Le stronzate di Pulcinella

LE STORIE PROIBITE DELL'UNITA' D'ITALIA(l'altra faccia del Risorgimento)

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view post Posted on 21/3/2011, 10:22
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Pulcinella291 Forum

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«L’Italia è fatta, resta da fare gli italiani»,ecco la frase più nota della storia italiana, pronunciata negli stessi giorni fatali dell’unificazione da uno dei suoi più intelligenti protagonisti, Massimo d’Azeglio.
Che cosa voleva dire il famoso critico? Non se ne deve concludere forse che l’unificazione non è stata voluta e sentita dalle popolazioni italiane ma è stata loro imposta da una ristretta élite politica e sociale?
Se è vero che la storia la fanno i vincitori, noi qui andremo a raccontare storie proibite che i libri hanno , forse volutamente trascurare o solo accennare, storie di moti, complotti, congiure e attentati e altri argomen ti tabu' della nostra storia, realmente boicottati o mistificati. Rivisteremo qui in chiave esaustiva i fatti attinenti l’unificazione dell’Italia sotto l monarchia sabauda , tralasciando ogni commento , per dar modo al lettore di farsi un'opinione del tutto personale.Parleremo qui di vizi e virtu', di nobili aspirazioni e di bassi interessi, di generosità e cinismo, di grande intelligenza e di sorprendente stupidità, elementi che spesso sono trascurati dai libri e dagli avvenimenti storici in essi contenuti.

LA CONTESSA DI CASTIGLIONE, LA VULVA D'ORO :FRA INTRIGHI AMOROSI E MANEGGI POLITICI
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Virginia voleva poter passare alla Storia: aiutò il Paese, sebbene con mezzi poco ortodossi e costosissimi. La vulva d'oro del Risorgimento, lo sprezzante appellativo con cui fu riconosciuta.
Io sono io, e me ne vanto; non voglio niente dalle altre e per le altre. Io valgo molto più di loro. Riconosco che posso non sembrare buona dato il mio carattere fiero, franco e libero, che mi fa essere talvolta cruda e dura. Così qualcuno mi detesta; ma ciò non m'importa. Non ci tengo a piacere a tutti", l’audace autopresentazione. Amava la vita mondana la figlia del nobile marchese spezzino Filippo Oldoini e della fiorentina Isabella Lamporecchi. Nata a Firenze il 23 marzo 1837, grazie al matrimonio divenne cugina del Conte di Cavour .Il matrimonio la introdusse alla corte dei Savoia, dove ebbe gran successo con il re Vittorio Emanuele II, ma anche con i fratelli Doria, il banchiere Rothschild e Costantino Nigra, ambasciatore del Piemonte sabaudo in Francia.
Rivedendone la storia viene da pensare che questa donna sia stata usata. Cavour che non era insensibile al suo fascino,le diceva: «Ci sono molte più belle di Voi» e la manovrò senza troppi pregiudizi, gettandola nel letto di Napoleone III per costruire l’Italia.La relazione con l’Imperatore francese durò poco più di un anno, poi Virginia cadde in disgrazia, soppiantata da un’altra straniera. Le persone che veramente l'amarono, come il marito, o Rotschild le interessavano solo come finanziatori e gli uomini che volevano solo aggiungere un'invidiabile preda al loro carnet l'ebbero ma senza passione e ad altissimo prezzo”.
Cavour, che nel 1855 stava avviando la campagna di Crimea per accaparrarsi le simpatie di Napoleone III che poi gli doveva servire contro il Papato, predispose per l'avvenente cugina una villa da mille e una notte a Parigi . Questo doveva essere il quartier generale della contessa per la sua la missione “politica” .Eugenia, la moglie di Napoleone, le fece guerra in ogni modo: un finto attentato, trappola di Eugenia, costrinse la Contessa a rientrare in Italia. Da qui in poi la decadenza…La causa di divorzio intentata dal marito le tolse ogni sostentamento e, inseguita dai creditori, finì la sua vita in solitudine. Inconsolabile per il perduto fascino, coprì tutti gli specchi della sua casa, prima di morire, senza rumore, il 28 novembre 1899, abbandonata da tutti ma sopratutto da Cavour che non cedette alle sue seduzioni, e che con l'approvazione del re Vittorio Emanuele II, se ne era servito affinché, con l'adulazione e la seduzione, influenzasse favorevolmente verso l'Italia Napoleone III e lo spingesse all'alleanza franco-piemontese.
La contessa di Castiglione fra intrighi amorosi e maneggi politici, destreggiandosi fra la diplomazia e l'alcova, divenne una delle poche donne in grado di svolgere, seppur con mezzi discutibili, una funzione politica, esercitando un ruolo importante nella formazione dell'unità d'Italia, e schierandosi a favore della Francia invasa dai prussiani, contribuendo a scrivere un'importante pagina della storia del Risorgimento. Dopo aver brillato e scintillato tra gioielli preziosi e toilette da favola, tra balli ed amanti, dopo aver conosciuto i fasti, i piaceri e i trionfi della mondanità, finì i suoi giorni come una romantica eroina: ignorata, in solitudine, disperata, quasi folle, piena di rancori ed inconsolabile per il fascino perduto.


GARIBALDI E IL MASSACRO DI BRONTE


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Giuseppe Garibaldi sara', come vedremo, piu' volte protagonista della nostra rivisitazione storica, poichè fu straordinariamente importante per l’unità d’Italia nel bene e nel male. Nei nostri libri troviamo esaltanti descrizioni della cosiddetta spedizione dei mille , con la quale Garibaldi ottenne grande gloria, troviamo il suo coraggio combattivo (“qui si fa l’Italia o si muore”), il suo spirito patriottico (“Maestà, consegno a Voi il Sud liberato” – incontro di Teano –), ma non troviamo cenno alcuno del fatto che Garibaldi fu parecchio agevolato nella sua fortunosa “spedizione” dalle congrue assegnazioni finanziarie predisposte da Cavour (circa 8/milioni, in ducati d’oro e titoli bancari) che in parte servirono per “corrompere” i più diretti responsabili militari borbonici, fra cui il Gen.le Landi (comandante del settore occidentale della Sicilia) e il Gen.le Lanza, Luogotenente del Re, poi processato e condannato per il reato di alto tradimento. Non è da dimenticare, inoltre, l’appoggio che Garibaldi ricevette dall’Inghilterra mediante il sistematico schieramento delle sue navi da guerra a Marsala (durante lo sbarco), a Palermo (nei giorni dell’ignominiosa resa borbonica), a Milazzo (durante la strenua difesa di quella piazzaforte), a Messina (nel corso del traghettamento in Calabria), con l’evidente scopo di tenere a bada le unità della flotta napoletana che avrebbero potuto contrastare i movimenti delle camicie rosse garibaldine. Non va neppure trascurato il consistente apporto dei “picciotti” siciliani, pur se parecchi di essi erano assoldati dai ricchi possidenti terrieri e altri ancora facevano parte delle “bande” arruolate da alcuni notori “capoccia” del trapanese e dell’entroterra palermitano. E che dire, infine, della sistematica e forzosa appropriazione (all’uopo presentata come “confisca”) delle risorse in denaro e titoli dei vari comuni “liberati” e delle disponibilità liquide di parecchi istituti di credito, fra cui il Banco di Sicilia di Palermo ?
Come non troveremo nei libri di scuola accenno seppur minimo al massacro di Bronte avvenuto dopo lo sbarco dei Mille.
Nell'entroterra siciliano si erano accese molte speranze di riscatto sociale da parte soprattutto della media borghesia e delle classi meno abbienti. A Bronte, sulle pendici dell'Etna, la contrapposizione era forte fra la nobiltà latifondista rappresentata dalla britannica Ducea di Nelson, dalla proprietà terriera, dal clero locale e dalla società civile.
Il 2 agosto al malcontento popolare si aggiunsero diversi sbandati e persone provenienti dai paesi limitrofi, tra i quali il capo dei carbonai Calogero Gasparazzo, e scattò la scintilla dell'insurrezione sociale.
Fu così che vennero appiccate le fiamme a decine di case, al teatro e all’archivio comunale. Quindi iniziò una caccia all'uomo e ben sedici furono i morti fra nobili, ufficiali e civili, prima che la rivolta si placasse.
Il Comitato di guerra, creato in maggio per volere di Garibaldi e Crispi, dopo l'eccidio di Partinico, allo scopo di evitare altre sanguinose rese dei conti, decise di inviare un distaccamento a Bronte per sedare la rivolta e fare giustizia in modo esemplare. Per riportare l'ordine giunse un battaglione di garibaldini agli ordini di Nino Bixio, braccio destro del generale.Secondo Gigi Di Fiore (Controstoria dell'unità d'Italia) e altri studiosi, gli intenti di Garibaldi probabilmente non erano solo volti al mantenimento dell'ordine pubblico, ma anche a proteggere gli interessi dell'Inghilterra (Bronte apparteneva agli eredi di Nelson), e soprattutto a calmarne l'opinione pubblica .
Quando Bixio iniziò la propria inchiesta sui fatti accaduti larga parte dei responsabili era fuggita altrove, mentre alcuni ufficiali colsero l'occasione per accusare gli avversari politici.
Il tribunale misto di guerra in un processo durato meno di quattro ore giudicò ben 150 persone e condannò alla pena capitale l'avvocato Nicolò Lombardo (che era stato acclamato sindaco dopo l'eccidio), insieme ad altre quattro persone: Nunzio Ciraldo Fraiunco, Nunzio Longi Longhitano, Nunzio Nunno Spitaleri, Nunzio Samperi. La sentenza venne eseguita mediante fucilazione il 10 agosto, all'alba.
Alla luce di successive ricostruzioni storiche è appurato che Lombardo non fu responsabile degli eccidi. Anzi, invitato a fuggire, si rifiutò nella convinzione di poter difendere il proprio onore. Nel proclama del 12 agosto 1860 il maggior generale G. Nino Bixio affermava: «Guai a chi crede di farsi giustizia da sé, guai ai sovvertitori e agli istigatori dell’ordine pubblico sotto qualsiasi pretesto. Se non io, altri in mia vece rinnoverà le fucilazioni di Bronte come la legge vuole...». In seguito, Bixio confessò che quella era stata una missione maledetta e che la responsabilità era tutta del tribunale che aveva inflitto le pene capitali. Dopo Teano, Bixio sarà l’organizzatore principale dei plebisciti per l’annessione dell’Italia meridionale al Regno di Sardegna. Un anno dopo sarà eletto deputato nel 2º collegio di Genova al Parlamento italiano e prenderà posto nelle file della destra. Bronte dimostra che al generale Garibaldi, oltre al ristabilimento dell’ordine pubblico e alla salvaguardia delle proprietà inglesi, interessava scongiurare l’eventualità (per nulla remota, considerata la pluralità delle anime risorgimentali presenti in Sicilia) della nascita di un movimento per la fondazione della Repubblica dell’Italia meridionale. Ancora una volta la povera gente non aveva fatto i conti con gli intrighi internazionali, con i grandi affari e con gli interessi di classe.


Anna Schiaffino Giustiniani- l' amore non piu' corrisposto di Cavour la condusse al suicidio

Non tutti sanno che Camillo Benso conte di Cavour oltre ad essere un abile stratega della scena politica fu anche un abile amante e come per la politica in questa veste si dimostro' sempre freddo e distaccato, come quando ebbe da giovane una relazione turbolenta che che per qualche anno lo legò alla nobildonna Anna Schiaffino Giustiniani.


Ma chi era questa donna e come conobbe il futuro tessitore dell’unità d’Italia?

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Anna Schiaffino aveva sposato giovanissima il marchese Stefano Giustiniani Campi da cui aveva avuto due figli; come spesso accadeva, il matrimonio era felice solo in apparenza, poiché la ragazza, affatto innamorata del consorte, viveva quella situazione con sofferenza ed era attanagliata da uno stato depressivo che non l’avrebbe più lasciata.

A Genova, dove abitava, Anna, o semplicemente “Nina”, aveva allestito uno dei primi salotti repubblicani d’Italia, di cui era fervente animatrice; fu qui che ebbe luogo, nel 1830, il primo, fatidico incontro tra la triste signora e il ventenne Camillo, divenuto ufficiale del Genio e inviato in varie località d’Italia per seguire lavori di fortificazione militare.
La marchesa restò da subito affascinata dall’intelligenza e dai modi di Camillo, e in breve, nacque una storia d’amore che avrebbe finito per stravolgerle la vita.La notizia della relazione si sparse di bocca in bocca suscitando inevitabilmente scandalo, poiché lei era sposata ad un uomo facoltoso con importanti mansioni politiche ed aveva già due figli; ciò le procurò l’ira della madre, preoccupata che la figlia potesse essere ripudiata e restare senza un soldo, e incredibilmente, la condiscendenza del marito che, prendendola con filosofia”, bollò la relazione extraconiugale della moglie come “è solo una passione” come scrisse in una lettera.

Intanto, mentre la donna, coinvolta e innamorata, si attaccava con impeto sempre maggiore al “suo” Camillo, lui, tornato a Torino, pian piano si staccava da lei e frequentava altre donne; Anna, al contrario, ne era ossessionata e più Cavour dimostrava di volersi allontanare da lei, più lei diventava sofferente e gelosa, al punto che iniziò a non frequentare nessuno chiudendosi pericolosamente in se stessa e non preoccupandosi minimamente di tenere nascosta la sua passione a madre e marito.

La relazione visse un ultimo gioioso sussulto dopo qualche mese, quando Anna e Camillo ebbero modo di rivedersi vicino Torino, e approfittando delle assenze del marchese, riuscirono a incontrarsi ogni giorno, mattina e pomeriggio, in un irrefrenabile turbinìo di sensi e passione; ma poco dopo la storia finì perché Cavour si innamorò di un’altra donna.Ormai la Schiaffino, sempre più sconsolata e depressa, sentendosi abbandonata e non riuscendo a sopportare il distacco dall’uomo che amava, iniziò a mostrare inequivocabili segni di squilibrio, che la condussero a tentare più volte il suicidio finché non ottenne la morte tanto desiderata e attesa: nella notte tra il 23 e il 24 Aprile 1841, giorno dell’anniversario del primo incontro con Cavour, si gettò dalla finestra della propria camera di Palazzo Lescari a Genova, dove risiedeva: morì qualche giorno più tardi.
Questo è lo stralcio di una lettera che indirizzò all’amante qualche tempo prima di suicidarsi:

“La donna che ti amava è morta. Ella non era bella, aveva sofferto troppo. Quel che le mancava lo sapeva meglio di te. E’ morta dico e in questo dominio della morte ha incontrato antiche rivali. Se essa ha ceduto loro la palma della bellezza nel mondo ove i sensi vogliono essere sedotti, qui ella le supera tutte: nessuna ti ha amato come lei. Nessuna!”


LE TRASGRESSIONI SESSUALI DI VITTORIO EMANUELE II

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Era un uomo piuttosto rozzo e impulsivo, coraggioso in battaglia, amava la caccia, le donne, i cavalli, e la vita semplice dei montanari assai più delle cerimonie di corte.Non brillò, è noto, per fedeltà coniugale alla pia e mite Maria Adelaide (morta nel 1855)
Si parla tanto delle amene serate di Arcore e che dire invece dei comportamenti sessuali del nostro padre della patria Vittorio Emanuele II?
Ce ne parla ampiamente Carlo Dossi (Zenevredo, 27 marzo 1849 – Cardina, 19 novembre 1910), scrittore e politico dell'epoca, nelle sue "note azzurre". Aristocratico e diplomatico , il Dossi in questo suo diario ,che in apparenza potrebbe sembrare uno zibaldone di osservazioni e commenti di varia natura, annota un'infinità di aneddoti non di rado scabrosi su personaggi illustri o poco noti della società milanese e italiana contemporanea . Tra questi lo scrittore ci parla delle le vicende erotiche di quel “violentatore di vergini” ed irrefrenabile “chiavatore” che fu Vittorio Emanuele II.
Eccone qualche accenno:

"Appunto 539, pag. 33: “Si dice che una contessa B(…) di Udine, immiserita per la sua prodigalità, abbia prostituito una sua figlia di 13 anni a quel re viziatore di vergini che ha nome Vittorio Emanuele. Sta di fatto che la contessa oggidì spende e spande- e trae in carrozza la sua infamia pei pubblici passeggi di Udine”.



Appunto 4595, pag. 616. Mi avvarrò, per questa nota, di molti omissis. Sarei imbarazzato a trascriverla integralmente.

“Vittorio Emanuele fu uno dei più illustri … contemporanei. Il suo budget segnava nella rubrica donne un milione e mezzo all’anno, mentre nella rubrica cibo non più di 600 lire al mese. A volte, di notte, svegliatasi di soprassalto, chiamava l’aiutante di servizio, gridando “una fumna, una fumna!”- e l’aiutante dovea girar i casini della città finché una ne avesse trovata, fresca abbastanza per essere presentata a S. M. La tassa era di lire 100- ad ogni donna però, che avesse rapporti con lui, dava un contrassegno, perché, volendo, si ripresentasse (…) Il suo dottore di corte aveva un gran da fare a riaccomodare uteri spostati (…) Quel Giove terrestre, quando coitava, ruggiva come un leone. Amava che le donne gli si ripresentassero nude con scarpettine e calzette; e fumando sigari avana si divertiva a contemplarle, mentre gli ballavano attorno. Ma a un tratto lo pigliava l’estro venereo,e (…). – Una sera poi scrisse al naturalista Filippi un biglietto così concepito “Vi prego di mandarmi stasera nel mio boudoir un leone impagliato”. E il leone viaggiò quella sera a corte in una carrozza reale, destinato a chissà quali misteri. – Vittorio amava personalmente l’oratore Brofferio, altro gran …, cui domandava e quante volte facesse e come ecc. con quell’interesse con cui stava al corrente delle sorti d’Italia. – Brofferio gli faceva poi da araldo e pacificatore colle nuove e vecchie amorose – uno dei sintomi della sua prossimità alla fine, egli lo sentì pochi giorni prima di porsi a letto, quando disse in piemontese a Bruno “sa dottore- non mi tira più; brutto segno”- Nelle sue gite di caccia a Valsavaranche era seguito da un harem di donne- Amava soprattutto la Rosina Vercellana (poi contessa di Mirafiori) e ai figli di lei diceva: “Umberto e Amedeo sono i figli della nazione; voi, i miei”.


ROSA VERCELLANA (la bella Rosin)



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Vittorio Emanuele II mantenne la propria relazione con Rosa Vercellana per tutta la vita, nonostante le sue altre numerose amanti, ed ebbe da lei due figli: Vittoria (1848-1905) ed Emanuele (1851-1894). La relazione suscitò scandalo e ostilità a corte, ma Vittorio Emanuele non cedette alle pressioni e l'11 aprile 1858 nominò Rosa Vercellana Contessa di Mirafiori e Fontanafredda, comprando per lei il castello di Sommariva Perno.
Nel 1863 si trasferì negli Appartamenti Reali di Borgo Castello all'interno dell'attuale Parco regionale La Mandria. Tale residenza, che non apparteneva alla Corona ma al patrimonio privato del re, rimase sempre la preferita della coppia, poiché Vittorio Emanuele II amava rifugiarvisi per cacciare e sfuggire alla vita di corte.
Nel 1864 Rosina seguì il re a Firenze, stabilendosi nella villa "La Petraia". Nel 1869 il re si ammalò e temendo di morire sposò Rosa Vercellana con un matrimonio morganatico, ovvero senza l'attribuzione del titolo di regina. Il rito religioso si tenne il 18 ottobre di quell'anno. Il matrimonio fu celebrato anche con rito civile otto anni dopo, il 7 ottobre 1877, a Roma. Vittorio Emanuele morì tre mesi dopo, il 9 gennaio 1878.

Rosa Vercellana trascorse gli ultimi anni della sua vita nel palazzo Feltrami di Pisa, che il re aveva acquistato per la figlia Vittoria, e qui morì nel 1885
Casa Savoia vietò che venisse seppellita al Pantheon, non essendo mai stata regina; per questo motivo, e in aperta sfida alla corte reale, i figli fecero costruire, a Torino Mirafiori Sud una copia del Pantheon in scala ridotta, poi soprannominata "Mausoleo della Bela Rosin". Isolata e disprezzata dai nobili, Rosa Vercellana fu invece amata dal popolo per le sue origini contadine: si dice che la canzone popolare risorgimentale La bela Gigogin si riferisse in realtà a lei.


LE ISTIGAZIONI ALLE RIVOLTE


Per espandere il suo potere sull'intera penisola , Vittorio Emanuele aveva bisogno di avere di pretesti per non apparire come l'usurpatore aggressore dei ducati e del Regno delle due Sicilie e dello stato Pontificio.
L'idea di creare ad arte delle rivolte glie la diede Daniele Manin , dittatore di Venezia,quando Venezia insorge. E Manin ha l’intuizione di convogliare sotto i Savoia tutte le energie rivoluzionarie che c’erano in Italia. tutti i diversi membri delle varie società segrete. Perché – spiega Manin – “I Savoia sono sempre stati nemici dei nostri peggiori nemici”. Cioè, nemici dell’Austria e nemici del Papa. Siccome i Savoia hanno dato prova di essere nemici del Papa, i Savoia vanno aiutati in questo loro intento di ingrandimento territoriale.
I Piemontesi prendono l’idea di Manin, la fanno propria, e, organizzandosi , riescono a formare dei comitati della Società Nazionale, legittimi in Piemonte, illegali, coperti, in tutte le province dei vari stati italiani. Cioè, c’è una rete di cospirazione formidabile, coperta nella maggior parte d’Italia, che organizza l’annessione .
Il problema era che, siccome i popoli “gemevano”, siccome l’opinione pubblica mondiale era d’accordo nella liberazione dei popoli che “gemevano”, questi popoli che gemevano dovevano dar segno in qualche modo della loro sofferenza. Insomma, dovevano insorgere. E si trattava quindi di organizzare quelle che venivano chiamate le “insurrezioni”, cioè, le rivolte spontanee della popolazione contro i sovrani oppressori. Soprattutto il Papa e Ferdinando II e poi Francesco II delle Due Sicilie.
Era necessario che l’opera cominciasse dai popoli, il Piemonte doveva essere chiamato ad intervenire, per evitare che in Europa non si gridasse alla conquista e si e si tirasse addosso una coalizione europea.
"Io non posso spennere la mia dittatura su popoli – dice Vittorio Emanuele II – che non mi invocano e che, collo starsi tranquilli danno pretesto alla diplomazia di dire che sono contenti del governo che hanno».
Siccome in Italia non c’era nessuno che insorgeva perché non erano così infelici le condizioni della popolazione che viveva in Italia alla metà dell’Ottocento, si trattava di suscitare delle rivolte “spontanee”.
Ad organizzare tutto ci pensarono Cavour e il suo segretario La Farina i quali prevedono tutto, e prevedono che a queste insurrezioni facciano seguito un governo dittatoriale guidato da un dittatore o Commissario provvisorio, il quale – sentite le istruzioni della società Nazionale – proibira' la fondazione dei circoli e dei giornali politici, ma pubblicherà un bollettino ufficiale dei fatti che gli importerà di far conoscere al pubblico. Cioè, vengono invasi gli stati in nome della libertà, e, sempre in nome della libertà, si stabilisce la dittatura. Tutta la stampa è soppressa. Viene permessa solo la stampa del Governo, che racconta i fatti che il Governo vuole siano saputi e vorrà che sia diffuso capillarmente in modo che tutti sappiano come sono andati i fatti secondo la versione ufficiale dei colonizzatori.

Le rivolte cominciano


Quindi vediamo che succede in Toscana nel 1859, che succede a Parma e Perugina, e poi chiudiamo con la cosiddetta “Impresa dei mille” in Sicilia e in tutta l’Italia meridionale. Cominciamo quindi dalla Toscana. In Toscana c’è un personaggio interessante, che è stato ministro della Pubblica Istruzione, un personaggio di rilievo del Piemonte liberale, che si chiama Carlo Boncompagni, che nel frattempo è diventato ambasciatore dello Stato Sardo presso il Granduca di Toscana e che - pensate che correttezza - in quanto ambasciatore è il capo della rivoluzione in Toscana. E fa venire dal Piemonte un’ottantina di carabinieri, li traveste da popolani toscani… e così comincia la presa del potere del dittatore Bettino Ricasoli – barone Toscano – in nome di Vittorio Emanuele.

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Ricasoli, come dira' poi Cavour in una lettera a Vittorio Emanuele, "Governava come un pascia' turco".Immaginate, la libertà portata da un pascià turco.«Nessuna libertà di persona, di domicilio, di stampa. Ogni associazione vietata. Violato sistematicamente il segreto delle lettere. Uomini senza fede e senza carattere, onorati. Reietta la libertà religiosa. Il pubblico erario dilapidato per saziare l’ingordigia di nuovi favoriti. Lusso di birri e di spie all’infinito. Pauroso silenzio dappertutto. Espulsioni, arresti, perquisizioni ma sopratutto un erario dilapidato come poi succedera' anche durante il regno sabaudo sopratutto nel meridione depredato di tutte le ricchezze che prima avevano.Eppure i bilanci dell'ex Granduca erano a posto come tutti i bilanci degli stati italiani preunitari, eccetto il Piemonte) infatti prevedevano per il 1859 un avanzo di 85.000 lire.
Il nuovo Governo con Ricasoli chiudeva il 1859 con un disavanzo di 14.168.000.Quindi, per tutti latrocini che sono stati compiuti dal “Pascià turco” in Toscana, quell’anno – quello dell’annessione, nel ’59 – si è concluso con un passivo di bilancio di più di 14 milioni. Quindi hanno sperperato quei circa 7 milioni, e a quelli ne hanno aggiunti altri 14. cioè, hanno fatto un danno di 21 milioni di lire, che all’epoca erano una cifra veramente significativa. Questo per quanto riguarda la fine del regno del Granduca di Toscana.

Prendiamo un altro esempio, e andiamo a Parma , dove governava la Duchessa Luisa Maria di Borbone

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, di nuovo le insurrezioni, di nuovo la legittima sovrana viene cacciata. Ambiti un colonnello della duchessa viene arrestato dai carabinieri e poi lasciato in mano agli insorti che faranno scempio del suo corpo , tagliando testa , mani e gambe e portando i miseri resti in giro per la citta'. Questi fu il clima istaurato nella ricca Parma.
Il dittatore che fu scelto per governare il granducato fu Carlo Farini

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Vediamo come si comporta questo dittatore nei confronti delle proprietà del vecchio duca. Filippo Curletti è il capo della polizia politica. È uno sbirro fedelissimo a Cavour che, oltre ad essere sbirro, essere poliziotto, è anche il capo di una banda di malviventi a Torino, si chiamava la “Banda della Cocca, fu proprio Curletti a raccontare che fu proprio Farini a permettere l'omocidio di Ambiti e consentirne lo scempio del corpo.
Curletti racconta ancora che Farini sottopone il palazzo del duca a un vero e proprio saccheggio. Fa fondere l’argenteria, la trasforma in lingotti, e persino gli abiti della duchessa sono adattati al portamento della signora Farini e di sua figlia. Mentre si comporta come un ladro di polli, Farini fa scrivere da Curletti che il duca, fuggendo, aveva preso con sé tutta l’argenteria e tutti gli oggetti di qualche valore lasciando vuote financo le cantine. Evidentemente Farini aveva pensato di “visitare” anche le cantine.

Per i Piemontesi, dunque, le cose procedono secondo i piani, le insurrezioni provocate ad arte, aumentano e cosi pure le annessioni.

Passiamo ora ai territori della Chiesa.
Vediamo le vicende di Perugina. Perché ci sono tutti i comitati della Società Nazionale di cui parlavo prima che organizzano numerose insurrezioni in tutta l’Italia, e quindi anche nell’Italia Centrale. Senigaglia, Fano, Ancona, Perugina, eccetera. Però il Papa aveva un esercito che non poteva nulla contro un’invasione organizzata da uno stato così determinato nella conquista degli altri, e così indebitato presso tutte le potenze che contavano (Inghilterra, Francia e singoli banchieri. Così indebitato che aveva ridotto alla bancarotta il Regno di Sardegna. Pio Nono non poteva governare in quel modo li. Non poteva buttare i soldi nella difesa, però aveva un esercito degno di questo nome. Un esercito che era anche composto dai volontari che Pio Nono aveva chiamato da tutta Europa, delle migliori famiglie, a combattere per la difesa della chiesa.
Allora, Perugina. Perugina viene fatta insorgere sempre grazie a Boncompagni che era a Firenze, che manda dai 3 ai 5mila uomini – dicono le fonti – a fare finta di essere i popoli insorgenti di cui parlavamno. Certo, questi toscani erano più credibili come popoli insorgenti, dei carabinieri torinesi. Quindi la locale cellula sovversiva di Perugina, interamente formata da massoni, riceve uomini soldi e armi dalla vicina Firenze. E, in questa situazione però è chiaro che il Papa reagisce e riporta l’ordine. È evidente: se c’è una rivoluzione il governo costituito cerca di arginarla. E così è assolutamente folle pensare che questi insorti perugini possano vincere l’esercito che il Papa sta mandando, comandato dal colonnello Shmidt per liberare – in questo caso alla lettera – Perugina da questo manipolo di insorti, per la maggioranza provenienti dall’estero, che l’hanno fatta ribellare. Trovandosi in queste condizioni il Governo provvisorio scrive a Cavour, scrive al capo della rivoluzione italiana, e gli chiede: “Che dobbiamo fare? Dobbiamo resistere o dobbiamo arrenderci?”. E Cavour risponde per iscritto che “dovevano resistere, perché se resistevano facevano passare Pio Nono per un despota sanguinario”. E così avviene.
Le stragi di Perugina, le stragi di cui tutta la letteratura liberale avrebbe poi parlato, come tutti i libri di storia riportavano fino a qualche anno fa, parlano di stragi. E queste “stragi” fanno dieci morti e 35 feriti fra i papalini, e 27 morti, un centinaio di feriti e 120 prigionieri fra gli insorti. Mentre i capi della rivolta riescono a fuggire in Toscana. Questi dati servono a capire che l’episodio di Perugina tutto è stato, fuorché una strage. E che per di più se di strage si può parlare, è una strage voluta e ordinata dal conte di Cavour per contribuire a dileggiare l’immagine di Pio nono all’estero. Se strage vera c'era stata, questa avvenne nel 1849 quando i piemontesi invasero Genova per essersi rivoltata contro il regno sabaudo. Qui il generale Lamarmora va a riportare l’ordine . Qui il generale consente ai suoi soldati «atti di violenta libidine su figlie di onorate famiglie».Quindi i soldati quindi erano andati in giro a violentare nelle case dei borghesi, nelle case di onorate famiglie .
Il ministro del regno Ricci a simili accuse mosse dal politico repubblicano Giorgio Asproni

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ebbe a dire;"«I soldati erano bei giovani, e in quelle violenze le donne avevano pure provato un piacere». Questa è la difesa che il ministro dell’interno fa del generale Lamarmora che permette il saccheggio e lo stupro dei suoi soldati a Genova. E Asproni chiude dicendo: «Auguro al Signor Generale, fortuna e piacere uguale a sua moglie e alle sue figlie».
Invece le pseudo stragi di Perugina serviranno a Cavour e a Vittorio Emanuele per poi invadere lo stato Pontificio senza dichiarazione di guerra, uno stato che era il baluardo della Cristianita'.
Eppure i piemontesi erano erano vincolati al rispetto della religione cattolica dal primo articolo dello statuto (che la dichiarava religione di Stato). Cavour poi chiamera' truppe mercenarie quei giovani accorsi da tutta l'Europa a difendere il Papa , giovani che invece combatterono e morirono senza soldo , ma solo per spirito cattolico.
In altre parole Cavour giustifichera' l'invasione dello stato Pontificio per evitare un'altra strage come quella di Perugina , una strage da loro stessi provocata. ma che in effetti non c'era mai stata se non con pochi morti.


L'ANNESSIONE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE E LA SPEDIZIONE DEI MILLE:QUALCHE VERITA'



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Il libri di storia ci presentano Don Peppino Garibaldi come il liberatore, il generalissimo, l'eroe dei due mondi , ed in parte è vero. Ma per quanto riguardo la liberazione del regno delle due Sicilia qualche altra verita' bisognerebbe pur dirla.
A voi sembra mai possibile che quest'uomo partendo da Quarto con mille volontari riesce a conquistare un Regno di 10 milioni di persone con un esercito attrezzatissimo per l'epoca e e con una marina che era la più grande e potente del Mediterraneo?
Quest’opera fatta da mille scamiciati è veramente un prodigio, un miracolo! Ecco, la parola esatta è proprio miracolo. Se però andiamo a vedere le fonti ovviamente il tutto è fuor che un miracolo.
La verita' la racconta Giuseppe La Farina segretario particolare di Cavour.
Giuseppe La Farina, nelle sue lettere e in alcuni articoli pubblicati su un giornale che si chiama “Espero”, racconta per filo e per segno com’è stata organizzata la Spedizione dei mille. In una lettera a Pietro Sbarbaro la Farina scrive: «Ella vedrà che il concetto fu mio, che Garibaldi esitava, e ne ho documenti. Le armi e le munizioni furono somministrate a Garibaldi da me. Egli non aveva nulle Gli indugi alla partenza vennero da Garibaldi e dai suoi amici, i quali dicevano che quell’impresa è una follia». Lo era effettivamente! E continua: «Garibaldi si decise a partire quando seppe che i siciliani sarebbero partiti senza di lui». Questa è la verità vera! Per di più, negli articoli e nelle lettere a Sbarbaro, a tutti i “fratelli” massoni sparsi per la penisola.
La spedizione viene organizzata per anni nei minimi particolari lavorandoci anche di notte.E in uno di questi notturni abboccamenti – nel 1858 – fu presentato al Conte di Cavour il Generale Garibaldi venuto clandestinamente da Caprera e di cui non si fidava minimamente.
Era una cosa segretissima perché ufficialmente il Regno Sardo non era cospiratore, non era un regno di aggressione, era un regno liberatore.
Quindi, se si fosse saputo che il primo ministro del Regno di Sardegna aveva organizzato lui, in proprio, questa spedizione, sarebbe stato uno scandalo mondiale che avrebbe mandato all’aria tutti questi progetti tanto
coltivati.

COMINCIA LA CORRUZIONE DEGLI UFFICIALI BORBONICI


Cavour da' incarico all'ammiraglio Persano

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di tallonare Garibaldi controllandone le mosse , non solo, ma deve organizzare anche la corruzione sistematica dell’ufficialità borbonica naturalmente corrompendola con ingenti somme di denaro .
Ma perché questo succeda e perché una flotta seria come quella meridionale non veda lo sbarco di uomini, munizioni e armi che si fa nei vari porti della Sicilia e dell’Italia meridionale, ci deve essere qualcuno che non deve vedere. E questo qualcuno erano gli ufficiali della Marina Borbonica, che erano stati “comprati”, corrotti da Persano per conto di Cavour. Infatti Persano racconta in questo diario /e la pubblicazione di questo diario è una cosa inverosimile perché è la divulgazione dei segreti di Stato in anni contemporanei). Sono cose che non succedono mai. Segreti di Stato che per di più erano dei segreti indecenti di Stato!
Comunque Persano in questi diari racconta che Cavour gli aveva messo a disposizione presso alcuni banchieri amici suoi, che avevano una filiale a Napoli, un “credito illimitato.Quindi questa impresa dei Mille è tutto, fuorché farina del sacco di Garibaldi e del suo eroismo. Anche perché, chi erano i Mille con cui Garibaldi sarebbe andato a conquistare uno Stato con un esercito e una marina di tutto rispetto?

CHI ERANO I FAMOSI MILLE DI GARIBALDI


Per capire chi fossero questi Mille, sentiamo che cosa ne scrive Garibaldi. Egli dice, parlando dei suoi: «Tutti generalmente di origine pessima e per di più ladra. E, tranne poche eccezioni, con radici genealogiche nel letamaio della violenza e del delitto». Questi sono i Mille descritti dal loro capitano. Dal loro Generale. Uomini presi dal letamaio della violenza e del delitto… D’altronde è abbastanza credibile che siano cos’ le cose, perché si trattava di andare a fare saccheggi, rapine! Si trattava di andare a turbare la convivenza civile di popolazioni indifese. Pertanto chi ci poteva andare se non questi, che, come dice Garibaldi, avevano tali radici genealogiche?

CAVOUR CONTINUO' A SMENTIRE IL COINVOLGIMENTO


Nel maggio del 1860 Cavour per smentire nel modo più fermo la partecipazione del Piemonte, del Regno di Sardegna, a questa impresa garibaldina fa scrivere nella Gazzetta Ufficiale del Regno: «Alcuni giornali stranieri a cui fanno eco quei fogli del paese che avversano il Governo del Re e le Istituzioni Nazionali, hanno accusato il Ministero di connivenza nell’impresa del Generale Garibaldi». Beh, qualcuno aveva parlato di come erano andate le cose… Vediamo come risponde Cavour: «La dignità del Governo ci vieta di raccogliere ad una ad una queste accuse e di confutarle .L’Europa sa che il governo del Re, mentre non nasconde la sua sollecitudine per la Patria comune, conosce e rispetta i principi del diritto delle genti e sente il debito di farli rispettare nello Stato, della sicurezza del quale ha la responsabilità». rigetta con sdegno queste ipotesi e ricorda come Vittorio Emanuele rispetti il diritto pubblico… Pensate che Vittorio Emanuele era anche cugino di Francesco II Re delle due Sicilie. Un cugino che aveva sempre assicurato a Francesco Secondo, nelle sue lettere, che lui certamente era dalla sua parte. Nel frattempo Vittorio Emanuele organizzava e dava soldi personalmente a Garibaldi perché questa impresa riuscisse.

GARIBALDI IN SICILIA



La Farina – che ha organizzato tutto – scende in Sicilia , Cavour in tutta la sua vita non scendera' mai al sud, nenache dopo l'unita' d'Italia, ma ci potra' rimanere solo poco tempo in quanto Garibaldi gli impone di tornarsene immediatamente da dove era venuto, a Torino.
Però, prima di tornare a Torino, La Farina racconta cosa ha visto, nei dispacci quotidiano che spedisce a Cavour. Vediamo cosa scrive: «Io non debbo celare a Lei (sta parlando a Cavour), che nell’interno dell’isola gli ammazzamenti seguono in proporzioni spaventose. L’altro giorno si discuteva sul serio di ardere la biblioteca pubblica perché cosa dei Gesuiti. Si assoldano a Palermo più di 2mila bambini, dagli 8 ai 15 anni, e si dà loro tre tarì al giorno…E La Farina Continua: «Si manda al tesoro pubblico a pigliare migliaia di ducati senza neanco indicare la destinazione. Si lascia tutta la Sicilia senza tribunali, né civili, né penali, né commerciali, essendo stata congedata in massa tutta la magistratura. Si creano commissioni militari per giudicare di tutto e di tutti. I bricconi più svergognati, gli usciti di galera per furti e ammazzamenti, compensati con impieghi e con gradi militari. La sventurata Sicilia è caduta in mano di una banda di Vandali». Avete sentito quest’ultimo particolare. A chi danno gradi militari:ai galeotti! Quelli che stavano in galera per furto ed omicidio. Questi diventano i capi dell’esercito e della polizia. Non c’è male come ordine! E Garibaldi??Don Peppino diventa il dittatore assoluto , circondato anche da alcuni Mazziniani come Bertani e Crispi quindi repubblicani che lo lusingvano invogliandolo a procedere fini a Roma .
Garibaldi fa quello che vuole infischiandosene di quelli che, apparentemente sono ministri e presidenti del consiglio .
Ecco cosa scrive Pier Carlo Boggio, giornalista e professore di diritto costituzionale, noche' deputato e patriota :
«Il principe di Torre Arsda legge nel foglio ufficiale la propria nomina a presidente del Consiglio dei Ministri, della quale è affatto inconsapevole». Questo principe – ripeto – è un personaggio noto, non sa di essere presidente del Consiglio dei ministri. Legge questa sua nomina sul giornale ufficiale… Attende l’annuncio diretto del Capo dello Stato, cioè, di Garibaldi… Passa un giorno, passano due: «Nulla riceve. E intanto escono sulla gazzetta governativa decreti e provvisioni che appaiono da lui emanate». Cioè, lui non solo non sa niente di questa cosa, ma lui firma, risulta firmare dei provvedimenti di cui lui è assolutamente inconsapevole. Non ne sa nulla! «Si presenta tre volte al dittatore per chiedere una spiegazione. Gli dicono che non ha tempo di riceverlo…

LE MALEFATTE E LE PRETESE DI GARIBALDI PREOCCUPANO CAVOUR

Le mire espansionistiche del Generale preoccupano non poco Cavour.
Se Garibaldi si spinge fino a Roma , Napoleone III,Re dei francesi, che si finge cattolico, interverra' sicuramente in difesa del Papa, non può consentire ,infatti, che i liberali piemontesi prendano anche il Lazio e Roma. I Savoia rischiano di perdere tutto, tutti i soldi che hanno buttato nell’impresa italiana, e Garibaldi va fermato, inoltre al seguito c'è un'orda di persone che crede di poter fare di tutto in nome della conquista.E verra' quindi definitivamente fermato di li' a poco , quando a Taverna Catena e non Teano, come dicono i libri si incontrera' con Vittorio Emanuele.


LA TRATTA DEI NAPOLETANI




Vediamo ora quello che è successo nel regno di Napoli dopo la conquista .

La Civiltà Cattolica (una rivista dei Gesuiti), scrive in una corrispondenza da Genova, nel settembre 1891: «In Italia, o meglio, negli Stati Sardi, esiste proprio la tratta dei napoletani. Si arrestano da Cialdini soldati napoletani in gran quantità, si stipano nei bastimenti peggio che non si farebbe degli animali, e poi si mandano in Genova. Trovandomi testé in quella città ho dovuto assistere ad uno di quegli spettacoli che lacerano l’anima. Ho visto giungere bastimenti carichi di quegli infelici, laceri ,affamati, piangenti.
E, sbarcati, vennero distesi sulla pubblica strada come cosa da mercato. Spettacolo doloroso che si rinnova ogni giorno in via Assarotti, dove è un deposito di questi sventurati». La tratta dei napoletani…! La Civiltà Cattolica descrive quello che succede e di quello che resta dell’esercito borbonico… la tratta dei napoletani! Quanto al Re, Francesco II

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, l’8 dicembre 1870, scrive ai popoli delle due Sicilie… (Questo Re era un giovane di 22 anni, che succede al padre, che era in piena salute… Molte fonti dell’Ottocento dicono che il padre è stato avvelenato, sapendo che chi gli succedeva non aveva nessuna esperienza di governo, e perciò non era adatto al compito. Qualcuno afferma che il giovane re fu ingannato anche dal suo Ministro di polizia , Liborio Romano che gia' prima aveva iniziato a prendere contatti segreti con Camillo Benso conte di Cavour e con Giuseppe Garibaldi e a preparare il traghettamento del Mezzogiorno dai Borbone ai Savoia.Romano ottenne da Garibaldi la conferma nel ruolo di ministro dell'interno che tenne quindi fino al 24 settembre 1860, data in cui entrò a far parte del Consiglio di Luogotenenza, ove rimase fino al 12 marzo 1861.
Nel gennaio 1861 si tennero le prime elezioni politiche per il costituendo Regno d'Italia, e Liborio Romano venne eletto deputato, vincendo in ben 8 circoscrizioni

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La storia dice che fu proprio Romano a suggerire al re Francesco II di Borbone di lasciare Napoli alla volta di Gaeta senza opporre resistenza, così da evitare sommosse e inutili perdite di vite umane. Grazie al suo impegno non ci furono problemi di ordine pubblico e Giuseppe Garibaldi poté giungere in treno a Napoli.
Intanto nell'aministrazione dell'ex regno di Napoli e delle due Sicilie regna il caos , la sicurezza individuale non esiste .Le prigioni sono piene di sospetti (non di colpevoli, nota la Pellicciari), in luogo della libertà, lo stato d’assedio regna nelle province e il generale Cialdini pubblica la legge marziale decretando le fucilazioni istantanee per tutti che non si inchinano innanzi alla bandiera di Sardegna». Pensate, venivano ammazzate le persone che non si inchinavano alla bandiera.
Le finanze del regno, una volta floride, vengono artatamente dissestate e le Due sicilie sono state dichiarate province di un regno lontano. Napoli e Palermo saranno governate da prefetti venuti da Torino.
Così il dramma del meridione si è consumato, e non è ancora finito. Si è consumato con una emigrazione in massa. A partire dagli anni 70 e negli anni 80 e 90 dell’Ottocento, tutti gli uomini che potevano, cioè, tutta la parte più forte dal punto di vista lavorativo, è emigrata. Questa colonizzazione del meridione è stata fatta – e questo è l’aspetto più terribile – in nome della liberazione del Meridione che “gemeva” sotto il dispotico Ferdinando Secondo e Francesco Secondo di Borbone.


IL MALCONTENTO DEL MERIDIONE E IL BRIGANTAGGIO



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I meridionali che avevano aiutato Garibaldi , i contadini ai quali erano state fatte promesse poi non mantenute, le angherie costrette a subire dai nuovi conquistatori, gli ex sottoufficilai borbonici ora senza lavoro o perseguitati , fanno nascere quel fenomeno chiamato Brigantaggio.
Le premesse per una rivolta popolare erano già nell'aria fomentate dalla propaganda borbonica che incitava le masse dei diseredati a considerare i conquistatori piemontesi come il nuovo nemico da combattere e nell'autunno del 1860 una violenta guerriglia sfociò in tutta la parte continentale dell'ex Regno delle due Sicilie, con una diffusione massiccia nell'area compresa tra l'Irpinia, la Basilicata, il Casertano e la Puglia. Capitanati da ex braccianti, disertori, ex soldati borbonici e garibaldini, decine di migliaia di ribelli si diedero alla macchia rifugiandosi nelle zone montuose più impervie e inaccessibili per dare inizio a una guerriglia condotta su un duplice fronte, quello delle incursioni per razziare e depredare i ricchi proprietari terrieri, e quello sul piano squisitamente militare contro l'esercito piemontese. In un primo tempo la matrice della ribellione sembrava essere circoscritta a fattori di natura prettamente politica e configurarsi nella lotta armata contro l'oppressore, ma quando la giurisdizione del Regno d'Italia s'insediò ufficialmente, la vera causa della sollevazione popolare si rivelò come il prodotto di un incontenibile disagio sociale. Il vecchio regime borbonico era caduto per l'iniziativa garibaldina di tipo rivoluzionario che aveva alimentato nelle masse meridionali concrete speranze di un radicale rinnovamento della società locale, ma il nuovo governo che nel 1861 prese le redini del potere era l'espressione della borghesia, quella Destra storica che affrontò la questione meridionale con un patto di alleanza fra i ricchi possidenti del Nord e i proprietari terrieri del Sud, eludendo la promessa della tanto agognata riforma agraria che doveva destinare la terra ai contadini. La realtà apparve ben presto in tutte le sue sfaccettature negative per il popolino: le strutture economiche e sociali rimasero immutate mentre faceva capolino un nuovo nemico agli occhi delle masse di diseredati. Lo Stato forte dell'Italia unificata imponeva una rigida centralità amministrativa introducendo pesanti balzelli che andavano a gravare sul capo dei più deboli, l'insopportabile ingerenza dei prefetti di polizia e la norma della ferma militare obbligatoria, particolarmente invisa alle popolazioni povere del Sud. A tutto ciò andava aggiunta l'incapacità da parte della Destra conservatrice di affrontare la questione del Mezzogiorno focalizzando come esigenza primaria la questione sociale che fu invece la vera molla scatenante dell'esplosione di quel gravissimo fenomeno di rivolta popolare noto come brigantaggio meridionale.
Garibaldi, il miglior giudice di insurrezione e di guerra, in un libro che scrisse poi rese omaggio al valore dei briganti napoletani, i quali, non raggruppati dal re ad esercito, senza altri capitani che i propri capi, senza programma e senza bandiera, resistettero siffattamente per anni a tutti gli sforzi del governo nazionale da costringerlo all'umiliazione di dovere per essi sospendere le guarentigie statutarie, sostituendo a Napoli luogotenenti a luogotenenti, mutando nella campagna più di un generale, discendendo finalmente a una guerra di sterminio così orribile di ferocia che si dovette e si deve ancora nasconderla alla storia.

IL GENERALE CIALDINI CONTRO IL BRIGANTAGGIO



Dalla Terra di Lavoro il brigantaggio si era già propagato in tutto il Mezzogiorno. A domarlo fu chiamato il generale Cialdini


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che costituì un corpo di guardie nazionali mobili in ogni distretto, con l'intendimento di opporre Napoletani a Napoletani e così interessarne almeno una parte in favore del governo; ma l'espediente non fu troppo benefico.
La prima mossa strategica di Cialdini fu di occupare il Principato Ulteriore e la Capitanata, per mantenersi aperte le comunicazioni con le Puglie e l'Adriatico, tagliando in due la rete del brigantaggio e chiudendo alle bande del Mezzogiorno il rifugio dello Stato pontificio.
Vennero saccheggiati paesi, arse a dozzine le borgate senza pietà ne agli infermi, ne ai fanciulli, ne ai vecchi; si fucilò a caso per qualunque sospetto; non si vollero prigionieri, ma cadaveri.
Ci furono violenze inaudite da ambo le parti.
Ma Cialdini era consapevole che bisognava ubriacare l’opinione pubblica di sdegno contro i briganti, e perché ciò si avverasse abbisognava che i quotidiani piú importanti, a tiratura locale e nazionale, parlassero continuamente delle nefandezze e delle malvagità contadine.

LE POPOLAZIONI DEL SUD PASSARONO COME BARBARI


Le popolazioni del Sud venivano dipinte come primitive, barbare, invasate di religione, analfabete; i partigiani regi venivano fatti passare per briganti che scannavano e decapitavano i soldati piemontesi. Eppure pochi anni prima quella persone appartenevano ad un Regno Florido uno dei primi d'europa, al quale nell’Esposizione Internazionale di Parigi del 1856 fu assegnato il Premio per il terzo Paese al mondo come sviluppo industriale (I in Italia);
Un regno dove vi fu:
Primo ponte sospeso in ferro in Italia (sul Fiume Garigliano);
Prima ferrovia e prima stazione in Italia (tratto Napoli-Portici);
Prima illuminazione a gas di città;
Primo telegrafo elettrico;
Prima rete di fari con sistema lenticolare;
La più grande industria metalmeccanica in Italia, quella di Pietrarsa;
L’arsenale di Napoli aveva il primo bacino di carenaggio in muratura in Italia;
Primo telegrafo sottomarino dell’Europa continentale.
Primo esperimento di Illuminazione Elettrica in Italia a Capodimonte;
Primo Sismografo Elettromagnetico nel mondo costruito da Luigi Palmieri;
Prima Locomotiva a Vapore costruita in Italia a Pietrarsa
Prima flotta mercantile in Italia (terza nel mondo);
Prima compagnia di navigazione del Mediterraneo;
Prima flotta italiana giunta in America e nel Pacifico;
Prima nave a vapore del Mediterraneo;
Prima istituzione del sistema pensionistico in Italia (con ritenute del 2% sugli stipendi);
Minor numero di tasse fra tutti gli Stati italiani.
La più grande Industria Navale d'Italia per numero di operai (Castellammare di Stabia, 2000 operai);
La più alta quotazione di rendita dei titoli di Stato (120 alla Borsa di Parigi);
Rendita dello Stato quotata alla Borsa di Parigi al 12%;
Minor tasso di sconto (5%);
Prima Nave da guerra a vapore d'Italia (pirofregata "Ercole"), varata a Castellammare;
Prima Nave da crociera in Europa ("Francesco I");
Primo Piroscafo nel Mediterraneo per l'America (il "Sicilia", 26 giorni impiegati);
Prima nave ad elica ("Monarca") in Italia varata a Castellammare;
Prima città d'Italia per numero di Tipografie (113 solo a Napoli);
Primo Stato Italiano in Europa, per produzione di Guanti (700.000 dozzine di paia ogni anno);
Primo Premio Internazionale per la Produzione di Pasta (Mostra Industriale di Parigi);
Primo Premio Internazionale per la Lavorazione di Coralli (Mostra Industriale di Parigi);

Ora erano barbari ed incivili quindi in nome della civilta' potevano essere decapitati o incarcerati. Non mancarono i casi in cui le truppe piemontesi
utlizzarono come monito e rappresaglia nei confronti delle comunità insorte l'esposizione dei cadaveri orrendamente mutilati di persone fatte prigioniere.
I militari solitamente così avari di immagini, rivelano un'improvvisa prodigalità fotografica durante la repressione ,Ufficiali e soldati collaborano a mettere in posa i fucilati davanti all'obiettivo
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In altre parole Cialdini con poteri eccezionali, comandò una dura repressione messa in atto attraverso un sistematico ricorso ad arresti in massa, esecuzioni sommarie, distruzione di casolari e masserie, vaste azioni contro interi centri abitati: fucilazioni sommarie e incendi di villaggi ,
restano famigerati il cannoneggiamento di Mola di Gaeta del 17 febbraio 1861 (dopo l'unità italiana, dall'aggregazione del borgo con altri Comuni limitrofi nasce Formia), nonché gli eccidi di Casalduni e Pontelandolfo nell'agosto 1861.A Gaeta, Cialdini sperimentò la prima guerra batteriologica moderna, infettando l'acquedotto di Monte Conca con carcasse di animali morti e provocando quella tremenda epidemia di tifo petecchiale .La medesima tattica fu adottata durante la rivolta siciliana del 1866, per costringere alla resa quella Palermo che aveva osato ribellarsi alla nuova Italia.

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Gli strumenti a disposizione della repressione venivano, nel frattempo, incrementati, con la moltiplicazione delle taglie e l'istituto delle deportazioni: questa era la forma reale del domicilio coatto.
Nell'agosto 1863 venne emanata la "famigerata" legge Pica. Tale legge, contraria a molte disposizioni costituzionali, colpiva non solo i presunti briganti, ma affidava ai tribunali militari anche i loro parenti e congiunti o semplici sospetti.

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L'opera comincio' ad avere i suoi frutti.Il Cialdini aveva raggiunto l'obiettivo strategico principale: cancellare le premesse per una possibile sollevazione generale e militarmente coordinata dei guerriglieri delle province meridionali.
L'azione collettiva , con i metodi adottati dai piemontesi , si affievoliva e degenerò così, sempre più spesso, in mero banditismo.
Continuava l'azione di poche e isolate bande d'irriducibili ma, vista l'impossibilità di ottenere risultati politici e per non logorarsi in un'eterna guerra civile, la spinta insurrezionale volgeva gradualmente al termine.Nel 1869 furono catturati i guerriglieri delle ultime grandi bande con cavalleria e a gennaio 1870 il governo italiano soppresse le zone militari nelle province meridionali, sancendo così la fine ufficiale del brigantaggio



La vergogna della fortezza delle finestrelle


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Costruita per difendere i confini del regno di sardegna da una probabile invasione Francese, in realtà nel corso della sua storia è stata utilizzata quasi esclusivamente come prigione .Fortezza situata a quasi duemila metri di altezza, sulle montagne piemontesi, sulla sinistra del Chisone.

Dal 1861 con l’invasione del Regno delle due Sicilie ad opera dei piemontesi, i soldati del disciolto esercito Borbonico, che, sentendo alto il senso di appartenenza al Regno di Napoli, al grido di: “uno Dio uno Re”, non vollero tradire e furono deportati a migliaia nella fortezza di Finestrelle, ove la quasi totalità perse la vita per le dure condizioni di vita e per l’inclemenza delle condizioni atmosferiche della zona. Vestiti da divise di tela, i soldati Borbonici non potevano certo sopportare il rigido clima della zona, finestre senza vetri (poichè i meridionali dovevano abituarsi al clima rigido del nord). I corpi dei soldati, che morirono sulle alture di questa fortezza non sono mai stati ritrovati, si sa però per certo che i piemontesi usavano gettare nella calce viva i morti, è ancora possibile vedere una di queste buche dove sono stati ritrovati resti umani disciolti in una fanghiglia non ben definibile, con brandelli di accessori delle divise borboniche. La storia dei vincitori aveva condannato all’oblio i fieri e fedeli soldati, vittime di questo vero e proprio genocidio.

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Nella fortezza delle Finestrelle a Torino, furono sterminati oltre ventimila soldati dell'Esercito Napoletano per non avere tradito il proprio Re e la propria Nazione. Erano stretti insieme assassini, sacerdoti, giovanetti, vecchi, miseri popolani e uomini di cultura. Senza pagliericci, senza coperte, senza luce. Un carcerato venne ucciso da una sentinella solo perché aveva proferito ingiurie contro i Savoia. Vennero smontati i vetri e gli infissi per “rieducare” con il freddo i segregati. Laceri e poco nutriti era usuale vederli appoggiati a ridosso dei muraglioni, nel tentativo disperato di catturare i timidi raggi solari invernali, ricordando forse con nostalgia il caldo di altri climi mediterranei.
Spesso le persone imprigionate non sapevano nemmeno di cosa fossero accusate ed erano loro sequestrati tutti i beni. Spesso la ragione per cui erano stati catturati era proprio solo per rubare loro il danaro che possedevano. Molti non erano nemmeno registrati, sicché solo dopo molti anni venivano processati e condannati senza alcuna spiegazione logica.La liberazione avveniva solo con la morte ed i corpi venivano disciolti nella calce viva collocata in una grande vasca situata nel retro della chiesa che sorgeva all’ingresso del forte. Una morte senza onore, senza tombe, senza lapidi e senza ricordo, affinché non restassero tracce dei misfatti compiuti.

LE CONDIZIONI ECONOMICHE DEGLI STATI PRIMA DELL'UNITA'


Da "Scienze delle Finanze" di Francesco Saverio Nitti (Pierro, 1903) scopriamo che le monete degli antichi Stati Italiani al momento dell'annessione ammontavano a circa 669 milioni, di cui ben 443 milioni appartenevano al Regno delle Due Sicilie (il Banco di Napoli poteva vantare la più grande raccolta di denaro pubblico) e i restanti 226 milioni erano ripartiti fra: il regno di Sardegna, Lombardia, Ducato di Modena, Parma e Piacenza, Roma, Romagna - Marche e Umbria, Toscana, Venezia. Come dire che nel Regno dei Borbone c'erano il doppio dei soldi che nel resto d'Italia. Persino la Borsa di Parigi, allora la più grande del mondo, quotava la Rendita dello Stato napoletano al 120 per cento, ossia la più alta di tutta l'Europa.Il Regno prima dell'avvento dei Borbone non se la passava bene, ma con il loro avvento le cose cambiarono radicalmente, a cominciare dal numero degli abitanti. Nel 1815 quando essi rientrano di nuovo la popolazione era di 5.060.000 e nel 1836 di 6.081.993, nel 1846 la popolazione arrivò a 8.423.316 e dieci anni dopo a 9.117.050. Questo vorticoso aumento della popolazione ha nome e cognome: benessere e progresso civile e sociale.
Nella conferenza internazionale di Parigi del 1856 fu assegnato al Regno delle Due Sicilie il premio del terzo paese del mondo, dopo l'Inghilterra e la Francia, per sviluppo industriale. Nel Meridione ad opera dei Borbone si ebbe la prima repubblica socialista del mondo: nacque, infatti, a San Leucio, ove, oltre ad 80 ettari di terreno adibito ad agricoltura, sorse la più famosa seteria di tutti i tempi.

DOPO L'UNIFICAZIONE IL SUD S'IMPOVERI'



Secondo alcune fonti storiche e da quanto abbiamo potuto appurare dallo lo storico meridionale Gigi Di Fiore, i piemontesi non si fecero scrupolo di usare mafiosi e camorristi per favorire l'avanzata di Garibaldi, o di usare leggi speciali e fucilazioni per sedare le rivolte che ci furono nel Sud quando arrivò quel nuovo stato imposto con violenza. "Non c'era consenso da parte dei meridionali, né legittimazione, le masse furono estranee a quel processo di unificazione - ha spiegato Di Fiore citando il suo libro "Controstoria dell’Unità d’Italia" - La rivoluzione risorgimentale fu una rivoluzione elitaria, che servì ad ampliare il Regno del Piemonte anche al Sud".
I guai peggiori per il Meridione, secondo lo scrittore, vennero dopo l'impresa di Garibaldi, perché prima del suo arrivo, la ricchezza prodotta al Nord e al Sud erano uguali. Dopo l'unificazione, invece, al Sud chiusero cantieri navali, stabilimenti ferroviari, aumentò all'improvviso la disoccupazione, furono venduti beni demaniali e gran parte delle risorse trasferite al Nord; furono sequestrati depositi bancari e il Banco delle Due Sicilie perse le riserve auree a favore del Banco di Torino. L'economia del Meridione in poco tempo crollò.

"Gli investimenti dopo l'Unità vennero fatti soprattutto al Nord, le tasse invece le pagò soprattutto il Sud, e molte persone furono costrette a emigrare - ha continuato Di Fiore - La situazione peggiorò sia in campagna che in città. I contadini meridionali rimasero solo braccianti, non ottennero le terre demaniali, nonostante Garibaldi gliele avesse promesse. E poi Napoli all'improvviso non era più capitale, quindi chiusero gli uffici di governo e sparì anche il terziario". Insomma quel Sud florido almeno quanto il Nord, secondo l'autore, subì proprio un colpo durissimo da cui non si è più potuto riprendere.




AL SUD ITALIA FU UNA VERA E PROPRIA PULIZIA ETNICA



Cinquemiladuecentododici condanne a morte, 6564 arresti, 54 paesi rasi al suolo, 1 milione di morti. Queste le cifre della repressione consumata all’indomani dell’Unità d’Italia dai Savoia. La prima pulizia etnica della modernità occidentale operata sulle popolazioni meridionali dettata dalla Legge Pica, promulgata dal governo Minghetti del 15 agosto 1863 “per la repressione del brigantaggio nel Meridione”. Questa legge istituiva, sotto l’egida savoiarda, tribunali di guerra per il Sud ed i soldati ebbero carta bianca: le fucilazioni, anche di vecchi, donne e bambini, divennero cosa ordinaria e non straordinaria. Un genocidio la cui portata è mitigata solo dalla fuga e dall’emigrazione forzata, nell’inesorabile comandamento di destino: “O briganti, o emigranti”.Deportazioni, l’incubo della reclusione, persecuzione della Chiesa cattolica, profanazioni dei templi, fucilazioni di massa, stupri, perfino bambine (figlie di “briganti”) costretti ai ferri carcerari. Una pagina non ancora scritta è quella relativa alle carceri in cui furono rinchiusi i soldati “vinti”. Il governo piemontese dovette affrontare il problema dei prigionieri, 1700 ufficiali dell’esercito borbonico (su un giornale satirico dell’epoca era rappresentata la caricatura dell’esercito borbonico: il soldato con la testa di leone, l’ufficiale con la testa d’asino, il generale senza testa) e 24.000 soldati, senza contare quelli che ancora resistevano nelle fortezze di Gaeta, Messina e Civitella del Tronto.
A migliaia questi uomini furono concentrati dei depositi di Napoli o nelle carceri, poi trasferiti con il decreto del 20 gennaio 1861, che istituì “Depositi d’uffiziali d’ogni arma dello sciolto esercito delle Due Sicilie”. La Marmora ordinò ai procuratori di «non porre in libertà nessuno dei detenuti senza l’assenso dell’esercito». Per la maggior parte furono stipati nelle navi peggio degli animali (anche se molti percorsero a piedi l’intero tragitto) e fatti sbarcare a Genova, da dove, attraversando laceri ed affamati la via Assarotti, venivano smistati in vari campi di concentramento istituiti a Fenestrelle, S.Maurizio Canavese, Alessandria, nel forte di S.Benigno in Genova, Milano, Bergamo, Forte di Priamar presso Savona, Parma, Modena, Bologna, Ascoli Piceno ed altre località del Nord.

In quei luoghi, veri e propri lager, ma istituiti per un trattamento di “correzione ed idoneità al servizio”, i prigionieri, appena coperti da cenci di tela, potevano mangiare una sozza brodaglia con un po’ di pane nero raffermo, subendo dei trattamenti veramente bestiali, ogni tipo di nefandezze fisiche e morali. Per oltre dieci anni, tutti quelli che venivano catturati, oltre 40.000, furono fatti deliberatamente morire a migliaia per fame, stenti, maltrattamenti e malattie

I DELEGATI DI POLIZIA EX DELINQUENTI CAMORRISTI


Come in Sicilia con alcuni mafiosi , anche a Napoli i dodici capi quartiere della camorra assicurarono a Garibaldi un ingresso tranquillo in città, poi alcuni di loro furono ricompensati ottenendo un incarico nella polizia o nella guardia nazionale.
Nel loro innovativo ruolo di "tutori dell'ordine", i camorristi furono stati dotati di una coccarda tricolore come segno di riconoscimento.

L'arrivo di Garibaldi a Napoli


Quando Garibaldi arrivo in treno alla stazione di Napoli Garibaldi lo salutarono Liborio Romano, nella sua nuova veste di ministro garibaldino (è stato il ribaltone più fulmineo della storia italiana) davanti a una folla enorme. il Generale sale su una carrozza assieme a fra' Giovanni Pantaleo (lo stravagante cappellano dei Mille), Agostino Bertani (il medico che, alla fine dell'avventura, sarà uno degli uomini più ricchi di Lombardia), il conte Giuseppe Ricciardi e il patriota calabrese Demetrio Salazaro.
Con loro ci sono, in posizione di evidente privilegio, anche i nuovi amici: Tore 'e Criscienzo

e i suoi luogotenenti Michele '''O chiazziere" (il collettore delle tangenti) e "O schiavuttiello". La presenza del "capo" e dei "capipanza" garantisce a Garibaldi l'incolumità e alla Camorra una nuova autorevolezza
Nei giorni seguenti Garibaldi assegna riconoscente alla Camorra un contributo di 75.000 ducati (circa 17 milioni di Euro) da "distribuire ai bisognosi del popolino” e poi attribuisce una pensione vitalizia di 12 ducati mensili (circa 2.700 Euro) a Marianna de Crescenzo (pudicamente indicata sulla delibera come Marianna la Sangiovannara, sorella di Tore e proprietaria della bettola dove si riuniva il vertice malavitoso), Antonietta Pace, Carmela Faucitano, Costanza Leipnecher e Pasquarella Proto, e cioè all'intero gotha femminile del simpatico sodalizio partenopeo.

Ma quel che è peggio, Garibaldi "sdogana" la Camorra e ne consacra l'autorità e l'immagine di fronte al popolo umiliando l’autorevolezza delle forze di polizia. Aveva fatto lo stesso in Sicilia con la Mafia, in una disinvolta e patriottica interpretazione del "fine che giustifica i mezzi". Ed è stato solo il primo di una lunga lista di potenti che hanno avuto strani compagni di merende.

Quando si invoca oggi il ritorno dell'autorità dello Stato nella Napoli devastata dalla Camorra, si dimentica che la prima (e sempre esaltata) apparizione locale dello Stato italiano ha avuto il volto strafottente dei camorristi, con coccarda tricolore e un dito alzato. Allora era l'Indice.

GARIBALDI GRAN CONQUISTATORE ANCHE DI DONNE

Molte donne si innamorarono del Generalissimo , e lui un rude soldato, ma quasi femmineo nella cura della persona non fu un grande amante in quanto preferiva essere amato inorgoglito da quell'aspetto un po' selbaggio.Il ruolo giocato dal suo aspetto fisico: i lunghi capelli di grano, la faccia leonina incorniciata da una barba selvatica, lo sguardo limpido e cangiante come il topazio dal celeste al verde faceva colpo sulle donne. Carico di gloria e pieno di debiti. E il suo magnetismo derivava anche dalla sua personalità che a molti rimase sconosciuta, quasi inafferrabile. E le donne pretendevano di impadronirsene sentimentalmente. Era davvero venerato. Una nobildonna inglese Lady Shaftesbury lo pregò di donarle una ciocca di capelli. Molte di loro, dopo la passione iniziale, ricopriranno per il patriota solo un ruolo materno. Orso, ruvido, maldestro, genuino fino alla sgarbo, Garibaldi ebbe tante spasimanti, tra cui una ortolona genovese e vedova. La contessa Maria Martini della Torre,


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che pazzamente invaghita del suo idolo, lasciò il marito e, si offrì a Garibaldi come compagna “indivisibile” nella gloria e nella sventura. Ma il generale non ne fu mai innamorato. La nobildonna, per questo, tenterà il suicidio, alla fine sarà rinchiusa in manicomio, circondata, racconta Goldoni, da panni rossi come le mitiche camicie. Quelle color sangue, che secondo il giornalista, erano destinate in gran parte ai macellai di Buenos Aires.

Madame Louise Colet, una poetessa spregiudicata.

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La moglie del poeta Lord Byron, Anne Isabelle, che gli procurò molto denaro.

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Mrs Deidery, una gentildonna londinese, che pur di vivere accanto a Garibaldi, si addosserà il compito di educare i suoi figli inquieti. Mrs Mary Selly, moglie del deputato inglese Charles, che aveva ospitato Garibaldi nelle sua villa all’isola di Wight.

Ma le storie importanti furono altre. Ebbe tre mogli ufficiali. Anita Ribeiro de Silva, conosciuta in Brasile, il suo unico grande amore. L’accompagnò nel periodo più drammatico della sua vita e morì di meningite a ventotto anni, dopo avergli dato quattro figli Menotti e Ricciotti, Rosina e Teresita.
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Per Anita, dagli occhi e i capelli neri, fu un vero colpo di fulmine. Era il 27 luglio del 1839, quando la conobbe. Anita aveva diciotto anni ed era sposata, ma il consorte, in guerra dalla parte dei governativi, da tempo non aveva dato notizie di sé. Era analfabeta, ma seppe dargli tanto amore. Riuscì ad accendergli il cuore, accogliendo la sua povertà e facendo tesoro della sua ricchezza interiore. Dopo la morte di Anita, Garibaldi conobbe Emma Roberts, una nobildonna vedova, ricca, molto corteggiata, non più giovanissima, interessante, ma non bella. Si sarebbero sposati. Ma alla fine Garibaldi capì che i loro mondi erano diversi. “No, non posso farcela- disse Garibaldi (si legge nel libro, ndr), non mi ridurrò mai a una mummia come i vostri amici, fasciati di bende d’alta sartoria”. Rimasero amici, e lei continuò a finanziare le sue imprese”.

Battistina Ravello, una servetta di Nizza trapiantata a Caprera, che Garibaldi trattò come moglie, ma che non sposò mai, anche se gli dette una figlia. Fu un’amante di serie B, con cui il generale soddisfò rudemente le sue voglie dopo una lunga astinenza.

Esperance Brand, una baronessa inglese, raffinata, che a quindici anni dovette sposare il socio del padre, Alexander Brandt, il quale si suicidò dopo il matrimonio. Anche le seconde nozze non andarono bene. Il marito chiese il divorzio dopo pochi anni. Era una pasionaria, una valchiria. Colta, affascinante e il suo salotto era frequentato da letterati e politici. “Una femmina- scrive Goldoni- abituata a condurre la danza”. Garibaldi le chiese di sposarlo, ma Esperance rifiutò. Aveva capito la differenza tra sognare un’avventura romantica ed una normale convivenza..

“Fra i due- aggiunge lo scrittore- probabilmente per colpa di Garibaldi, mancò la magia che trasforma l’affetto in passione”. Continuò a provare per il condottiero affetto e attrazione.”

Se si eccettua Anita, fra tutte le donne che s’invaghirono di Garibaldi- si legge nel libro- Esperance detiene saldamente il record delle migliaia di chilometri macinati per raggiungerlo o accorrere a una chiamata, a cavallo, in treno, in carrozza, in piroscafo”. Ma le loro origini erano molto diverse. Lei nobile, lui figlio di un marinaio. In un libro di memorie Esperance, che rappresentava la versione elaborata di Anita, scrisse di Garibaldi: “Era un astro nel cielo, ma come la luna lasciava scorgere grandi macchie scure”.

Giuseppina Raimondi,

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marchesina lombarda, sposata all’età di cinquantadue anni. Cinque minuti dopo il si , un garibaldino consegnò al Generale una busta in cui era scritto che la donna era incinta di un altro, il tenente Luigi Caroli. Dopo l’annullamento del matrimonio con Garibaldi, Giuseppina, che dette alla luce un bimbo nato morto, si risposò con il conte Ludovico Mancini.

Francesca Armosino,

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un’altra serva trapiantata da Asti a Caprera, che sposò in tarda età dopo una lunga trafila burocratica e che gli diede tre figli. Donna intelligente che lo accudì quando si ammalò.

IL REGNO SABAUDO ERA SULL'ORLO DELLA BANCAROTTA

Sul regno delle due Sicilie c'erano gli interessi interessi di molte potenze straniere.Questa è l’epoca in cui l’Inghilterra teme l’allargarsi della Francia nel Mediterraneo, sia perché quest’ultima voleva mettere un Protettorato sullo Stato Pontificio e sia perché prevedeva di porre un principe francese a capo del Regno delle Due Sicilie. La tentata vendita della Sardegna ai Francesi da parte dei Savoia per tentare di sanare i fallimentari bilanci del governo sabaudo, così come era stata fatta in precedenza con Nizza e la Savoia, era stata bloccata in tempo dagli stessi inglesi, preoccupati sempre dell’espansione francese nel Mediterraneo.Nello stesso tempo l’Inghilterra, aiutando con finanziamenti, armi e protezioni di ogni genere i patrioti italiani per il raggiungimento della desiderata Unità, miravano a conquistare maggiori spazi sull’intero territorio siciliano, al fine di avere anch’essi un posizionamento importante nello stesso Mar Mediterraneo. Infatti i diversi aiuti finanziari e gli appoggi concessi dall’Inghilterra ai Rivoluzionari Italiani nascondevano un’invisibile appetibilità e brama, perché tra l’altro gli Inglesi miravano ad accaparrarsi le miniere siciliane di zolfo, prodotto che già compravano quasi totalmente, e che poi rivendevano a prezzo altissimo, perchè nella chimica era richiestissimo come prodotto esplodente e nelle armi da sparo; poi desideravano avere una forte presenza sul territorio della Sicilia Occidentale, in quanto già sviluppavano grossi traffici commerciali nel porto di Marsala ed infine avevano intenzione di utilizzare meglio l’importante base inglese di Bronte, la ducea protetta dall’Inghilterra e donata nel 1799 dal Re Ferdinando I di Borbone all’ammiraglio inglese Orazio Nelson.
Ma anche la tattica dei Savoia non era da meno nell’essere considerata altrettanto subdola e mirata: il Piemonte, che si trovava sull’orlo del collasso, non aveva né allargate attività commerciali ed industriali, a parte piccole banche gestite da privati, in prevalenza straniere, e né vi erano grandi banche che potessero giustificare il movimento di consistenti capitali finalizzati ad un possibile tentativo di ripresa economica; al contrario i piemontesi mirarono a conquistare il Sud industriale, economicamente ricco, soprattutto nei depositi bancari, perché conquistando l’area del Sud, avrebbero superato il triste periodo di bancarotta in cui essi si trovavano.

Lo Stato Piemontese, “povero, arretrato e feudalesco”, con una bilancia commerciale in forte passivo, era proprio sull’orlo della bancarotta, per cui Vittorio Emanuele II non aveva tanto da scegliere: o la guerra per l’occupazione del Sud o la bancarotta.

Il fondo monetario degli antichi Stati Italiani al momento dell’unificazione era di 686 milioni di ducati-oro (il riporto è in milioni per dare una più reale conoscenza della consistenza esistente). Solo il Regno delle Due Sicilie aveva capitali per 443 milioni di ducati-oro, seguito dalla Toscana con 85 milioni, dalla Romagna, Marche ed Umbria con 55, lo Stato Pontificio con 35, la Sardegna con 27 e poi tutte piccoli importi esistenti nei bilanci della Lombardia, e di Parma e Piacenza.

Il Regno delle Due Sicilie aveva un attivo in denaro considerevole, perciò era tanto desiderato dai Regnanti sabaudi, i quali seppero attendere il momento propizio dell’Unificazione Italiana per impossessarsi di tutte le ricchezze del Sud ed impoverirlo nelle imprese che avevano fatto la Storia del Regno di Napoli, compreso il tesoro dei Borboni.

CONTINUA


Edited by Pulcinella291 - 10/12/2023, 11:49
 
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proteus_13
view post Posted on 23/3/2011, 11:34




Eh caro Pulcinella....ce ne sono di cose che la storia ufficiale tace, non solo Bronte, con il suo tribunale militare dai processi sommari (quando c'erano).
In questi giorni leggo da più parte della morte di Cavour, avvenuta per malaria. Mi scappa da ridere.
A detta, sempre di Lorenzo Del Boca, che ci mette la faccia, Cavour sarebbe morto di lue, ossìa di sifilide.
Una domanda sorge spontanea, avrebbe detto un famoso giornalista napoletano. Se Cavour è considerato il padre della patria...ma chi sarebbe la mamma? Una donnina allegra poco pulita?
Se cercate su emule la storia di Bronte la trovate, è abbastanza fedele. Non bisogna dimenticare che in quel periodo, quando i contadini siciliani capirono che per loro non sarebbe cambiato niente, poveri erano e tali sarebbero rimasti, se la presero con tutti i fiancheggiatori dei piemontesi che trovarono a Bronte. Non per giustificarli, ma la loro rabbia era legittima.
Sull'italianità delle altre regioni annesse, basterebbe leggere ciò che scrive Curletti, agente segreto di Cavour, dalla Svizzera, il quale rivela che la corte di Sardegna, dava ai suoi carabinieri in borghese, ordini precisi: mescolarsi alla gente e suscitare le rivolte contro il potere legittimo. Sistema che funziona ancora oggi. urletti scrive dalla Svizzera, dove si era rifugiato, temendo per la propria vita.
A Napoli invece ci pensò Tore 'e Criscienzo, camorrista noto, a proteggere Garibaldi quando scese dal treno a Salerno.
Dunque Garibaldi si servì della mafia siciliana e della camorra napoletana per "fare" l'Italia. Sono fatti che piano piano cominciano ad essere ammessi dagli storiografi ufficiali. Ed era ora aggiungo io. Non sarò meno italiano per questo, ma la verità, anche se dolorosa è sempre meglio delle frottole ufficiali e del logorroico tam tam ufficiale con tutti i suoi aspetti patetici.
Anche Genova, tramite l'associazione MIL ha le sue rivendicazioni, la trovate a quest'indirizzo:
www.francobampi.it/liguria/sacco/targa/targa_foto.htm.
Quando a Genova arrivò il principe di Napoli, qualche anno fa, sì quello delle slot machine e dell'isola di cavallo, riverito dai funzionari comunali, ero presente alla manifestazione del MIL con un cartello con su scritto:
Quì si fa l'Italia o si muore. L'Italia non è stata ancora fatta, mò vulite murì?
Ciao...vai avanti così Pulcinella.
 
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proteus_13
view post Posted on 23/3/2011, 11:53




Anche il generale Gigante o Giganti presente sull'isola, generale borbonico, fu fatto letteralmente a pezzi dai suoi soldati, quando questi si accrsero che era un traditore. Sono cose difficili da dire per un napoletano, ma fu così.
I soldati borbonici, salvarono anche dei piemontesi, loro nemici che stavano per annegare nella battaglia del volturno, gettandosi nel fiume e traendoli in salvo, ma non tutti gli ufficiali mantennero fede al loro giuramento.
Quando mise in file il suo battaglione per lasciare l'isola, un soldato si fece avanti e chiese: Generà...ma noi siamo in tanti, perchè dobbiamo andarcene? l generale rispose sprezzante: taci ubriacone, torna al tuo posto.
Un giornale francese dell'epoca in una vignetta rappresentò i soldati borbonici con la testa da leone, i sottufficiali con la testa d'asino e gli ufficiali senza testa ma con le tasche piene di soldi. Quindi il tradimento di ufficiali borbonici era un fatto risaputo. Daltronde molti di loro erano massoni e la massoneria era già un forte centro di potere sia in Francia che in Inghilterra.
L'Inghilterra, che raramente viene menzionata dalla storia ufficiale, non si fidava più dei Borbone, da quando Ferdinando II cercò di togliere a loro l'appalto per l'estrazione dello zolfo in Sicilia (anche i bambini vi lavoravano per una miseria) dandola ad una ditta francese.
Il tribunale internazionale (il diritto internazionale esisteva già all'epoca) diede torto a Ferdinando che pagò di tasca sua il danno alla società francese.
Poichè gli inglesi non poterono spostare le loro molte proprietà che avevano in Sicilia, pensarono bene di spostare il re di Napoli, sostituendolo con un altro re....e chi meglio di Vittorio Emanuele II che era al limite della bancarotta?
Se una metà dell'Italia fosse uguale all'altra, non sarebbe mai esistita una "questione meridionale" che in 150 anni non è mai stata discussa.
 
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view post Posted on 28/3/2011, 12:14
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LE VERITA' STORICHE SULL'UNITA' D'ITALIA

Di molte verita' abbiamo gia' ampiamente parlato in questo post . Abbiamo parlato anche delle teorie di alcuni storici antirisorgimentalisti i quali ritengono che la istaurazione dello Stato italiano sia intriso di retorica mistificata dalla storia ufficiale.
Un fatto è certo i Carbonari, Mazzini, Garibaldi, Cavour ed i Savoia chi per un verso chi per un altro tutti volevano questa benedetta unita' d'Italia.
Eppure non tutti ebbero le loro soddisfazioni. I mazziniani non ebbero né la repubblica, né la democrazia; Garibaldi fu considerata la “star” del Risorgimento con piazze e monumenti in sua memoria, ma fu mandato in esilio a Caprera dallo stesso Vittorio Emanuele II che diceva di essere suo amico; i Siciliani ebbero l’autonomia solo con la Repubblica Italiana del 1946, gli Inglesi ( che appoggiarono in maniera determinante Garibaldi, non ebbero né la Sicilia, né il libero commercio delle merci.
Il Risorgimento si concluse solo con l’ingrandimento del Regno di Sardegna ed in questo modo fu interpretato dai Savoia , il sud che tanto sperava nelle riforme promesse si impoveri' e forse bisognerebbe dar ragione a quelli che sostengono che l’unità d’Italia è stata fatta col “sangue e col denaro del Sud e quel che è peggio contro il Sud" perchè ci fu una precisa volontà politica di spostare l’asse economico della nuova Italia, dal Meridione al Settentrione.
Gli altri stati europei assistettero più o meno impassibili alla distruzione degli antichi governi e riconobbero la “rivoluzione” italiana come fatto compiuto. Il processo di formazione del nuovo regno non avvenne in modo naturale: non fu un processo di unità, ma d’unificazione all’insegna dell’annessione, in altre parole, uno stato agì in forma egemonica sugli altri.

I CONTRASTI TRA LE DIVERSE ANIME DEL NOSTRO RISORGIMENTO

Un altro fatto acclarato è quello che alcuni "padri della patria" furono apertamente in contrasto fra di loro.
Facciamo qualche esempio.
Il 30 luglio 1860, mentre Garibaldi si apprestava a sbarcare dalla Sicilia alla Calabria, Cavour, tramava alle spalle dell’ “Eroe dei Due Mondi”, così scrivendo all’ammiraglio piemontese Persano: “Il marchese di Villamarina gli avrà trasmesso il telegramma che le ordinava di recarsi a Napoli con Maria Adelaide. Scopo apparente di questa sua missione è di tenersi a disposizione della Principessa di Siracusa, sorella del Principe di Carignano, cugina del Re. Scopo reale è di cooperare alla riuscita di un piano che deve far trionfare in Napoli il principio nazionale, senza l’intervento di Garibaldi.
E’ facile capire che, Cavour, per ovvie ragioni politiche, voleva vincere senza l’apporto decisivo di Garibaldi e lui stesso affermava: “Garibaldi è il più fiero nemico che io abbia”ed ancora si legge in una lettera scritta dal Cavour al Nigra: Se Garibaldi passa sul continente e si impadronisce del regno di Napoli, diventerà il padrone assoluto della situazione: Il re Vittorio perde a questo punto il suo prestigio.Nemmeno i rapporti fra Cavour e Re Vittorio Emanuele II sembrerebbe che fossero idilliaci.
Infatti, ecco cosa rispose il Cavour a Luigi Farini che lo invitava a venire a Napoli dopo la conquista: “Il Re non mi ama ed è geloso di me, mi sopporta ministro, ma è lieto quando non mi ha al fianco…come uomo desidero da lui un solo favore, il rimanerne il più possibile distante,dal canto mio mentirei se vi dicessi di aver dimenticato che il giorno in cui il Re entrava nel palazzo Pitti, esso , lungi dal rivolgermi una sola parola di ringraziamento, mi disse cose villane e dure."Ma l’antipatia fra Cavour e Garibaldi era reciproca, addirittura, Garibaldi arrivò a chiedere a Vittorio Emanuele II di sostituire il Primo Ministro sabaudo.
Anche interessante conoscere il punto di vista di un altro “padre della patria”, Giuseppe Mazzini e che così scrisse a Cavour: “Signore io vi sapevo, da lungo tempo, tenero alla monarchia piemontese più assai della patria comune; adoratore materialista del fatto più che di ogni santo, eterno principio…perciò se io prima non vi amavo, ora vi disprezzo, eravate finora soltanto nemico, ora siete bassamente, indecorosamente nemico"


 
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GIUSEPPE MAZZINI :ORGANIZZATORE DI FOCOLARI RIVOLUZIONARI?

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Giuseppe Mazzini è un nome noto a chiunque in Italia abbia frequentato le scuole dell’obbligo. Il suo nome è associato al Risorgimento italiano, anzi è il Risorgimento italiano.
I libri di storia ce lo presentano come un idealista carismatico , uno stratega e un uomo universale, ma anche per lui ci sono aspetti alquanto oscuri .
Dall'analisi retrospettiva delle sue gesta emerge un'esistenza densa di contrasti, di esperienze drammatiche, di amicizie profonde e vili tradimenti, di entusiastiche speranze e cocenti delusioni, di risultati raggiunti e inaccettabili fallimenti. Ancora oggi su un fatto aleggia il mistero: appartenne o no alla Massoneria? Tra chi sostiene di no e chi lo vuole addirittura tra i fondatori del 'Palladismo', una corrente di culto anticristiano se non filo-satanico e segretissima, regna una grande confusione. Qualche altro sostiene che organizzava focolai rivoluzionari improvvisati, che finivano malissimo, e mandava al martirio tanti giovani, quindi cattivo maestro che mandava in giro poveri giovani illusi dalla folle ideologia rivoluzionaria a commettere assassini politici ”«Noi dobbiamo cospirare, procurarci bombe, usare passaporti falsi, contrabbandare materiale, e, se non possiamo fare altro.
Lo storico francese Pierre Milza di lui ha detto “A mio avviso, “Mazzini può apparire come il padre del terrorismo italiano .
Passando dalle parole ai fatti, è difficile non parlare di una strategia terroristica mazziniana, se si pensa alla fallita insurrezione milanese del febbraio 1853. Allora, il partito mazziniano progettò di assassinare tre aristocratici milanesi, postisi al servizio dell’amministrazione austriaca, in modo da provocare la reazione del governo, che si prevedeva talmente dura da suscitare una rivoluzione tra le masse operaie della città. Durante i preparativi della rivolta, uno stretto collaboratore di Mazzini, Felice Orsini, il quale poi cercò di uccidere Napoleone III, nel gennaio del 1854, provocando una carneficina tra i passanti parigini, aveva affermato che "la prima legge della cospirazione imponeva il ricorso ad ogni mezzo che valga a distruggere il nemico".Questa tattica stragista, di cui direttamente o indirettamente Mazzini fu «cattivo maestro», incontrava la ferma disapprovazione di altri esponenti del movimento democratico. Carlo Cattaneo rimproverò Mazzini per la sua ostinazione a immolare i suoi seguaci «in progetti intempestivi e assurdi». Garibaldi ricordò con amarezza, nelle sue Memorie, gli inganni e la duplicità della politica mazziniana, concepita da «un uomo che parla sempre di popolo, ma non lo conosce». Marx, in un articolo del «New York Daily Tribune» dell’8 marzo 1853, sparse tutta la sua tagliente ironia per deprecare le «rivoluzioni improvvisate» di Mazzini che comportavano l’inutile sacrificio di insorti e popolazione. Nel 1858, il grande giornalista francese Emile de Girardin avrebbe rincarato la dose, affermando che Mazzini era incapace di far distinzione «tra le congiure e le insurrezioni, tra il pugnale dell’imboscata e il fucile della barricata». Ancora più duro sarebbe stato il giudizio del moderato italiano Luigi Sanvitale che parlò esplicitamente dell’ispirazione «terroristica» del rivoluzionario genovese, il quale «disseminando menzogne, induce incauta gente a cieche frenesie sciagurate».
Paradossalmente, tuttavia, l’unico regicidio portato a termine durante il periodo risorgimentale non fu imputabile alla responsabilità di Mazzini. Nel marzo del 1854, il duca di Parma, Carlo III di Borbone, veniva pugnalato a morte da un oscuro artigiano, Antonio Carra. L’ipotesi di un presunto «grande complotto mazziniano», sulla quale si erano indirizzate in un primo momento le indagini si rivelava però del tutto inconsistente. Secondo una diversa ricostruzione, ancora tutta da verificare, dietro l’omicidio del duca si allungava, invece, l’ombra di Cavour che avrebbe deciso di utilizzare lo strumento dell’assassinio politico per favorire l’espansione della monarchia piemontese nella pianura padana.


PALERMO E LA RIVOLTA DEL SETTE E MEZZO


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Una volta che la Sicilia venne annessa, qualcuno dice con un falso plebiscito,a Palermo vi fu una sollevazione popolare avvenuta dal 16 al 22 settembre 1866. Chiamata del "sette e mezzo" perché durò sette giorni e mezzo nel contesto storico delle sommosse popolari e guerriglia del Sud Italia che fu domata tramite il bombardamento dal mare della capitale siciliana. Bombardamento effettuato dalla Regia Marina che così, uccidendo qualche migliaio di palermitani in rivolta o innocenti si ‘riscattò’ dalla sconfitta di Lissa(, subìta qualche settimana prima e da cui stava ritornando. Fu una violenta dimostrazione antigovernativa, avvenuta al termine della terza guerra di indipendenza, organizzata da ex garibaldini (che si erano uniti ai Mille dopo lo sbarco) delusi, reduci dell'esercito meridionale, partigiani borbonici e repubblicani, che insieme formarono una giunta comunale.
Tra le cause: la crescente miseria della popolazione, il colera e le sue 53 mila vittime, l'integralismo dei funzionari statali, che consideravano "quasi barbari i palermitani", le pesanti misure poliziesche e vessatori balzelli introdotti.Migliaia di persone insorsero, anche armati, provenienti anche dai paesi vicini. Quasi 4.000 rivoltosi assalirono prefettura e questura, uccidendo l'ispettore generale del polizia. La città restò in mano agli insorti e la rivolta si estese nei giorni seguenti anche nei paesi limitrofi, come Monreale e Misilmeri: fu stimato che in totale gli insorti armati fossero circa 35.000 in provincia di Palermo. Negli scontri di quei giorni persero la vita ventuno carabinieri e dieci guardie di pubblica sicurezza. Palermo per sette giorni rimase così in mano ai rivoltosi.
Il governo italiano decise di proclamare lo stato d'assedio e ad adottare contro il popolo palermitano una dura repressione, con rappresaglie, persecuzioni, torture e violenze.
Dovette intervenire l'esercito comandato da Raffaele Cadorna, mentre le navi della Regia Marina e quelle inglesi bombardarono la città. Dopo lo sbarco dei fanti di marina del Reggimento San Marco per sedare la rivolta, molti dei rivoltosi furono arsi vivi, combattendo casa per casa e distruggendo Palermo, che fu riconquistata da circa 40.000 soldati. Alla fine furono oltre 200 le perdite militari e oltre mille i civili passati per le armi. Ecco cosa scrivera'molto coloritamente Camilleri :""Una tinta mattinata del settembre 1866, i nobili, i benestanti, i borgisi, i commercianti all'ingrosso e al minuto, i signori tanto di coppola quanto di cappello, le guarnigioni e i loro comandanti, gli impiegati di uffici, sottuffici e ufficiuzzi governativi che dopo l'Unità avevano invaso la Sicilia pejo che le cavallette, vennero arrisbigliati di colpo e malamente da uno spaventoso tirribllio di vociate, sparatine, rumorate di carri, nitriti di vestie, passi di corsa, invocazioni di aiuto. Tre o quattromila viddrani, contadini delle campagne vicino a Palermo, armati e comandati per gran parte da ex capisquadra dell'impresa garibaldina, stavano assalendo la città. In un vìdiri e svìdiri, Palermo capitolò, quasi senza resistenza: ai viddrani si era aggiunto il popolino, scatenando una rivolta che sulle prime parse addjrittura indomabile. Non tutti però a Palermo furono pigliati di sorpresa. Tutta la notte erano ristati in piedi e viglianti quelli che aspettavamo che capitasse quello che doveva capitare. Erano stati loro a scatenare quella rivolta che definivano "repubblicana", ma che i siciliani, con l'ironia con la quale spesso salano le loro storie più tragiche, chiamarono la rivolta del "sette e mezzo", ché tanti giorni durò quella sollevazione. E si ricordi che il "sette e mezzo" è magari un gioco di carte ingenuo e bonario accessibile pure ai picciliddri nelle familiari giocatine di Natale. Il generale Raffaele Cadorna, sparato di corsa nell'Isola a palla allazzata, scrive ai suoi superiori che la rivolta nasce, tra l'altro, "dal quasi inaridimento delle risorse della ricchezza pubblica", dove quel "quasi" è un pannicello caldo, tanticchia di vaselina per far meglio penetrare il sostanziale e sottinteso concetto che se le risorse si sono inaridite non è stato certamente per colpa degli aborigeni, ma per una politica economica dissennata nei riguardi del Mezzogiorno d'Italia".
Fatto sta che nella rivolta di Palermo insorsero contemporaneamente e di concerto sia l’opposizione di estrema destra, nobili e clero, che quella di estrema sinistra. I nobili della destra estrema ed il clero avevano come obiettivo la restaurazione borbonica e clericale, la sinistra estrema aveva come obiettivo la costituzione di uno stato repubblicano sul modello mazziniano. Indicativo è il fatto che la giunta rivoluzionaria aveva un presidente borbonico, il principe di Linguaglossa, ed un segretario mazziniano, Francesco Bonafede. Come sarebbe stato possibile conciliare queste due linee politiche non c’è dato sapere, vista la feroce repressione ed il fallimento della rivolta.
Ma perché Palermo, una delle città più importanti d’Italia, una delle città che avevano anche favorito i sabaudi, consentendo lo sbarco di Garibaldi e favorendone l’avanzata, dopo solo 5 anni di governo si ribellò? Ed è questo un evento da considerare come regionale ed isolato o espressione di un malessere più diffuso? Certamente un peso notevole l’ebbe la nascita di un mercato nazionale e l’estensione su tutto lo stato unificato delle rigide leggi di Torino. A Palermo esplose quel fenomeno che già si era verificato in altre città europee, quel fenomeno che Hobsbawn ha chiamato “mob” dovuto alla difficoltà di passare ad una economia di tipo feudale, campagnola, assistita al capitalismo[1]. Quello di Palermo fu il primo “mob” dell’Italia unita.



Edited by Pulcinella291 - 28/3/2011, 19:59
 
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proteus_13
view post Posted on 29/3/2011, 10:53




E' un "momento" storico molto complesso e difficile da interpretare per i vari aspetti ed interessi che erano in gioco. Certi fatti non li sapremo mai, come la contabilità che Garibaldi affidò a Ippolito Nievo, che imbarcatosi per rendere conto al governo piemontese, naufragò miseramente, per lo scoppio della caldaia, si dice. Incidente o premeditazione? I furti e gli sperperi del denaro del sud, operati da Garibaldi e dai suoi uomini, figuravano sui quei libri?
Ovviamente a conquista avvenuta, il governo piemontese, aveva tutta la convenienza a presentare quel momento storico in un certo modo, omettendo certi aspetti. A torto o a ragione. Come si sa, nessuno degli storici ufficiali scrive delle scuole chiuse in tutto il sud finchè è durata la guerra civile. Nessuno esprime pareri sulla nascita della Banca d'Italia ad opera di Cavour, di cui era socio e del suo amico ligure Bombrini. Nemmeno il sito ufficiale della Banca ne fa cenno.
Voglio dire infine, che se ancora oggi si parla della storia dell'unità, con le sue molteplici contradizioni, è solo in funzione al fatto che da quel momento Napoli e tutto il sud Italia non ha più avuto alcun progresso che il governo "liberal democratico", continuatore della politica savoiarda, non voglia. Diversamente forse ci sentiremmo più italiani. Da allora il cosidetto sud è sotto gli occhi del mondo intero e come si sà, non vi è più cieco di chi non vuol vedere.
Per completare vorrei precisare che Mazzini fu carbonaro, Garibaldi e Cavour massoni. Vittorio Emanuele II nè l'uno nè l'altro, a lui interessava l'allargamento dei propri confini e i quattrini del sud.
 
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view post Posted on 29/3/2011, 15:45
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QUANDO GARIBALDI IN PARLAMENTO ASSALI' CAVOUR


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Era il 18 aprile del 1861 quando a Palazzo Carignano sede del giovane parlamento del nuovo stato italiano,si visse il primo vero momento di tensione. Si dibatteva sul destino dei garibaldini protagonisti della conquista dell’Italia meridionale, se inquadrarli nell’esercito regolare o rispedirli a casa con una pacca sulla spalla e un compenso simbolico. La sala di palazzo Carignano, che ospita la seduta a Torino, è percorsa da un’insolita agitazione. Ha parlato il ministro della guerra, generale Fanti, regista della calata delle truppe piemontesi nello Stato Pontificio e della sua parziale occupazione. La sua posizione è drastica: solo un limitato numero di camicie rosse può essere può essere inserito nell’esercito regolare, il resto deve essere smobilitato.Le idee di Cavour sull’argomento sono note: il presidente del consiglio ha promesso che i volontari confluiranno in gran parte nell’esercito regolare e una porzione cospicua degli ufficiali garibaldini verrà assorbita nei ranghi dei graduati sabaudi, senza peraltro pretendere di ricevere lo stesso trattamento degli ufficiali regolari. In una lettera di qualche mese prima a Farini, emissario del governo a Napoli, il conte assicurava che non avrebbe mai e poi mai permesso di liquidare le camicie rosse con una semplice gratificazione. “Su questo punto non transigerei. Anziché assumere la responsabilità di un atto di nera ingratitudine, vado a seppellirmi a Leri [la sua tenuta di campagna]”.

Alla seduta è presente Giuseppe Garibaldi. Eletto deputato nel collegio di Napoli, risalta immediatamente tra le marsine e i cilindri dei colleghi. E’ seduto tra i banchi dell’estrema sinistra, addobbato alla sua maniera con la camicia rossa e il poncho argentino. Ha un discorso scritto ma decide di parlare a braccio. Prende la parola e nella sala all’improvviso cala il silenzio.

La voce del Generale è decisa, la “natura leonina” ruggisce come sul campo di battaglia. Il suo è un discorso assolutamente impolitico. “L’Italia è fatta”, proclama, “ne ho la coscienza perché ho fede nel nostro forte esercito e di più conto sull’entusiasmo e sulla generosa volontà di una nazione che già tante ha dato prove di valore, ancor senza essere esercito disciplinato e regolare” .

Poi si pronuncia sul dualismo che per molti lo vede contrapposto al conte di Cavour e assicura di non aver fatto nulla per alimentarlo. “Tutte le volte che quel dualismo ha potuto nuocere alla gran causa del mio paese io ho piegato, e piegherò sempre”.

Si tratta, Garibaldi lo lascia intuire, di una contrapposizione personale (essendo ormai caduta ogni questione di fedeltà alla corona, rispetto della monarchia e abiura della rivoluzione mazziniana) e per ciò stesso ancora più penosa. Ma a dispetto di questa contrapposizione “l’Italia non è dimezzata, è intera; perché Garibaldi e i suoi amici saranno sempre con coloro che propugnano la causa d’Italia e ne combattono i nemici in qualunque circostanza”. A Cavour, però, il Generale non fa sconti. Il suo ministero lo ha reso “straniero in Italia”, la “fredda e nemica mano” del suo ministero ha fatto sentire i suoi “malefici effetti” anche sulla spedizione dei Mille, mobilitando l’esercito piemontese col pretesto dell’anarchia nell’Italia centrale e provocando “l’orrore di una guerra fratricida”.

A palazzo Carignano scoppia il putiferio. Vocio confuso, tumulto tra le tribune e nelle gallerie (siamo nel 1861, avete capito bene…). Cavour protesta dai banchi del governo e la Camera, come a una parola d’ordine, insorge. I moderati gridano al vilipendio delle istituzioni, da sinistra si invoca libertà di parola per Garibaldi, ma inutilmente. Su tutto emerge ancora una volta la figura del presidente del consiglio, il geniale primo ministro che ha guidato l’Italia all’unità, il prodigioso incanta serpi che regge le fila del gioco politico in parlamento. Per dieci anni, nella fossa dell’assemblea legislativa, ha affogato impeti, sbaragliato concorrenti, rivoltato trame, orientato sentimenti e decisioni. Ancora in parlamento spera di risolvere il problema dell’amalgama tra il nord d’Italia e le regioni meridionali recentemente conquistate. In una lettera alla contessa di Circourt, alla fine del 1860, poteva orgogliosamente affermare: “Io non mi sono mai sentito debole se non quando le camere erano chiuse. D’altra parte non potrei tradire la mia origine, rinnegare i principi di tutta la mia vita. Sono figlio della libertà: è ad essa che debbo tutto quello che sono”.

In realtà Cavour è un uomo solo. “Ammirato, temuto e seguito, ma non amato”, come ha notato l’ambasciatore inglese a Torino Sir James Hudson. Circondato da pochi amici non del tutto fidati, incapace di aprirsi completamente coi suoi collaboratori e di concedere loro un’iniziativa veramente personale. Né più né meno Cavour è un accentratore, con un’irresistibile tendenza al “faccio tutto io”. I suoi fedelissimi lo considerano un “nobile amico”, salvo restare spiazzati dai suoi capricci, il suo umore cangiante, l’egocentrismo, la permalosità. Allora rispondono alla freddezza con la freddezza, all’ingratitudine con l’ingratitudine, nell’attesa che un’attenzione, una risata contagiosa, un’intuizione alla cui genialità non si può restare indifferenti, li riconquisti.

Instabile, umorale, geniale; infaticabile fino a mettere a repentaglio la sua salute, Cavour è un istrione della politica, un solista con la vocazione insopprimibile al protagonismo. Secondo alcuni osservatori, tuttavia, il suo vero demone, al di là della sbandierata fedeltà ai principi liberali, è l’amore per la tirannia. Per amore di tirannia (o per gli incomodi della ragion di Stato?) nel 1855 aveva impegnato il Piemonte nella guerra di Crimea contro la maggioranza del suo stesso governo; nel 1857 aveva fatto annullare l’elezione di un quarto dei deputati al parlamento sabaudo, per lo più clericali e ultraconservatori a lui sgraditi; per mesi nel 1859 aveva concentrato nelle sue mani, oltre alla carica di presidente del consiglio, i ministeri degli esteri e degli interni, della guerra e della marina.

Da qualche tempo anche con Vittorio Emanuele II i rapporti sono tesi. Secondo le stesse parole di Cavour, il re è geloso di lui e non ne sopporta la vicinanza: ha ormai smascherato la tattica del “prima fare e poi dirglielo” che il primo ministro cerca di applicare nei suoi confronti . Cavour è solo, garantito dal suo prestigio e dalla generale consapevolezza della sua insostituibilità, eppure circondato da una cronica diffidenza. Non si tratta soltanto dell’ovvia opposizione dei democratici: anche nella maggioranza moderata si respira aria di fronda contro il conte. I principali esponenti della “destra storica” covano rancore nei suoi confronti.

Massimo D’Azeglio, il più anziano statista italiano, deplora molti dei metodi usati da Cavour per unire l’Italia. Con parole che potrebbero star bene in bocca a Mazzini ammonisce: “Non si fonda un’associazione umana qualunque su una serie di furberie, di perfidie e di bugie”. Non è un’obiezione puramente moralistica: al conte D’Azeglio rimprovera “la sua ignoranza delle varie parti della penisola. Voler agire su un paese senza averlo neppure veduto, è questo un problema che nessun gran talento basta a risolvere” . In privato, poi, sostiene che l’annessione di Napoli equivale a dividere il letto con un malato di vaiolo.

Il barone Ricasoli, destinato ad essere il successore di Cavour, è un orgoglioso aristocratico toscano, onesto ma rigido, estraneo ai piccoli inganni e ai compromessi insiti nel governo parlamentare, incapace di capire fino in fondo e dunque di imitare le tecniche cavouriane.

Urbano Rattazzi ha letteralmente il dente avvelenato. Dopo aver condiviso con Cavour gli onori e gli oneri della stagione del “connubio”, era stato silurato qualche anno prima, quando Napoleone III ne aveva chiesto la testa perché troppo progressista. A malincuore si era piegato alla decisione in nome dell’Italia, per facilitare la trattativa che avrebbe dovuto condurre alla guerra con l’Austria; ma a Cavour non aveva perdonato la disinvoltura mostrata nella sua giubilazione. Escluso dal governo, se n’era rimasto a guardare gli avvenimenti in disparte, a frequentare i salotti e a rassicurare Vittorio Emanuele sulla fedeltà della sua amante, ricevendone in cambio l’investitura a primo ministro dopo le dimissioni del conte nell’estate del 1859. Il tutto mentre la moglie, fortunata scrittrice, dipingeva il ritratto inverosimile e agiografico dell’Italia “ai tempi di Rattazzi” . Adesso, di fronte alle vibranti proteste di Cavour, fa valere, con un pizzico di compiacimento, la sua autonomia e le sue prerogative di presidente della Camera. Che stia al suo posto e provi l’impotenza, il signor primo ministro Dopo un quarto d’ora di sospensione per “sedare i tumulti”, alle quattro del pomeriggio del 18 aprile, la seduta del parlamento riprende in un silenzio tombale. Garibaldi rinuncia ad attaccare Cavour ma continua a lamentare il trattamento umiliante riservato alle camicie rosse: “Dirò soltanto che se si voleva conservare l’armata meridionale, si poteva dare a ciascuno uno, due, tre mesi di permesso, e non solleticarli con sei mesi di soldo perché se ne andassero…” .

In pochi minuti la Camera torna in preda all’agitazione. Tutti i gruppi della destra liberale – i piemontesi vicini a Cavour, i lombardi di Minghetti e i toscani del barone Ricasoli – contestano l’impudenza di Garibaldi, che gli costerà una precoce, e inevitabile, emarginazione politica. Ma a rumoreggiare sono anche la sinistra democratica e i nuovi arrivati, i deputati meridionali, gli esuli “adottati” dal Piemonte come Massari e Cordova e l’accozzaglia indegna ma “malleabile” estratta dall’élite dell’ex regno borbonico e presentata a Cavour in termini assai poco lusinghieri dal suo emissario a Napoli Costantino Nigra .

Se i compagni dell’opposizione si preoccupano per le intemperanze di Garibaldi, gli uomini del sud sono divisi, sospesi tra la riconoscenza al Generale e il rispetto (al confine del timor sacro) verso Cavour, l’avversione alla “piemontizzazione” e la necessità di acquisire crediti presso il governo. Per questo, messe da parte per un giorno le critiche all’azione ministeriale nel meridione, il 18 aprile scelgono di fare fronte comune col presidente del consiglio contro le pretese di Garibaldi. Si scaldano, partecipano al vocio, sono tra i principali artefici del tumulto che invade l’aula e fa minacciare a Rattazzi una nuova sospensione della seduta.

Non appena, a fatica, l’ordine viene ristabilito, il primo a prendere la parola è Nino Bixio. Degli uomini di sinistra presenti in parlamento non è certo il più navigato. Non è Depretis, il “cacciatore di popolarità” che Cavour mal sopporta. Non è Crispi, l’audace organizzatore della spedizione dei Mille, l’ex mazziniano dal passato torbido che prova a riciclarsi come uomo di Stato. Non si può annoverare tra i politici di professione. E infatti tiene un discorso per niente politico, ma altamente, e ingenuamente, patriottico.

“Io sorgo nel nome della concordia e dell’Italia. Quelli che mi conoscono sanno che io appartengo sopra ogni cosa al mio paese. Io sono tra coloro che credono alla santità dei pensieri che hanno guidato il generale Garibaldi in Italia, ma appartengo anche a quelli che hanno fede nel patriottismo del signor conte di Cavour” . Sull’onda degli applausi prolungati, Bixio tenta una mediazione. Ricorda innanzitutto la sua fiducia assoluta nelle capacità militari del Generale: “Quando sotto le armi, militarmente mi dà degli ordini, io li eseguo senza punto discuterli”. E davvero di Garibaldi Bixio è stato il braccio forte, lo scudiero fedele, anche a costo di impegnarsi in azioni controverse, come la repressione a Bronte, che aveva segnato per molti la svolta “gattopardesca” del Generale e il tramonto di ogni ipotesi di riforma agraria e trasformazione democratica in Sicilia. Quanto a Cavour, Bixio rivendica di non avergli mai “fatto la corte” e di ammirarlo disinteressatamente per quello che è stato capace di fare.
La composizione del dualismo tra i due personaggi è, a suo parere, indispensabile e comporta una qualche forma di regolarizzazione dei garibaldini: “L’Italia ha bisogno di tutti i suoi elementi militari. (…) La guerra non è ancora finita, noi non siamo ancora nelle nostre frontiere naturali” . Senza saperlo Bixio sta firmando il suo testamento politico. Il ruolo di mediatore non gli porterà fortuna. Scaricato dai democratici, verrà sempre guardato con diffidenza dai moderati. Alle elezioni del 1865, sconfitto nella sua Genova, rischierà l’esclusione dal parlamento. Sarà ripescato nel collegio di Castel San Giovanni, grazie all’appoggio indeciso di Depretis, e qui confermato nel 1867. Ma ai lavori del parlamento parteciperà senza più entusiasmo, per semplice onor di firma. Come per onor di firma, senza gloria vera, sarà al fianco del generale Cadorna il giorno della breccia di Porta Pia. Sarà nominato senatore, galleggerà nel marasma della politica nazionale, continuerà a sentirsi irrimediabilmente “sradicato”. Fino alla clamorosa decisione di imbarcarsi per Singapore a bordo del Maddaloni, la nave a vela e a vapore che si è fatto costruire nel frattempo, a prezzo di duri sacrifici finanziari, nei cantieri di Newcastle .




 
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proteus_13
view post Posted on 30/3/2011, 03:03




Finalmente in quello stesso anno, il 6 giugno 1861, il "grande statista e patriota italiano" primo ministro, padre della patria, conte di Cellarengo e di Isolabella, tirò le cuoia per la sifilide che lo colpì. Quella sifilide che oggi è curabilissima e che gli storici ufficiali continuano a chiamarla malaria. Non è possibile infatti che un grande statista venga diminuito agli occhi degli italiani quale puttaniere incallito. Forse il Padreterno aveva ascoltato le preghiere dei tanti sudichi che lo maledivano e delle ragazzine che aveva fatto rapire per poi godersele: pulite o sporche tutto andava bene: Tanto và la gatta al lardo che ci lascia lo zampino....e lui ci lasciò la pelle. Ma ormai il danno all'Italia e ai meridionali era fatto. Chissà in quale girone è finito. Godo come un riccio alla giustizia divina che non gi diede eredi, diversamente Napoli e tutto il sud oggi, ipoteticamente, oltre ai cumuli di monnezza, avrebbe un cumulo sproporzionato di debiti.

Risorgimento contro l’identità italiana

Quest’anno ricorre il 150° anniversario dell’attacco che la Rivoluzione sferrò contro i popoli italiani con l’ausilio dello Stato sabaudo, al quale la massoneria internazionale aveva affidato il ruolo di portabandiera.

Furono invasi manu militari - e senza dichiarazione di guerra - territori pacifici e spodestati i legittimi regnanti; furono annessi ai possedimenti piemontesi con falsi plebisciti; furono depredati tesori di Stato e ricchezze private; furono commesse violenze inaudite ancora nascoste nel segreto di archivi inaccessibili.

L’esito fu la scomparsa di regni millenari, come quello Pontificio, o dalla storia gloriosa e secolare, come le Due Sicilie, e la nascita di un nuovo Stato concepito da chi “pensava all’inglese e si esprimeva in francese” con l’intenzione di cancellare le identità dei singoli popoli italiani ed in particolare quei connotati spirituali che, soli, erano i fili che le legavano tutte: la fede e la tradizione.

Quel che è seguito è la radice dei “mali italiani” – etici, culturali, politici ed economici -, della mancanza di un’identità nazionale nella quale riconoscersi, della demonizzazione e dell’emarginazione di intere parti del Paese, della permanente spaccatura in fazioni che ha caratterizzato la storia di quest’ultimo secolo e mezzo.
Il Seminario 2011 di Fraternità Cattolica, prende in esame gli eventi del 1860-61 per ritrovare gli autentici elementi, le note distintive, dell’identità italiana.



Incontri: ore 18.30 - Via Crispi, 36 A - Napoli



venerdì 25 febbraio - Miguel Ayuso - Il legittimismo di fronte alla Rivoluzione italiana

lunedì 7 marzo - Guido Vignelli - Italia, l’identità tradita dal Risorgimento

lunedì 21 marzo - Gennaro de Crescenzo - Due Sicilie, il Regno che poteva essere

lunedì 4 aprile - Pucci Cipriani - La reazione dell’Italia pre-unitaria: il Granducato di Toscana

lunedì 18 aprile - Antonella Grippo - Il brigantaggio, guerra nazionale e religiosa


lunedì 2 maggio - Mario Montalto - Due Sicilie, l’aggressione militare

da: Fraternità cattolica...non vedo il link. Lo cerchi chi è interessato.
 
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view post Posted on 30/3/2011, 10:33
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Pulcinella291 Forum

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L'ORECCHIO MOZZATO DI GIUSEPPE GARIBALDI QUALE LA VERITA'?

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Che Giuseppe Garibaldi avesse un orecchio tagliato sembra cosa oramai assodata, ma sulle cause della perdita dell'orecchio sinistro sono state formulate varie ipotesi, ma nessuna fin d'ora è stata dimostrata.
Non è stato infatti mai rinvenuto alcun documento che provi un provvedimento penale all'orgine del moncone, secondo alcuni tipico dei paesi sud-americani quando l'accusato era reo di abigeato.
Un'altra teoria è quella del morso, con il quale una donna sudamericana avrebbe tranciato il lobo sinistro dell'Eroe dei Due Mondi, mentre tentava di violentarla.
Anche in questo caso però non esiste alcun documento che suffraghi tale tesi.
Vi è invece una terza ipotesi, accompagnata da documenti storici, molto verosimile: un conflitto a fuoco.
A causa delle sue scorribande, Garibaldi era ricercato dai Governi di mezzo Sud America quando, nel 1835, gli venne tesa un'imboscata nel Gualeguay.
Quel giorno due imbarcazioni apparentemente innocue si avvicinano alla sua goletta, erano soldati. All'intimazione di arrendersi Garibaldi risponde con le armi, fu in quei momenti che una serie di palle lo colpiscono, di queste una si conficca sotto l'orecchio sinistro lasciandolo quasi esanime.
I garibaldini riusciranno a salvarsi, ma Don Peppino subirà una lunga convalescenza a causa delle profonde ferite e dell'operazione subita per estrarre la pallottola(il chirurgo di chiamava Ramon Delarca) che si era fermata sotto l'altro orecchio. E' lui stesso a parlarne nel suo romanzo "Clelia: il Governo dei Preti" dove egli, novello brigante nelle terre pontificie, scrive di essere caduto in un imboscata orchestrata da una banda di uomini comandata da un "prete satanico". Gli spari lo colpiscono più volte ma la ferita più grave è quella che gli portò via "questo pezzo di orecchio sinistro".

NELLA BATTAGLIA DI CALATAFIMI CI FU TRADIMENTO E CORRUZIONE?
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I libri di scuola parlano di una gloriosa battaglia dove i garibaldini riportarono una grande vittoria ma fu veramente cosi'??
Vediamo .La battaglia di Calatafimi venne combattuta il 15 maggio 1860, in località Pianto Romano, posta a circa 4 km dall'abitato di Calatafimi e a poca distanza dalle rovine di Segesta, da i Mille di Giuseppe Garibaldi, affiancati da mezzo migliaio di siciliani, contro circa 3.000 militari borbonici che formavano la brigata al comando del generale Francesco Landi.
Alcune fonti riferiscono che Il maggiore Sforza, comandante dell'8°Cacciatori, con sole quattro compagnie, incontrò il giorno 15 i garibaldini e non poté fare a meno di assalirli. I garibaldini, che ebbero trenta morti, vennero sgominati e tentarono di rifugiarsi sulle colline, ove furono inseguiti dallo Sforza. In quel mentre il generale Landi, invece di inviare altre forze per il completamento del successo, ordinò la ritirata senza neanche avvisare lo Sforza, il quale avendo terminate le munizioni fu costretto a riportare i suoi verso il grosso che si stava incredibilmente allontanando. Ne seguì un caos indescrivibile, un po' perché la truppa non riusciva a capire il motivo della ritirata, un po' perché qualche sfrontato garibaldino, tornato indietro, si era messo a sparare sulla retroguardia duosiciliana.
Il giorno 17 il Landi, dopo aver fatto fare inutili e faticosi marce alle sue truppe, si ritirò incomprensibilmente in Palermo.
Dopo che l'attacco era stato fermato, senza compromettere la loro sostanziale superiorità, in modo del tutto inaspettato ed incomprensibile, furono i soldati borbonici ad indietreggiare, sotto gli sguardi increduli dei Garibaldini. L'ordine di ritirata del generale Landi gli appariva così illogico che, per una buona ora, Garibaldi non seppe decidersi a ordinare il contrattacco. Temendo una trappola, si limitò ad osservare le precipitose manovre di ripiego dei reparti nemici, ordinatamente coperte dai Cacciatori Napoletani.
Il combattimento, durato poco più di 4 ore, terminò con un bilancio provvisorio 32 morti, per entrambi gli schieramenti, tra cui 19 Garibaldini. Delle 13 perdite borboniche, due furono causate dal franare di un cannone da campagna durante le operazioni di ritirata. Il pezzo venne recuperato dai vincitori, aumentando così del 50% l'artiglieria a disposizione dei Mille.

Landi, al ritorno a Napoli, fu sottoposto, insieme ad altri ufficiali, al giudizio di una commissione che prosciolse tutti gli accusati. Nonostante ciò, subito dopo essere stato giudicato innocente, egli si congedò dall'esercito. Nel 1861, si diffuse la notizia secondo la quale l'ex generale si sarebbe recato presso la filiale partenopea del Banco di Napoli, per incassare una polizza di credito dell'ammontare di 14.000 ducati d'oro, quale ricompensa ricevuta da Garibaldi per aver sposato la causa unitaria.
La polizza sarebbe risultata falsificata, poiché, in realtà, aveva un valore di soli 14 ducati. La faccenda finì sui giornali suscitando un enorme scandalo che, si disse essere stato la principale causa dell'ictus che provocò la morte del Landi.
Anche questa inspiegabile ritirata faceva parte dei disegni di organizzati tramite corruzione? Alcuni autori, fra cui lo storico revisionista Carlo Alianello, ipotizzano operazioni di sottobosco ante-invasione, fra cui la corruzione, ad opera di emissari del Regno di Sardegna, di generali dell'esercito borbonico. Tra gli esempi avanzati a sostegno della tesi vi è proprio la battaglia di Calatafimi, nella quale truppe regolari dell'esercito Borbonico composte circa 4000 soldati si ritirarono lasciando campo libero ai garibaldini, quando l'esito della battaglia sembrava ormai decisa a sfavore dei Mille


Edited by Pulcinella291 - 6/4/2011, 10:42
 
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proteus_13
view post Posted on 31/3/2011, 06:34




Segnalo una lettera del prof. Erminio De Biase, storico (autore de "L'Inghilterra contro il Regno delle Due Sicilie" e traduttore del diario di Zimmermann, "Memorie di un ex capo - brigante"), indirizzata alla storica britannica Lucy Riall, recentemente apparsa durante l'orgia di eventi televisivi messi in campo dalla tv pubblica per celebrare i 150 dell'unificazione politica dell'Italia. Grazie alla sua preparazione De Biase smonta le ricostruzioni della Riall sull'epopea garibaldina, e racconta alcune parti di quella storia ancora troppo mitizzata.


"Esimia Professoressa,
mi dice, per cortesia, come fa, in televisione, in così poco tempo che ha a disposizione, a dire tante sciocchezze sul cosiddetto risorgimento italiano? Mi spiega, sempre per cortesia, come fa ad avere la spudoratezza di affermare che l'economia meridionale ha tratto vantaggi dall'unificazione italiana? Lo sa che ci vuole una bella faccia tosta per affermare simili panzane? Ha citato come esempio Catania: bene, trovandosi in zona perché non ha nemmeno nominato Bronte dove, per difendere i propri interessi dai contadini illusi dalle promesse di Garibaldi, i suoi conterranei (ducea di Nelson) sollecitarono prontamente il biondo eroe dei due mondi, a provvedere con fucilazioni immediate? Ed il burattino in camicia rossa prontamente ubbidì. Perché non parla mai della spudorata protezione che la Mediterranean Fleet di S. M. britannica continuamente assicurò al nizzardo da Marsala e fino alla battaglia del Volturno? Forse perché, se lo facesse, dovrebbe poi spiegare che tutta l'epopea risorgimentale non fu altro che un'immensa cortina fumogena sollevata principalmente per nascondere un'iimmensa operazione voluta, garantita, protetta e, soprattutto, sovvenzionata dalla massoneria inglese per salvaguardare gli interessi commerciali britannici nel Mediterraneo e oltre?
Ed inoltre, lei ha affermato che:
1) Mazzini contattò Garibaldi perché era venuto a conoscere le sue imprese in Sud-America: FALSO! Garibaldi, era già mazziniano quando scappò in Sud-America!
2) Lei ha paragonato Garibaldi a Che Guevara: FALSO! Garibaldi fu al servizio degli interessi dei liberalmassonici, il Che, al contrario, visse e morì per il popolo!
3) Garibaldi era anche un politico. FALSO! Non ha mai capito niente di politica!
4) L'Inghilterra aiutò il risorgimento solo per amore verso l'Italia: FALSO! La Gran Bretagnapensava solo ai propri interessi e, una nazione "amica", governata da confratelli massoni, avrebbe fatto il suo gioco!
5) Garibaldi nel 1860 era depresso perché era venuto a sapere che la fresca sposina era "innamorata" di un altro. FALSO! La sposina non era, poi, tanto fresca perché era incinta di una altro! Era altresì depresso perché Nizza era stata ceduta alla Francia: FALSO! Se così fosse stato, egli -da eroe impulsivo qual era- sarebbe corso a Nizza e non in Sicilia, come invece gli fu ordinato (cfr Laurence Oliphant)!
6) Leggendo la storia di Garibaldi, si è divertita: ma dove l'ha letta, su Topolino?
Se, dunque, tutte queste cose, lei non le sa, le approfindisca, colmando così la sua ignoranza in materia, ma se, invece, le conosce bene e le tace per puro opportunismo, mi faccia allora la cortesia, prima parlare del mio Paese, di studiarsela bene la Storia, prima di inventarsela, così come si inventa i suoi eroi!
La saluto cordialmente".


Erminio de Biase

fonte: http://istitutoduesicilie.blogspot.com/201...lettera-di.html
Come si può constatare da questa lettera, a cui certamente la prof. non risponderà, gli storici, ufficiali e non non sono daccordo sulla vicenda risorgimentale. Personalmente sposo a occhi chiusi le tesi di De Biase, ricercatore scomodo.

 
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view post Posted on 3/4/2011, 09:27
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GARIBALDI E LA SUA LEGIONE STRANIERA:LA STORIA NON NE PARLA


Furono arruolati numerosi avventurieri francesi, inglesi, tedeschi, ungheresi, polacchi, americani e perfino africani, insomma la feccia giunta da tutte le nazioni. Numerose, infatti, furono le presenze straniere al servizio della spedizione dei Mille, anche queste spesso volutamente dimenticate dalla storia ufficiale e dai testi scolastici. Inglese era il colonnello Giovanni Dunn, cosí come inglesi furono Peard, Forbes, Speeche (il cui nome Giuseppe Cesare Abba, non potendo sottacere, trasformò nell’italiano Specchi). Numerosi gli ufficiali ungheresi: Turr, Eber, Erbhardt, Tukory, Teloky, Magyarody, Figgelmesy, Czudafy, Frigyesy e Winklen. La legione ungherese divenne preziosa per l’occupazione della Sicilia e per tante battaglie. La "forza" dei "volontari" polacchi aveva due ufficiali superiori di spicco: Milbitz e Lauge. Fra i turchi vi era anche il famoso avventuriero Kadir Bey. Fra i bavaresi ed i tedeschi di varia provenienza si deve ricordare Wolff, al quale fu affidato il comando dei disertori tedeschi e svizzeri, già al servizio dei Borbone. Vi fu pure l’apporto di battaglioni di algerini (Zwavi) e di Indiani, messi a disposizione di Garibaldi dal Governo di Sua Maestà britannica.

EX SOLDATI BORBONICI ARRUOLATI PER LA GUERRA CIVILE AMERICANA



Furono in molti gli ex soldati borbonici ad essere arruolati per la guerra civile americana, con il benestare del governo Piemontese che cercava una soluzione al problema del considerevole numero dei prigionieri di guerra. In altre parole molti soldati preferirono tornare a combattere per una causa non loro, pur di non restare prigionieri nelle carceri piemontesi.All’inizio del 1861, prima che l’Unione bloccasse il porto di New Orleans, 4 navi arrivarono da Napoli con 884 ex-soldati prigionieri. (Il totale delle reclute ammonterà a circa 2000 in totale). Le partenze furono poi sospese a seguito della protesta al governo di Cavour del console Statunitense a Napoli Joseph Chandler. Le truppe vennero inquadrate come “The Italian Guards” nel 10° Reggimento di fanteria Louisiana. Il reclutamento era iniziato con l’arrivo a Napoli, al seguito di Garibaldi, del mercenario americano Chatham Roberdeau Wheat il 14 ottobre 1860 assieme ai 650 uomini della legione britannica. Wheat partecipò anche ad azioni militari come le battaglie del Volturno e del Garigliano, ed all’assedio di Capua, col grado di generale conferitogli da Garibaldi che aveva conosciuto a New York nel 1850. Il Gen.Wheat aveva come aiutante il Capitano Bradford Smith Hoskiss veterano dell’esercito britannico. Alla notizia dell’elezione di Lincoln a presidente negli Stati Uniti, Wheat era consapevole che se fosse avvenuta la secessione degli stati del sud, come preannunziata, la guerra civile sarebbe divenuta una concreta possibilità. Pertanto fece richiesta a Garibaldi di poter reclutare prigionieri e sbandati dell’esercito Borbonico da inviare in Luisiana. Garibaldi incaricò Liborio Romano [ex ministro degli Interni del regno delle Due Sicilie, n.d.r.] di assistere il Cap. Hoskiss nel reclutamento. Per i soldati delle Due Sicilie, prigionieri di guerra, la scelta era tra partire per una causa mercenaria o andare a morire nei lager piemontesi come Fenestrelle. L’esodo fu organizzato e divenne operativo con le prime partenze delle navi Charles & Jane – Utile – Olyphant – Franklin – Washington – Elisabetta e Monroe. La navi giunsero a New Orleans da gennaio a maggio 1861 prima che il blocco navale del Nord riducesse considerevolmente il traffico navale ai porti del sud.
 
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view post Posted on 4/4/2011, 18:21
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ECCO COME QUALCUNO VEDE LA STORIA DELL'UNITA' D'ITALIA :UN VIDEO DIVERTENTE


Edited by Pulcinella291 - 5/4/2011, 10:08
 
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Nel 1863 la Legge Pica


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Giuseppe Pica


Cominciamo col dire che la legge 1409 del 1863, nota come legge Pica, dal nome del suo promotore, il deputato abruzzese Giuseppe Pica, fu approvata dal parlamento della Destra storica e fu promulgata da Vittorio Emanuele II, il 15 agosto di quell'anno. Presentata come "mezzo eccezionale e temporaneo di difesa", la legge fu più volte prorogata ed integrata da successive modificazioni, rimanendo in vigore fino al 31 dicembre 1865. Sua finalità primaria era porre rimedio al brigantaggio postunitario nel Mezzogiorno, attraverso la repressione di qualunque fenomeno di resistenza.
Questa legge seguiva lo stato di assedio proclamato dal neo governo, dopo l'unita', nei confronti delle province meridionali , con il quale si era voluto concentrare il potere nelle mani dell'autorità militare al fine di reprimere l'attività di resistenza armata: coloro i quali venivano catturati , fossero essi sospettati di essere ribelli o parenti di ribelli, potevano essere passati per le armi dall'esercito, senza formalità di alcun genere.
Con questa legge venivano istituiti sul territorio delle province definire ribelli o infestate da briganti, i tribunali militari ,sospendendo, in sostanza, la garanzia dei diritti costituzionali contemplati dallo statuto Albertino: I ribelli , insomma , non venivano giudicati dai tribunali civili ma da quelli militari.
Il nuovo corpo normativo stabiliva che poteva essere qualificato come brigante (e, dunque, giudicato dalla corte marziale) chiunque fosse stato trovato armato in un gruppo di almeno tre persone. Veniva concessa la facoltà di istituire delle milizie volontarie per la caccia ai ribelli ed erano stabiliti dei premi in danaro per ogni arrestato o ucciso.
Le pene comminate ai condannati andavano dall'incarcerazione, ai lavori forzati, alla fucilazione.

il criterio del sospetto

Nelle province meridionali definite "infette", venivano istituiti i Consigli inquisitori (i cui componenti erano il Prefetto, il Presidente del Tribunale, il Procuratore del Re e due cittadini della Deputazione Provinciale)[11] che avevano il compito di stendere delle liste con i nominativi dei briganti individuando così i sospetti che potevano essere messi in stato d'arresto o, in caso di resistenza, uccisi: l'iscrizione nella lista, infatti, costituiva di per sé prova d'accusa[15]. In sostanza, veniva introdotto il criterio del sospetto: in base ad esso, però, chiunque avrebbe potuto avanzare accuse, anche senza fondamento, anche per consumare una vendetta privata.
La legge, inoltre, aveva effetto retroattivo: in altre parole, era possibile applicare la legge Pica anche per reati contestati in epoca antecedente la promulgazione della legge stessa.

Polemiche sulla legge


Già durante la fase di discussione, fu avanzata l'ipotesi che la proposta del Pica avrebbe potuto dare adito ad errori ed arbitri di ogni sorta: il senatore Ubaldino Peruzzi, infatti, notò come il provvedimento fosse «la negazione di ogni libertà politica.
Al pugno di ferro prospettato dalla Destra storica, il Senatore Luigi Federico Menabrea

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rispose, invece, con una proposta totalmente alternativa. Il Menabrea, come soluzione al malcontento popolare e alle insurrezioni che seguirono l'annessione delle Due Sicilie al Regno d'Italia, propose di stanziare 20 milioni di lire per la realizzazione di opere pubbliche al Sud. Il piano del Menabrea, però, non ebbe alcun seguito, poiché il parlamento italiano preferì investire nell'impiego delle forze armate.Dunque, nonostante le criticità del provvedimento legislativo fossero state apertamente denunciate, la legge fu ugualmente approvata, ma già dai suoi stessi contemporanei furono riconosciuti gli abusi e le iniquità a cui essa diede adito.

ABUSI E INIQUITA' A SEGUITO DELLA LEGGE
nonostante le criticità del provvedimento legislativo fossero state apertamente denunciate, la legge fu ugualmente approvata, ma già dai suoi stessi contemporanei furono riconosciuti gli abusi e le iniquità a cui essa diede adito. Nella seduta parlamentare del 29 aprile 1862, il senatore Giuseppe Ferrari

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affermava:« Non potete negare che intere famiglie vengono arrestate senza il minimo pretesto; che vi sono, in quelle province, degli uomini assolti dai giudici e che sono ancora in carcere. Si è introdotta una nuova legge in base alla quale ogni uomo preso con le armi in pugno viene fucilato. Questa si chiama guerra barbarica, guerra senza quartiere. Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue, non so più come esprimermi. »
Allo stesso modo si esprimeva don Vincenzo Padula

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« Il brigantaggio è un gran male, ma male più grande è la sua repressione. Il tempo che si dà la caccia ai briganti è una vera pasqua per gli ufficiali, civili e militari; e l'immoralità dei mezzi, onde quella caccia deve governarsi per necessità, ha corrotto e imbruttito. Si arrestano le famiglie dei briganti, ed i più lontani congiunti; e le madri, le spose, le sorelle e le figlie loro, servono a saziare la libidine, ora di chi comanda, ora di chi esegue quegli arresti. »
In effetti dai soldati inviati al Sud,furono compiute violenze di ogni genere . In soli nove mesi, ci furono quasi novemila fucilati, poco meno di undicimila feriti, oltre seimila incarcerati, quasi duecento preti, frati, donne e bambini uccisi. Il Sud, quindi, «divenne terra desolata: corpi lasciati a imputridire in piazza, altri carbonizzati nelle decine di paesi arsi, colonne vaganti di decine di migliaia di profughi». Almeno quarantuno paesi meridionali furono distrutti dagli invasori e centinaia le donne violentate.E dire che anche Mazzini ebbe delle perplessità sui metodi intrapresi dai savoiardi a causa dei soprusi dell'esercito piemontese.
Massacri, torture, condanne senza processo, bambini trucidati, donne violentate finanche con le baionette.
 
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proteus_13
view post Posted on 7/4/2011, 08:47




Eh..caro Pulcinella, sono anni che vado ripetendo che questa nazione è nata con la violenza e la truffa.
Da Torino in quel periodo, visti i troppi fucilati, anche solo per un sospetto, partì l'ordine di fucilare solo i capi briganti, cosicchè ogni volta che veniva ucciso un povero cristo, magari perchè portava un coltello da usare in campagna, dalle nostre regioni partiva un telegramma del genere: catturati e giustiziati 5 o 6 o 20 capi briganti, così l'omicidio sembrava adeguarsi alle richieste legali.
Al mio paesello Nola, furono fucilati 300 capibriganti, compreso il figlio del sindaco che il giorno successivo si dimise. Non è stata trovata nessuna prova di quel misfatto, salvo le dimissioni del sindaco sui registri del Comune.
Bambini furono condannati all'ergastolo solo per il sospetto di essere figlio o un nipote o un parente di un ricercato.
Tutto ciò per la storia ufficiale sembra non essere mai accaduto, dimenticando che quei fatti sono stati trasmessi anche oralmente da padre in figlio, come accade ovunque nel mondo.
Oggi, quei "briganti" li avrebbero definiti terroristi. L'orchesta cambia, ma la musica è la stessa.
 
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view post Posted on 8/4/2011, 14:29
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Pulcinella291 Forum

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La principessa Cristina Trivulzio Belgiojoso (un'eroina del risorgimento dimenticata )

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Come abbiamo visto la storia si ricorda solo di alcuni fatti, scordandosi di altri, come si ricorda i nomi dei patrioti della storia: Mazzini, Garibaldi, Cavour, ma anche Bixio, Pisacane, Mameli, dimenticandosi anche di alcune donne che hanno contribuito a rischio della vita all'Unita' d'Italia.
Una fra queste fu la principessa Cristina Trivulzio Belgiojoso al cui funerale avvenuto nel 1871, non partecipo' nessuno dei politici dell'Italia che lei cosi grandemente aveva contribuito ad unire.
Ma chi fu Cristina Trivulzio Belgiojoso ?

Nacque a Milanoil 28 giugno 1808 , figlia di Gerolamo Trivulzio e Vittoria dei Marchesi Gherardini, rimase orfana di padre molto presto.Il momento più importante della giovinezza di Cristina è il matrimonio con il bello e giovane principe Emilio Barbiano di Belgiojoso. Molti cercarono di dissuaderla, conoscendo le abitudini libertine di Emilio, ma alla fine il matrimonio si fece. Ci furono grandi invitati nella chiesa di S. Fedele a Milano il 24 settembre 1824. La più ricca ereditiera d'Italia si portava una dote di 400.000 lire austriache (più di 4.000.000 di € odierni). Aveva solo 16 anni quando acquistò il titolo di principessa.
Il matrimonio non durò molto. Ufficialmente non divorziarono mai, ma in realtà si separarono pochi anni dopo, rimanendo buoni amici (con qualche alto e basso) fino alla morte. Il marito continuò la sua vita libertina. Alla fine degli anni venti Cristina, dopo l'arresto del patrigno si avvicinò alle persone più coinvolte con i movimenti per la liberazione dagli austriaci. Era bella, potente, e poteva dare molto fastidio. Fortunatamente la sua fama, la sua posizione sociale, e la sua solerzia alla fuga, la salvarono da arresti facili. Ma gli austriaci la tenevano costantemente sotto controllo , finchè sentendosi costantemente minacciata, Cristina scappò nel sud della Francia. Il racconto di questa fuga è stato raccontato da alcuni biografi con aspetti rocamboleschi. È sicuro in ogni caso, che lei si sia trovata in Provenza sola e senza soldi. Tutti i suoi averi erano stati congelati dalla polizia austriaca e per molto tempo non poté attingere alcun denaro. L'ultima liquidità era stata infatti impegnata a pagare i debiti del marito, in cambio della sua libertà. Qui comincio' una vita di stenti .Si arrangiò con pochi soldi per alcuni mesi. Si cucinò per la prima volta da sola i suoi pasti e si guadagnò da vivere cucendo pizzi e coccarde.
Dopo poco tempo, un po' con i soldi inviati dalla madre e un po' con quelli recuperati dai suoi redditi, riuscì a cambiare casa e ad organizzare uno di quei salotti d'aristocrazia, dove riuniva esiliati italiani e borghesia europea.A lei continueranno ad arrivare richieste di soldi per fini patriottici, e lei cercherà di distribuirne tantissimi, in modo da aiutare i poveri esuli italiani, di cui lei era ormai diventata la referente parigina, e investendo in sommosse o addirittura organizzando movimenti di armi per i "ribelli" italiani. Nel 1834, ad esempio, donò 30 000 lire (su un suo budget complessivo di centomila) per finanziare il colpo di mano mazziniano nel Regno di Sardegna, in cui peraltro perse la vita Giovanni Battista Scapaccino, considerato la prima Medaglia d'Oro al Valor Militare del futuro esercito italiano. Per l'occasione, la nobildonna aveva persino ricamato con le proprie mani le bandiere degli insorti.
Nel 1838 la sua vita subisce una rilevante svolta con la nascita di Maria, la sua prima figlia. Il padre naturale non era sicuramente il marito, che non frequentava. È stato ipotizzato fosse il suo amico François Mignet o il suo segretario Bolognini.
Cristina Trivulzio Belgiojoso continua anche la sua opera politica cercando di convincere tutti che l'unica soluzione per muoversi verso l'unione italiana era di supportare Carlo Alberto e quindi il prevalere della dinastia dei Savoia. Il suo obiettivo non era una monarchia, ma una repubblica italiana simile alla francese; tuttavia, se per arrivare alla repubblica bisognava prima unire l'Italia, l'unico mezzo era di appoggiare la monarchia dei Savoia.Nel 1848, trovandosi a Napoli durante l'insurrezione che porta alle cinque giornate di Milano, parte subito per questa città; inoltre paga il viaggio ai circa 200 napoletani che decidono di seguirla, tra gli oltre 10.000 patrioti che si erano assiepati sul molo per augurarle buona fortuna.

Per qualche mese si respira aria di libertà, ma si sviluppano anche forti discordie interne sulle modalità del proseguimento della lotta. Pochi mesi dopo, il 6 agosto 1848, gli austriaci ritornano a Milano e lei, come molti altri, è costretta all'esilio per salvarsi la vita. Si calcola che almeno un terzo degli abitanti di Milano espatriasse prima del ritorno degli austriaci
Nel 1855, grazie ad una amnistia, riottiene i permessi dalla autorità austriaca e riesce a tornare a Locate.
Nel 1861 si costituisce finalmente l'Italia unita, da lei tanto desiderata, e lei può lasciare la politica con una certa serenità.

 
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25 replies since 21/3/2011, 10:22   13550 views
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