Le stronzate di Pulcinella

1940/45 i bombardamenti e gli sfollati italiani:con immagini d'epoca

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view post Posted on 7/12/2016, 19:09
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Oggi e nei prossimi giorni analizzeremo il dramma che milioni di Italiani furono costretti a vivere sulla proprio pelle, a seguito dei bombardamenti della seconda guerra mondiale, con particolare riferimento allo sfollamento volontario.
Fin dal giugno ‘40, infatti, ma soprattutto dall’autunno ’42, in tutta la penisola, milioni di italiani si allontanarono dalle città bombardate e, più tardi, dalle zone attraversate dal fronte militare, per cercare un rifugio più sicuro.
Devastazioni ovunque nel centro e nei quartieri periferici, costrinsero gli Italiani a lunghe peregrinazioni e all'abbandono delle loro case e delle loro cose.
Analizzeremo il fenomeno, tentando un percorso in lungo ed in largo per la penisola dove piu' si produsse un vero e proprio movimento di massa verso le campagne circostanti, in particolare verso la provincia .Sara' questo uno degli obbiettivi centrali delle nostre ricerche.
Terremo anche in debito conto che questo esodo, mentre da un lato coincise con momenti di solidarietà, provoco' anche in molti casi momenti di tensione con le popolazioni locali, già ampiamente provate dal punto di vista economico e sociale.


Il fenomeno degli sfollati, come vedremo, assunse una grande dimensione in Italia, particolarmente nelle grandi città dotate di vaste aree industriali maggiormente sottoposte ai bombardamenti .


I Bombardamenti e gli sfollati di Milano.



Nel 1940 Milano era ritenuta dagli Inglesi un importante obiettivo militare, essendo la più sviluppata città industriale d'Italia e una delle più rilevanti a livello europeo, situata all'interno del triangolo industriale, con Torino e Genova.
La città era ritenuta inoltre uno dei principali snodi ferroviari del Paese, caratterizzata da 21 linee ferroviarie, da una delle stazioni più grandi d'Europa e da importantissimi scali merci, tra i quali Lambrate e Farini, snodi vitali per le suddette industrie.
Gli Inglesi erano in possesso di rapporti ben dettagliati, per cui sapevano benissimo che bombardare la città equivaleva,non solo a mettere in ginocchio una popolazione di circa un milione e centomila gli abitanti , ma anche tutte le principali realtà produttive di Milano e provincia, tra le quali spiccavano la Alfa Romeo, la Edoardo Bianchi, le Officine Galileo, la Magneti Marelli, le officine Borletti, la Tecnomasio Italiana Brown Boveri, la Pirelli, la Isotta Fraschini, la Breda, la Caproni, l'Ansaldo e, ma non ultima, la Falk acciaierie.


Alla luce di tutto ciò, il bombardamento sistematico fu in un primo momento (fino a tutto il 1943) rivolto a colpire la città "civile", mirando su case e popolazione, affinchè questa terrorizzata spingesse sul Governo a chiedere un armistizio; in un secondo tempo (dal 1944) si accanì su fabbriche e produzione bellica, asservita alle esigenze tedesche.
Diversi quartieri di Milano furono gravemente danneggiati. La città iniziò a svuotarsi, quelli che poterono, fuggirono in campagna o nei paesini piu' piccoli per rientrare tra gli obiettivi dei bombardieri, dando inizio al fenomeno dello sfollamento .Numerose furono le aziende che spostarono la produzione in altre località, ritenute più sicure.

I BOMBARDAMENTI DI TORINO E GLI SFOLLATI


Già nella prime ventiquattro ore dall’entrata in Guerra da parte dell’Italia, Torino fu costretta di subire i primi bombardamenti.
Gli inglesi, infatti, attratti dalle istallazioni industriali di Torino, cominciarono, a dire la verità con scarsi successi a sganciare le prime bombe.
Cominciarono anche i primi morti e feriti tra la popolazione e vi fu anche un abbattimento di un areo nemico.
Da quel tragico giorno, fino al 5 aprile 1945 i torinesi vissero sotto i bombardamenti, gli aerei delle forze alleate scagliarono più di 7.000 bombe dirompenti ad alto potenziale e oltre 300.000 mezzi incendiari, i morti furono 2069, migliaia i feriti, il bombardamento più tragico fù quello del 13 luglio 1943, in 70 minuti, 250 aerei Lancaster bombardarono la città, ci furono 792 morti e oltre 1000 feriti.
Se i danni materiali di questa prima fase di guerra a Torino, non furono molto significativi, non si può non tener conto dell’angoscia che viveva la popolazione richiamata anche piu' volte al giorno dagli allarmi aerei.
L’1 ottobre fu decretato il tesseramento delle sostanza grasse animali e vegetali, il 2 dicembre il razionamento venne esteso a pasta, farina, riso. In poche parole nei primi due anni dalla dichiarazione della belligeranza, la guerra fu sempre presente anche tra la ritmica vita quotidiana dei Torinesi.
Intanto aumentavano le restrizioni: il 7 Febbraio 1942 veniva decretata la riduzione del 35% dei consumi d’energia elettrica, il 3 Marzo toccava all’orario d’erogazione del gas ed infine l’11 novembre vennero soppresse le comunicazioni telefoniche interurbane e le spedizioni tramite ferrovia.

Purtroppo i bombardamenti, col passar del tempo divennero i sempre piu' sistematici. La vera incursione iniziò nella notte del 18 Novembre 1942, che dopo alcuni attacchi subiti rispettivamente il 22 e 23 Ottobre, 77 aerei piombarono su Torino alle 21:30 e per due ore scagliarono sulla città ben 91 bombe dirompenti e diverse migliaia di spezzoni incendiari che (ovviamente) provocarono molti incendi, anche nel cuore della città. L’incursione non risparmiò nemmeno la fabbrica dei motori della Fiat (uno degli obbiettivi più considerati). Anche questa volta, come nel principio della guerra, Torino si rivelò impreparata; Avvenne che la maggior parte di coloro che erano sfollati dalla città a seguito dei primi bombardamenti, aveva fatto progressivamente ritorno nelle proprie abitazioni, pensando che il peggio fosse ormai passato. Al contrario… quella incursione fu solamente l’inizio di una serie di bombardamenti ravvicinati. 6 raid nei successivi venti giorni hanno fatto piombare la città in un mare di fuoco e fiamme rendendo la situazione infernale ed esasperante e con moltissimi morti e feriti.
I bombardamenti continuano nei mesi successivi, con momenti di calma e nuovi attimi di paura. Nuovi attacchi tra novembre e dicembre 1942 colpiscono ancora maggiormente la zona industriale di Torino, dato che molte industrie erano occupate nella produzione d’armamenti o comunque il loro attacco indeboliva industrialmente tutto il territorio.
Secondo i rapporti dell’epoca a riguardo degli attacchi di febbraio 1943, la maggior parte dei danni si concentrarono nella striscia urbana che corre in diagonale da sud-est a nord-ovest, colpendo in due punti lo stabilimento della fiat Lingotto, altri sette fabbricati industriali e distrutti dagli incendi diversi edifici di varia natura. Nel corso dello stesso raid, bombe ad alto potenziale raggiunsero anche i centri periferici di Grugliasco e Rivoli dove molti Torinesi si erano rifugiati scappando dal capoluogo.
L’incedere dei bombardamenti alleati porta un gran numero di torinesi a lasciare la città: nell’estate del 1943 circa la metà dei torinesi sfolla verso i centri minori considerati più sicuri. Anche alcune industrie, per timore dei danni delle bombe, decidono di decentrare parte della propria produzione.
Comincio' cosi' un precipitoso abbandono della città da parte di molti dei suoi abitanti che riparano verso luoghi più sicuri come i centri minori della provincia o gli altri capoluoghi della regione, non ancora significativamente toccati dalle incursioni aeree.
Uno sfollamento che conosce una rapida impennata nell’estate del 1943 quando, nel mese di luglio, sono 338.000 i torinesi (il 48,45% della popolazione) che decidono di abbandonare le proprie case. Un mese più tardi, la cifra cresce e raggiunge quota 465.000. Di questi almeno 110.000 sono pendolari giornalieri, e cioè lavoratori che, favoriti anche dal clima estivo, partono la sera per andare a dormire, “nei centri della cintura, nelle cascine o in aperta campagna”, per poi tornare in città il giorno successivo a lavorare nelle fabbriche, alcune delle quali (la Elli Zerboni e la INCET, solo per citarne alcune), temendo i danni arrecati dai bombardamenti, decidono di decentrare produzione e impianti in località minori ritenute più sicure, lasciando in città solo parte della lavorazioni.


Lo choc provocato dagli aerei inglesi fu uno dei punti che segnarono una delle svolte più grandi nel comportamento e nella vita degli abitanti. In momenti come quello, segnati dal terrore e da una situazione instabile, gli abitanti della città che non erano sfollati diedro vita a uno dei gesti di responsabilità e bontà d’animo più dimenticati dai resoconti del conflitto.
In quei giorni, nacquero difatti a Torino i primi orti di guerra, che sopravvissero fino alla fine dell’impegno bellico e alla successiva ricostruzione.
Questi orti non erano altro che un’idea semplice e allo stesso tempo geniale: sfruttare i maggiori parchi e giardini per la coltivazione di verdure e tuberi. La carestia e le difficoltà nei trasporti di cibo vennero combattuti da un’organizzazione profonda e socialmente sentita, che sotto volere ed aiuto del regime, fece resistere i torinesi nel periodo bellico.
La produzione agricola spostò quindi il suo baricentro: il parco del Valentino fu adibito alla coltivazione di patate, la piazza d’Armi a quella dei cavoli e le zone adiacenti gli stabilimenti industriali come Mirafiori, videro la comparsa dei cereali.
Come incoraggiamento e per celebrare la partecipazione attiva dei torinesi al sostegno della città, il governo organizzò addirittura una cerimonia di trebbiatura del grano degli orti di guerra, che si tenne a luglio del ’42 in piazza Castello, in presenza delle maggiori autorità dell’epoca.
A tal proposito Cesare Pavese nella sua "la casa in collina "dira' :"“Tutta una classe di persone, i fortunati, i sempre primi, andavano o se n’erano andati nelle campagne, nelle ville sui monti o sul mare. Là vivevano la solita vita. Toccava ai servi, ai portinai, ai miserabili custodirgli i palazzi e, se il fuoco veniva, salvargli la roba. Toccava ai facchini, ai soldati, ai meccanici. Poi anche costoro scappavano a notte, nei boschi, nelle osterie”.
Intanto i viveri erano razionati, le macellerie erano aperte un solo giorno alla settimana per distribuire la razione di carne.
Scarseggiano le sigarette e la popolazione le inventa con le cicche o con altra roba tipo foglie messe ad essiccare.
Un pacchetto di sigarette spetta anche a chi non fuma e se ne serve come merce di scambio. E' il tempo anche dei surrogati.
Non essendoci il caffe', si abbrustoliscono i chicchi di grano e altri cereali per chi riesce a reperirli anche sfruttando parentele ed amicizia di campagna.
In città la gente fu costretta ad inventarsi i generi di prima necessita', come il burro e il sapone poichè alla borsa nera i prezzi erano diventati esorbitanti e quindi inarrivabili. Spesso al posto del sapone , per lavare i panni si usava la cenere.
Nelle campagne la vita era un po' migliore, non solo perchè i bombardamenti erano quasi inesistenti, ma anche perchè qualche genere di prima necessita' era piu' reperibile.
La città di Carmagnola fu quella che accolse il maggior numero di sfollati, seguita da Carignano, Lombriasco, Poncalieri e San Bernardo.


I BOMBARDAMENTI E GLI SFOLLATI DI GENOVA

I Bombardamenti di questa città cominciarono il 14 giugno 1940. Nella notte dell'11 giugno, infatti, aerei britannici sganciarono 5 tonnellate di bombe su Genova, e lo stesso accadde la notte del 13 stavolta da parte di aerei francesi.
Negli anni successivi gli attacchi alla città divennero sistematici.
Il compito di colpire i centri liguri e quelli di tutto il resto della penisola toccò alle forze aereo-navali britanniche. Nella logica di queste azioni di bombardamento, i comandi inglesi decisero un'azione di forza contro le coste della città di Genova sia da mare che dal cielo.
Gli obiettivi iniziali del bombardamento furono i cantieri Ansaldo e le fabbriche che si trovavano sui due lati del torrente Polcevera, ma numerosi incendi e relativo fumo costrinsero gli inglesi a spostare il tiro sul bacino commerciale; altri colpi raggiunsero poi la centrale elettrica e i bacini di carenaggio ed infine fu colpita la nave cisterna Sant'Andrea che stava entrando in porto.



La logica perversa britannica, secondo la quale non bisognava solo colpire siti industriali o bellici, ma anche edifici residenziali per fiaccare l'animo degli abitanti, portarono anche alla distruzione di moltissimi edifici civili e storici come la cattedrale di San Lorenzo - nella quale un proiettile da 381 mm, dopo aver perforato due muri maestri, andò ad adagiarsi inesploso sul pavimento - la chiesa della Maddalena, l'Accademia ligustica, l'ospedale Duchessa di Galliera - dove trovarono la morte 17 ricoverate - alcuni palazzi all'inizio di via XX Settembre e l'Archivio di Stato. Una delle zone maggiormente colpite fu quella di piazza Colombo che poco dopo mutò il suo nome in "piazza 9 febbraio" per poi riprendere a guerra finita la vecchia denominazione
I danni materiali e sociali furono enormi; il comune dovette provvedere ad alloggiare presso alberghi e pensioni circa 2.500 senzatetto, erogando vitto ed alloggio per 2.781.218 lire, aiuti in denaro per 955.289 lire, vestiti, scarpe, indumenti vari per 692.044 lire, articoli da cucina e masserizie per 315.374 lire, affitti per 77.765; mentre dalla "Cassetta del Podestà" vennero raccolte 1.472.649 lire a cui si aggiunse un milione di lire di contributo disposto dallo stesso Mussolini. Decine di abitazioni del centro storico furono vittima di crolli anche posteriori al bombardamento.
Il morale dei civili divenne un obiettivo principale.
La convinzione che i bombardamenti i avrebbero avuto un effetto enorme sul morale di una popolazione trascinata in guerra contro voglia dal proprio regime
rimase una costante della politica britannica fino all’armistizio del 1943.
Mentre nel caso della Francia gli attacchi, in principio, erano limitati a obiettivi specifici legati all’occupazione tedesca e non ai civili francesi, nel caso delle città
italiane gli inglesi decisero da subito di colpire le popolazioni con l’intenzione di verificarne la resistenza psicologica.
E cosi' che una parte della popolazione decise di scappare dalla città, per raggiungere centri viciniori risparmiate dalle bombe.
Nel 1943 gli alberghi migliori sono requisiti dagli occupanti (La Kriegsmarine al Vittoria e l’esercito all’Eden), con l’eccezione del Savoia che, pur continuando a funzionare come albergo, ospita parecchi ufficiali tedeschi tra i quali il Maresciallo Kesserling e successivamente il generale Meinhold che firmerà l’atto di resa ai partigiani genovesi
Il Savoia si salva per merito del colonnello della marina tedesca Waldemar Lutje che insieme ad altri tre ufficiali (e attendenti) rimarrà al Savoia fino alla fine dell'occupazione tedesca. Agli ospiti, in massima parte sfollati da Genova, viene consentito di rimanere (unico caso a Nervi).
Durante la seconda guerra mondiale Nervi resta un’isola relativamente “felice” in quanto non viene mai bombardata pur essendo vicina a Genova. Scarseggia il cibo e l'accesso alla costa diventa molto difficile. La Passeggiata viene chiusa con filo spinato e in parte minata.
Molti genovesi benestanti e cittadini svizzeri si spostano negli alberghi di Nervi per godere di una maggiore sicurezza pur mantenendo la possibilità con il tram di lavorare in città.
In molte campagne liguri per combattere la fame, prima a seguito dei bombadamenti poi durante morsa dell’assedio nazista al territorio,si semina grano
anche due volte all’anno e si estendevano , dove possibile le coltivazioni di patate, castagne e ortaggi. Molti ripresero a fare mestieri antichi e ormai quasi abbandonati come i carrai, i mulattieri, i carbonai o i ferrai per nutrir le proprie famiglie, gli sfollati dalla città e i partigiani con i quali uomini e donne delle montagne e delle vallate della Provincia di Genova restarono sempre solidali, a ogni costo: li protessero nei venti durissimi mesi dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945, offrirono loro cibo e tetto, ne curarono e ospitarono i feriti ,seppellendo i morti.
continua








Edited by Pulcinella291 - 9/12/2016, 10:37
 
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Nel 1959 usciva il film "Arrangiatevi" di Mauro Bolognini. Film "Castigat ridendo mores", aveva come argomento principe la chiusura dei casini, in base alla legge Merlin, ma nel contempo evidenziava, 14 anni dopo la fine della II WW, il dramma della coabitazione dovuta proprio all'argomento base di questa nostra discussione.
Nel 1959 era in evoluzione il "Miracolo economico Italiano", ma, come detto, il dramma degli sfollati non si era ancora definitivamente risolto.

https://it.wikipedia.org/wiki/Miracolo_economico_italiano
 
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Effetti collaterali dovuti ad una guerra assurda, voluta da un'idiota
 
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per favore non aggiungere al primo post, ma continua aprendone uno successivo.

Molto, molto interessante, ma parlerai anche dei bombardamenti sistematici su Napoli?
 
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I Bombardamenti di Mestre e Porto Marghera


Durante la seconda guerra mondiale, il nodo ferroviario di Mestre e soprattutto le industrie di Porto Marghera erano obiettivi strategici, per cui tutte le aree abitate circostanti furono duramente colpite. Mestre fu presa di mira già nel 1940, da aerei francesi, che però provocarono danni lievissimi. Furono soprattutto gli Anglo-Americani, nella primavera del 1944, a bombardare Mestre, specie nella vasta zona compresa fra Piazza XXVII Ottobre e Catene. In tutta Mestre mille furono le abitazioni colpite, migliaia di persone rimasero senza casa. Anche i danni alle industrie furono ingentissimi. Il bombardamento peggiore fu quello del 28 marzo 1944, che causò 164 morti e 270 feriti. Ma i bombardamenti a Porto Marghera divennero frequentissimi e il pericolo era aggravato dal fatto che i rifugi antiaerei erano scarsamente sicuri e poteva essere più consigliabile cercare nascondigli nella campagna circostante.
Nel filmato del Cinegiornale dell’Istituto Luce che segue si vedono immagini girate inizialmente a poca distanza dalla stazione ferroviaria di Mestre, in Località Bandiera (la parte finale di via Cappuccina fino alla zona di Ca’ Marcello). Oltre alle case disastrate si riconoscono i locali della Ex Gil all’angolo con via Sernaglia. Nell’ultima sequenza si può intravedere in distanza un ancora spoglio Corso del Popolo (che si chiamava all’epoca Viale Principe di Piemonte) con i riconoscibilissimi profili di Palazzo Mantelli (all’angolo di via Tasso), dell’Asilo Notturno (nel corso del tempo più noto per aver ospitato le lezioni di Istituto Volta, Media Giulio Cesare ed una materna) e del Liceo Franchetti. Anche il rione Barche ed il quartiere popolare di Altobello subirono pesantissimi danni:

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Gli alleati sapevano che a partire dagli anni ‘30 in questa zona si era sviluppata l’industria metallurgica e dei materiali non ferrosi (alluminio e sue leghe, zinco) e venne realizzato un grande impianto per la produzione dell’ammoniaca sintetica per concimi azotati (utilizzando il gas di cokeria), a cui si aggiunsero stabilimenti alimentari.
Nel 1935 Marghera disponeva inoltre della più potente centrale termica d’Italia A fianco di queste attività si insediarono in quegli anni svariate produzioni minori (profumi e lenti per occhiali, tessitura feltri e lavorazione del malto per la birra) e imprese di servizi (tra le quali aziende di trasporto):ecco il motivo di tanto accanimento.
Le scuole furono chiuse e gran parte della popolazione fu costretta ad esodi presso le campagne dove il pericolo avrebbe dovuto essere un po’ minore, senza bombardamenti e senza quella continua, insidiosa guerriglia tra resistenti e truppe d’occupazione.
Si prendono in affitto appartamenti di fortuna e spesso si è costretti ad una forzata promiscuità.
La vita in campagna, pero', non è agra più di tanto, anzi, scorre tranquilla, quasi monotona, seguendo i ritmi della natura: si fa quasi tutto in casa, a cominciare dal cibo. Si abbrustolisce l’orzo per il caffè, si pigia l’uva per avere il vino, si spaccano i semi di ricino per fare il sapone; a volte, al mercato nero del paese (dove si trova sempre di tutto, anche i generi che sarebbero razionati, a patto di poter pagare), si scambia la farina con la pasta: ma più spesso il pane e la pasta li si produce in casa, ci si siede sul torchio e da sotto vengon fuori gli spaghetti.
Non saranno rari episodi di generosità contadina, elargita a piene mani.

continua
 
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view post Posted on 15/12/2016, 10:27
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I nuovi obiettivi dei bombardamenti




Il morale degli italiani cessò di essere un obiettivo degli anglo-americani dopo l’armistizio e l’occupazione tedesca dal settembre 1943, ma i bombardamenti alleati su obiettivi industriali, ora con il solo scopo di distruggerne le capacità produttive, continuarono.
Poichè , molte industrie erano state spostate nelle province vicine (un processo che era iniziato dopo gli attacchi dell’inverno 1942-1943 e che non fece che rallentare una produzione già provvisoria)
.


In seguito, le città sulla linea ferroviaria tra la Liguria, il Piemonte, la Lombardia, il Veneto e il Friuli divennero nuovi obiettivi.


Brescia,per esempio, fu bombardata nel 1944 e nel 1945 per il suo snodo ferroviario perché ospitava un distaccamento delle fabbriche d’armi milanesi Breda.
Verona,Vicenza, Padova, Treviso, Udine e Trieste furono pure bombardate ripetutamente tra il 1944 e il 1945. Poiché centrali elettriche, del gas e ferrovie erano vicine ai centri cittadini, questi attacchi causarono vittime in numero elevato: il bombardamento di Treviso nell’aprile 1944 fece 1600 morti


Due bombardamenti su Vicenza distrussero la cattedrale e uccisero 56 civili nel maggio 1944 e 317 in novembre.
Tutta la città è atterrita. Neanche un’ora dopo un falso allarme, questo sì dato efficacemente dalle sirene, fa trasalire di nuovo i vicentini, ma dopo due ore si torna faticosamente alla normalità. Che non sarà più la stessa. Vicenza deve imparare a convivere con le bombe, che saranno tante. La gente non ha mai visto tante distruzioni in una volta sola, e la curiosità è tanta.
Così anche il pranzo natalizio passa in seconda linea e la gente esce nuovamente di casa, arrivando a formare subito una colonna ininterrotta di persone che si snoda da Corso Fogazzaro per contrà Riale e ponte Pusterla, per recarsi vicino all’osteria “Alle Tre Bale” dei Giacomin dove sono cadute altre bombe. Poi, proseguendo (sempre a piedi) per porta San Bortolo e viale d’Alviano, si osserva una fabbrica per la lavorazione del ferro (Pozzan & Meggiolan) praticamente abbattuta.
La soddisfazione per aver conservato la vita i vicentini devono archiviarla in fretta appena tre giorni dopo: il 28 dicembre 1943. E’ la volta di Borgo Berga e dell’inizio del Viale Riviera Berica, Stradella dei Nani, Valletta del Silenzio, la Commenda. Alcune bombe cadono in Borgo Casale di fronte alla caserma della Milizia, presso lo Stadio, e una inesplosa viene poi trovata nel recinto del cotonificio Rossi. Non è una grande incursione ma i morti sono 41, fra cui cinque soldati italiani. I feriti ricoverati all’Ospedale S. Bortolo 53.


Il 29 il comune fa affiggere un manifesto:
"Cittadini, la pace della sepoltura non aveva ancora accolto le salme dei caduti per la prima incursione, quando la furia assassina del nemico, che non aveva esitato a profanare la santità del Natale, si abbatteva nuovamente sulla nostra città cercando, come sempre, le sue vittime fra le creature più innocenti, operai, donne, fanciulli. Stringiamoci ancora una volta attorno alle famiglie dei colpiti, con quella umana solidarietà e cristiana fratellanza di cui la nostra città ha già saputo dare una prova luminosa. E il nostro fiero dolore che non ci abbatte, ma ci purifica, tempri i nostri cuori e sia monito al nemico”.
Il 26 marzo 1944 alle ore 21,30 il terrore ritorna dal cielo.Particolarmente colpita la zona a sud della città con lancio di bombe dirompenti (oltre un centinaio) e di spezzoni incendiari (alcune migliaia). Immobili distrutti totalmente o parzialmente 69 fra cui le ville Clementi, Piovene e Valmarana, il Cotonificio Rossi, la provvida delle F.F.S.S., ecc. Le vittime furono 14, i feriti una ventina. Gli incendi circa trenta. Il bombardamento contrastato da un violento fuoco dell’artiglieria controaerea durò 36 minuti”.
Ormai il tono dei rapporti del Comune alla Prefettura diventa monotono: i morti, le case distrutte, i senza tetto, i feriti. E’ una città che non si riconosce più, che perde la sua fisionomia, il suo modo di vivere normale. Le grandi “R” nere in campo bianco rappresentano il rifugio per la gente ma anche la tomba, visto che in alcuni casi il risultato é peggiore che sostare all’aperto nascosti in qualche buca. Comunque si deve continuare a vivere e i vicentini non sono da meno degli altri abitanti della provincia o delle altre città italiane.
Spariscono edifici di rara bellezza architettonica o di valore storico: il Duomo è distrutto, il Vescovado pure. L’Arco delle Scalette è a terra; Viale Roma, con l’Albergo Terminus e la vecchia Cavallerizza dei Nobili (cinema Palladio), è tutto una rovina; il deposito FIAT di Giurietto & Ferretto è un ammasso di auto contorte



Il Bombardamento di Trieste


il 10 giugno 1944, settant’anni fa, i bombardieri alleati del 47th e 55th Bomb Wing, e del 449th e 450th Bomb Group, scortati dai caccia, da una quota intorno ai cinquemila metri sganciarono 400 bombe dirompenti e incendiarie su Trieste provocando 463 vittime, 800 feriti ricoverati e 1.500 medicati, 101 case private e due edifici pubblici distrutti e oltre 4.000 sinistrati. Le bombe ridussero in macerie la Chiesa della Madonna delle Grazie in via Rossetti, e danneggiarono seriamente la raffineria Aquila, lo Scalo Legnami, la zona di San Sabba, il Magazzino Sali Deposito Monopoli di Stato e lo stabilimento Omsa, per non parlare del cantiere San Marco, dell’Arsenale Triestino e di molti altri impianti industriali.


Edited by Pulcinella291 - 15/12/2016, 10:43
 
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I Bombardamenti sul Livorno


Durante la seconda guerra mondiale Livorno ha subito, infatti, oltre 1000 allarmi bombardamento e circa cento bombardamenti aerei. I bombardamenti vennero effettuati da parte dell'aviazione americana con i bombardieri B-17, dall'aviazione francese con gli aerei Amirot, dall'aviazione inglese con i quadrimotori Avro Lancaster e dall'aviazione tedesca. Livorno è stata una delle città italiane più disastrosamente colpite dalla guerra. I bombardamenti erano iniziati nel 1940 da parte dell'aviazione francese con risultati modesti. Proseguirono dal 9 al 13 luglio 1944 con incursioni diurne da parte degli americani e notturne da parte degli inglesi. Solo dal 1943 iniziò la sistematica distruzione della città con i bombardamenti a tappeto.


La scarica delle bombe, giudicata complessivamente dalle autorità prefettizie intorno alle 180 tonnellate, viene fatta ricadere sugli obiettivi in due ondate a distanza di circa 30 minuti l’una dall’altra; ad essere colpiti gravemente sono inoltre i fabbricati della dogana, i magazzini generali, il distretto militare e la caserma di finanza, stanziati lungo il molo Mediceo, oltre a tre siluranti; l’esplosione di una carica di munizioni provoca l’incendio di tre navi mercantili e di un piroscafo. La caserma dei carabinieri e il Comando Tappa tedesco sono completamente distrutti.


La zona industriale, fonte dell'economia della città, fu distrutta dai bombardamenti. La produzione industriale cessò quasi completamente e in seguito gli stabilimenti furono requisiti dal governo militare alleato. Dopo la derequisizione 11 stabilimenti che davano lavoro a oltre 4000 persone non furono riaperti.[11]

Questa parte di Livorno era stata concepita con un piano estremamente ambizioso. La zona industriale fu istituita ai fini di assicurare alla città un'attrezzatura industriale capace di assorbire in modo stabile la popolazione attiva in continuo aumento, tale da costituire il naturale consolidamento di una situazione evolutasi da prima per la trasformazione delle basi economiche di Livorno, precedentemente formate sul commercio e sui traffici.


Per operare in modo snello fu creata la società "Porto Industriale". Da questa iniziativa sorsero in quest'area numerosissimi stabilimenti per industrie meccaniche, metallurgiche, chimiche, combustibili, vetro, ceramiche, refrattari ecc che davano occupazione a più di 8000 dipendenti.
Il cantiere navale di Livorno venne distrutto dalle mine dei tedeschi; si salvarono solo pochi macchinari e una gru. Gli operai del cantiere, una volta tornati a Livorno, si dedicarono alla rimozione delle macerie e alla sua riattivazione.

Gli sfollati di Livorno
Le devastazioni provocarono decine e decine di migliaia di sfollati che affrontarono un’esistenza grama e insicura sparpagliandosi nelle campagne toscane. Gli sfollati, i fuggiaschi ditutte le epoche e di tutti i paesi si assomigliano: masserizie caricate su carretti di fortuna, famiglie che si affollano sui treni e sugli autobus, spesso su camion di fortuna, bambini e vecchi scarmigliati, stanchi, affamati.


Anche qui,come per altre citta', a seguito di questa incursione, iniziano i piani di sfollamento dalla città, gestiti in prima battuta dai gruppi rionali fascisti che “spingono gli sfollati verso le località periferiche e particolarmente verso Montenero, Pian Di Rota, Collesalvetti e frazioni”, dove vengono organizzati i primi servizi di alloggio,
vettovagliamento ed assistenza. Sono circa 15.000 gli sfollati che abbandonano Livorno con mezzi di fortuna per dirigersi verso le campagne limitrofe alla città; ed è qui che si nota subito una difficoltà di integrazione della popolazione, come segnalano in quei mesi i rapporti della Questura di Livorno, a proposito della denuncia di danni e furti nelle campagne ad opera degli sfollati.
.ontinua
 
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view post Posted on 21/12/2016, 12:14
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Grosseto bombardata:una strage di bambini


Era Il 26 aprile del 1943quando la città di Grosseto, per la prima volta, veniva bombardata dall’aviazione anglo-americana. Era il giorno di pasquetta, morirono 134 persone tra cui tantissimi bambini che stavamo giocando nel parco dei divertimenti fuori Porta Vecchia.
Ne avrebbe subiti altri 18, ma questo sarà sempre ricordato per il tragico prezzo di vite civili che costò. Morirono infatti 134 grossetani, tra cui decine di bambini uccisi mentre stavano giocando sulle giostre di un Luna Park situato appena fuori Porta Vecchia. L’attacco, condotto da 48 fortezze volanti americane, colse del tutto di sorpresa la popolazione e in pochi riuscirono a trovare riparo nei rifugi anti-aerei. Sulla città vennero scaricate quasi 400 bombe da 300 libbre e circa 2000 bombe a frammentazione, le cosiddette cluster bombs (clusters era il nome dei contenitori cilindrici che si aprivano a comando e che contenevano spezzoni dal peso di 20 libbre).Durante l'incursione aerea fu abbattuto un aereo statunitense i cui piloti, pur riuscendo a mettersi in salvo, rischiarono il linciaggio da parte di alcuni familiari delle vittime, inferociti per l'inspiegabile azione bellica subita che comportò l'uccisione di persone civili inermi.
L’obiettivo degli americani era mettere fuori uso l’aeroporto militare e in particolare distruggere una scuola di addestramento per piloti di velivoli aerosiluranti che i tedeschi avevano creato nel 1942 proprio all’interno dell’aeroporto. Secondo le valutazioni dell’intelligence alleata questa scuola era il più importante centro logistico presente sul territorio italiano per la pianificazione degli attacchi con mezzi aerosiluranti contro i convogli navali statunitensi. Gran parte delle informazioni su questa scuola di addestramento, agli Alleati le aveva fornite un prigioniero di guerra tedesco che era stato catturato nell’autunno 1942 e che per diversi mesi aveva lavorato dentro all’aeroporto maremmano.
Questo era l’attacco programmato, ma durante il suo svolgimento 19 aerei del 301 B.G. armati di bombe a frammentazione devastarono il centro cittadino causando una paurosa strage di bambini che erano intenti a giocare sulle giostre di Piazza De Maria. Come facile intuire, ai soccorritori si presentò una scena da incubo, con i corpicini martoriati dei bimbi che vennero pietosamente recuperati e, solo quando possibile, ricomposti. I cadaveri vennero in parte accatastati nel vecchio ospedale, mentre altri furono messi sotto i portici del Comune.
Il 20 maggio 1943 fu colpito e gravemente danneggiato l'Aeroporto di Grosseto, ove morirono più di 1.600 militari, molti dei quali tedeschi. Tale evento non comportò tuttavia vittime tra i civili. L'infrastruttura aeroportuale militare fu bombardata nuovamente dopo quasi tre mesi nella notte di Ferragosto.

Di impatto ben più grave per la popolazione grossetana furono, invece, i bombardamenti del 21 luglio che colpirono numerosi edifici e case del centro storico, del 9 settembre nell'area della Stazione di Grosseto, oltre ad un'altra serie di attacchi aerei, ben dodici, che colpirono la città tra i successivi mesi di ottobre e novembre.
Quest'ultima serie di eventi bellici costrinse la maggioranza della popolazione a trasferirsi dalla città verso le campagne e i piccoli centri dell'entroterra, anche a causa dei gravi danni subiti dalla rete idrica e dalle linee elettriche e ad una carestia che si protrasse anche negli anni successivi .

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1944:i bombardamenti su Macerata e provincia


La città di Macerata fu occupata dalle truppe tedesche il 16 settembre 1943. L’azione si svolse senza incontrare una rilevante opposizione: la maggior parte dei soldati erano fuggiti dalle caserme abbandonando armi e munizioni. Alcuni tentarono di far ritorno a casa, altri cercarono rifugio in luoghi collinari e montani, ritenendoli più sicuri. Per di più a Macerata fu posto il comando militare con sovranità su tutta la regione, visto che negli ultimi mesi del ‘43 Ancona era stata soggetta a continui bombardamenti aerei. Da quel momento fino a giugno del 1944 Macerata divenne il principale centro regionale di irradiamento dell’occupazione tedesca.
Sino ad allora Macerata aveva vissuto ai margini della guerra, anche se c’erano famiglie in lutto per i loro caduti al fronte; Ancona e Porto Civitanova subivano bombardamenti dei quali si potevano udire i paurosi boati; si sapeva di stragi, fucilazioni e combattimenti in montagna, fra partigiani, tedeschi e fascisti; poi all’improvviso, in venti minuti di schianti di bombe, spari di mitragliatrici e rombo di aerei, che si buttavano in picchiata, la città conobbe il volto più tragico e straziante della guerra, e ne restò annichilita.
In aprile gli alleati iniziarono i bombardamenti su Macerata con il proposito di colpire il comando tedesco, alleviare la pressione dei rastrellamenti contro i partigiani sulle montagne e permettere la fuga di un gruppo di ufficiali alleati, rinchiusi nel carcere maceratese. Gli obbiettivi militari erano decentrati in varie parti della città, in zone molto vicine all’abitato civile. Pertanto anche avendo l’intenzione di colpire esclusivamente zone di interesse militare e di evitare vittime civili, ciò sarebbe risultato praticamente impossibile. I rifugi antiaerei erano dislocati in tutta la città tuttavia, dato che erano situati nei locali bassi di edifici di notevoli dimensioni, la loro sicurezza era piuttosto relativa. Nell’aprile 1944, la capienza totale dei rifugi pubblici fu di cinquemilatrecento persone.
Nei primi mesi del 1944 imponenti formazioni di aerei dirette a nord sorvolavano spesso i cieli di Macerata. La città conobbe tuttavia il terrore e la distruzione solo la mattina del 3 aprile. Erano le nove e venticinque quando suonarono le sirene dell’allarme antiaereo. Trentacinque aerei decollati da Campobasso attaccarono la città, mitragliando e sganciando bombe da una quota di circa quattrocentocinquantametri. Alcuni mirarono al palazzo della Prefettura, altri alla Casa del fascio, altri ancora alla Caserma Castelfidardo, al palazzo Conti, al Distretto militare e alle Casermette. Fu centrato solo uno degli obbiettivi: la caserma Castelfidardo. Eppure, causarono distruzioni in numerose vie cittadine, provocarono ingenti danni e un enorme dolore in tutta la città. Morirono centodieci civili e quindici militari. Sebbene sia stato il più drammatico, il bombardamento del 3 aprile non fu l’unico: seguirono quello del 2 giugno, che provocò la morte di quattro persone, e quello del 14 giugno, in cui vi persero la vita altre undici. Tra le vittime anche donne, anziani e bambini – e causò sofferenze e mutilazioni a molte altre persone.
LE CONDIZIONI DELLA POPOLAZIONE
Le condizioni economiche e sociali della popolazione maceratese nel corso dell’inverno 1943-44 si fecero molto gravi. In particolare, divenne preoccupante la situazione degli approvvigionamenti: i beni di prima necessità scarseggiavano e il mercato nero proliferava. Inoltre i prezzi di calmiere dei principali beni subirono in tre anni un aumento del 200%, mentre nello stesso periodo i salari aumentarono solo del 50%. La situazione economica e industriale si aggravò anche per la tendenza da parte delle aziende a chiudere gli stabilimenti o sospendere il lavoro. Mentre in città la popolazione visse dei prodotti distribuiti con le carte annonarie, nelle zone rurali l’approvvigionamento fu un problema minore rispetto ad altri, come la mancanza dell’energia elettrica o di sementi, mangimi e fertilizzanti necessari all’agricoltura
 
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Bombardamento di Pescara:una carneficina



Il 31 agosto ed il 14, 17 e 20 settembre del 1943, Pescara è stata oggetto di pesanti bombardamenti da parte delle forze alleate che hanno causato la morte di almeno 3000 persone (varie fonti indicano anche un numero di 6000 caduti) e la distruzione di 1265 edifici, il grave danneggiamento di 1335 oltre quello lieve di 2150[1] costruzioni del centro abitato (un totale pari a circa l'80% degli edifici della città) che circondava la stazione e la linea ferroviaria - unici veri obiettivi dei bombardamenti.La maggior parte delle vittime furono anziani, donne e bambini. Furono colpite la Questura, le Poste e l’attuale sede dell’Istituto Acerbo, allora adibita a caserma per allievi piloti; tra questi ultimi si registrò una cinquantina di morti, a causa di una bomba caduta sull’edificio per uno dei tanti “errori” dei piloti statunitensi. Intere famiglie, che erano riunite in casa per il pranzo, furono cancellate. Inoltre, venne colpita una fabbrica di vernice, da cui si sprigionò una nube tossica che rese l’aria irrespirabile in alcune zone della città.


Nella sostanza, la parte a nord del fiume, che al tempo circondava la stazione ferroviaria e che fiancheggiava la linea ferroviaria ed il porto, fu rasa al suolo determinando la fuga di massa dei cittadini di Pescara verso i paesi dell'entroterra. Infatti, i bombardamenti del 17 e, soprattutto, del 20 settembre, causarono poche vittime civili poiché la città era stata abbandonata e molti sfollarono nella città di Chieti - dichiarata città aperta- e presso i dintorni di Pianella.
Tra i superstiti, tutti sotto choc, si registrarono diversi casi di isteria. Il 3 settembre fu ordinato lo sgombero della popolazione per permettere un più rapido ripristino dell’acqua, della luce e del gas e per procedere alle disinfezioni necessarie. I resti spappolati, le carni non ricomponibili e le ossa vennero accatastati e dati alle fiamme. Diversi cadaveri vennero rinvenuti sotto le macerie anche a distanza di anni. Immediatamente dopo i bombardamenti, di tutti coloro che sopravvissero e furono costretti a “sfollare” nei Paesi del nostro generoso e stupendo appennino dove trovarono ospitalità e sostegno centinaia di persone .
Arrivarono poi i saccheggi sia da parte dei tedeschi che con i loro automezzi caricarono biancheria, suppellettili e quant’altro, sia da parte dei civili che saccheggiarono la Biblioteca provinciale e la casa natale di Gabriele D’Annunzio.
Ai danni delle bombe si aggiunsero quelli prodotti dalle mine sistemate dai tedeschi e fatte saltare al momento della ritirata come difesa contro un eventuale sbarco nemico.
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Il bombardamento di Roma


Il 19 luglio 1943 Roma viene bombardata per la prima volta. Lo stesso giorno in cui si tiene il Convegno di Feltre, nel quale Mussolini e Hitler discutono della situazione nel teatro di guerra del Mediterraneo, con particolare riguardo agli avvenimenti del fronte italiano, l'aviazione alleata compie la prima incursione aerea su Roma con settecento fortezze volanti. Il bombardamento della Capitale produce molti danni e molte vittime nel popoloso quartiere Tiburtino. Subito dopo l'attacco aereo, mentre si provvede ai primi soccorsi ed alle ricerche fra le macerie, nessuna delle autorità fasciste si reca nei quartieri colpiti. Ciò è spiegabile con il loro timore di confrontarsi direttamente con una popolazione esasperata e costituita in gran parte da operai ed edili.


Soltanto il papa Pio XII si porta nei quartieri colpiti cercando di portare solidarietà e conforto ad una popolazione prostrata.
I bombardieri restano sul cielo della città per oltre sei ore, sganciando su di essa tonnellate e tonnellate di bombe. I danni arrecati alle installazioni ferroviarie ed a tutti quegli obbiettivi che potevano in qualche modo rivestire importanza ai fini strategici, sono relativamente trascurabili a confronto di quelli subiti dai palazzi, dalle chiese, dagli ospedali, sventrati senza alcuna discriminazione. Il bombardamento a tappeto per la sua stessa natura non può fare distinzioni di sorta, e non ne fà. Le perdite subite dalla popolazione civile sono elevate e costituiscono un brusco e doloroso risveglio per quanti sperano di essere immuni dalle offese dall'aria, dato il carattere particolare della città e la vicinanza del Vaticano. Le zone di Roma più colpite dalla tremenda incursione del 19 luglio sono i quartieri popolari del Tiburtino e di S. Giovanni. In stridente contrasto con tutte le promesse già formulate, gli anglo-americani portano così la morte e la distruzione fra la gente più povera e più umile di Roma. Ma i futuri liberatori si prefiggono lo scopo di fiaccare la resistenza morale del popolo italiano e perciò tendono a troncarla alla base.



Il cimitero del Verano è devastato con molte tombe sventrate e cadaveri sparsi per tutto il plesso, così come è sventrata la Basilica di San Lorenzo fuori le mura. Viene colpito anche l'ospedale Regina Elena. E' solo l'inizio, Roma subirà diversi bombardamenti che distruggeranno parecchi quartieri di nord-est.
Su Roma muoverà la flotta aerea più potente che si sia mai mossa nei cieli italiani: 930 velivoli, 662 bombardieri scortati da 268 caccia Lightning che scenderanno spesso a bassa quota mitragliando i grandi slarghi, piazzale del Verano, largo Preneste, piazzale Prenestino. Sulla città in poco più di due ore vengono sganciate 1.060 tonnellate d’esplosivo, 4.000 fra bombe dirompenti e spezzoni incendiari: la maggiore incursione compiuta sino a quel momento sull’Italia anche come tonnellaggio, la più tragica come numero di vittime. Gli aerei statunitensi rientrano alle basi avendo subito una sola perdita, tre gli aerei da caccia italiani abbattuti.
Il 13 agosto 1943, alle 11 precise, Roma è bombardata per la seconda volta: 409 aerei tra bombardieri e caccia, decollati dagli aeroporti della Tunisia, dell’Algeria, ma anche da Pantelleria, passano sulla città a varie quote e in un’ora e mezzo scaricano 500 tonnellate di esplosivo. Alle 12,33 suona il cessato allarme. L’attacco si concentra sui quartieri Tuscolano e Casilina ma Portonaccio e San Lorenzo vengono anch’esse colpite duramente. Le vittime saranno circa 500. Roma è bombardata dagli Alleati altre 51 volte dopo il 13 agosto. Dall’ottobre 1943 i bombardieri che effettuano le incursioni su Roma decollano dagli aeroporti della Capitanata, intorno a Foggia. Quello del 14 marzo 1944 nelle zone del Nomentano, del Prenestino, e Italia può essere considerato il terzo bombardamento per tonnellaggio di bombe e per numero di vittime. Nel bombardamento del 3 marzo 1944 al Tiburtino avviene una delle stragi più terribili: una bomba centra il ricovero antiaereo di un edificio al numero 364 di via Tiburtina dove si sono rifugiati 200 operai della vicina fabbrica “Fiorentini”.


I vigili del fuoco ci metteranno tre giorni per estrarre le salme, alla fine allineeranno 189 bare sul marciapiede. L’ultima incursione è del 3 giugno 1944, quando viene attaccata una colonna di automezzi tedeschi nella zona Casilina. Il 4 giugno Roma è liberata.

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Perdonerai la mia profonda ignoranza sulla materia interessantissima, e vorrei delle spiegazioni e precisazioni.

Premesso che l'8 settembre del 1943 l'Italia firmò l'armistizio (la resa...) agli alleati, com'è che questi continuarono a bombardare l'Italia, e sopratutto Roma che,

fu dichiarata unilateralmente città aperta il 14 agosto 1943, ma solo dalle autorità italiane: i tedeschi, di fatto, non ratificarono mai la dichiarazione, e approfittarono invece della ritornata tranquillità dopo le resistenze iniziali all'occupazione. L'occupazione tedesca di Roma città aperta, infatti, se risparmiò (da parte tedesca) il patrimonio storico e architettonico della città, fu però durissima per la popolazione (deportazioni di militari italiani e degli ebrei, la prigione di via Tasso, le Fosse Ardeatine, ecc.). Le forze alleate entrarono nella capitale italiana nel giugno 1944.https://it.wikipedia.org/wiki/Citt%C3%A0_aperta

magari era più logico che a bombardare fossero i tedeschi...

Ciò detto, hai iniziato, a mio avviso, al contrario, partendo dal nord Italia, perchè, suppongo, che dopo il 30 settembre del 1943, Napoli non sia stata più bombardata ne dagli 'alleati' ne dai tedschi, o sono in errore?

E qua stiamo parlando di bombardamenti del 1944, ed anche 45'...(non per Roma)
 
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Egregio, fino all'armistizio si comprende il perché dei bombardamenti.Dopo il nostro paese si trovò ad essere militarmente occupato da quelli che erano gli ex camerati,gli anglo americani bombardavano le città avamposti dei crucchi. Al nord invece,si bombardava poiché c' era ancora la repubblica di Salò.
 
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Cassino:un bombardamento inutile



La mattina del 15 febbraio del 1944, 142 bombardieri pesanti e 114 medi distrussero l'antica abbazia di Montecassino. Le potentissime bombe sganciate sul venerabile edificio lo ridussero a un cumulo di macerie. Il massiccio bombardamento a tappeto uccise un gran numero di civili che avevano cercato rifugio nel monastero e ancor più numerosi tedeschi nelle postazioni sui colli circostanti, oltre a quaranta uomini della divisione indiana nei loro rifugi lungo il fianco della montagna. Il monastero non esisteva più m si poteva evitare questa carneficina e la distruzione di un monumento cosi' importante, nonchè uno dei monumenti della cristianità ? Ma vediamo qual'era la situazione sul campo.
le forze alleate sono inchiodate sul fronte di Cassino dalle truppe tedesche e non riescono ad avanzare di un solo metro. La "linea Hitler" o "sbarramento Senger", costruito dalle truppe del Terzo Reich tra i monti Aurunci e la valle del Liri, bloccava il nemico che si scontrava ripetutamente contro di essa con numerosi attacchi, respinti con notevoli perdite. Si sarebbe potuto aggirare subito l’ostacolo con una manovra avvolgente, secondo il piano del generale francese Juin, ma il comando supremo alleato si volle scontrare con il muro di Cassino. A nulla era servito lo sbarco ad Anzio e Nettuno, sulle cui spiagge era rimasto fermo il contingente guidato dal generale americano Lucas, un "re tentenna" colpevole di non aver lanciato subito l’offensiva verso Roma per spezzare le retroguardie tedesche.
Ma l’errore più grave, che costerà un tributo altissimo di sangue per le forze alleate, fu il bombardamento dell’abbazia e dell’abitato di Cassino, le cui macerie rallentarono notevolmente la spinta offensiva delle truppe attaccanti. La distruzione del monastero fondato da San Benedetto nell’Alto Medioevo fu chiesta a gran voce dal generale sir Bernard Freyberg,




comandante del corpo d’armata neozelandese, comprendente la 2a divisione di fanteria della Nuova Zelanda, la 4a divisione di fanteria indiana e la 78a divisione di fanteria britannica. I neozelandesi avevano sostituito la 36a divisione americana, utilizzata negli attacchi alla cittadina laziale, mentre gli indiani avevano dato il cambio alla 34a divisione americana (detta dei "Red bull", Tori rossi) impegnata nel nord del fronte. Entrambe le unità Usa erano state decimate dagli attacchi contro i tedeschi, che non avevano modificato il dispositivo difensivo. Quest’ultimo era composto dalla 15a Panzergrenadier, appoggiata dal grosso dell’artiglieria del XIV Panzercorps, forte di 180 cannoni, un consistente numero di carri lanciarazzi Nebelwerfer e una sessantina di carri armati Panther e Tigre. I difensori erano agevolati nel loro compito dal territorio impervio, costituito da rocce brulle presenti in modo particolare sul colle dell’abbazia.
Tuttavia Freyberg pensava di riuscire ad accerchiare il nemico, tramite una manovra a tenaglia condotta a nord dalla divisione indiana, che avrebbe dovuto conquistare il colle dov’era situata l’abbazia, mentre i neozelandesi avrebbero conquistato l’abitato di Cassino. Le sue truppe vittoriose avrebbero scacciato i tedeschi e li avrebbero incalzati sino ad Anzio a Nettuno, dove si sarebbero ricongiunte con l’armata alleata rimasta ancora inchiodata sulla spiaggia. Per portare a termine il suo piano, il generale neozelandese pretese la distruzione del monastero, che sovrastava la cittadina e la valle del Liri a 519 metri d’altezza. Secondo Freyberg, i tedeschi avevano installato un osservatorio di artiglieria all’interno dell’abbazia, costituito da canoni di grosso calibro, e di conseguenza il celebre monumento medioevale doveva essere polverizzato tramite un massiccio attacco aereo. A nulla valsero le proteste del generale Mark Clark,




comandante della 5a armata americana, che considerava il bombardamento del simbolo della regola benedettina "ora et labora" un vero e proprio atto vandalico. E Clark aveva ragione.
E’ stato infatti provato più volte che alla vigilia del 15 febbraio c’erano nei pressi dell’abbazia soltanto tre soldati tedeschi di guardia, incaricati proprio di interdire l’accesso alle truppe naziste. Quindi non c’era nessun militare all’interno delle mura benedettine: non c’era quindi alcun motivo per distruggere il monastero. Freyberg era incalzato dal pessimo umore dei suoi soldati, che ritenevano di essere "spiati" e colpiti dall’artiglieria tedesca presente nello storico edificio benedettino. Nel suo libro di memorie, il maggiore medico americano Luther Wolff impegnato con il suo ospedale da campo nei pressi di Montelungo (situato ai confini della Campania, non lontano da Cassino, dove pochi mesi prima gli italiani del corpo di liberazione avevano combattuto per la prima volta contro i tedeschi), in cui si curavano i soldati alleati feriti al fronte, riferisce di un episodio particolare. "I fanti feriti che arrivano da noi ci dicono che stanno prendendo una batosta terribile per tentare di salvare l’abbazia di Montecassino e tutti sono furiosi perché i pezzi grossi vogliono risparmiarla. Dovremmo superare questo fair play sentimentale. I feriti sono tutti d’accordo: bisogna distruggere il monastero".
Gli alleati non sapevano, dunque, nulla di Montecassino e forse non sapevano nemmeno con che tipo di esplosivo colpirlo. Per fortuna Tucker lesse attentamente il libro e comprese che il monastero aveva mura enormi, profonde 30 metri e alte 5 metri, ed era strutturato come una fortezza.Comprese quindi che poteva essere attaccata soltanto con bombe dirompenti ad alto potenziale



La distruzione totale del monastero era stata dunque decretata.
L’ultima difesa era stata affidata al generale Clark, che considerava il bombardamento di uno dei monumenti della cristianità come un atto di vandalismo e non lo considerava un obiettivo militare. Il generale americano riuscì a frenare solo momentaneamente la richiesta folle di Freyberg, poiché il II corpo d’armata americano aveva sulla collina di Montecassino un battaglione, che attendeva di essere sostituito dalla 4a divisione indiana. I soldati americani erano infatti troppo vicini all’abbazia, all’interno della linea dell’area definita "linea di sicurezza dalle bombe". Clark approfittò di questa situazione per temporeggiare e cercare di tenere a bada Freyberg, finché il corpo di spedizione neozelandese non avesse assunto la piena responsabilità del fronte. Ma davanti alle insistenze di Freyberg, che non voleva deprimere ulteriormente il già basso morale delle sue truppe, Clark dovette arrendersi e lavarsi le mani del bombardamento dell’abbazia. Lasciò la patata bollente nelle mani dell’inglese Alexander, che assecondò senza indugio la richiesta di Freyberg.
Nelle sue memorie, Alexander, giustificò così la distruzione del convento benedettino. "Quando i soldati si battono per una giusta causa – scrisse il generale inglese - e sono pronti a morire o a subire mutilazioni, i mattoni e la calce, per quanto venerabili, non possono più avere valore delle vite. Un buon comandante deve tenere conto del morale e dei sentimenti dei suoi uomini e, cosa non meno importante, i combattenti devono sapere che le loro vite sono nelle mani di un uomo nel quale possono avere una fiducia totale. Com’era possibile permettere che restasse in piedi una simile struttura, dominatrice del campo di battaglia? L’abbazia deve essere distrutta".
I tedeschi salvarono molte opere d'arte
Il comandante tedesco del fronte di Cassino, generale Frido von Senger und Etterlin,




cattolico devoto e per giunta terziario benedettino, aveva già cercato durante le settimane precedenti di convincere l’ottantaduenne abate Gregorio Diamase e i monaci ad abbandonare il monastero. I religiosi avevano rifiutato: tuttavia, numerose opere d’arte e tesori di valore inestimabile erano stati trasportati dai tedeschi a Roma, proprio in considerazione che l’edificio religioso poteva subire danni molto gravi. Il pericolo era divenuto realtà e il generale von Senger mise a disposizione i mezzi di trasporto per evacuare quanti si trovavano ancora nel monastero. L’abate e alcuni monaci non vollero però abbandonarlo e restarono all’interno della cripta.
Comincio' il bombardamento
Dagli aeroporti di Napoli e Foggia decollarono attorno alle 9,00 gli aerei alleati. Iniziarono la "festa" 142 quadrimotori, le celebri fortezze volanti B 17, che lanciarono su Montecassino e sulla città sottostante 450 tonnellate di bombe esplosive e incendiarie da alta quota. Una seconda ondata di altri 118 B 17 colpì ancora il monastero e sventrò la martoriata Cassino. Completarono l’opera altri attacchi condotti da bimotori B 25, B 26 e A 36 che sganciarono gli ordigni a un’altezza più bassa. In totale, furono 776 gli apparecchi impiegati. A mezzogiorno e mezzo, ben 746 pezzi di artiglieria vomitavano fuoco sulla cittadina laziale, disintegrandola completamente.




La distruzione dell'abbazia fu un atto vandalico inutile?
Lasciamo al lettore ogni valutazione , anche se ci sembra doveroso precisare che in realtà i tedeschi non si erano mai installati nel monastero, avevano anzi piazzato alcune sentinelle sul portone principale con l'ordine categorico di impedire l'accesso ai militari. Questo picchetto di tre uomini della Feldgendarmerie, la polizia militare tedesca, fu tolto alla fine di Gennaio, ma non sembra che le cose fossero cambiate nelle settimane successive. "Dopo che il Feldmaresciallo Kesselring ebbe interdetto la zona intorno all'Abbazia" afferma Bohmler, "soltanto i seguenti militari penetrarono nel convento: il Generale Senger nel giorno di Natale 1943 per assistere ad una funzione religiosa nella cripta; il medico di Stato Maggiore Dottor Puppel, Ufficiale Sanitario del 1° Battaglione Paracadutisti con due infermieri, quando, tra il 10 ed il 14 Febbraio fu chiamato dai monaci per curare gli sfollati colpiti da un'epidemia di paratifo.
L’ultimo soldato tedesco entrato nel convento, prima del bombardamento, fu il Tenente Deiber, anche lui invitato dai monaci
 
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view post Posted on 2/1/2017, 12:21
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Gli Angloamericani per provocare un rivolgimento interno o un crollo sottoponevano l'Italia e la Germania ad incessanti e sempre crescenti bombardamenti aerei. Proprio per questo,la nostra citta'durante tutta la seconda guerra mondiale si trovò ad essere un obiettivo strategico importantissimo. Il porto di Napoli era infatti uno dei capolinea delle rotte marittime verso la Libia italiana, oltre ad essere uno dei principali centri industriali e di vie di comunicazione del meridione d'Italia. Importante anche la presenza della flotta militare, che nel porto di Napoli trovava ulteriori spazi che le mancavano a Taranto e La Spezia.


Il primo bombardamento aereo a Napoli (dopo diverse ricognizioni aeree) si ebbe il 1 novembre 1940 e da allora è stata la città italiana maggiormente danneggiata dai bombardamenti durante il secondo conflitto mondiale. Porto principale verso l’Africa e capolinea delle rotte marittime verso la Libia, Napoli e le sue zone limitrofe ospitavano industrie di interesse strategico, sia civili che militari come il silurificio di Baia, le officine Avio di Pomigliano,i Cantieri Navali, le industrie della zona di Poggioreale, l’ILVA di Bagnoli ed innumerevoli altre. Ben 24.000 bombe furono sganciate in circa 150 incursioni che provocarono 22.000 morti e distrussero 252.000 vani, pari al quaranta per cento del patrimonio abitativo della città.Il bilancio non fu definitivo, perché nel dopoguerra gli edifici continuarono a crollare fino alla fine degli agli anni ’50; dissesti e voragini si verificarono nel sottosuolo che era stato sconvolto dagli scoppi che ne avevano modificato in peggio l’assetto idrogeologico. I primi obiettivi furono essenzialmente il porto e le navi, con le appendici della zona industriale orientale, dei Granili, di San Giovanni a Teduccio e, ad occidente, di Bagnoli e Pozzuoli. È da notare che in questo periodo la città non era assolutamente attrezzata per resistere ad attacchi di tale genere: mancavano i rifugi e le uniche attività di contraerea erano quelle dei cannoni delle navi che occasionalmente si trovavano nel porto.


L'incursione seguente si ebbe l'8 gennaio 1941 e produsse danni anche nella zona di corso Lucci e al Borgo Loreto; tra le seguenti (sempre inglesi), importante fu l'incursione del 10 luglio, che distrusse la raffineria di via delle Brecce e quelle del 9 e 11 novembre che ebbero come bersaglio la stazione centrale, il porto e le fabbriche principali. Un altro raid, il 18 novembre, provocò molte vittime civili per il crollo di un palazzo su un rifugio in Piazza Concordia.
Nel 1942 ci furono sei incursioni, tuttavia proprio la parte conclusiva dell'anno vide un deciso cambio di strategia nella guerra aerea alleata: in pratica si passò dal bombardamento strategico, destinato principalmente agli obiettivi militari, alle infrastrutture e agli impianti industriali, ai bombardamenti a tappeto, fatti con bombardieri pesanti, distribuiti pressoché uniformemente su tutta la città e con molte più vittime civili; lo scopo era anche quello di fiaccare il morale della popolazione e indurla all'esasperazione e possibilmente alla rivolta. Ai bombardieri inglesi cominciarono inoltre ad affiancarsi (fino a diventare la forza preponderante) le forze aeree statunitensi e le incursioni diventarono anche diurne.Furono colpiti tre incrociatori nel porto (il Muzio Attendolo, l'Eugenio di Savoia e il Raimondo Montecuccoli),



ma anche e soprattutto furono colpiti case, chiese, ospedali, uffici; tra gli altri fu colpito il palazzo delle poste, via Monteoliveto e la zona di Porta Nolana. Pochi giorni dopo, in un nuovo attacco fu completamente distrutto l'ospedale Loreto. Secondo fonti americane, solo in questo attacco ci furono circa 900 morti.





UNO DEI PERIODI PIU' CUPI DELLA NOSTRA STORIA



Era cosi' cominciato quello che può essere definito uno dei periodi più cupi della storia napoletana e che si sarebbe concluso solo dopo la fine delle cosiddette Quattro giornate di Napoli.La città era impreparata ad ogni evento bellico, con pochi ricoveri pubblici efficienti, tenuto conto che molti di essi erano vecchie cantine trasformate e protette da muri paraschegge
Il 7 dicembre vennero chiuse tutte le scuole della città, mentre cominciava un vero e proprio esodo per fuggire da Napoli. Il problema degli sfollati, dopo una prima parvenza di regolamentazione burocratica, divenne rapidamente ingestibile. In breve la città cominciò a riempirsi di rifugi antiaerei che, per la particolare conformazione del suolo della città di Napoli, vennero ricavati in gran parte nelle profonde cavità sotterranee della città: un moderno studio ne ha censiti oltre 300. Divennero inoltre rifugi antiaerei anche i tunnel cittadini, nonché le gallerie e le stazioni delle funicolari e del passante ferroviario.

I RICOVERI



La realizzazione dei ricoveri a Napoli, in virtù delle sue caratteristiche geologiche (ad eccezione della zona più prossima al mare ove il substrato incontrava la falda idrica a pochi metri) si è attuata in cavità preesistenti a notevoli profondità, diversamente dalle altre città ove i ricoveri generalmente
furono realizzati in scantinati o comunque sotterranei relativamente vicini alla superficie. Le cavità del sottosuolo partenopeo erano artificiali, cioè prodotte dall’estrazione delle pietre da costruzione,
coltivando il sostrato tufaceo che costituisce la base della città, ricoperto da uno strato di materiali vulcanici sciolti e di detriti.
Gli ingegnosi napoletani escogitarono immediatamente di renderle accessibili mediante scale, ove non c’erano, spianandone i pavimenti, riempiendo di materiale le cisterne svuotate dall’acqua, realizzando servizi igienici, impianti di illuminazione ed idrici, talvolta, nei complessi più grandi, anche il pronto soccorso, oltre a quanto rendeva i luoghi temporaneamente vivibili.
Queste opere furono di estrema utilità perché impedirono che le massicce incursioni aeree provocassero un’autentica catastrofe. Studi recenti hanno individuato quante ne furono utilizzate come ricoveri antiaerei durante l’ultimo conflitto. I dati sono stati estrapolati dalle due relazioni pubblicate dal Comune di Napoli a
seguito di due commissioni istituite per lo studio del sottosuolo della città.
Le cavità interessate dalla ricerca sono state censite nei due resoconti: nel primo ne contiamo 366 mentre nel secondo arriviamo a 561 .
A queste vanno aggiunte tutte quelle forme sotterranee con accessi diretti che furono, per la loro ubicazione, ampiezza ed accessibilità, luoghi privilegiati ove ricoverarsi con una buona sicurezza (gallerie stradali, ferroviarie, acquedotti, ex cave di tufo, ecc.). Il loro numero, 136, raggiunge quasi quello dei ricoveri attrezzati (149). A conti fatti, ben il 50% delle cavità sotterranee partenopee servì come ricovero antiaereo nell’ultimo conflitto.
Molti usavano però tunnel cittadini, come la galleria del IX Maggio (intitolata alla festa dell’Impero e, oggi, alle Quattro Giornate), nonché quella del Chiatamone dove si trasferì l’Arsenale Marittimo, oppure le gallerie della funicolare e della metropolitana: infatti, alcune stazioni della linea 2 divennero un sicuro rifugio durante i bombardamenti e molti napoletani devono la vita al loro “vecchio” metrò: ecco la testimonianza di una napoletana che si trovava nella stazione “Cavour” nel momento in cui la sua casa veniva distrutta dalle bombe.
Il suno delle sirene annunciava un imminente attacco e cosi' scappando nei rifugi cominciavano i disagi, le paure e le sofferenze.

LA VITA NEI RICOVERI

Non poteva dirsi rosea: nonostante il tentativo dei capifabbricato e dei capiricovero di instaurare in ogni caso una condizione di normalità e di disciplina (così come dettato dalle circolari fasciste e dalle norme UNPA) il terrore, la sporcizia, il senso di impotenza, la progressiva fragilità delle misure di sicurezza, la coabitazione forzata per ore interminabili nella più assoluta promiscuità dettero ai coraggiosi napoletani un’acuta coscienza della grave situazione.Le norme ricordavano di tenere un contegno il più possibile calmo e all’altezza degli avvenimenti:“non correre, non gridare, non agitarsi”, ma il ritmo incalzante dei bombardamenti impediva le riparazioni e le manutenzioni: le sirene molto spesso non funzionavano per cui, a volte, si doveva ricorrere al suono delle campane o al suono delle sirene delle navi ancorate nel porto. Si arrivava sovente al ricovero quando già i velivoli nemici erano sul cielo della città, vanamente intercettati dalla DICAT (Difesa Contraerea Territoriale), in una condizione di assoluta precarietà, portando con sé ciò che era stato raccolto alla rinfusa, a volte il superfluo e l’ingombrante.
I ricoveri erano affollati e spesso maltenuti. Le norme UNPA imponevano per i ricoveri provviste d’acqua, di cloruro di calce, sabbia, pale, picconi, torce elettriche, pronto soccorso, viveri eccetera ma le attrezzature e le provviste diventarono sempre più insufficienti col precipitare delle sorti belliche. E’ facile comprendere come potesse diventare ancora più pesante la situazione in casi di emergenza per feriti, persone colpite da
malori improvvisi, partorienti. Se si consultano i registri dell’Ufficio Anagrafe del Comune di quegli anni si vedrà che fu molto elevato il numero dei napoletani che nacquero nei ricoveri, in un angolo il più possibile lontano dalla calca, dietro una tenda o un tramezzo.

LA PAURA DEI GAS



La popolazione dei ricoveri temeva, a ragione, soprattutto i gas: questi potevano essere lanciati a mezzo bombe o per irrorazione, ma le autorità assicuravano che per ogni gas (clorofosgene, ossido di carbonio, acido cianidrico, iprite e via correndo) “esiste un neutralizzante che ne annulla gli effetti” ma con l’andare del tempo mancarono le maschere antigas (che, invece, nel giugno del 1940 reperibili in molti negozi al prezzo di 35 lire) e poi anche una corretta conservazione delle stesse, mancarono poi anche l’iposolfito di sodio per preparare un telo impermeabile da collocare innanzi all’ingresso e il feltro, il grasso, lo stucco, le cimose per turare le fessure.
Gli insofferenti dei ricoveri potevano allestire per sé una “una “camera-ricovero”: un locale privato nei piani inferiori dell’edificio, adibito a rifugio ostruendo le finestre o coprendole con cartoni e guarnendole con strisce di adesivo per diminuire le oscillazioni provocate dagli spostamenti d’aria.
Con questo si evitava la promiscuità ma si correva il rischio di morire bruciati da uno spezzone
incendiario.
Le proteste della popolazione vertevano su vari problemi i ricoveri pubblici, col passare dei mesi e con l’incrementarsi dei bombardamenti diventarono a volte umidi e freddissimi, altre volte torridi ed opprimenti, mentre cominciarono anche casi di tifo e difterite. Nonostante tutto, però, i ricoveri furono di grandissima utilità, sistemati un po' dovunque in città: nelle grotte tufacee di Posillipo o di Fuorigrotta, sotto le pendici dei Camaldoli, nelle spelonche delle Fontanelle, a Piazza S. Gaetano ai Tribunali, al Cavone, a Piazzetta Augusteo, ai Quartieri Spagnoli, nei tunnel stradali, nelle gallerie e nelle stazioni sotterranee della metropolitana. I napoletani ogni giorno sono costretti a sentire le deflagrazioni,vedono pennacchi di fumo, odono le ambulanze che vanno avanti e indietro, mentre i bombordamenti distruggono la loro citta'. Quelli del 1943 danneggiarono le strade del Corso Garibaldi, via delle Zite a Forcella, San Giuseppe dei Ruffi, San Giovanni in Porta, via Depretis, via Martucci, Piazza Amedeo, Parco Margherita, via Morghen, Santa Lucia, dove crollò l’albergo Russia con tutti i suoi ospiti. Fu distrutto il molo Pisacane, con i piroscafi Sicilia, San Luigi e Lombardia che ad esso erano attraccati. e anche via Medina dove, miracolosamente, restò illesa la chiesa di San Giuseppe, mentre fu raso al suolo l’attiguo albergo Isotta e de Genève.Quando però i cittadini uscirono finalmente alla luce del sole ebbero una brutta sorpresa: le bombe avevano devastato gran parte della loro tanto amata città.

L DRAMMA DEGLI SFOLLATI NAPOLETANI

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I continui bombardamenti sulla citta' costrinse all'esodo una buona parte della popolazione verso l'entroterra, nei luoghi ritenuti piu' sicuri. A dire il vero, le peregrinazioni erano gia' iniziate allo scoppio della guerra, ma si accentuo', non poco, all’ aggressione nemica sulla citta'.
Per i napoletani fu un continuo sloggiare, trasferirsi, staccarsi dai propri affetti, in altre zone di Napoli o in periferia, presso parenti o amici, o lì dove capita, dov’è possibile reperire un tetto di fortuna: due stanze pagate a caro prezzo, o una soffitta, o addirittura una cava di tufo.
Le vie di uscita dalla città furono affollate da ogni tipo di mezzo di trasporto: carretti, camion, Fiat scalcinate, sidecar zeppi di masserizie. Per avere il “libero transito”, bisognava esibire un certificato apposito. I treni della Circumvesuviana o della ferrovia Alifana erano sempre zeppi.
Lo sfollato dovette spesso sottostare alla speculazione di proprietari esosi e le autorità cercavano, invano, d’imporre un calmiere nei fitti e di punire i trasgressori.
Ma lo sfollamento non poteva interrompere l’attività produttiva, i servizi energetici, attività. il ritmo delle strutture assistenziali: i lavoratori mettevano in salvo le loro famiglie e poi ritornavano in città al loro impiego; lo sfollamento provocò un vasto fenomeno di pendolarismo, che, moltiplicò i
disagi della popolazione ed anche i problemi logistici e di sicurezza alle autorità che si videro costrette a potenziare i mezzi di trasporto di collegamento tra la periferia e la città, evitando anche le zoneminate e garantendo agevolazioni economiche sul prezzo dei treni, delle corriere, dei vaporetti .Si assistette così ad un enorme calo di produttività nel lavoro e all’aumento notevole dell’assenteismo. Le autorità cercarono di provvedere favorendo dormitori e mense presso i luoghi di
lavoro, offrirono anche agevolazioni per l’acquisto di biciclette e dei relativi pezzi di ricambio e si
appellavano continuamente ai doveri della “mobilitazione civile”.






continua
 
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