Le stronzate di Pulcinella

Alcune storie della grande guerra attraverso le immagini

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view post Posted on 18/12/2012, 09:55
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Pulcinella291 Forum

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La grande guerra è il nome dato alla prima guerra mondiale che coinvolse quasi tutte le grandi potenze, e molte di quelle minori, tra l'estate del 1914 e la fine del 1918. Fu il più grande conflitto armato mai combattuto fino al 1939. Anche l'Italia ne fu coinvolta e 7 milioni di italiani scoprirono di essere figli della stessa Patria che per riconoscerli ne chiedeva la vita. Conobbero le trincee dell’Altopiano, le rocce del Carso, le nevi eterne dei ghiacciai alpini, le fredde acque del Piave. Ma soprattutto l’angoscia del sentire la
morte accanto. Dal 1915 al 1918 un esercito di contadini, pastori, bottegai e operai, quasi per metà analfabeti, senza una lingua comune, male armato e peggio comandato andò al massacro: era la Grande Guerra. Ma cosa ci è rimasto oggi di questo immane conflitto oltre ad una vasta documentazione e filmati? Sicuramente anche tante piccole storie, aneddoti che ci sono stati raccontati da coloro che ebbero la fortuna di ritornare. Storie di fame, miseria, di paura e di solitudine psicologica, ma anche di rassegnazione . Storie di gente comune, di contadini analfabeto gia' abituati ad obbedire nella loro quotidianita' e che , forse, ressero meglio degli altri alla tragicita' degli eventi, storie di gente che con grandi sacrifici scrisse il nostro presente.
Tutto il materiale tranne qualche commento dello scrivente, che ha effettuato la ricerca,è tratto dal web .

COME VIVEVANO I SOLDATI

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Uno degli aspetti più affascinanti della Grande Guerra fu la vita nelle trincee e negli appostamenti di alta montagna. Mai, prima di allora, si erano combattute delle battaglie ad altitudini così elevate. Tra le cime del Massiccio dell'Adamello (al confine tra Lombardia e Alto Adige) italiani e austro-ungarici si trovarono uno di fronte all'altro ad oltre 3000 metri di altezza. Una situazione simile si verificò anche nella zona tra Trentino e Veneto, nei pressi della Marmolada, nel settore orientale del Lagorai, in tutta la parte delle Dolomiti Orientali e tra le vette delle Alpi Carniche e della Val Dogna.
Anche se in queste luoghi non mancarono brigate di semplice fanteria (del tutto inadatte ad affrontare situazioni del genere), la maggior parte dei combattenti appartenevano al corpo degli Alpini. Si trattava di giovani reclutati nelle zone di montagna, abituati a spostarsi su questi terreni, a sopportare le temperature rigide e ad ubbidire agli ordini senza porsi troppe domande. Per oltre due anni rimasero in quota combattendo, trasportando materiali, armi, attrezzature, viveri e costruendo baraccamenti, appostamenti e sistemi trincerati che ancora oggi sono in grado di sorprendere ed emozionare. In alcuni casi addirittura gli acquartieramenti furono costruiti nel cuore dei ghiacciai, specie attorno al Passo Fedaia e al Passo San Pellegrino.
Lo stupore aumenta nello scoprire come gli equipaggiamenti distribuiti agli Alpini furono assolutamente inadatti alla vita in quota. Nonostante il clima estremo (non erano rare le nevicate estive), nella maggior parte dei baraccamenti la sola fonte di riscaldamento erano i piccoli fornelletti per le vivande. I vestiti di lana erano pochi e molti dovettero costruirsi degli occhiali da sole (utilizzando dell'alluminio) per prevenire i danni dei raggi solari. Inoltre per tutto il 1915 i soldati combatterono con le loro uniformi grigio-verdi che, in mezzo al manto nevoso, erano facilmente individuabili dai nemici. Solamente l'anno successivo furono distribuite le prime tute bianche che garantivano una maggiore mimetizzazione.
Ma oltre ai soldati in prima linea, la guerra in montagna ebbe anche degli altri protagonisti. Si trattò dei cosiddetti portatori, i quali volontariamente si arruolarono per trasportare dalle retrovie (su pesanti ceste) armi, munizioni, materiale e cibo ai soldati in cima alle montagne. Essendo però la gran parte degli uomini impegnati in guerra, in alcuni casi questo ruolo fu ricoperto dalle donne. L'esempio migliore è quello delle Portatrici Carniche, attive nella Zona Carnia e che sono oggi ricordate soprattutto a Timau, il paese nei pressi del Pal Piccolo e del Freikofel dove riposa Maria Plozner Mentil, uccisa nel febbraio 1916 proprio durante una delle sue ascese verso la prima linea.

LA TRAGICA STORIA DI MARIA PLOZER MENTIL (Timau, 1884 – Paluzza, 15 febbraio 1916)
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Sposata, madre di quattro figli e il marito al fronte sul Carso, decide di partecipare come può nella prima guerra mondiale nel ruolo di una portatrice di munizioni, come recita la motivazione della medaglia d'oro al valor militare, diventando un esempio per altre donne che vicino al fronte, daranno man forte ai combattenti.
Il 15 febbraio 1916, mentre assieme all'amica Rosalia di Cleulis si stava riposando viene colpita da un cecchino austriaco, trasportata all'ospedale di Paluzza spira il giorno dopo.
Il funerale viene celebrato con gli onori militari, seppellita a Paluzza. Il 3 giugno 1934 il corpo viene trasferito nel cimitero di guerra di Timau e successivamente nel tempio Ossario dello stesso vicino ai resti di altri 1763[1] caduti sul fronte.
Nel 1997 il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro le ha conferito con "Motu Proprio" la medaglia d'oro al valor militare, come rappresentante di tutte le Portatrici.
Ecco le motivazioni per la medaglia d'oro al valor militare:
«"Madre di quattro figli in tenera età e sposa di combattente sul fronte carsico, non esitava ad aderire, con encomiabile spirito patriottico, alla drammatica richiesta rivolta alla popolazione civile per assicurare i rifornimenti ai combattenti in prima linea. Conscia degli immanenti e gravi pericoli del fuoco nemico, Maria PLOZNER MENTIL svolgeva il suo servizio con ferma determinazione e grande spirito di sacrificio ponendosi subito quale sicuro punto di riferimento ed esempio per tutte le "portatrici carniche", incoraggiate e sostenute dal suo eroico comportamento. Curva sotto il peso della "gerla", veniva colpita mortalmente da un cecchino austriaco il 15 febbraio 1916, a quota 1619 di Casera Malpasso, nel settore ALTO BUT ed immolava la sua vita per la Patria. Ideale rappresentante delle "portatrici carniche", tutte esempio di abnegazione, di forza morale, di eroismo, testimoni umili e silenziose di amore di Patria. Il popolo italiano Le ricorda con profonda ammirata riconoscenza"

PORTATRICI CARNICHE EROINE DA RICORDARE
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La straordinaria vicenda delle Portatrici carniche si colloca nella storia della prima guerra mondiale, come fatto, forse unico, nella cronaca dei conflitti armati.
Tutt ii soldati del fronte per vivere e combattere, dovevano essere vettovagliati ogni giorno e riforniti di munizioni, medicinali, materiali di rafforzamento delle postazioni, attrezzi vari e così via.
Dal fondo valle, dove erano dislocati magazzini e depositi militari, sino alla linea del fronte, non esistevano rotabili o carrarecce che consentissero il transito di automezzi e di carri a traino animale.
Si potevano seguire a piedi sentieri e qualche mulattiera. Ogni rifornimento dei reparti schierati a difesa del confine doveva perciò avvenire con il trasporto a spalla; per effettuarlo non si potevano sottrarre militari alla prima linea senza recare pregiudizio alla efficienza operativa delle varie unità.
Le salmerie dei battaglioni non bastavano e d’inverno non erano impiegabili. Il Comando Logistico della Zona e quello del Genio, furono costretti a chiedere il concorso della popolazione, ma gli uomini validi erano tutti alle armi e nelle case erano rimasti solo gli anziani, i bambini e le donne.
Moltissime donne, avvertendo la gravità di quella situazione, non esitarono ad aderire al pressante invito che con toni drammatici veniva loro rivolto e si misero subito a disposizione dei Comandi Militari per trasportare a spalla, quanto occorreva agli uomini della prima linea. Alcune di loro erano quindicenni.
In breve tempo si costituì un vero e proprio Corpo di ausiliarie formato da donne giovani e meno giovani, dai 15 ai 60 anni di età, dalla forza pari ad un battaglione di 1000 soldati.
Furono munite di un libretto personale di lavoro sul quale i militari addetti ai vari magazzini segnavano le presenze, i viaggi compiuti, il materiale trasportato ad ogni viaggio; furono anche dotate di un bracciale rosso con stampigliato lo stesso numero del libretto e con l’indicazione dell’unità militare per la quale lavoravano .
Dovevano presentarsi all’alba di ogni giorno presso i depositi e i magazzini dislocati in fondo valle, su una estensione di circa sei chilometri – per ricevere in consegna e caricare nella gerla il materiale da portare al fronte. In caso di emergenza potevano essere chiamate ad ogni ora del giorno e della notte.
Per ogni viaggio ricevevano un compenso di lire 1,50 corrisposto mensilmente. Non furono militarizzate, ma “militare” nel più nobile significato della parola fu il loro comportamento sempre ispirato alla fedele e scrupolosa osservanza del gravoso impegno responsabilmente assunto.
Fatto il carico nella gerla, partivano a gruppi di 15 – 20 senza apposite guide, imponendosi esse stesse una disciplina di marcia. Percorso qualche chilometro in fondo valle, attaccavano la montagna dirigendosi ogni gruppo a raggiera, verso la linea del fronte.
Dovevano superare dislivelli che andavano da 600 a 1200 metri, vale a dire dalle due alle quattro ore di marcia in ripida salita.
Giunte a destinazione con il cuore in gola, curve sotto il peso della gerla in una così disumana fatica, specie d’inverno quando per avanzare affondavano nella neve fino alle ginocchia, scaricavano il materiale, sostavano qualche minuto per riposare, per far sapere agli alpini di reclutamento locale le novità del paese e magari per riconsegnare loro la biancheria fresca di bucato ritirata, da lavare, nei viaggi precedenti. Dopodiché si incamminavano lungo la discesa per il ritorno in famiglia, ove le attendevano i vecchi, i bambini, il governo della casa e della stalla.
Qualche volta, durante il viaggio di ritorno, veniva chiesto alle Portatrici di trasportare a valle, in barella, i militari feriti o quelli caduti in combattimento. I feriti venivano poi avviati con le ambulanze agli ospedali da campo.


LA DIFFICILE VITA NELLE TRINCEE
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La guerra di trincea ha rappresentato una caratteristica tipica e unica del primo conflitto mondiale, anche se era già stata adottata secoli addietro durante le operazioni d'assedio. La vera novità venutasi a creare alla fine del 1914 era che le trincee degli opposti schieramenti correvano lungo tutto il fronte, impedendo di fatto ogni possibilità di condurre una guerra di movimento
Le trincee erano lunghi corridoi, profondi poco meno di due metri, che venivano quasi sempre scavati seguendo una linea a zig zag che la divideva in settori, a loro volta uniti da trincee trasversali di collegamento. Non esistevano tratti rettilinei di lunghezza maggiore di 10 metri. In questo modo, qualora una parte della trincea fosse stata conquistata dal nemico, questi non avrebbe avuto modo di colpire d'infilata il resto della trincea. Inoltre questo schema costruttivo riduceva gli effetti di quei proiettili d'artiglieria che colpivano direttamente la trincea.
Il lato della trincea rivolto al nemico era chiamato parapetto.
Generalmente era munito di un gradino che consentiva di sporgersi oltre il bordo della trincea. I fianchi della trincea erano rinforzati con sacchi di sabbia, tavole, filo di ferro; il fondo era ricoperto di tavole in legno. La seconda linea di trincee era munita di bunker.

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I soldati vivevano in condizioni difficili; piene di fango, infestate da topi, le trincee divennero il luogo di vita triste e squallido per questi giovani che avevano sognato di combattere una guerra eroica. Dalle trincee, sottoposte al tiro continuo delle artiglierie, si usciva solo di notte oppure per gli attacchi. Questi erano preceduti da un intensissimo fuoco d'artiglieria che serviva per distruggere i reticolati nemici. In tal modo, però, si rivelava quando e dove si sarebbe svolto l'attacco.Per rendere possibile l'osservazione della linea nemica, nel parapetto erano aperte delle feritoie. Poteva semplicemente trattarsi di una fessura tra i sacchi di sabbia, talvolta protetta da una lastra d'acciaio. I tiratori scelti impiegavano munizioni speciali per forare queste piastre.Il primo nucleo della linea di trincee fu ottenuto dalle buche provocate dalle granate , collegate tra loro da passaggi e difese con il filo spinato. Già dopo la battaglia della Marna, sul fronte occidentale si era sviluppato un sistema articolato di fossati e fortificazioni che per molto tempo rimase teatro di atroci sofferenze per i soldati in guerra. Le due linee contrapposte erano separate dalla cosiddetta "terra di nessuno", un vero e proprio ammasso di cadaveri, feriti e crateri, cui non potevano accedere nemmeno le squadre di soccorso. Le retrovie delle trincee ospitavano i comandi militari e i centri di assistenza medica, mentre all'interno delle trincee le truppe vivevano in condizioni molto disagiate dentro ad alloggi sotterranei.
Quando il fischietto di un ufficiale lanciava un attacco alla linea del nemico, i soldati andavano all'assalto all'arma bianca con le baionette inastate sui fucili: moltissimi venivano falcidiati dal fuoco delle mitragliatrici nemiche, altri rimanevano feriti o mutilati nella terra di nessuno senza poter essere soccorsi. Spesso tutti gli sforzi profusi per conquistare qualche linea delle trincee nemiche si rivelavano inutili a causa della controffensiva del nemico. Andare avanti voleva dire andare incontro alla morte, ma anche chi tornava indietro veniva giustiziato in modo sommario per vigliaccheria o per ammutinamento. Fu un vero massacro: migliaia di uomini furono uccisi per conquistare pochi metri, spesso poi regolarmente persi.
IL FUOCO DEI CECCHINI
La situazione era aggravata dal fatto che i soldati in trincea erano sempre esposti al pericolo di morte durante le lunghe ore di inerzia tra un combattimento e l'altro: il fuoco dei cecchini, le granate, le mitragliatrici e gli assalti nemici erano sempre all'ordine del giorno, logorando i nervi delle truppe già provate dalle pessime condizioni di vita dovute alla sporcizia e, nei mesi invernali, al freddo, alla pioggia e al fango. Per sopportare il logorio mentale e la stanchezza sovrumana cui erano sottoposti, i soldati avevano come unici conforti l'alcol, la corrispondenza da casa e le saltuarie licenze.

LE MALATTIE NELLE TRINCEE
All'epoca della prima guerra mondiale l'assistenza medica era ancora rudimentale. Non esistevano antibiotici, e anche ferite relativamente leggere potevano facilmente evolvere in una mortale setticemia. Le statistiche dimostrano che i proiettili rivestiti in rame (o in leghe di questo metallo) provocavano ferite meno suscettibili di sviluppare sepsi rispetto ai proiettili con rivestimenti diversi.
Tre quarti delle ferite era provocata dalle schegge dei proiettili dell'artiglieria. Si trattava di ferite spesso più pericolose e più cruente di quelle provocate dalle armi leggere. L'esplosione di una granata provocava una pioggia di macerie, che, penetrando nella ferita, rendeva molto più probabile l'insorgere di un'infezione. Altrettanto micidiale era lo spostamento d'aria provocato dall'esplosione.

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LO SCEMO DI GUERRA, UN FENOMENO A LUNGO TACIUTO

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Le condizioni sanitarie nelle trincee erano catastrofiche. Molti soldati divennero vittime di malattie infettive: dissenteria, tifo, colera. Molti soldati erano afflitti da diverse malattie provocate da parassiti.
A questo bisogna aggiungere che moltissime persone con un carattere piu' debole ,riportarono danni mentali piu' o meno gravi e piu' o meno curabili.
Gli "Irrecuperabili" diventarono nel dopoguerra ,"Scemi di Guerra",in cui il dispregiativo "Scemo" veniva giustificato dal "di Guerra".
Purtroppo cosi' vennero chiamati soldati internati nei manicomi e poi tornati ad una vita normale che normale più non era. La cosa in Italia fu a lungo taciuta e dove, a differenza degli altri Paesi europei, ancora non sono certi i numeri ufficiali dei soldati affetti dal disturbo.


La presenza della religione come fede o come superstizione.



La vita sul fronte costrinse gli uomini a convivere continuamente con la presenza della morte. In qualsiasi momento del giorno e della notte, all'improvviso, un proiettile o una scheggia di granata avrebbero potuto togliere la vita. Appare quindi quasi naturale, in mezzo a questa situazione irreale, la presenza della religione, vissuta come fede o più semplicemente come superstizione.
Questa necessità nella vita di un soldato fu risolta dalla presenza dei cappellani militari nell'esercito e dalla massiccia distribuzione di santini e materiale devozionale.
I primi, banditi dall'esercito dopo l'unificazione italiana, vennero riammessi nel 1915 da Cadorna in vista dello scoppio della guerra. Oltre 2200 cappellani militari ingrossarono così le file dell'esercito a cui si aggiunsero anche i preti ed i chierici arruolati nelle retrovie. In tutto perciò le presenze religiose sul fronte ammontarono a circa 20000 uomini.

In alcuni musei invece è possibile trovare alcuni esempi del materiale devozionale distribuito in grandissima quantità nelle linee del fronte. Milioni di santini, cartoline e libri di preghiere furono stampati grazie al lavoro di alcune istituzioni religiose come la Santa Lega Eucaristica e l'Opera per la regalità di Nostro Signore Gesù Cristo. Immagini religiose, allegorie, preghiere e suppliche furono i soggetti principali che i soldati potevano vedere e leggere ogni giorno.
In questi cartoncini si trovavano stampate ad esempio la preghiera di pace di Papa Benedetto XV e l'immagine di Maria come Regina della Pace che invitava a rispettare il nemico dopo la sua uccisione. Oppure si cercava di tranquillizzare il soldato con parole di accettazione per la morte vista come una fatalità, consapevole che la Madonna avrebbe comunque vegliato su di lui. I più scaramantici invece appendevano, all'altezza del cuore, un cartoncino con scritto "Fermati!". Si trattava di una sorta di supplica (e speranza) rivolta all'eventuale pallottola nemica.Dopo la disfatta di Caporetto anche i santini e le cartine devozionali cambiarono rispetto al passato: la censura venne applicata con rigore in modo che venissero diffusi solamente immagini religiose dal valore chiaramente patriottico. La preghiera di Papa Benedetto XV fu considerata troppo pacifista e venne quindi vietata mentre i cappellani militari, durante le predicazioni, non potevano più usare la parola "Pace". Ciononostante, questo tipo di materiale riuscì comunque ad arrivare nelle mani e sotto gli occhi dei soldati fino all'ultima battaglia della Grande Guerra.

Il ruolo dei Cappellani Soldati di Dio


I santini erano conservati in trincea, nell’ospedale militare o in prigionia, erano espressione di fede genuina, ma spesso avevano anche un effetto scaramantico, conservati con cura nel portafoglio o nella giubba (o anche sotto l’elmetto in combattimento). Al santino distribuito dal cappellano militare si accompagnavano spesso altri testi, immaginette sacre, libretti con le preghiere, cartoncini funebri in memoria di un caduto, manifesti con raffigurazioni sacre affissi nelle caserme. Questa produzione di tipo devozionale, come è facile supporre, non era neutrale ma era espressione della capillare opera di propaganda tendente all’integrazione dei giovani nelle forze armate, all’accettazione dei valori bellici anche in quanto precetti religiosi. Oggetti devozionali da inserire in un contesto generale dominato, sul piano spirituale, dai riti al campo: la messa per i soldati, le assoluzioni e le benedizioni collettive, con l’affidamento al cappellano militare delle mansioni svolte ordinariamente dal parroco.
L’esame di questi materiali, considerati minori, ci immerge nella storia d’Italia. È con la campagna di Libia del 1911 che inizia la propaganda a favore dell’intervento militare e tutta la presenza della Chiesa italiana durante la grande guerra pose le basi per chiusura della questione romana. Fu una presenza inizialmente controversa (Benedetto XIV parlava di “inutile strage”), ma in continua crescita. Nel 1915 Cadorna reintrodusse il clero castrense di cui fecero parte 2200 ecclesiastici, mentre ventimila furono i preti e i chierici arruolati nelle forze armate, perlopiù nelle sezioni militari. L’Opera per la Regalità di Padre Gemelli, il fondatore dell’Università Cattolica, era il soggetto più attivo nello stampare, diffondere e inviare al fronte materiale devozionale.

Don Pacifico Arcangeli (Medaglia d'Oro al Valor Militare)
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Pacifico Arcangeli nacque Treia (Macerata) il 14 Marzo 1888, Tenete Cappellano del 252° R.gto Fanteria, morì sul Grappa il 6 Luglio 1918. Ultimo Ufficiale rimasto ormai privo di tutti i comandanti fu un' eroica figura di sacerdote e di soldato. Durante cruento combattimento, ottenuto dopo viva insistenza di unirsi alla prima ondata d’assalto, slanciavasi munito soltanto di bastone alla testa dei più animosi, giungendo per primo alla trincea nemica. Colpito mortalmente da scheggia di granata al ventre, incurante di sé, rimaneva in piedi appoggiato ad un albero a rincuorare i soldati. Trasportato a viva forza al posto di medicazione, sebbene morente, consolava con stoica virtù gli altri feriti e spirava glorificando e benedicendo la fortuna delle nostre armi.





MARIA BONI BRIGHENTI:la medaglia d'oro al valor militare


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Data e Motivazione del conferimento della Med. d'Oro al V. M. alla memoria: 11/2/1917 «Durante il lungo blocco di Tarhuna, fu incitatrice ed esempio di virtù militari; con animo elevatissimo e forte, prodigò sue cure a feriti e morenti, confortandoli colle infinite risorse della sua dolce femminilità. Il 18 giugno 1915, seguendo il presidio che ripiegava su Tripoli, rifiutò risolutamente di porsi in salvo, volendo seguire le sorti delle truppe; più volte colpita da proiettili nemici, mentre soccorreva feriti e incuorava alla lotta, moriva eroicamente, in mezzo ai combattenti. Fu di fulgidissimo esempio. Tarhuna, mag.-giu. 1915».
Ecco chi era Maria Boni Brighenti.
nasce a Roma il 3 settembre 1868. Di distintissima famiglia romana, promessa sposa fin da giovanetta a Costantino Brighenti, poté realizzare il suo sogno d’amore solo nel 1914. Il maggiore Brighenti viene all’epoca distaccato in Libia presso un comando di truppe coloniali e Maria non rinuncia dopo anni a separarsi ancora dal sogno della sua vita. Ha 46 anni e non è più una giovinetta quando giunge in Libia alla Vigilia per noi del conflitto mondiale. Pur conscia dei pericoli che la situazione di guerra (ma li in Libia la guerra non era mai terminata) avrebbero portato, decise di divenire, per speciale concessione del Governo della Colonia, assistente alla truppa, prodigandosi in ogni modo al nuovo compito. Nell’aprile 1915 il maggiore Brighenti assunse il comando del presidio di Beni Ulid, capoluogo degli Orfella, col II battaglione libico da lui stesso formato. Maria rimasta a Tarhuna nonostante il pericolo si riservò di raggiungerlo al più presto ma le successive tragiche vicende di quel tempo glielo impedirono. Il 10 maggio gli arabi in rivolta assediarono Tarhuna, impedendo ogni possibilità di rifornimenti alle truppe del presidio. Dopo un mese di resistenza, durante la quale Maria Brighenti, instancabile, prodigò le sue cure ai feriti ed agli ammalati, aggravatesi la situazione per la scarsezza di viveri, medicinali e munizioni, fu deciso dal comando di forzare il blocco e tentare il ripiegamento su Tripoli. La tragica ritirata lungo le aspre vie del Gebel ebbe inizio la notte del 17 giugno 1915. La colonna, formata da reparti nazionali e libici, seguita da un convoglio di non combattenti con fanciulli e donne, tra le quali Maria Brighenti, giunta nel vallone di Ras Msid fu attaccata e circondata dai ribelli. La lotta andò avanti per ore ma ben presto la colonna fu sopraffatta e i componenti massacrati. L’eroica Maria Brighenti, ferita da un colpo di rimbalzo aveva rifiutato ogni aiuto per prodigarsi nell’assistenza ai feriti ed ai morenti dividendo con essi gli ultimi sorsi di acqua della sua borraccia: cadde il 18 giugno ripetutamente colpita, trascinata dietro una duna e finita selvaggiamente.
Il marito, fatto prigioniero, non reggerà alla nuova situazione aggravata dalla perdita della consorte e dopo un anno si toglierà la vita.

La Bandiera dell'Arma dei Carabinieri per la prima volta in guerra


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Il 24 maggio 1915, a poche ore dall'annuncio dell'entrata in guerra dell'Italia contro l'Austria, la Bandiera dell'Arma dei Carabinieri partiva per il fronte scortata da un plotone d'onore e dalla Banda della Legione Allievi.
Prima ancora, lungo la linea di confine orientale, i reparti dell'Arma avevano già completato lo schieramento loro assegnato dal Comando Supremo con una forza complessiva di 500 Ufficiali e 19.816 tra Sottufficiali e Carabinieri. La linea di fuoco che avrebbe segnato l'ingresso in battaglia dei Carabinieri era la valle dell'Isonzo, all'altezza di Gorizia, sulle pendici del monte Podgora, ove si attestò il Reggimento Mobilitato al comando del Colonnello Antonio Vannugli. Per la posizione dominante degli austriaci, arroccati alla sommità del rilievo montuoso, l'impresa di snidarli appariva estremamente rischiosa e dall'esito incerto. Ma necessitava corrodere la resistenza dell'avversario, indebolirne progressivamente la tenuta per poi puntare su Gorizia. Dopo un periodo di approntamento, durante il quale venne realizzato un articolato sistema di trinceramento (nell'illustrazione a sinistra), a metà del mese di luglio il Comando del 6° Corpo d'Armata, da cui il Reggimento Carabinieri dipendeva tatticamente, ordinò di passare all'attacco. Nel Diario di Guerra del Col. Vannugli, di cui per la prima volta vengono riprodotti alcuni fogli nelle pagine seguenti, alla data del 19 luglio si legge: "Il Reggimento Carabinieri deve conquistare la cresta di quota 240, corrispondente al proprio fronte ed ivi rafforzarsi".
Alle ore 10:30 venne dato l'ordine di iniziare l'assalto, seguito da quello del Col. Pranzetti: "alla baionetta!". Secondo gli ordini, l'azione doveva essere condotta soltanto all'arma bianca. Una valanga umana si slanciò protesa verso l'alto, incurante della barriera di fuoco opposta dagli austriaci. Le perdite furono subito gravi, ma l'impeto dei Carabinieri non accennò ad esaurirsi.
Alle 15:05 il Comando della Brigata Pistoia "Vista l'ardita avanzata dei Carabinieri e resosi conto delle difficoltà incontrate" (così si legge in un dispaccio del suo Comandante) diede l'ordine di ripetere l'assalto, revocato però dal Comando del 6° Corpo d'Armata. La giornata, gloriosa ma senza vittoria, era costata al Reggimento 81 morti, 141 feriti e 10 dispersi.

L'ANALFABETISMO E I DIARI DEI SOLDATI


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Se pensiamo che la maggior parte delle brigate di fanteria erano composte da classi meno alfabetizzate
per molti dei ragazzi in guerra ci fu anche la scoperta della scrittura. Se si tiene conto, infatti, che ancora nel 1921 si era in presenza di una percentuale di analfabetismo pari al 27,3%, per la popolazione superiore ai 6 anni, è senza dubbio sorprendentemente elevato il numero dei soldati che durante la guerra riuscirono a scrivere un diario, degli appunti, delle lettere. Alcuni, pur in possesso della sola licenza elementare, riuscirono a scrivere centinaia di pagine di diario con poesie, schizzi e disegni, e il fatto è tanto più sorprendente se si tiene conto delle condizioni materiali in cui erano costretti. Ed è proprio grazie alle lettere, ai diari e alle memorie dei combattenti, oggi noi conosciamo gli aspetti più oscuri e sfuggenti della vita di trincea, narrata dagli stessi protagonisti che l’hanno vissuta e subita. Insomma , la Grande Guerra fu il primo conflitto raccontato dai protagonisti minori.
Nella storia delle precedenti grandi campagne militari ci sono le testimonianze degli storici o dei grandi generali, da Cesare a Napoleone; ma non abbiamo diari di legionari alla conquista della Gallia o lettere di granatieri dopo Austerlitz. I nostri fanti si trovarono alle prese non solo con i rigori devastanti della guerra tecnologica, ma anche con le fatiche e i misteri di un mezzo di comunicazione, ai più sconosciuto, come la
scrittura. Se allora il principale passatempo dei soldati a riposo era il sesso e il bere, l’accesso alla lettura attraverso soprattutto i giornaletti di trincea, fu una precaria, faticosa, ma importantissima conquista. E il passo successivo alla lettura fu la scrittura.

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In genere, i diari, le memorie, le poesie sono state scritte dagli ufficiali, ma è nelle lettere spesso sgrammaticate e scritte di getto dal soldato nelle pause dei combattimenti, che troviamo tutta la realtà della guerra, senza le mediazioni romanzesche o la distanza degli anni che attutisce e decanta. I fanti che furono mandati al massacro nella grande guerra erano in gran parte contadini e quelli che sopravvissero la raccontarono come un'esperienza solo un po' più dura della loro vita di tutti i giorni.
Possiamo dire , senza ombra di smentita, che la Grande Guerra è stata “una fucina di scrittura” , un volano per la sua diffusione di massa, soprattutto fra soggetti illetterati o precariamente alfabetizzati per i quali l’esperienza bellica rappresenta un’occasione di acculturazione. Il 75% delle testimonianze raccolte appartiene infatti a soldati semplici, molti dei quali di origine contadina (35%), provenienti dalla Liguria (45%), dal Piemonte (20%) ed anche dalle regioni meridionali.
Le comunicazioni dei fanti-contadini impegnati al fronte testimoniano il faticoso passaggio dalla comunicazione orale alla scrittura e non di rado tracce di voce sono rimaste impresse nelle missive, proprio come nel caso di questa missiva scritta nell’aprile 1915 da un giovane alpino ligure, che si chiude con un saluto quasi…”urlato

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I GIORNALISTI MORTI PER LA PATRIA NELLA GRANDE GUERRA

Accanto ad una miriade di soldati analfabeti o semianalfeti morti per la patria sono da annoverare anche
83 giornalisti dei quali una lapide rinvenuta solo qualche anno fa nello scantinato di un complesso a sud di Roma di proprietà INPGI (Istituto nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani "Giovanni Amendola" - con sede in Roma , ricorda i nomi.

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EROINE DIMENTICATE DAI LIBRI:undici ragazzine salvaraono 104 marinai


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Diciotto novembre 1917. Il pontone armato della marina militare «Faà di Bruno»,grosso Monitore della Marina da guerra, in trasferimento da Venezia ad Ancona, si incaglia al largo di Marotta, piccolo borgo di pescatori in provincia di Pesaro. Il mare tempestoso ha già inghiottito il gemello del «Faà di Bruno», il pontone armato «Cappellini ».
Da terra la popolazione di Marotta, composta esclusivamente da vecchi, donne e bambini (gli uomini validi sono tutti al fronte), osserva impotente i vani sforzi dell'equipaggio del «Faà di Bruno» per disincagliarsi. I marinai sono stremati. Il comandante Ildebrando Goiran si è fatto legare all'albero maestro per non essere scaraventato in acqua dai continui marosi.
Improvvisamente, all'incerta luce dell'alba, una piccola barca affronta il mare grosso. Ai remi sono 11 giovanette dai 13 ai 17 anni. Una di loro, Erina Simoncelli, si è improvvisata «capitana» e con un remo che ha funzioni di timone governa la piccola barca. A bordo hanno viveri e bevande raccolte frettolosamente nelle campagne intorno a Marotta. Sono tutte figlie di pescatori: il mare, per loro, è la vita e non pensano al pericolo che stanno affrontando. Giunte accanto al pontone e messa la barca sottovento, le 11 ragazze trasportano i loro doni a bordo.
Erina Simoncelli si presenta al comandante della nave e gli legge un messaggio delle donne di Marotta agli uomini del « Faà di Bruno », poi, per dare coraggio ai marinai che si erano rinchiusi nella torre binata, canta una canzone napoletana allora in voga.
Finalmente, i marinai abbandonano il loro scomodo rifugio. Ma il pericolo non è scomparso. Erina Simoncelli. vestita com'è, si getta in mare e porta a terra una grossa cima con la quale gli abitanti di Marotta assicurano il pontone a una casa.
Per altre due volte la ragazza torna al pontone, poi, placatosi il mare, l'unità viene rimorchiata sino ad Ancona. Due anni più tardi, in seguito al rapporto del comandante Goiran, le 11 ragazze vengono decorate con la medaglia di bronzo al valore di Marina.Questi i nomi delle 11 eroine marottesi: Erinna Simoncelli, Giustina Francesconi, Silvia Ginestra, Teresa Isotti, Edda Paolini, Arduina Portavia, Emilia Portavia, Emilia Portavia di Nicola, Nella Portavia di Nicola, Maria Portavia, e la giovanissima sposa, Maria Zampa


LA RIBELLIONE DELLA BRIGATA CATANZARO


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La brigata venne costituita il 1º marzo 1915 a Catanzaro Lido in due reggimenti, il 141º e il 142º. I soldati (circa 6.000) che ne facevano parte erano in maggioranza calabresi.
All’atto della mobilitazione del 24 maggio 1915 fu dapprima inquadrata nelle truppe a disposizione del Comando Supremo poi, dopo pochi giorni, fu inviata in Friuli dove fu inquadrata nella 3ª Armata.
La «Catanzaro» fu una delle più sfruttate unità dell’Esercito. Logorata dai lunghissimi turni in trincea di prima linea nei settori più contesi, essa venne impiegata come brigata d’assalto sul Carso dal luglio 1915 al settembre 1917.In prima linea a Castelnuovo, ed a Bosco Cappuccio, nel 1916 combatté a Oslavia, e durante la Strafexpedition sul monte Mosciagh e sul monte Cengio. Tornò poi sul monte San Michele, a Nad Logen, a Nova Vas, sul Nad Bregom e a Hudi Log. Prima di Caporetto fu a Lucatic, sul monte Hermada ed infine a San Giovanni di Duino.
Nel 1918 dopo Caporetto combatté sul Pria Forà, in Val d'Astico ed in Val Posina.Nel giugno del 1920 fu sciolta. La bandiera del 141º fanteria fu decorata con la Medaglia d'Oro al Valore Militare e quella del 142º ebbe la Medaglia d'Argento. Considerata dal comando italiano tra le Brigate più valorose e tenaci (giudizio condiviso dagli austriaci).
Alle ore 22.00 del 15 luglio 1917 , pero', i soldati dei due reggimenti della "Catanzaro" furono protagonisti della più grave rivolta nell’esercito italiano durante il conflitto.Questo episodio si svolse a Santa Maria la Longa dove la brigata era stata acquartierata a partire dal 25 giugno 1917 per un periodo di riposo. La notizia di un nuovo reimpiego nelle trincee della prima linea fece, pian piano montare quella che in poche ore sarebbe diventata una vera e propria rivolta. Qualcuno scrisse anche che uno dei motivi della rivolta furono le promesse di periodi di licenza che qualche comandante, anche di grado elevato, faceva alle truppe e che poi le circostanze impedivano di mantenere.Alle ore 22.00 del 15 luglio 1917 iniziò il fuoco che durò tutta la notte. I caporioni di ogni reggimento assaltarono i militari dell’altro inducendo gli stessi ad ammutinarsi e ad unirsi a loro. Molti caddero morti sotto il fuoco dei rivoltosi, altri ne rimasero feriti. La rivolta durò tutta la notte. Per sedare la rivolta vennero impiegati una compagnia di Carabinieri, quattro mitragliatrici, due autocannoni e con il preciso ordine di intervenire in modo fulmineo e con estremo rigore. La lotta durò tutta la notte e cessò all’alba.Sedata la ribellione, il comandante della Brigata ordinò la fucilazione di quattro fanti colti con le canne dei fucili ancora calde e la decimazione della compagnia. All'alba del 16 luglio dodici fanti più i quattro colti in flagranza, alla presenza di due compagnie, una per ciascun reggimento, vennero fucilati a ridosso del muro di cinta del cimitero di Santa Maria La Longa e posti in una fossa comune.

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In tale circostanza fu lamentato che indulgenze passate non avessero tempestivamente richiamato l’ attenzione di chi poteva per taluni indizi prevedere, e con opportune misure evitare, i tristi fatti; e fu altresi’ riconosciuto che la truppa era stanca e logora dalle fatiche sopportate,mentre il Comando supremo ne ignorava lo spirito, forse perche’ non vi era stata completa sincerita’ di referti al riguardo”.
Con poche parole si è fatto cenno ad un complesso di problemi la cui conoscenza ancora oggi, trascorsi 90 anni, è assolutamente incompleta, come lo è la storia delle tante fucilazioni e delle esecuzioni sommarie,delle quali non si conobbero tutti i casi : molti rimasero,come gran parte dei caduti, “ignoti”.


I soldati della Brigata Catanzaro, dopo questi gravi fatti, continuarono a battersi con disciplina per tutta la durata della guerra, tanto da ottenere una seconda citazione sul bollettino di guerra del 25 agosto 1917 nel quale si riportava che: «Sul Carso la lotta perdura intorno alle posizioni da noi conquistate, che il nemico tenta invano di ritoglierci. Negl’incessanti combattimenti si distinsero per arditezza e tenacia le Brigate Salerno (89° - 90°), Catanzaro (141° -142°) e Murge (259° e 260°)».


TRA I SOLDATI E I CITTADINI SPESSO PROBLEMI DI CONVIVENZA
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Gli abitanti delle zone del fronte , cioè nei paesi della pianura veneta, del Bellunese, delle Prealpi carniche e Giulie e della pianura friulanaper quasi tutta la guerra dovettero convivere con la presenza costante dei militari. Ai due milioni di civili si sommarono, dal maggio 1915 all'ottobre 1917, 4 milioni di soldati. A livello pratico, questo aspetto della Grande Guerra rappresentò senza dubbio un problema per questi civili: la macchina militare era certamente ingombrante ed i soldati, a volte, si resero protagonisti di eccessi e violenze.

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Molti di loro, quando giungevano nei paesi delle retrovie, avevano appena superato un periodo piuttosto lungo in prima linea, in mezzo alle trincee e a stretto contatto con la morte. Lo stress, il nervosismo e la disperazione spesso li spinse a "sfogarsi" una volta tornati ad una vita più o meno normale. La dedizione di molti all'alcool poteva portare spesso a risse, violenze e attenzioni troppo esplicite verso le donne del paese. Episodi che si moltiplicavano e che diventavano ancora più gravi in quei luoghi che fino a pochi mesi prima erano appartenuti all'Impero austro-ungarico.
In paesi come Cortina d'Ampezzo o in tutti quei paesi del Medio e Basso Isonzo (Caporetto, Cormons, Gradisca, Sagrado, Monfalcone e successivamente anche Gorizia) sia i civili che i militari diffidavano l'uno dell'altro. La propaganda austro-ungarica nella primavera del 1915 aveva evidenziato la meschinità degli italiani, dipinti come traditori da cui aspettarsi qualsiasi cattiveria. Quella italiana invece ammonì i soldati (ma anche gli ufficiali) a tenere sempre gli occhi bene aperti: chiunque infatti poteva essere una spia o un doppiogiochista. Una confusione che aumentava anche a causa della lingua: molti contadini friulani parlavano esclusivamente friulano mentre chi abitava nelle zone del Carso, delle Valli del Natisone e nella conca di Caporetto comunicavano solo attraverso il dialetto sloveno. Questo genere di atteggiamenti si ripeterono anche con l'occupazione austro-germanica di tutto il Friuli e della parte orientale e settentrionale del Veneto. Per tutto il 1918, coloro che restarono nelle proprie case spesso furono scambiati per spie italiane. Chi veniva scoperto (o si credeva di aver scoperto) era destinato alla fucilazione, chi invece veniva "semplicemente" sospettato poteva essere arrestato ed internato.

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In mezzo a tutta questa continua violenza però ci furono anche alcuni di casi di convivenza pacifica tra civili e militari. Alcune famiglie si ritrovarono ad ospitare nelle proprie case i soldati, a lavare loro le divise e a cucinare. Ragazzi appena maggiorenni trovarono in alcune donne del luogo una figura materna, un rifugio sicuro dalla violenza e dagli orrori della guerra. Altri invece, come i militari impegnati costantemente nelle retrovie (medici, infermieri e ausiliari), stabilirono dei contatti quotidiani con gli abitanti del paese e non mancarono casi di fidanzamenti e successivi matrimoni con ragazze del luogo.
Spesso i soldati cercavano nei civili una quotidianita' normale , qualche visione di pace in guerra'

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qualcosa che faceva ricordare loro il paese lontano, la famiglia e gli affetti.

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LA FIGURA FEMMINILE NELLA GRANDE GUERRA
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La gran parte dei nuclei famigliari erano di origine contadina, legati alle consuetudini e alle tradizioni di un tempo: i membri maschili avevano il compito di lavorare fuori dalle mura domestiche mentre le donne eseguivano le proprie mansioni all'interno, accudendo i figli e sbrigando le faccende di tutti i giorni. Le cose non erano molto diverse nemmeno per le famiglie "operaie" dove l'unica differenza era l'impiego degli uomini nelle fabbriche anziché nei campi. Una situazione che mutò profondamente nel 1915.
I posti di molti contadini ed operai, chiamati in guerra, furono lasciati vuoti e vennero coperti da chi era restato e non sarebbe mai stato chiamato al fronte: le donne. Si trattò di un momento molto importante per la storia sociale del Paese. Il loro ruolo, per la prima volta, passò da "angelo del focolare domestico" a membro attivo dell'economia e della società collettiva.
Non che le donne fossero del tutto nuove a questo tipo di esperienza: molte di loro erano già abituate a contribuire al lavoro nei campi mentre, a livello industriale, la loro presenza era già stata registrata nel settore tessile. Ma adesso il loro numero era aumentato considerevolmente e furono presenti in settori del tutto nuovi come la metallurgia (riconvertita alle esigenze belliche), la meccanica, i trasporti e mansioni di tipo amministrativo.

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Circa duecentomila donne tra il 1915 e il 1918 fecero il loro ingresso di massa nelle fabbriche
Ovviamente questo processo non fu indolore: non essendo state previste delle divisioni del lavoro, le donne erano obbligate a compiere gli stessi lavori dei colleghi maschi, anche quelli più pesanti. Nei campi era necessario spostare i covoni di fieno o i sacchi di grano, accudire il bestiame e utilizzare tutte le macchine agricole. Allo stesso modo all'interno delle fabbriche dovevano essere sollevati pesi non indifferenti e compiuti gesti ripetitivi e meccanici.
Le donne presero il posto dei propri mariti (o figli) anche in quelle faccende domestiche tipicamente maschili come le questioni burocratiche, gli acquisti o le vendite di prodotti agricoli ed i problemi di natura legale.

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Nei tre anni di guerra questo inserimento massiccio delle donne nel mondo del lavoro mutò non solo il loro stile di vita, ma anche il loro modo di pensare. Anche le donne che non erano entrate nel mondo del lavoro gestivano in piena autonomia il sussidio e si occupavano di tutte le incombenze che all’interno della famiglia erano tradizionalmente riservate agli uomini; tutte indistintamente dovevano affrontare la responsabilità più gravosa di tutte: sfamare la propria famiglia in tempo di guerra.
Durante la Prima Guerra Mondiale anche una donna partecipò al conflitto come soldato regolare. Una ragazza austriaca che abitava in Italia, Viktoria Savs,

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nata nel 1899 nel Salisburghese, chiese ed ottenne dall’arciduca Eugenio d’Asburgo, di poter combattere affianco al padre caporale. Per quasi 2 anni si distinse per il suo valore e la sua abilità, ricevendo numerose medaglie. Il 27 Maggio 1917 un masso fatto cadere da una deflagrazione le maciullò il piede. Solo al momento dell’amputazione dell’arto, nell’ospedale da campo, i commilitoni si accorsero che era una donna. Anche con un solo piede, continuò comunque a partecipare alla Guerra nella Croce Rossa. Morì ottantenne a Salisburgo.

LE DONNE ASSISTENTI
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Un altro aspetto che coinvolse la sfera femminile durante la Grande Guerra fu quello dell'assistenzialismo, sia di matrice cattolica che laica. Diverse donne si impegnarono nell'organizzare centri di incontro per la promozione di iniziative a sostegno della guerra come le raccolte di denaro o materiale destinati alle famiglie dei soldati impegnati al fronte oppure l'organizzazione di visite ai soldati stessi quando si trovavano in licenza o nelle retrovie.

Ad impegnarsi in questo tipo di assistenza furono specialmente donne di estrazione borghese ed aristocratica dotate di una buona disponibilità economica. Il loro ruolo si mantenne su binari molto più tradizionali e, per la mentalità del tempo, decorosi. Applicando le loro capacità e le loro conoscenze di economia domestica, seppero riunirsi ad esempio in gruppi per la raccolta di pellicce ed indumenti usati in modo da crearne altri da inviare al fronte. Inventarono degli indumenti "antiparassitari" che prevenivano il problema dei pidocchi nelle trincee oppure organizzarono la raccolta dei noccioli di pesche e albicocche che, opportunamente lavorati, si trasformavano in sapone.

Parallelamente a questo tipo di assistenza "materna" si sviluppò anche quello in campo medico con la mobilitazione di donne e ragazze volontarie della Croce Rossa (e di altre associazioni di soccorso). Gli ospedali nelle retrovie e non solo si riempirono di infermiere impegnate nel prestare soccorso e sollievo ai soldati feriti e reduci dai terribili periodi passati in trincea. Secondo alcuni calcoli, nel 1917 le volontarie della Croce Rossa furono circa 10mila a cui vanno sommate altrettante facenti parte di altre associazioni.

La loro figura fu ben più celebre rispetto alle altre donne italiane della Grande Guerra. Presenti nelle retrovie in ambienti caratterizzati da una forte presenza maschile e con lo scopo di curare il corpo di un uomo attraverso il contatto fisico, le infermiere divennero un simbolo della femminilità che si fondeva con l'erotismo. Un'immagine sfruttata anche dalla propaganda: "Numerosissime sono [le cartoline]in cui esse, graziosamente racchiuse nelle loro divise non prive di civetteria, occhieggiano in direzione di gagliardi soldati, li abbracciano, assumono atteggiamenti scopertamente seduttivi.

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L´evacuazione delle popolazioni trentine
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Lo scoppio della guerra con l'Italia diede avvio - nel maggio 1915 - alla massiccia evacuazione delle popolazioni trentine principalmente verso l'impero austro-ungarico, ma anche verso l'Italia, spesso internate in campi profughi.
L'apertura del fronte italiano ebbe sulle popolazioni civili del Trentino effetti devastanti, come conseguenza diretta della situazione politico-nazionale e delle operazioni militari. I sospettati d'irredentismo vennero internati (circa 2.000 dei quali 1.754 nel campo di Katzenau) o confinati (oltre 1.000). Nella zona interessata all'attività bellica – tutta l'area adiacente alla Lombardia ed al Veneto – si rese necessaria l'evacuazione in massa dei residenti, costretti a lasciare nell'arco di pochi giorni le case e le terre per essere avviati verso i lontani paesi dell'Austria inferiore e superiore, della Moravia, Stiria, Boemia, Salisburghese e perfino dell'Ungheria.

L'esodo coatto interessò oltre 70.000 profughi, alloggiati in baraccamenti – i maggiori dei quali furono Mitterndorf, Pottendorf, Braunau e Wagna – o presso famiglie, ma sempre in forme precarie e di estremo disagio dove le sofferenze dello sradicamento si legavano a quelle materiali dovute alla carenza dei primari beni di sussistenza.

L'avanzata italiana nel primo anno di guerra portava all'evacuazione d'autorità di coloro che si trovavano ancora sul territorio via via occupato, circa 35.000 persone trasferite nelle province del regno, sovente senza mantenere unite le comunità in base ai luoghi di provenienza e smembrando gli stessi nuclei familiari.
Tenuto conto dei richiamati nell'esercito austriaco, di coloro, non molti, che volontariamente erano passati in Italia, dei profughi nello stato asburgico e nel regno, il Trentino vedeva quasi dimezzata la sua popolazione assommante, in base al censimento del 1910, a 386.437 abitanti.

I residenti rimasti nelle zone considerate non pericolose, costituiti in massima parte da disabili alla guerra, donne e minori, vennero sottoposti al regime militare con l'obbligo al lavoro coatto, anche femminile, e colpiti da ripetute requisizioni di beni e derrate agricole. Ulteriori sofferenze erano date dalla rarefazione dei generi alimentari e di quanto fosse necessario ad assicurare un minimo vitale, mentre s'interrompeva l'attività produttiva per la mancanza della forza lavoro e per le distruzioni.

La sorte dei profughi trentini in Austria venne seguita con impegno da Alcide Degasperi fin dal 1915, ma fu solo con la riapertura del Parlamento nel maggio 1917, dopo la morte di Francesco Giuseppe, avvenuta nel novembre 1916, che la deputazione trentina, composta da sette rappresentanti popolari e da un liberale, riuscì ad intervenire in modo incisivo nella difesa dei loro diritti e per approntare un'adeguata assistenza, sollevando anche il problema dei danni economici provocati alle popolazioni dagli spostamenti compiuti in forma coercitiva e dalla guerra.

Alla fine del novembre 1917 le condizioni dei profughi vennero regolate con un testo legislativo finalizzato a togliere le cause di maggiore disagio, concedere sovvenzioni e permettere la libertà di scelta rispetto alla residenza, nei baraccamenti o presso famiglie.
Sorte peggiore venne riservata ai profughi in Italia, tranne che in alcune colonie modello situate nel settentrione. L'evacuazione non era stata preparata nella parte logistica, ed i profughi conobbero una diaspora in 264 comuni di 69 prefetture collocate in tutte le regioni del regno, comprese quelle del sud; alcuni di essi vennero internati perché sospettati di austriacantesimo.
La maggioranza si trovò costretta a fare fronte a condizioni igieniche disastrose, a malattie causate da sporcizia e da intolleranza all'alimentazione ed al clima, alla carenza di strutture scolastiche per i giovani, alla mancanza di lavoro, nonostante le iniziative delle Commissioni di patronato e le pubbliche denunce apparse sul giornale dei fuorusciti trentini, "La libertà".
Tratto da: Percorsi di storia trentina a cura di Lia De Finis

Molte famiglie furono smembrate, intere comunità si dispersero, in migliaia andarono a popolare campi profughi dove la vita quotidiana regalava miseria e stenti. Nei luoghi in cui la concentrazione di sfollati era maggiore si organizzarono forme embrionali di socialità, favorite da un’accoglienza non di rado cordiale riservata ai trentini, in particolare da parte delle popolazioni boema e morava. Migliaia di profughi furono ammassati in baraccamenti disadorni, vere e proprie «città di legno» che ospitarono gli sfollati trentini per tutta la durata del conflitto.

I BAMBINI SMARRITI

Assieme alle donne, la categoria dei bambini fu quella che subì le maggiori conseguenze dopo la fuga dal Friuli e dal Veneto orientale. Si calcola che il 30% dei profughi fu composto da bambini sotto i 15 anni che, in molti casi, persero il contatto con il loro nucleo famigliare di origine. Centinaia di fanciulli ad esempio invasero le strade di Milano i quali vennero progressivamente ospitati presso orfanotrofi ed istituti religiosi. Molti di loro erano rimasti effettivamente senza genitori a causa della guerra ma una parte si era smarrita durante il viaggio, salendo ad esempio su un treno diverso rispetto quello dei propri genitori.

I piccoli si trovarono così completamente privi di punti di riferimento. Molti comuni dovettero organizzare degli asili nido, corsi scolastici, ricreatori, scuole di lavoro che dessero loro la prospettiva di un futuro. Nelle città questo tipo di iniziative furono più facili grazie alla presenza di strutture già esistenti mentre nelle campagne le cose furono molto più difficili. In alcune zone del centro Italia nacquero delle colonie che alternavano lo studio ai lavori nei campi, cercando così di inserire i giovani all'interno di una nuova realtà. Una delle problematiche principali infatti era proprio quella dell'emarginazione.
Come gli adulti, anche i bambini profughi furono visti come degli estranei: "i ragazzi siciliani ci menavano, pensavano che noi fossimo la causa dei loro guai. Ci chiamavano rossi del nord. Non avevano mai visto la neve e quell'inverno, dopo il nostro arrivo, era nevicato più volte. […] I ragazzini del posto ci canzonavano: sti profughi ci anno portato 'a neve." (Testimonianza di Giovanni Pianaro in Daniele Ceschin, "La condizione delle donne profughe e dei bambini dopo Caporetto", in "DEP - Deportate, esuli, profughe, Rivista Telematica di studi sulla memoria femminile", n. 1, 2004, p. 41)


Nel 1914 una strana partita di pallone

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Era il 25 Dicembre 1914, il primo Natale della “Grande Guerra”, sul fronte dell’Europa Nord-Occidentale, tra Belgio e la Francia, inaspettatamente ed eccezionalmente numerosi militari nemici, Germanici e Britannici, smisero di Guerreggiare per giocare il 25 Dicembre una vera e propria partita di calcio, che sostituì il gioco al massacro della indegna vita di Trincea.
I Comandanti in Capo reagirono furiosamente a quell’incredibile ed imprevedibile “Armistizio di Guerra” una vera e propria “Tregua di Natale”, voluta dai soldati-Calciatori della gioventù rubata, sfinita ed esausta dei due schieramenti, al limite dell’ essere accusati di diserzione e tradimento.
I soldati di entrambi gli schieramenti, effettivamente in nome di un comune sentimento religioso uscirono allo scoperto disarmati, si diedero la mano, cantarono, si scambiarono doni, cioccolato, tabacco, champagne, si fecero addirittura fotografare insieme.Si racconta che all’improvviso una voce tedesca cantò “Strille Nacht” la sorpresa emozionò tutti, tacquero le bombe, qualcuno accese un lumino che si moltiplicò in breve tempo.
Dal Fronte Inglese la risposta fu il canto del “Valzer delle Candele”.
Spuntarono piccoli abeti natalizi, i nemici cessarono di essere tali e s’ incontrarono per lo scambio degli auguri.

La tregua fatta cessare imperiosamente degli alti comandi, i poveri fanti dovettero riprendere a combattere per uccidere i vicinissimi e sventurati colleghi della trincea opposta, nei primi attacchi spararono volutamente a vuoto

IL MULO :PROTAGONISTA OSCURO DELLA GRANDE GUERRA
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Durante la Grande Guerra, il mulo rappresentò l’unico mezzo di trasporto attraverso i difficili sentieri alpini, che non a caso continuano a essere chiamati "mulattiere". Autentico mezzo da combattimento, il mulo fu fondamentale per trasportare le armi e rifornire i reparti logistici in alta montagna. L’ultimo censimento ne dava presenti, durante la Prima Guerra Mondiale, ben 520.000. Gala, Grata, Goro, Follonica, Gina, Dro, Lara, Gisella: questi i nomi che più comunemente gli alpini attribuirono a questi compagni d’avventura e di fatica.
Tra tutti i muli soldato resterà nel mito Zibibbo, campione di longevità. Reduce della campagna di Russia, questo mulo ha vissuto per ben 36 anni. In tanti non conosceranno la sua storia, i più lo avranno dimenticato "nella gloria della vittoria", ma per gli alpini resterà per sempre un eroe, contro tutti i luoghi comuni che hanno ad oggetto il mulo, considerato un simbolo di cocciutaggine e stupidità.
la "Preghiera del mulo al suo conducente"…

"Non ridere, o mio conducente, ma ascolta questa mia preghiera. Accarezzami spesso e parlami, imparerò così a conoscere la tua voce, ti vorrò bene e lavorerò più tranquillo. […] Sii sempre buono, comprensivo e paziente, pensando che anche noi muli siamo di carne ed ossa. E ricorda anche che migliaia di miei fratelli, per portare ai reparti armi e munizioni, viveri e mezzi, sono morti straziati dai proiettili e dalle bombe, travolti dalla tormenta o dalle valanghe, annegati nei torrenti e nel fango, esauriti dalle fatiche, dalla sete, dalla fame e dal gelo.
Ricordati, mio caro conducente, che come tu hai bisogno di me io non posso fare a meno di te. Dobbiamo quindi scambievolmente conoscerci, comprenderci, e volerci bene per formare una coppia perfetta. Ricordati, mio caro conducente, che come tu hai bisogno di me io non posso fare a meno di te".
Ibrido, inelegante, nato dall'accoppiamento dell'asino con la cavalla; portaai l'obice e la cassa di cottura; il Cappellano, la posta e il ferito; la cassa di granate e l'esplosivo, era l'amico prezioso e insostituibile dei soldati in montagna.

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MEZZO MILIONE DI MERIDIONALI MORTI
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La Grande Guerra, questa inutile strage, ha prodotto in Italia 650.000 morti, 947.000 feriti, 600.000 dispersi. Ogni anno le istituzioni di questa patria astratta e di plastica festeggiano questa ricorrenza. Ma da nessuna parte si sente dire che il 90% di queste vittime era gente del Sud, i cafoni meridionali (la carne da cannoni) a cui avevano promesso terre e condizioni migliori di vita.
Come la Gran Bretagna ha usato indiani e afgani, e la Francia algerini e i tunisini, cosí l’Italia ha usato i popoli delle sue colonie, l’ex Regno delle Due Sicilie. In tutti i nostri paesi del Sud troviamo lapidi con centinaia e centinaia di nomi, paesi che nel 1918 avevano 5000 abitanti si ritrovarono con in media 230 morti nella guerra, un’intera generazione!Eppure i meridionali lasciarono le proprie case, i piccoli e poveri campi, gli armenti e, soprattutto, le proprie famiglie senza custodia, per rispondere alla chiamata alle armi ed irrobustire le file di un esercito forse per la prima volta veramente nazionale, che avrebbe dovuto difendere un confine e degli interessi di uno Stato che ancora non percepivano interamente dal punto di vista identitario, ma di cui ormai erano certamente figli. Morirono in tanti , martiri di una unita' che solo le trincee seppero costruire .
I meridionali impiegati nella grande guerra furono il 51,3% dei soldati contro il 48,7% impiegato dall’Italia Settentrionale. Ben 5.903.000 uomini chiamati alle armi, chi già esperto e chi improvvisato “guerriero”.
Nelle forze dell’ordine istituzionali furono impiegati oltre 158.000 uomini, tutti di origini meridionali. Ma le vere vittime della guerra (oltre il 56% dei caduti) furono i civili e, per lo più, i contadini che dovettero lasciare a casa la zappa per inforcare una baionetta.





Edited by Pulcinella291 - 31/12/2012, 11:35
 
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michel891
view post Posted on 12/2/2015, 21:07




messaggio di spam cancellato di autorità da Lucio Musto

Edited by Lucio Musto - 12/2/2015, 22:15
 
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1 replies since 18/12/2012, 09:55   26475 views
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