| La poesia del D’Annunzio rispecchia la sensualità del suo temperamento, intesa come abbandono gioioso alla vita dei sensi e dell’istinto, per scoprire l’essenza profonda e segreta dell’io (che è poi quella stessa della natura). Se sei minorenne o un adulto bacchettone leggi altro.
Mia crudele amica
Perché, perché, o mia crudele Amica non vi lasciate mettere l'Uccello in quella ricca e opulenta fica che nel suo genere è il perfetto bello?
Vorrei essere davvero una formica per entrare quatto quatto in quel corbello: sapete, non m'importerebbe mica di restar preso nel cresputo vello.
Voi fareste addolcir qualunque amaro noi tutti quanti ripetia in coro: Voi siete qualche cosa di ben raro
Portate di bellezze un gran tesoro via, via, prendere un pugno di denaro e lasciatemi entrar nel vostro foro
Argentea
Quando prona, co'1 ventre ne l'arena, nuda si lascia a'1 conquistare lento de le maree, non dunque a luna piena ella è una grande statua di argento?
Venere Callipige in una oscena posa. Scolpiti ne'1 tondeggiamento de' lombi stan due solchi; ampia la schiena piegasi ad un profondo incavamento.
Cresce il flutto e la bagna. Ella si scuote io a'1 senso di quel gelido contatto e di piacer le vibrano le terga.
Il flutto su la faccia la percuote; ma rimane godendo ella in quell'atto fin che l'alta marea non la sommerga.
Ad Lunae Sororem
Forma che così dolce t'arrotondi dove s'inserta l'arco de le reni e, vincendo in tua copia tutti i seni, ne la mia man che ti ricerca, abondi;
e ti parti anche duplice in due mondi, ove il Peccato i suoi più rari beni volle chiuder per me, come in terreni paradisi, e i misteri più profondi;
o tu candida mole, che sul vivo perno ondeggi, levata ad alti cieli, ove la voluttà suoi nembi aduna,
risplendi or qui, come nel marmo argivo, s'io t'invoco presente, fuor dei veli, o carnale sorella de la luna.
LA CORONA DI GLAUCO
MELITTA
Fulge, dai maculosi leopardi vigilata, una rupe bianca e sola onde il miele silentemente cola quasi fontana pingue che s'attardi.
Quivi in segreto sono i miei lavacri dove il mio corpo ignudo s'insapora e di rosarii e di pomarii odora e si colora come i marmi sacri.
Io son flava, dal pollice del piede alla cervice. Inganno l'ape artefice. Porto negli occhi mie le arene lidie.
Per entro i variati ori la lieve anima mia sta come un fiore semplice. Melitta è il nome della mia flavizie.
L'ACERBA
Non io del grasso fiale mi nutrico. Lascio la cera e il miele nel lor bugno. Ma spicco la susina afra dal prugno semiano, e mi piace l'orichico.
E il latte agresto piacemi del fico primaticcio che nérica nel giugno. Ti do due labbra fresche per un pugno di verdi fave, e il picciol cuore amico!
Vieni, monta pè rami. Eccoti il braccio. Odoro come il cedro bergamotto se tu mi strizzi un poco la cintura.
Quanto soffii! Tropp'alto? Non ti piaccio? Ah, ah, mi sembri quel volpone ghiotto che disse all'uva: Tu non sei matura.
NICO
I tuoi piè bianchi sono i miei trastulli nella gracile sabbia ove t'accosci, bianchi e piccoli come gli aliossi levigati dal gioco dei fanciulli.
- Ahi, ahi, misera Nico, i miei piè brulli! Su la sabbia di foco i piè mi cossi. Tu ridi, costassù, tu ridi a scrosci! Ma, s'io ti giungo, vedi come frulli.
- Ingrata, ingrata, con che arte il foco ti rilieva le vene in pelle in pelle e il pollice t'imporpora e il tallone!
- Bada; Non aliossi pel tuo gioco ma ho in serbo per te, schiavo ribelle, una sferza di cuoio paflagone.
NICARETE
Glauco di Serchio, m'odi. Io, Nicarete le canne con le lenze e gli ami sgombri che non preser già mai barbi nè scombri t'appendo alla tua candida parete.
E t'appendo le nasse anco, e la rete fallace con suoi sugheri e suoi piombi che non pescò già mai mulli nè rombi ma qualche fuco e l'alghe consuete.
Amaro e avaro è il sale. O Glauco, m'odi. Prendimi teco; Evvi una bocca, parmi, sinuosa nell'ombra dè miei búccoli.
Teco andare vorrei tra lenti biodi e coglier teco per incoronarmi l'ibisco che fiorisce a Massaciúccoli
A NICARETE
Nicarete dal monte di Quiesa a Montramito i colli sono lenti come i tuoi biodi, all'aria obbedienti, fatti anch'elli d'un oro che non pesa.
E quella lor soavità, sospesa tra i chiari cieli e l'acque trasparenti, tu non la vedi quasi mai la senti come una gioia che non si palesa.
Sorge, splendore del silenzio, il disco lunare. O Nicarete, ecco, e s'adempie mentre nel lago la ninfea si chiude.
Prima è rosato come il fior d'ibisco che t'inghirlanda le tue dolci tempie ma dopo assempra le tue spalle ignude.
GORGO
Ospite sempre memore, io son Gorgo e l'odor delle Cicladi vien meco. Tutte l'uve e le spezie, ecco, ti reco in questo lino aereo d'Amorgo.
Glauco, e ti reco il vin di Chio nell'otro, quel che bevesti un dì sul tuo fasèlo, quel che in argilla si facea di gelo pendula a soffio di ponente o d'ostro.
E una corona d'ellera e di gàttice ti reco, per un'ode che mi piacque di te, che canta l'isola di Progne.
Io voglio, nuda nell'odor del màstice, danzar per te sul limite dell'acque l'ode fiumale al suon delle sampogne.
A GORGO
Gorgo, più nuda sei nel lin seguace. La tua veste ti segue e non ti chiude. Fra l'ombelico e il depilato pube il ventre appare quasi onda che nasce.
Ombra non è su le tue membra caste: dall'ínguine all'ascella albeggi immune. Polita come il ciòttolo del fiume sei, snella come l'ode che ti piacque.
Danzami la tua molle danza ionia mentre che l'Apuana Alpe s'inostra e il Mar Tirreno palpita e corusca.
L'Ellade sta fra Luni e Populonia! E il cor mi gode come se tu m'offra il vin tuo greco in una tazza etrusca.
L'AULETRIDE
Io rinvenni la pelle dell'incauto Frigio nomato Marsia appesa a un pino, sul suol roggio il coltello del divino castigatore e, presso, il doppio flauto.
Questo raccolsi trepidando, o Glauco. E, immemore del flebile destino, io son osa talor nel mio giardino chiuso carmi dedurre sotto il lauro.
Rivolgomi sovente e guardo s'Egli non apparisca a un tratto, l'Immortale. Ma non mi trema il mio labbro fasciato.
Vivon nell'orror sacro i miei capegli ma per l'angustia del mio petto sale il superbo di Marsia antico afflato.
BACCHIA
Ah, chi mi chiama? Ah, chi m'afferra? Un tirso io sono, un tirso crinito di fronda, squassato da una forza furibonda. Mi scapiglio, mi scalzo, mi discingo.
Trascinami alla nube o nell'abisso! Sii tu dio, sii tu mostro, eccomi pronta. Centauro, son la tua cavalla bionda. Fammi pregna di te. Schiumo, nitrisco.
Tritone, son la tua femmina azzurra: salsa com'alga è la mia lingua; entrambe le gambe squamma sonora mi serra.
Chi mi chiama? La búccina notturna? il nitrito del Tessalo? il tonante Pan? Son nuda. Ardo, gelo. Ah, chi m'afferra?
Ditirambo III
O grande Estate, delizia grande tra l'alpe e il mare, tra così candidi marmi ed acque così soavi nuda le aeree membra che riga il tuo sangue d'oro odorate di aliga di rèsina e di alloro, laudata sii, o voluttà grande nel cielo nella terra e nel mare e nei fianchi del fauno, o Estate, e nel mio cantare, laudata sii tu che colmasti dè tuoi più ricchi doni il nostro giorno e prolunghi su gli oleandri la luce del tramonto a miracol mostrare!
Ardevi col tuo piede le silenti erbe marine, struggevi col tuo respiro le piogge pellegrine, tra così candidi marmi ed acque così soavi alzata; e grande eri, e pur delle più tenui vite gioiva la tua gioia, e tutto vedeva la tua pupilla grande: le frondi delle selve e i fusti delle navi, e la ragia colare, maturarsi nelle pine le chiuse mandorlette e la scaglia che le sigilla pender nel fulvo, e l'orme degli uccelli nell'argilla dei fiumi, l'ombre dei voli su le sabbie saline vedea, le sabbie rigarsi come i palati cavi, al vento e all'onda farsi dolci come l'inguine e il pube amorosamente, imitar l'opre dell'api, disporsi a mò dei favi in alveoli senza miele, e l'osso della seppia tra le brune carrube biancheggiar sul lido, tra le meduse morte brillar la lisca nitida, la valva tra il sughero ed il vimine variar la sua iri, pallida di desiri la nube languir di rupe in rupe lungh'essi gli aspri capi qual molle donna che si giaccia cò suoi schiavi, scorrere la gòmena nella rossa cúbia, sorgere la negossa viva di palpitanti pinne, curvarsi al peso vivo la pertica, la possa dei muscoli, gonfiarsi nelle braccia vellute, una man rude tendere la scotta, al garrir della vela forte piegarsi il bordo, come la gota del nuotatore, la scía mutar colore, tutto il Tirreno in fiore tremolar come alti paschi al fiato di ponente.
O Estate, Estate ardente, quanto t'amammo noi per t'assomigliare, per gioir teco nel cielo nella terra e nel mare, per teco ardere di gioia su la faccia del mondo, selvaggia Estate dal respiro profondo, figlia di Pan diletta, amor del titan Sole, armoniosa, melodiosa, che accordi il curvo golfo sonoro come la citareda accorda la sua cetra, dolore di Demetra che di te si duole nè solstizii sereni per Proserpina sua perduta primavera! O fulva fiera, o infiammata leonessa dell'Etra, grande Estate selvaggia, libidinosa, vertiginosa, tu che affochi le reni, che incrudisci la sete, che infurii gli estri, Musa, Gorgóne, tu che sciogli le zone, che succingi le vesti, che sfreni le danze, Grazia, Baccante, tu ch'esprimi gli aromi, tu che afforzi i veleni, tu che aguzzi le spine, Esperide, Erine, deità diversa, innumerevole gioco dei vènti dei flutti e delle sabbie, bella nelle tue rabbie silenziose, acre ne' tuoi torpori, o tutta bella ed acre in mille nomi, fatta per me dei sogni che dalla febbre del mondo trae Pan quando su le canne sacre delira (delira il sogno umano), divina nella schiuma del mare e dei cavalli, nel sudor dei piaceri, nel pianto aulente delle selve assetate, o Estate, Estate, io ti dirò divina in mille nomi, in mille laudi ti loderò se m'esaudi, se soffri che un mortal ti domi, che in carne io ti veda, ch'io mortal ti goda sul letto dell'immensa piaggia tra l'alpe e il mare, nuda le fervide membra che riga il suo sangue d'oro odorate di aliga di rèsina e di alloro! Edited by Pulcinella291 - 17/5/2018, 19:40
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