Le stronzate di Pulcinella

ANEDDOTI SULLE CANZONI NAPOLETANE

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view post Posted on 16/3/2019, 14:24
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Canzoni napoletane famose e aneddoti viaggiano di pari passo. Nel senso che un brano può dirsi un classico solo se è accompagnato da un numero sufficiente di curiosità. Una cosa ovvia, a ben pensarci: gli aneddoti sono una conseguenza diretta della notorietà. Storielle e fatterelli sono tanto più numerosi quanto più una canzone è eseguita, quanto più viaggia nel tempo. Eccovi, allora, 7 aneddoti davvero curiosi su 7 canzoni napoletane. Canzoni napoletane famose, ovviamente.

NAPULE E’, L’ ESQUIMIA DI PINO DANIELE
L’aneddoto non è direttamente riferito a Napule è, ma a Pino Daniele. Il che è lo stesso. Il riferimento è ad un concerto che tenne l’8 marzo 1986 nel palazzetto di Summonte, a due passi da Montevergine. Era un sabato e il clima decisamente freddo. Poco prima di esibirsi, Pino Daniele si rivolse verso l’organizzatore, Riccardo Bucci proprio a proposito della temperatura rigida. Gli disse: “Riccà, ma addo m’he purtato? In Esquimia?”. L’Esquimia, la terra degli Esquimesi… Un episodio che dice molto sull’ironia di Pino Daniele, un aspetto poco noto del suo carattere. Poi, vabbè, che dire di Esquimia? Genialità icastica, che solo la mente di un mascalzone latino poteva partorire.

CARUSO, LA VERSIONE DI MUROLO E IL GIORNALISTA INATTESO
Il rilancio di Roberto Murolo prese il via nel 1990 con l’album ‘Na voce, ‘na chitarra, dove compare anche Caruso. L’accompagnamento al piano è di Lucio Dalla. La sua partecipazione doveva essere una sorpresa da scoprire solo con la pubblicazione del disco. Le cose, però, andarono diversamente. Venuto a Napoli in gran segreto, Dalla si fermò a pranzare al ristorante Zi Teresa prima di entrare in sala di registrazione. Mentre chiacchierava con il produttore del disco, si vide comparire davanti Federico Vacalebre, il critico musicale del Mattino. Qualcuno lo aveva avvisato. Un paio di giorni dopo comparve sul quotidiano un articolo che rivelava la collaborazione. La sorpresa era svanita. Con buona pace delle strategie carbonare del produttore: ancora si chiede chi fu l’autore della soffiata.

‘O SOLE MIO, UN PLAGIO NEL FILM SU NELSON MANDELA
‘O sole mio è la canzone napoletano a cui, in assoluto, si accompagnano più aneddoti. A partire dalle Olimpiadi di Anversa del 1920, quando la banda musicale la eseguì al posto dell’Inno di Mameli. Si era perso lo spartito e ‘O sole mio era l’unica composizione italiana che i musicisti conoscevano a memoria. Tra i tanti aneddoti sul capolavoro di Capurro e Di Capua, però, uno riguarda un (mica tanto) presunto plagio. Stiamo parlando del tema di Invictus, il film di Clint Eastwood dedicato a Nelson Mandela uscito nel 2010. A sentirla, sorgono parecchi dubbi, che nelle prime battute hanno il sapore delle certezze. Sentire per credere.

CANZONE APPASSIUNATA, LE ORIGINI POPOLARI
Nel suo libro Storia della canzone napoletana, Pasquale Scialò riprende un interessante riferimento alle origini di Canzone appassiunata. La canzone che E.A. Mario compose nel 1922 è, in realtà, la rielaborazione di un vecchio canto tradizionale. Niente di scandaloso, per carità. Lo stesso discorso vale per ‘E spingole frangese di Salvatore di Giacomo. Erano prassi ricorrenti, che testimoniano le origini popolari della canzone napoletana d’autore. I versi a cui E. A. Mario si rifece recitano così:

Arbero peccerillo te chiantaie,
I’ t’arracquaie cu li miei surure;
Venne lu vient’ e te tuculiaie
La meglia cimma me cagnaie culore.
La fronna ch’era verde se seccaje,
Lu dorge frutto me cagnaje sapore.

La rielaborazione è questa:

N’albero piccerillo aggiu piantato,
criscènnelo cu pena e cu sudore…
Na ventecata già mme ll’ha spezzato
E tutt’ ‘e fronne cagnano culore…
Cadute so’ già ‘e frutte: e tuttu quante,
erano doce, e se so’ fatte amare…

‘O MARENARIELLO, BUONA LA SECONDA
‘O Marenariello non sarebbe diventata un grande successo, se Salvatore Gambardella non avesse deciso di cambiarne i versi. Meglio, il loro autore. Inizialmente, infatti, il brano si intitolava ‘O mare e ba su testo di Diodato Del Gaizo. Non ottenne nessun riscontro. Gambardella, allora, passò il brano ad un autore appena ventenne, Gennaro Ottaviano. Cambiarono i versi, cambiò il titolo e cambiò il destino della canzone. Ancora oggi tra le più note al mondo.

RESTA CU MME, I VERSI MAI CANTATI
Resta cu mme viene ricordata per i versi “Nun me ‘mporta d’ ‘o passato/ nun me mporta chi t’ha avuto”. La cosa curiosa, però, è che non erano queste le parole inizialmente scritte da Dino Verde. La prima stesura della canzone ne prevedeva altre: “Nun me mporta si ‘o passato/ sulo lacreme m’ha dato”. Tutto un altro significato, che non piacque alla commissione di lettura della Rai. Domenico Modugno fu costretto ad inciderne una versione meno “negativa”. Poco male: Resta cu mme divenne un grande successo.

‘A LUCIANA, UNA PETTENESSA SCANDOLOSA
Altra canzone incappata nella censura della commissione di lettura della Rai. A finire sotto accusa fu il verso “te do nu vaso ncoppa ‘a pettenessa”. Fu considerato scandalosamente allusivo per poter essere trasmesso alla radio. Correva l’anno 1953 e la premiata ditta Pisano & Cioffi abbozzò. Il bacio fu dato lo stesso ma “ncopp’ ‘o scialle ‘e lusso”. Niente da dire, invece, su un altro verso, quello che recita “pe’ na semmana m’ha faticasse”…
 
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view post Posted on 1/8/2021, 13:05
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FENESTA VASCIA
Una delle canzoni più belle, ripresa da un’antica villanella e rielaborata nel 1825 dall’abate Genoino e da Guglielmo Cottrau è Fenesta vascia di autore anonimo.

La bellezza di questa canzone nella versione ottocentesca fece correre la fantasia di qualche “esperto” che le volle attribuire una paternità più nobile, facendo infuriare Cottrau:

«… non posso trattenere la mia meraviglia quando vedo che alcuni critici non si danno la briga di consultare documenti autentici come quelli che io presento e, su mere, vaghe induzioni non si peritano di dichiarare che tale canzone è stata scritta da Tizio o da Caio e mettono fuori nomi di celebri Maestri come Bellini e Donizetti.»






FENESTA CA LUCIVE, STRAZIANTI VERSI D’AMORE


Seicento – Anonimo o Vincenzo Bellini



Per Salvatore Di Giacomo era “la più bella, la più tenera, la più umana canzone…”. Fenesta ca lucive, una straziante aria presumibilmente scritta nel Seicento da un anonimo, ma secondo alcuni da Vincenzo Bellini, rielaborata e pubblicata da Guglielmo Cottrau nel 1843.

Come tutte le canzoni popolari dell’epoca, i dubbi sono superiori alle certezze. In questo caso alle diverse versioni del testo, giustificate dalla trasmissione orale, vanno aggiunti quelli riguardanti l’autore e l’origine.

La versione di Cottrau è certamente la più diffusa. Quella che generalmente ascoltiamo cantata da Roberto Murolo, Enrico Caruso, Luciano Pavarotti ecc.

Ma nel 1854, il tipografo editore Mariano Paolella pubblicò, su un foglio volante, una sua versione. Paolella sostenne di aver sentito cantare Fenesta ca lucive nelle strade di Napoli, dal popolo e di averne elaborata una sua personale versione.

In effetti vi aveva aggiunto anche del suo, perché il testo contiene due sestine in più rispetto alle tre di Cottrau, con dei nuovi contenuti.



Giuglielmo Cottrau, il francese napoletano


Guillame Cottrau, italianizzato in Guglielmo, era un editore e compositore francese, che rinunciò alla sua cittadinanza per assumere quella del Regno delle Due Sicilie.

Non godeva di buona fama tra gli addetti ai lavori perché si riteneva avesse l’abitudine di attribuirsi la paternità di opere di cui non era l’autore. Tra queste Fenesta ca lucive.

Accusa ritenuta in seguito doppiamente ingiusta. In primis perché quelle attribuzioni gliele aveva date il figlio Teodoro. In secondo luogo, perché c’è chi ipotizza l’opposto. Cioè che Guglielmo fosse lui a scrivere le canzoni che divulgava come provenienti da autori anonimi del passato.



Vincenzo Bellini autore di Fenesta ca lucive?


Tuttavia, nel caso di Fenesta ca lucive in molti hanno ritenuto, e ancora ritengono, che l’autore sia Vincenzo Bellini. Questa ipotesi fu avanzata da Salvatore Di Giacomo e diversi studiosi lo seguirono, ma si ritiene che il poeta sia partito da considerazioni inesatte.

Del resto, questa ipotesi pare sia venuta fuori solo alla metà del primo Novecento, mentre nessuno ne aveva parlato in precedenza.

Anzi, neanche uno dei suoi biografi aveva accennato a questa composizione e tanto meno uno dei suoi migliori amici, Francesco Florimo, che era molto attento alla produzione musicale del maestro catanese.

Comunque, come sempre in questi casi difficilmente il dubbio troverà una risposta. In effetti la differenza la fa la bellezza della canzone, che nell’immaginario collettivo deve essere necessariamente opera di un grandissimo autore.



La tragica vicenda della baronessa di Carini


Appare invece improbabile, che Fenesta ca lucive tragga ispirazione da una poesia siciliana del Seicento di Matteo di Ganci, che racconta la tragica vicenda della Baronessa di Carini.

La poesia si rifà ad una storia vera, anche se la narrazione e più romanzata e sentimentale.

La Baronessa Laura Lanza di Trabia aveva 14 anni, quando per volere del padre, andò in sposa a don Vincenzo La Grua-Talamanca.

Il tragico evento si verificò dopo vent’anni di matrimonio durante i quali la coppia aveva avuto otto figli. Ma in effetti non si trattò di un fulmine a ciel sereno.

Tra i coniugi non vi era mai stato una particolare vicinanza di idea né un grande interesse. Tant’è che la relazione con Ludovico Vernagallo, cugino di don Vincenzo, era iniziata già dopo due anni di matrimonio, quindi durava da ben 18 anni.

Per cui appare quanto meno strana la scoperta della tresca da parte del padre. Dovuta per dipiù alla delazione di un sacerdote. Comunque, il padre della Baronessa fece in modo da coglierli sul fatto ed ucciderli entrambi.



Improbabili origini siciliane di Fenesta ca lucive


Tuttavia, per quanto si possa accettare che la lirica durante il suo percorso “orale” tra la Sicilia e la Campania abbia subito delle alterazioni, appare molto forzato questo accostamento. Con tutta la buona volontà si fa fatica a cogliere i punti di contatto tra le due storie.

Infatti, in Fenesta ca lucive c’è un giovane che torna dopo un lungo periodo trascorso lontano da casa. Il suo primo pensiero è correre a riabbracciare la sua amata.

Ma mentre si avvicina alla casa della ragazza si accorge che la sua finestra, che abitualmente era illuminata, quella sera è buia.

Sente che è successo qualcosa di grave perché quella luce spenta significa che la sua amata non c’è. Angosciato corre verso la casa. Ma quando chiama, a quella finestra si affaccia la sorella della sua innamorata.



La sua amata è morta nella vana attesa


E la sorella gli dà la terribile notizia: «la tua amata è morta!» Lui rimane impietrito, non riesce a credere a quelle parole, ma la donna molto duramente gli conferma: «È morta e atterrata!».

Tuttavia, da quelle parole sconvolgenti traspare anche un atto d’accusa nei confronti dell’uomo. Perché è stato lontano per così tanto tempo? L’amore suo ha sofferto questa lontananza e non si dava pace.

Piangeva perché era costretta a dormire da sola. Ma adesso, è l’amaro commento della sorella, non deve più dolersi di questa solitudine, perché dorme insieme a tanti altri morti.

E come se non bastasse lo invita ad andare in chiesa, aprire la bara e vedere come è diventata la donna che tanto aveva amato.

Un’immagine macabra di un corpo in decomposizione e l’orrore di quella bocca dalla quale, prima uscivano parole profumate e adesso escono vermi.



Le immagini raccapriccianti di Baudelaire


Versi che richiamano quelli di Baudelaire in una poesia tratta da I fiori del male: Una carogna. Il titolo è già tutto un programma.

Il filo conduttore della narrazione è una passeggiata che il poeta fa con la sua fidanzata, durante la quale incontrano la carogna di una cagna in decomposizione.

Ma dopo le nove quartine iniziali, dove Baudelaire si esalta nella descrizione di tutti i particolari di quella scena orripilante, nelle ultime tre supera se stesso con dei versi inquietanti sul destino della ragazza.



Eppure tu sarai simile a quest’immondizia,
A quest’orribile peste,
Stella dei miei occhi, sole della mia natura,
Mio angelo e mia passione!

Sì! Tu regina delle grazie,
Sarai tale dopo l’estremo sacramento,
Allora che, sotto l’erba e i fiori grassi,
Andrai a marcire fra le ossa

Allora, oh mia bella, dillo, ai vermi
Che ti mangeranno di baci,
Che io ho conservato la forma e l’essenza divina
Dei miei decomposti amori!



Fenesta cara addio!

Più pietoso del poeta francese il protagonista di Fenesta ca lucive chiede al sacerdote di avere cura di quella tomba e di non farle mancare mai una luce.

Quindi un ultimo saluto alla finestra, che non vorrà vedere mai più per il triste ricordo che gli richiamerebbe. Anzi gli dice di restare chiusa per sempre, perché ora la sua bella non potrà mai più affacciarsi.

Lui di sicuro non passerà più per quella strada, e quando ne avrà voglia, andrà al cimitero a passeggiare. Fino al giorno in cui quella stessa morte che è stata tanto ingrata, ritornerà per accompagnarlo dove potrà riabbracciare l’amore suo.



Fenesta ca lucive (versione Gugliemo Cottrau)
Fenesta ca lucive e mo nun luci,
Sign’è ca nenna mia stace ammalata.
S’affaccia la surella e mme lu dice:
“Nennella toja è morta e s’è atterrata.
Chiagneva sempe ca durmeva sola,
Mo dorme co’ li muorte accompagnata!”

Va’ dint’ ’a cchiesa e scuopre lu tavuto,
Vide nennélla toja comm’è tornata
Da chella vocca ca n’ascéano sciure,
Mo n’esceno li vierme, oh che piatate!”
“Zi’ parrocchiano mio, abbice cura,
na lampa sempe tienece allummata.”

Addio fenesta, restate ’nzerrata
Ca nenna mia mo nun se po affacciare
Io cchiù nun passarraggio pe’ ’sta strata,
Vaco a lo camposanto a passìare!
’Nzino a lo juorno ca la morte ’ngrata,
mme face nénna mia ire a trovare!..



Finestra illuminata (Versione Cottrau)
Finestra illuminata che adesso sei spenta,
È un segno che l’amore mio è ammalata.
S’affaccia la sorella e me lo dice:
“La tua amata è morta e sotterrata.
Piangeva sempre perché dormiva da sola,
Adesso dorme in compagnia di altri morti.

Vai nella chiesa e scopri la sua bara
vedrai la tua amata come è diventata
Da quella bocca che ne uscivano fiori
Adesso escono vermi, oh che pena!”
“Padre, abbiatene cura,
fate che una luce sia sempre accesa”.

Addio finestra, restatene chiusa
Ché la mia amata non si può affacciare
Io non passerò mai più per questa strada,
Vado al cimitero a passeggiare!
Fino al giornoche la morte ingrata
Mi farà ricongiungere con la mia amata.



Versione Mariano Paolella
Fenesta che lucive e mo non luce,
Fuorze nennella mia stace malata?…
S’affaccia la sorella e che mme dice?
“Nennella toja è morta e s’è atterrata
Chiagneva sempe ca dormeva sola,
Mo dorme co li muorte accompagnata!”

“Cara sorella mia, che mme dicite?
Cara sorella mia, che me contate?”
“Guardate ‘ncielo, si non me credite,
Purzi li stelle stanno appassionate
È morta nenna vosta ah si chiagnite,
Ca quanto v’aggie ditto è beretate!”

“Iate a la cchiesia e la vedite pure;
Aprite lu tavuto e che trovate?
Da chella vocca ca n’asceano sciure
Mo n’esceno li vierme, o che piatate!”
“Zi Parrochiano mio, tienece cure
Li llampe sempe tienence allummate.”

Ah nenna mia si’ morta, poverella!
Chill’ uocchie tiene chiuse e non mme guarda
Ma ancora a ll’uoccbie mieie tu pare bella
Ca sempe t’aggio amato e mo cchiù assaie!
Potesse a lo mmacaro mori priesto,
E m’atterrasse a lato a tte nennella!

Fenesta cara addio; rieste nzerrata
Ca nenna mia mo non se po affacciare,
Io cchiù non passarraggio da sta strata,
Vaco a lu Camposanto a passiare
’Nzino a lo juorno che la morta ‘ngrata
Mme face nenna mia ire a trovare.



Finestra illiminata (Versione Paolella)
Finestra illuminata che adesso sei spenta,
Forse l’amore mio è ammalata?
S’affaccia la sorella e che mi dice?
“La tua amata è morta e sotterrata.
Piangeva sempre perché dormiva da sola,
Adesso dorme in compagnia di altri morti.”

“Cara sorella mia, ma che mi dite?
Cara sorella mia, cosa mi raccontate?”
“Guardate in cielo, se non mi credete,
Persino le stelle sono rattristate!
È morta la vostra amata! Ah, sì piangete!
Che quello che vi ho detto è verità!”

“Recatevi alla chiesa e controllate pure,
Aprite la bara, e cosa troverete?
Da quella bocca dove uscivano fiori.
Adesso escono solo vermi, Oh! Che pena!”
“Padre, abbiatene cura (della tomba),
fate che una luce sia sempre accesa.”

Ah! Sei morta, povera mia cara!
Quegli occhi tieni chiusi e non mi guardi!
Ma agli occhi miei appari sempre bella!
Perché sempre ti ho amato e adesso assai di più!
Potessi magari morire presto
Ed essere sotterrato accanto a te, amore!

Finestra cara addio; resta chiusa
Ora che il mio Amore non si potrà affacciare,
Io non passerò più per questa strada
Vado a passeggiare al cimitero!
Fino a quel giorno che la morte ingrata
Mi farà ricongiungere alla mia cara.


fonte: napoliinpillole
 
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view post Posted on 2/8/2021, 09:01
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'A risa

Una curiosità che sembra giusto portare all'attenzione del lettore riguarda il primo disco inciso in Italia. Si deve sapere che a incidere il primo disco per grammofono a 78 giri della storia italiana fu Bernardo Cantalamessa, un noto cantautore e macchiettista napoletano. La canzone di debutto fu 'A risa (La risata), che divenne in seguito un grande successo, giunto fino ai nostri giorni e interpretata anche dal grande Aurelio Fierro. Quando la canzone fu incisa, era l'anno 1895, gli albori della musica italiana.
 
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view post Posted on 2/8/2021, 13:19
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Jesce sole


Grazie alla ricerca di autorevoli esperti di etnomusicologia si è potuto stabilire che la prima canzone napoletana in assoluto (almeno riscontrabile per la datazione) 'Jesce sole', con un riscontro cronologico databile a circa 800 anni fa. Sembra che i napoletani abbiamo uno stretto legame con il sole, non è un caso che molte delle canzoni provenienti da questa terra lo vediamo come protagonista e portatore di buoni auspici. Ricordate quel testo che dice: 'Che bella cosa è na jurnat e sole' ? Si tratta della canzone 'O sole mio' molto probabilmente ispirata dall'immortale senso della luce, della vita e del chiarore che i napoletani portano nel cuore.
 
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view post Posted on 2/8/2021, 16:31
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O surdato ‘nnammurato


Trattasi di uno dei brani più famosi della cultura musicale classica napoletana. Il testo di ‘O surdato ‘nnammurato venne scritto dal poeta Aniello Califano, mentre le musiche furono composte da Enrico Cannio. Era il 1915 e la canzone volle rappresentare in modo dettagliato la tristezza ed i travagli emozionali cui i soldati erano sottoposti quando combattevano al fronte. In particolare, ‘O surdato ‘nnammurato racconta la sofferenza di un uomo costretto dal conflitto a rimanere lontano dalla donna che ama.
 
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