesso lo popolo sbagliato,
che sa adattarsi e purtroppo adagiarsi
al cospetto peccato de l’arrangiarsi .
Non vole lo cagnamento, ma no complice
ca comme a llore è mite e semplice.
Popolo che ha el pregio d’accontentarsi
Che vive al sol dei sogni e de poesia,
ma non ensegue li sogni col daffarsi,
perderebbe di quei sogni: l’allegria
Domenico Cirillo in nome di sua maestà re Ferdinando IV di Borbone la condanno alla
pena capitale mediante impiccagione
Spettri degli estinti.
Urla dei carnefici.
Lacrime dei vinti.
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Ira de li artefici.
Moro in sereno equilibrio, a lo centro,
ma con la scunfitta de la mia gente dentro.
Mio animo è libero, vittorioso cunservo
lo sogno della Repobbreca Napulitane!!
Io muoio da uomo libero, tu sei no servo.
Domenico Cirillo da Grumo Nevane.
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L’EMIGRAZIONE
Il sangue di una nazione sono le persone. Quando emigrano le persone è come se avvenisse
un’emorragia, e questo trasforma il sangue di San Gennaro nel sangue dei migranti.
Sapete quanti sono gli italiani emigrati? Circa 30 milioni dal 1861 a oggi. Il nostro è stato il più
grande esodo di un popolo nella storia moderna. Solo nei 40 anni che precedettero la Prima
Guerra Mondiale lasciarono il nostro Paese oltre 14 milioni di persone.
Allora era a Napoli che migranti di varie parti d’Italia si ammassavano per partire. Sceglievano il
Nuovo Mondo perché i treni per il Nord Europa costavano di più delle navi per le Americhe.
Al porto di Napoli non c’erano dei veri ricoveri per emigranti: venivano ricoverati in bettole, che
erano più stalle che rifugi. Quando si avvicinava il giorno della partenza, si accalcavano al molo
dell’Immacolatella e rimanevano lì per giorni in attesa dell’imbarco. L’Immacolatella era un
ammasso umano: un nome tanto dolce dato dalla statua di una Madonnina sulla sommità del
palazzo che vi è sopra al molo, eppure un luogo di grande sofferenza. Qui nessuno dormiva, perché
sennò gli rubavano la valigia, i piccoli risparmi che si portavano in America. Era un’attesa infernale
di ansia e veglia, che poteva durare giorni e giorni.
Quando finalmente partivano, le navi allontanandosi passavano davanti alla statua di san Gennaro
sul molo San Vincenzo, che con la mano alzata sembrava quasi voler benedire il viaggio dei
migranti o semplicemente salutarli.
Le navi su cui viaggiavano erano legni marci, sfiancati da anni di navigazione: potevano
trasportare poche centinaia di persone, ma arrivavano a caricarne oltre 1000. Una “tonnellata
umana”, così erano definiti. C’era poca acqua sulla nave, non c‘era luce. Morbillo, tifo, colera,
violenze, furti: questa era la vita sulle navi che portavano schiavi italiani in America. In molti
morivano ancora prima di arrivare: spesso si moriva di fame, o di asfissia, di notte capitava che si
schiacciassero gli uni sugli altri. Gli anziani e i bambini erano i primi a cedere: i cadaveri degli
adulti venivano gettati a mare, l’Oceano diventava la loro tomba; lunga è la lista di coloro che sono
partiti e che non sono mai arrivati, come se fossero spariti nel nulla, inghiottiti dal viaggio, perché la
loro morte non venne mai registrata da nessuna parte. Dai cadaveri dei bambini, invece, le madri
non riuscivano a staccarsi, e cercavano di tenerli con sé fino alla fine del viaggio per dar loro
almeno una degna sepoltura. I ragazzini, spesso i marinai più giovani, a turno venivano chiusi
dentro a una botte: erano chiamati “uomini di botte”. Attraverso un buco nel legno, equipaggio e
migranti davano sfogo all’ultimo istinto che gli era rimasto: la carne.
Si arrivava così a Ellis Island, l’isolotto di fronte a Manhattan. Qui si facevano i controlli medici:
se eri troppo vecchio, se avevi anche solo una congiuntivite, se eri zoppo o avevi altre malattie,
potevi essere rimpatriato. Molti quando ricevevano la notizia che non erano stati accettati, si
buttavano direttamente a mare lasciandosi affogare.
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Gli italiani erano richiestissimi nei campi di cotone, perché non bevevano come gli irlandesi e
sapevano lavorare meglio degli afroamericani, perché arrivavano dall’agricoltura, sapevano
coltivare i campi.
A New York vivevano nei quartieri più poveri della città, in poco più che baracche tra i grattacieli
che hanno contribuito a costruire con le loro mani.
E San Gennaro arriva a New York seguendo il suo sangue, il sangue dei migranti - veneti,
friulani, piemontesi, campani, siciliani, pugliesi… - tutti. A Little Italy a New York ogni anno
intorno alla metà di settembre ci sono 11 giorni di festa per San Gennaro.
San Gennaro ha 25 milioni di devoti sparsi per tutto il mondo, nonostante sia un santo regionale.
Pensate che quando papa Paolo VI riformando la liturgia di alcuni santi declassò san Gennaro a
santo locale, a Napoli comparvero delle scritte sui muri “San Gennà, futtetènne”, fregatene, tanto
noi ti veneriamo lo stesso.
L’immigrazione rientra in quella difficile grammatica del campare per cui il migrante sarà
costretto contemporaneamente a subire tutto e a sognare. È per questo che San Gennaro arriva a
essere a fianco ai migranti, perché ancora una volta è un santo che conosce i piccoli sogni di fare un
po’ di soldi, di mettersi a posto ma sa che per raggiungerli bisogna fare un sacco di guai,
inciampare in moltissimi errori, così come è la vita di ogni migrante. Hai vergogna a chiedere
queste cose ad agli altri santi, troppo severi; invece a san Gennaro puoi dire tutto, san Gennaro è
un santo che sa, non gli devi spiegare niente.
Tutto il destino del migrante italiano è ben riassunto da alcune frasi pronunciate da un emigrato
italiano negli Stati Uniti:
“Venni in America credendo che le strade fossero lastricate d'oro,
quando arrivai mi accorsi che non erano lastricate d'oro,
che non erano neppure lastricate
e che toccava a me lastricarle.”
Chi partiva saliva a bordo con in mano un gomitolo di lana: una volta sul ponte, i migranti
tenevano un capo e lanciavano il gomitolo sulla banchina a una moglie, un figlio, una madre che
non avrebbero probabilmente più rivisto.
Poi suonava la sirena, la nave cominciava ad allontanarsi e il gomitolo si dipanava nelle mani dei
migranti. I fili di lana si facevano sempre più tesi, quasi a fermare la nave, come fossero cime,
finché non si strappavano. Un capo restava in mano al migrante e un altro al famigliare. Ciò che
rimaneva del loro legame era soltanto un pezzo di corda, come un pezzo di vena senza sangue.
L’emigrazione, la più grande emorragia che potesse accadere a un popolo.
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QUARTO ACTO DE SANGHE
LO SAVATORE MIGRANTE
Parto … la mia terra.
Parto da emigrante.
Lu core se serra
e non vedo avante.
Vedo solo l’acque
senza veder fondo,
terra che mi nacque
je more e sprofondo.
Parto. La mia casa
ora è più distante.
Mamma ca me vasa,
tremma lacremante,
cu li gote cave,
ll’uocchie de la morte
dice: “Chesta nave
chi sape addo’ ce porte?!”

’Nterr’a ’Mmaculatelle,
vecchia ’Mmaculata,
mio San Gennaro belle
cu la mano aizata
ce benericeva,
ce diceva addie, ’a statua ce vuleva
’nchiappa’ p’ ’a poppavie.
Suonno porta suonne
e maje nu cunziglio.
Porta malesuonne
e sulo scumpiglio.
Suonno porta suonne,
carne da macielle,
ma senza li suonne
’ncunte manco ’i stelle.
“Ce sta na terra all’autra sponna r’ ’u mare
addove nu paisano senza nu sorde,
mone è ricco e ce ne manna, ’ccussì pare,
tanta monete ca ’u tintinnio se scorde.”
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questo soffio ’i voce a pateme arrevaje
e lu transitrateche, p’ ’a famiglia, sunnaje!!
Mio padre ’a lemmosina, a bbordo ormaje carcava
pecché ’a scorta de pane cchiù, ’nn’abbastava.
“San Gennaro c’aiutarra’. Priammo a isso!
Nun pote ferni’ accussì chest’apucalisse!!”
Impazziva ’i chianto, ma pacato e cujeto.
’A pazzia nun feta, ma primma o poi va ’nfieto.
“Nun chiamma’ maje triste ca peggio te vene!”
Na voce ’i criaturo me rialaje na pagnuttella:
“Cane e cane nun se mozzecano, tiene.”
“Grazie!” Rispunnette taglianneme na fella.
Voce senza viso, ca poi incontrai
Il giorno dopo quanne me svegliai.
Pateme durmeva e ce mettette a li gamme
’u miraculo ’i nu scugnizzo ’i bbona mamme.
Quanne se scetaje: “Avite visto! È San gennaro!!!
C’ ’a aggraziato ’u ppane accomme a nu cumparo!”
Immediatamente a chillu guaglione cercaje,
e senza spicca’ na parola m’avvicenaje:
“ije so Gennaro e mò me vulisse rengrazia’?!
Nunn’è nu miraculo chillo ca staje a passa’,
ma na traggedia, ’u ssaje?!” Acalaje nu sì
cu ’a coppola … pur’essa chiagneva senza di’:
“Chillu piezzo de pane, t’ ’u puo’ guaragna’ tu.
Ma t’hia spurca’ li mane, ’a vocca e ’u farfallù.
Isso me purtaje all’auro de bompresso
a prora, addo’ ce stevano li deviate de sesso.
“Pe’ sfama’ la famme, sfamo ’a perversione
de chiste ricchiune e no p’ata raggione.”
Ammiccaje a uno ’i lloro e se ’nzerraje
dentro una botte. ’U puorco po’ arrevaje.
Ce stevano pertuse dint’a lu lignamme:
’u serugnaje smaniuso e po’ dicette, ghiamme.
Sentevo nu remmore: nu cane ca s’allecca
’a chell’ata parte ll’uosso, fatto a lecca
-lecca.
Po’ lu vicchiariello, a nu bellu mumento
abbiaje a se torcere senza controllamento.
Comme’a ssi murenno stesse, po’ gemette
s’appuntaje ’u cazone e ’i renza se ne ghiette,
lemme
-lemme … pone Gennarino ascette
e a n’ata botte d’acqua, cu na sapunette:
“Faccio l’ommo ’i votte dint’a stu scaravattelo:
ma zompa chi po’! Dicette ’u ranauottolo.”
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E zumpaje pure je. Facette giuramento
’i ’ndice a nisciuno chillu segreto. Ciento,
duiciento e cchiù vote, ’a votte, me vennette
a nomme ’i San Gennaro c’ ’a grazia me rialette.
’Ncambio de li munete e de carna salata.
’Ncambio de pagnotte e de supressate.
“Gennari’ … tu pecché, faje chesto pe’ mme?!”
“Pecché patete nun t’ ha maje abbandunato,
nun t’ha maje lassato comm’ha fatto cu mme
… e mammeta te vo’ bbene. Je so’ addeventato
orfano pecché vennuto r’ ’a famiglia:
chi va pe’ chisti mare, chisti pisce piglia.
Ma pure ’a riggina tene bisogno r’ ’a vicina.”
“Grazie ancora.”
- “Mò va fa’ ‘e bucchine!”
E me so’ vennuto
pe’ la mia famiglia.
Me l’aggio crisciuta
da capofamiglia.
Cu tutt’ ’a sfaccimma
ca pigliavo ’mmocca.
Vummecavo apprimma,
mone me l’agghiotto.
Questa’emigrazione
è l’evoluzione:
chi se salva è ’u forte!
More, chit’è muorte.
Sonno e m’addurmento
‘nMe voglio scetare.
Mamma se lamenta,
ce vole lasciare.
Mamma pe’ favore,
nun me lassa’ ancore.
’Nvoglie ca fernesce??
’Nvuo’ vederme cresce?!
L’ultimo ricordo:
ca’stregnevo ’mmano,
gumitolo, ca ‘a bbuordo
io saglieva chiano
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Terra. Terra. Sbarcajemo alla prumessa
terra senza manco prumessa de l’accessa.
’I llacreme se ll’era purtata ll’aria fina
r’Atlanteco cu mia madre e sorema piccina.
Ma cu ’a forza re ll’urgoglio, papà mantenette
prumessa e ’mbraccio morta… a mia madre scennette:
le fece tucca’ cu la spinata dursale
la terra sunnata e avuta ra murtale.
Deposto lu cadavere, senza nu colpo ’i tosse,
sagliette n’ata vota la scalinata grosse,
turnaje cu nu fagotto addo’ durmiva, ciana,
mia sorella morta …pure essa a na semmana.
L’emigrante ormaje senza cchiù cuscienza
recedevano a li bestie, senza ce da aurienza.
Ma il ricordo senza scuordo r’ ’a mia infanzia
llà addo’ s’è cunzumata e fernuta ’a ’nnucenzia
era il gomitolo ca purtave alla partenza.
Je tenev’ ’u compito di tendere la lenza.
Susciava lu piroscafo comme na balena
chiagnevano ’i pariente ’nnante a chella scena:
Sempe cchiù tiseco. Li coppole acalate
comm’a nu funerale, cu li scialle scurate.
Sempe cchiù tiseco, mò lasso lu paese.
Sempe cchiù tiseco e vaco a faticare.
Sempe cchiù tiseco e parto sto a nu mese
Senza vede’ cchiù terra, sulo cielo e mare. E mio padre, fonte di lacrime care
i qual solcavano i colli delle gote,
suonava questa tofa, al cor, soave
spunto della gola senza più le note
l’unico scettro d’identità, la dote
di nonno in padre, nepote e prunipote.
L’unecu siggillo ’i sanghe ca me rumman
e
ra Taliano tramutato Americane.

Tiene sta cunchiglia.
Sona a papà sona!
Sona p’ ’a famiglia
senza fa’ frastuona.
Tu ti salverai,
quanno sarrai sulo e m’invocherai
sott’a nu lenzulo.
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FINALE
Durante la Seconda Guerra Mondiale, Napoli fu la città più bombardata d’Italia per via della sua
posizione strategica nel cuore del Mediterraneo. Le prime bombe inglesi caddero su Napoli nel
novembre del 1940 e le ultime tedesche nel 1944. In tutto 24mila bombe in circa 200 raid aerei, che
fecero 25mila morti, soprattutto civili.
Il sangue di San Gennaro non si era sciolto né nel 1939 né nel 1940, facendosi premonitore di
quella catastrofe.
Sottoterra si erano nascosti i napoletani per difendersi dal Vesuvio chiedendo aiuto a san Gennaro;
sottoterra si nascosero i napoletani per difendersi dalle bombe chiedendo aiuto a San Gennaro.
Un giorno, nell’estate del ‘43, si sparse la voce che le ampolle con il sangue si erano rotte durante
un bombardamento. Curzio Malaparte racconta che i napoletani, preoccupati, accorsero in massa
al Duomo gridando per le strade ‘’O sangue! ‘O sangue’”, piangendo e alzando le braccia al cielo.
Nonostante quasi ogni napoletano avesse versato sangue della propria famiglia nella Guerra, la più
grande preoccupazione era per il sangue di San Gennaro. La folla non se ne andò dal Duomo
finché un prete non uscì sugli scalini e li rassicurò che la teca era intatta.
Lo scioglimento del sangue è molto più di un rito, o di un miracolo per i credenti: è la vita che
torna a scorrere. Lo scioglimento del sangue è lo scioglimento dei grumi, e il grumo è il dolore, il
grumo è la paura, è l’irrisolto. In una città di sangue, il sangue dei morti ammazzati è sangue
rappreso, secco a terra; laddove c’è sangue che si scioglie, invece, che scorre, c’è certezza di vita,
di vitalità e passione. Il sangue di San Gennaro che si scioglie è un sangue che ribadisce la vita.
Le dinastie di mezzo mondo hanno omaggiato questa vita con ogni sorta di regalo prezioso. Uno
studio del 2010 condotto da esperti gemmologi ha stabilito che il Tesoro di San Gennaro è il tesoro
più ricco e prezioso esistente sul pianeta. È composto da 21.720 oggetti donati nel corso dei
secoli da re, regine, papi, vescovi, imperatori, nobili e gente comune. Di questo tesoro fa parte una
collana in oro massiccio con 700 diamanti, 92 smeraldi e quasi 300 rubini che è stato definito il
gioiello più prezioso al mondo.
Mai nessuno ha tentato di rubare il Tesoro di san Gennaro, mai, neanche un tentativo. Solo in un
film, con un geniale Nino Manfredi, “Operazione San Gennaro”.
Il santo più ricco al mondo è il Patrono di una delle città più misere. In fondo la vera
particolarità di Napoli è proprio la sua contraddizione e Napoli, contenendo questa contraddizione,
è come se custodisse il suo tesoro: il tesoro non sono ori e pietre preziose, il tesoro è la
consapevolezza che niente è bene senza il male, e che niente può venire di buono se non c’è fatica,
e che non c’è godimento se non c’è pigrizia, e che non c’è potere se non c’è corruzione.
E allora San Gennaro non è nient’altro che questo: espressione umana della giustizia divina, che
non condanna ma sempre capisce.
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È impossibile ridurre Napoli a un’unica espressione di sintesi. Ne racconti l’ombra e ne stai
tralasciando la luce, ne racconti la luce e stai ignorando l’ombra. Quindi solo il mito può raccontare
Napoli, come abbiamo provato a fare questa sera.
Napoli è la leggenda della sirena Partenope, che rifiutata da Ulisse, si gettò nel mare e arrivò fino
all’isolotto di Megaride, di fronte a Napoli: qui, prima di morire depose un uovo, un uovo magico
che secondo la tradizione fu raccolto da Virgilio e collocato nelle segrete del Castello. Secondo la
leggenda, se l’uovo si rompe, tutta Napoli va distrutta. Ecco, la metafora dell’uovo: Napoli, fragile,
va protetta e proteggerla significa raccontarla nella sua contraddizione.
Napoli non si può contemplare, Napoli si deve attraversare e vivere, come attraversare e vivere si
deve la vita.
Ma se il cambiamento non arriva – e non arriverà – mi chiedo: ma allora perché continuare a
lavorare per il cambiamento? Poi però penso al sogno dei repubblicani e di tutti coloro che hanno
avuto la vita rovinata o spezzata dall’aver provato a cambiare le cose. E capisco che finché sei in
vita non puoi far altro che provare a migliorare la vita, non puoi far altro che sciogliere il grumo e
far scorrere il sangue.
E allora quanto forte deve essere questo sogno di cambiamento per far sciogliere il grumo?
Talmente forte da dimenticarsi che fallirà, ma talmente forte da ricordarsi che comunque
l’impegno lascerà una traccia.
Le mie sono parole confuse. Non sono confuse quelle di un emigrante italiano in America, che le
pronunciò tanti anni fa. Si chiamava Bartolomeo, Bartolomeo Vanzetti.
“Sono così convinto di essere nel giusto
che se voi aveste il potere di ammazzarmi due volte,
e io per due volte potessi rinascere,
rivivrei per fare esattamente le stesse cose che ho fatto.”
30
EPILOGO
IANUARIO
La mia città piange per non aver speranza…
sorride per non aver rancore
distrugge per collera e onore
ironizza per coprire ogni istanza
e le ingiustizie subite a tutte ll’ore
urla nell’inciucio di una stanza
perdona il male sempre c’ ’u sapore
di essere uniti da un destino morto
lottare senza legge e dalla parte del torto.
È tiempo è tiempo è venuto ’u mumento
De squagliarme mone miraculosamente.
Espio i vostri peccati e li faccio miei.
Espio le vostre eresie e li pagani Dei.
Cancerogeno è in ogni luogo
io non mi salverò ma rimango
nella terra maledetta da ogni prologo
scritto nella lingua che inghiotto nel mio piango…
Napule senza famiglie.
Napule senza figlie.
Napule ca ‘u piglia
‘nde pacche mentre figlia
.
Napule senza ddie
Napule senza ’a maronne.
Napule addo’ Marie
’i sanghe se ’nfonne.
Napule cundannate.
Napule r’ ’u Priatorio.
Napule lapetiate.
Napule r’ ’u scuretorio.
Napule ce sta ’u sole.
Napule ce sta ’a luna.
Napule cu ’a pummarole.
Napule ’mpesa ’a funa.
Napule cacata.
Napule chiavata.
Napule sfriggiata.
Napule alliccata.
31
Napule munnezze.
Napule priezze.
Napule allerezze.
Napule a piezze.
Napule r’ ’u ffuoche.
Napule appicciata.
Napule r’ ’i roche.
Napule abbafata.
Napule r’ ’i rifiute
speciale, cu ’a diussine.
Napule r’ ’i vute
e r’ ’i fiorette ’nzine.
Napule ’i l’ecoballe.
Napule r’ ’i leucemie,
verdiate purtualle.
Napule r’ ’i malatie.
Napule r’ ’u fumme.
Napule s’allumme.
Napule è nu munno.
Napule aumme
-aumme.
Napule piglio ’nganne!
Napule pigliammocche!!
Napule ce piagliarranne,
pe’ culo e p’ ’a piciocche.
Napule puozze schiatta’.
Napule hia cangheria’.
Napule puozze scula’.
Napule hia spanteca’.
Napule camorra.
Napule gomorra.
Napule cu ’i puorre.
Napule che sborre.
Napule che ce ne fotte.
Napule votta votte.
Napule chi fotte fotte.
32
Napule che ’ns’abbotte.
Napule ’i capedanne.
Napule r’ ’i tracche.
’A droga sta arrivanne!!
Coca, pallino e cracche.
Napule ’i cuntrabbanno.
Napule r’ ’u mpuosto.
Napule va ascianno.
Napule: “Vulimme ’o posto”.
Napule cu ’i ppalle mmane.
Napule sfuse a pacchette,
malbora, naziunale,
ddoje stecche ’i sicarrette.
Napule ’i Natale.
Napule fitti
-fitte.
Napule c’ ’u bengale,
cepolle ’nt’ ’i marmitte.
Napule r’ ’u Presepe.
Napule r’ ’i maggie.
Napule r’ ’i crepe.
Napule ’i Caravaggie.
Napule r’ ’i botte
all’urtemo ’i ll’anne
Napule se ’ncotte:
ciente ferite all’anne.
Napule senza mane,
zompano ’i dete pure.
S’appannano ’i perziane.
Napule ca se chiure.
Ma a tavule me ntorzo.
Napule ’nzalata.
Napule ’i rinforzo
e menesta ’mmaretata.
Napule fritt’anguilla.
Napule capitone.
33
Struffele e centrille,
Napule r’ ’u cenone.
’U spaghetto a vongole
Sempe a vegilia.
Napule r’ ’i ciociole,
e ’i dorge r’ ’a Sicilia.
Napule roccocò,
’a cummedie r’Eduarde.
Napule ’i Totò,
cu ’a sguessera maliarde.
Napule vajassa.
Napule cu ’a sciassa.
Napule se scassa.
Napule maje te lassa.
Napule s’arrassa.
Napule cravattara.
’U prestito se ’ngrassa.
Napule senza denare.
Napule r’ ’u matremmonio:
riebbete c’ ’u rione,
’a chiesa, ’u mangemmonio.
Napule r’ ’i cummenione.
Napule sperute.
Napule abbelute.
Napule scemute.
Napule tavute.
Napule chiagnute.
Napule carute.
Napule perute.
Napule ’int’ ’u ffuto.
Napule fogna.
Napule vriogna.
Napule rogna.
Napule scalogna.
Napoli Vesuvio
34
Pumpeie e Erculane.
Napoli ’u diluvio
’i lava… e mazzacane.
Napule Burbona.
Napule Angiuina.
Napule ’i Napulione.
Napule Giacubbina.
Napule Francesa.
Napule r’ ’u rré ’i Spagna.
Napule Aragunesa.
Abbasta ca se magna.
Napule rivoluzione,
ddoje vote s’è fatte,
quanno manche ’a devuzione
truvave dint’ ’u piatte.
Napule r’ ’i scugnizze,
murevano a ogni pizze.
Ma contro ’i naziste,
fujene ll’uneche ’nziste.
Napule r’uttanta.
Napule r’ ’u terramoto.
Napule priante.
Napule r’ ’u devoto.
Napule se ranne.
Napule se ’ngegna.
Napule arrangianne,
fa riebbete e se ’mpegna.
Napule ’i San Gennare.
Napule r’ ’u sanghe.
Napule r’ ’i cummare
che fotteno ’nt’ ’i cianghe.
Napule faccia gialla!!
Si nun ce fa ’u miracule!
Pigliammec’ ’i sciuqquaglie,
’a mitra e ’u tabbernacule.
35
Sanghe ca se qualia.
Sanghe re frattaglia.
Sanghe ca se squaglia.
Sanghe ca se caglia.
Sanghe!!! Ghiastemmate:
“Fa’ ’mbressa, bucchinaro!”
Vulite ’a sceneggiate,
vernaccie senza pare!!
Napule pe’ ddevuzione.
Napule r’ ’a religione.
Napule r’ ’a dannazione.
Napule ’mprucessione.
Napule vattente.
Napule fujente.
Napule ’i lamiente.
Napule ’i turmiente.
Napule r’ ’u giglie.
Napule r’ ’a tammurriata.
Napule: i suoi figlie?
Già so’ decapitate.
Napule ddo’ sta ’a famme
truove ’a prostituzione.
’Ddo ’u sordo luce e sciamma
truove ’a malazione.
Napule marenaro.
’U pesce coste caro
abbascio ’u lavenaro.
Napule bucchinara.
Napule culera.
Napule ’mpechera.
Napule chiazzera.
Napule spitalera.
Napule r’ ’i cozze.
Napule r’ ’a pizza.
Napule ch’abbozza.
Napule t’ ’u ’mpizza.
36
Napule r’ ’i viscere.
Napule assaje lorda.
Napule va a pascere.
Napule cu ’a sciorda.
Napule fetente.
Napule pezzente.
Napule accerente.
Napule penitente.
Napule racchie.
Napule scufecchie.
Napule se ’nguacchia.
Napule guallecchie.
Napule pucchiacche.
Napule pernacchia.
Napule ’a fa ’nt’ ’i pacche.
Napule ciacche
-ciacche.
Napule vafammocca
Napule vafanculo
Napule ’nta piciocca
ce truove nu cetrulo.
Napule ’mmoccammammeta.
Napule a fessa ’i nonneta.
Napule ’nculo a ppatete.
’Int’a bbucchina ’i soreta.
Napule curalle.
Napule cu ’i ’mbolle.
Napule cu ’i calle.
Napule cu ’a scolla.
Napule sgravate.
Napule gnavecate.
Napule vattiate.
Napule sfessate.
Napule Pullecenella.
Napule ’i Maradona.
Napule Masaniello.
37
Napule r’ ’a canzona.
Napule “ ’O sole mio”
Napule carnale.
Napule vita mia.
Napule rinale.
Napule r’ ’a Fenestelle.
Napule ’i Marechiaro.
Napule r’ ’u panariello.
Napule r’ ’i marunnare.
Napule r’ ’u maluocchio
r’ ’u furticiello all’uocchio.
Napule te ’mpapocchi
e
’nt’ ’a banda ’i rocchi
-rocchie.
Napule che spare.
Napule sempe in guerra.
Napule tene ’u mare
marrò … accomme ’a terra.
Napule r’ ’u Lide,
chillo mappatella.
Napule ve sfido
a ffa’ ’i tuffe ’nt’ ’a sajttella,

senza custumetto
annanze a tutte quante!
Napule ’u bagnetto
c’ ’u facimme cu ’a mutante.
Napule r’ ’u mandulino.
Napule r’ ’a pustegge.
Napule cartulina.
Napule senza legge.
Napule ’i Geggé.
Napule ’i Sasà.
Napule ’i Rafè.
Napule ’i Pascàaa!!!
Napule ’i café.
Napule ’i bbabbà.
38
Napule ’i bigné.
Napule ’i bubbà.
Napule zie ma’!
Napule, capo!
Napule, gue’ fra’!
Napule e cca po’!?
Napule frate a mme.
Napule frate a tte.
Napule senza rré.
Napule amarammé.
Napule ’i Puceriale.
Napule ’i Pellerine.
Napule ’i spitale.
Napule ’i latrine.
Napule r’ ’u padiglione
Milano e Avellino…
’i guardie ’u mazziatone
t’ ’u fanne ogni matine…
Napule r’ ’a fronna.
Napule r’ ’u carcere.
È sempe ’u pover’ommo
che va ’ngalera a marcere.
Napule r’ ’i cave.
Napule discarica.
Napule ’nse pava.
Napoli neomelodica.
Napule ’nvo fa’ niente.
Napule se sfastereja
Napule n’è maje cuntenta.
Napule te cuffeja.
Napule r’ ’u rraù.
Napule scemanfù.
Napule frù
-frù
Napule ciù
-ciù.
Napule ’i coppe ’i quartiere.
39
Napule r’ ’u rione.
Napule … ’a sciammeria??
T’ ’a faje ’aret’ ’a stazione.
Napule ’i mammeta.
ce prore a briosce.
E ’a puttane ’i soreta
ce fanno male ’i coscie.
Napule r’ ’i ricchiune.
Napule r’ ’i femmenielle.
Nun stanne maje riune
cu a botta ’int’ ’a scelle.
Napule che canta.
Napule cu core.
Napule che schianta.
Napule ch’addore.
Napule ca ffete.
Napule se scéte.
Napule r’ ’i puete…
sparlene sempe ’arete.
Napule ’i cunzeguenza.
Napule ’i crianza.
Napule ’i delinquenza.
Napule senza speranza.
Napule r’ ’u curtejo.
Napoli disoccupate.
Napule nun me chiejo.
Frate contre a frate.
Napule ’nc’ ’a facimme.
Napule n’abbincimme.
Napule ’i perimme.
Napule ’i cazzimme.
Napule innocente.
Napule ’nc’azzecca.
Napule s’accuntenta.
Napule cu ’i zzecche.
40
Napule ’nt’ ’i viche.
Napule t’acciche.
Napule senza fatiche.
Napule t’è amiche?!
Napule terra mie.
Napule che chiagne.
Napule senza ddie.
Napule che fragne.
Napule terra mie
senza libbertà…
Napule, a bbona ’i ddie…
faje ’u paraviso ccà…
Napule ’i figliema.
Napule ’i patete.
Napule ’i nonnema.
Napule ’i fratete.
Napule: venitece vuje.
Napule: a campa’ ccà.
Napule: nun me ne fuje.
Napule je schiatto ccà.
Napule ’int’a ll’ anema.
Napule tumore.
Napule senz’ anema.
Napule r’ ammore.
CANTO PARENTI
San Gennaro mio putente,
prega Dio pe’ tanta ggente.
San Gennaro mio protettore,
prega a Dio, nostro signore
San Gennaro fance ’a grazia.
Domineddio e verbigrazia!
 
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