Le stronzate di Pulcinella

LE STORIE PROIBITE DELL'UNITA' D'ITALIA(l'altra faccia del Risorgimento)

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Pulcinella291
view post Posted on 28/3/2011, 14:51 by: Pulcinella291
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GIUSEPPE MAZZINI :ORGANIZZATORE DI FOCOLARI RIVOLUZIONARI?

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Giuseppe Mazzini è un nome noto a chiunque in Italia abbia frequentato le scuole dell’obbligo. Il suo nome è associato al Risorgimento italiano, anzi è il Risorgimento italiano.
I libri di storia ce lo presentano come un idealista carismatico , uno stratega e un uomo universale, ma anche per lui ci sono aspetti alquanto oscuri .
Dall'analisi retrospettiva delle sue gesta emerge un'esistenza densa di contrasti, di esperienze drammatiche, di amicizie profonde e vili tradimenti, di entusiastiche speranze e cocenti delusioni, di risultati raggiunti e inaccettabili fallimenti. Ancora oggi su un fatto aleggia il mistero: appartenne o no alla Massoneria? Tra chi sostiene di no e chi lo vuole addirittura tra i fondatori del 'Palladismo', una corrente di culto anticristiano se non filo-satanico e segretissima, regna una grande confusione. Qualche altro sostiene che organizzava focolai rivoluzionari improvvisati, che finivano malissimo, e mandava al martirio tanti giovani, quindi cattivo maestro che mandava in giro poveri giovani illusi dalla folle ideologia rivoluzionaria a commettere assassini politici ”«Noi dobbiamo cospirare, procurarci bombe, usare passaporti falsi, contrabbandare materiale, e, se non possiamo fare altro.
Lo storico francese Pierre Milza di lui ha detto “A mio avviso, “Mazzini può apparire come il padre del terrorismo italiano .
Passando dalle parole ai fatti, è difficile non parlare di una strategia terroristica mazziniana, se si pensa alla fallita insurrezione milanese del febbraio 1853. Allora, il partito mazziniano progettò di assassinare tre aristocratici milanesi, postisi al servizio dell’amministrazione austriaca, in modo da provocare la reazione del governo, che si prevedeva talmente dura da suscitare una rivoluzione tra le masse operaie della città. Durante i preparativi della rivolta, uno stretto collaboratore di Mazzini, Felice Orsini, il quale poi cercò di uccidere Napoleone III, nel gennaio del 1854, provocando una carneficina tra i passanti parigini, aveva affermato che "la prima legge della cospirazione imponeva il ricorso ad ogni mezzo che valga a distruggere il nemico".Questa tattica stragista, di cui direttamente o indirettamente Mazzini fu «cattivo maestro», incontrava la ferma disapprovazione di altri esponenti del movimento democratico. Carlo Cattaneo rimproverò Mazzini per la sua ostinazione a immolare i suoi seguaci «in progetti intempestivi e assurdi». Garibaldi ricordò con amarezza, nelle sue Memorie, gli inganni e la duplicità della politica mazziniana, concepita da «un uomo che parla sempre di popolo, ma non lo conosce». Marx, in un articolo del «New York Daily Tribune» dell’8 marzo 1853, sparse tutta la sua tagliente ironia per deprecare le «rivoluzioni improvvisate» di Mazzini che comportavano l’inutile sacrificio di insorti e popolazione. Nel 1858, il grande giornalista francese Emile de Girardin avrebbe rincarato la dose, affermando che Mazzini era incapace di far distinzione «tra le congiure e le insurrezioni, tra il pugnale dell’imboscata e il fucile della barricata». Ancora più duro sarebbe stato il giudizio del moderato italiano Luigi Sanvitale che parlò esplicitamente dell’ispirazione «terroristica» del rivoluzionario genovese, il quale «disseminando menzogne, induce incauta gente a cieche frenesie sciagurate».
Paradossalmente, tuttavia, l’unico regicidio portato a termine durante il periodo risorgimentale non fu imputabile alla responsabilità di Mazzini. Nel marzo del 1854, il duca di Parma, Carlo III di Borbone, veniva pugnalato a morte da un oscuro artigiano, Antonio Carra. L’ipotesi di un presunto «grande complotto mazziniano», sulla quale si erano indirizzate in un primo momento le indagini si rivelava però del tutto inconsistente. Secondo una diversa ricostruzione, ancora tutta da verificare, dietro l’omicidio del duca si allungava, invece, l’ombra di Cavour che avrebbe deciso di utilizzare lo strumento dell’assassinio politico per favorire l’espansione della monarchia piemontese nella pianura padana.


PALERMO E LA RIVOLTA DEL SETTE E MEZZO


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Una volta che la Sicilia venne annessa, qualcuno dice con un falso plebiscito,a Palermo vi fu una sollevazione popolare avvenuta dal 16 al 22 settembre 1866. Chiamata del "sette e mezzo" perché durò sette giorni e mezzo nel contesto storico delle sommosse popolari e guerriglia del Sud Italia che fu domata tramite il bombardamento dal mare della capitale siciliana. Bombardamento effettuato dalla Regia Marina che così, uccidendo qualche migliaio di palermitani in rivolta o innocenti si ‘riscattò’ dalla sconfitta di Lissa(, subìta qualche settimana prima e da cui stava ritornando. Fu una violenta dimostrazione antigovernativa, avvenuta al termine della terza guerra di indipendenza, organizzata da ex garibaldini (che si erano uniti ai Mille dopo lo sbarco) delusi, reduci dell'esercito meridionale, partigiani borbonici e repubblicani, che insieme formarono una giunta comunale.
Tra le cause: la crescente miseria della popolazione, il colera e le sue 53 mila vittime, l'integralismo dei funzionari statali, che consideravano "quasi barbari i palermitani", le pesanti misure poliziesche e vessatori balzelli introdotti.Migliaia di persone insorsero, anche armati, provenienti anche dai paesi vicini. Quasi 4.000 rivoltosi assalirono prefettura e questura, uccidendo l'ispettore generale del polizia. La città restò in mano agli insorti e la rivolta si estese nei giorni seguenti anche nei paesi limitrofi, come Monreale e Misilmeri: fu stimato che in totale gli insorti armati fossero circa 35.000 in provincia di Palermo. Negli scontri di quei giorni persero la vita ventuno carabinieri e dieci guardie di pubblica sicurezza. Palermo per sette giorni rimase così in mano ai rivoltosi.
Il governo italiano decise di proclamare lo stato d'assedio e ad adottare contro il popolo palermitano una dura repressione, con rappresaglie, persecuzioni, torture e violenze.
Dovette intervenire l'esercito comandato da Raffaele Cadorna, mentre le navi della Regia Marina e quelle inglesi bombardarono la città. Dopo lo sbarco dei fanti di marina del Reggimento San Marco per sedare la rivolta, molti dei rivoltosi furono arsi vivi, combattendo casa per casa e distruggendo Palermo, che fu riconquistata da circa 40.000 soldati. Alla fine furono oltre 200 le perdite militari e oltre mille i civili passati per le armi. Ecco cosa scrivera'molto coloritamente Camilleri :""Una tinta mattinata del settembre 1866, i nobili, i benestanti, i borgisi, i commercianti all'ingrosso e al minuto, i signori tanto di coppola quanto di cappello, le guarnigioni e i loro comandanti, gli impiegati di uffici, sottuffici e ufficiuzzi governativi che dopo l'Unità avevano invaso la Sicilia pejo che le cavallette, vennero arrisbigliati di colpo e malamente da uno spaventoso tirribllio di vociate, sparatine, rumorate di carri, nitriti di vestie, passi di corsa, invocazioni di aiuto. Tre o quattromila viddrani, contadini delle campagne vicino a Palermo, armati e comandati per gran parte da ex capisquadra dell'impresa garibaldina, stavano assalendo la città. In un vìdiri e svìdiri, Palermo capitolò, quasi senza resistenza: ai viddrani si era aggiunto il popolino, scatenando una rivolta che sulle prime parse addjrittura indomabile. Non tutti però a Palermo furono pigliati di sorpresa. Tutta la notte erano ristati in piedi e viglianti quelli che aspettavamo che capitasse quello che doveva capitare. Erano stati loro a scatenare quella rivolta che definivano "repubblicana", ma che i siciliani, con l'ironia con la quale spesso salano le loro storie più tragiche, chiamarono la rivolta del "sette e mezzo", ché tanti giorni durò quella sollevazione. E si ricordi che il "sette e mezzo" è magari un gioco di carte ingenuo e bonario accessibile pure ai picciliddri nelle familiari giocatine di Natale. Il generale Raffaele Cadorna, sparato di corsa nell'Isola a palla allazzata, scrive ai suoi superiori che la rivolta nasce, tra l'altro, "dal quasi inaridimento delle risorse della ricchezza pubblica", dove quel "quasi" è un pannicello caldo, tanticchia di vaselina per far meglio penetrare il sostanziale e sottinteso concetto che se le risorse si sono inaridite non è stato certamente per colpa degli aborigeni, ma per una politica economica dissennata nei riguardi del Mezzogiorno d'Italia".
Fatto sta che nella rivolta di Palermo insorsero contemporaneamente e di concerto sia l’opposizione di estrema destra, nobili e clero, che quella di estrema sinistra. I nobili della destra estrema ed il clero avevano come obiettivo la restaurazione borbonica e clericale, la sinistra estrema aveva come obiettivo la costituzione di uno stato repubblicano sul modello mazziniano. Indicativo è il fatto che la giunta rivoluzionaria aveva un presidente borbonico, il principe di Linguaglossa, ed un segretario mazziniano, Francesco Bonafede. Come sarebbe stato possibile conciliare queste due linee politiche non c’è dato sapere, vista la feroce repressione ed il fallimento della rivolta.
Ma perché Palermo, una delle città più importanti d’Italia, una delle città che avevano anche favorito i sabaudi, consentendo lo sbarco di Garibaldi e favorendone l’avanzata, dopo solo 5 anni di governo si ribellò? Ed è questo un evento da considerare come regionale ed isolato o espressione di un malessere più diffuso? Certamente un peso notevole l’ebbe la nascita di un mercato nazionale e l’estensione su tutto lo stato unificato delle rigide leggi di Torino. A Palermo esplose quel fenomeno che già si era verificato in altre città europee, quel fenomeno che Hobsbawn ha chiamato “mob” dovuto alla difficoltà di passare ad una economia di tipo feudale, campagnola, assistita al capitalismo[1]. Quello di Palermo fu il primo “mob” dell’Italia unita.



Edited by Pulcinella291 - 28/3/2011, 19:59
 
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