Le stronzate di Pulcinella

Come gli anni 60 ci cambiarono la vita

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view post Posted on 28/5/2019, 16:45
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Una doverosa premessa. Questa mattina qualcuno mi ha chiesto cosa ne pensassi di una discussione riguardante gli anni sessanta.
Ovvia risposta, l'idea è buona.
Bene, dunque datti da fare.
E se non è andata proprio così, questo era da intendersi.
Certo che c'ero negli anni sessanta, certo che mi ricordo cose. In fondo me li sono percorsi tutti e dieci, benché inizialmente col passo molto incerto dell'infante.
Ma, in fondo, i ricordi hanno qualcosa delle favole e quali occhi sono più adatti a guardare dentro le favole se non quelli di un bambino?
Dunque, mischiando nozioni e ricordi, vediamo dove andremo a parare.


><*><

Il boom economico (o miracolo economico italiano)

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Il miracolo economico italiano (anche detto boom economico) è un periodo della storia d'Italia, compreso tra gli anni 50 e sessanta del XX secolo, appartenente dunque al secondo dopoguerra italiano ovvero ai primi decenni della Prima Repubblica e caratterizzato da una forte crescita economica e sviluppo tecnologico dopo l'iniziale fase di ricostruzione.

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La ricostruzione edile, la situazione internazionale con la necessità di metallo ed altre materie lavorate fu un ulteriore stimolo alla crescita dell'industria pesante italiana. Si erano poste così le basi d'una crescita economica spettacolare, il cui culmine si raggiunge nel 1960, destinata a durare sino alla fine degli anni sessanta e a trasformare il Belpaese da Paese sottosviluppato, dall'economia principalmente agricola, ad una potenza economica mondiale. Per esempio, nei tre anni che intercorsero tra il 1959 ed il 1962, i tassi di incremento del reddito raggiunsero valori da primato: il 6,4%, il 5,8%, il 6,8% e il 6,1% per ciascun anno analizzato.
Questa grande espansione economica fu determinata in primo luogo dallo sfruttamento delle opportunità che venivano dalla favorevole congiuntura internazionale. Più che l'intraprendenza e la lungimirante abilità degli imprenditori italiani , ebbero effetto l'incremento vertiginoso del commercio internazionale e il conseguente scambio di manufatti che lo accompagnò . Anche la fine del tradizionale protezionismo dell'Italia giocò un grande ruolo in quella fase. In conseguenza di quell'apertura, il sistema produttivo italiano ne risultò rivitalizzato, fu costretto ad ammodernarsi e ricompensò quei settori che erano già in movimento. La disponibilità di nuove fonti di energia e la trasformazione dell'industria dell'acciaio furono gli altri fattori decisivi.

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Il maggiore impulso a questa espansione venne proprio da quei settori che avevano raggiunto un livello di sviluppo tecnologico e una diversificazione produttiva tali da consentir loro di reggere l'ingresso dell'Italia nel Mercato comune. Il settore industriale, nel solo triennio 1957-1960, registrò un incremento medio della produzione del 31,4%. Assai rilevante fu l'aumento produttivo nei settori in cui prevalevano i grandi gruppi: autovetture 89%; meccanica di precisione 83%; fibre tessili artificiali 66,8%. Ma, va osservato che il miracolo economico non avrebbe avuto luogo senza il basso costo del lavoro. Gli alti livelli di disoccupazione negli anni 1950 furono la condizione perché la domanda di lavoro eccedesse abbondantemente l'offerta, con le prevedibili conseguenze in termini di andamento dei salari.
Alla fine degli anni 50 la situazione occupazionale ebbe un forte incremento soprattutto nei settori dell'industria e del terziario. Tuttavia questo avvenne a discapito dell'agricoltura.
Il sistema economico marciava a pieno regime, il reddito nazionale stava crescendo e la gente era rinfrancata dall'incremento dell'occupazione e dei consumi. Si erano infine dimenticati gli anni bui del secondo dopoguerra, quando il paese era ridotto in brandelli. È pur vero che tanti erano ancora i problemi da affrontare, fra cui la carenza di servizi pubblici, di scuole, di ospedali e di altre infrastrutture civili. Ma in complesso prevaleva un clima di ottimismo.

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D'altra parte, all'inizio del 1960 l'Italia si era fregiata di un importante riconoscimento in campo finanziario. Dopo che un giornale inglese aveva definito col termine miracolo economico il processo di sviluppo allora in atto, dalla Gran Bretagna era giunto un altro attestato prestigioso per le credenziali e l'immagine dell'Italia. Una giuria internazionale interpellata dal Financial Times aveva infatti attribuito alla lira l'Oscar della moneta più salda fra quelle del mondo occidentale. Un premio che aveva coronato una lunga e affannosa rincorsa, iniziata nell'immediato dopoguerra, per scongiurare la bancarotta e non naufragare nell'inflazione più totale.

Di conseguenza, si era infine potuto concretare il cambio fra la lira e il dollaro, fissato a quota 625, e la rivalutazione delle riserve auree della Banca d'Italia era servita a ridurre l'indebitamento del Tesoro. Da qui anche l'euforia diffusasi in Borsa con i listini in forte rialzo. Sino a qualche tempo prima, ben pochi avrebbero immaginato che l'Italia potesse conseguire un successo economico dopo l'altro.


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<***>



Fin qui parte della situazione storica ed economica.
Per andare sui ricordi, poche auto per strada, non eravamo certamente nella situazione attuale con tanti, troppi veicoli ovunque, anche dove non sarebbe opportuno.
Si poteva andare tranquillamente a piedi, i bambini potevano permettersi di giocare in strada anche in città, senza il timore di essere investiti.
Cantieri, tanti, ovunque. Le case crescevano a vista d'occhio e la città si estendeva per accogliere gente che veniva "da fuori". Ma di questo se ne parlerà in seguito.
Purtroppo spazi molto belli, alcuni anche storici, venivano occupati da nuove strutture industriali o per la mobilità. Sto pensando all'Italsider, che qui ha invaso e snaturato il borgo di Cornigliano ed al Castello Raggio (gemello del Miramare di Trieste) abbattuto per la costruzione dell'aeroporto Cristoforo Colombo.
Tempi di lavoro, voglia, esigenza, frenesia del fare. Cose semplici, gioie semplici. Una buona dose di serietà e parecchio ottimismo.
Allora ci si poteva ancora permettere di fare progetti e ritenere con una certa sicurezza che sarebbero stati realizzati. Detto oggi sembra fantascienza.
Ma per adesso chiudo qua. Ma la storia continua...


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Edited by marmari - 28/5/2019, 21:20
 
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view post Posted on 30/5/2019, 18:34
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Il boom edilizio in Italia degli anni sessanta

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Diversi sono stati i boom edilizi in Italia e in altri Paesi nelle diverse epoche. Nella fattispecie quando si parla di boom edilizio in Italia ci si riferisce a quello avvenuto negli anni sessanta, in stretto rapporto al più generale boom economico degli anni 1958–63 che vide una grande e inaspettata, nelle sue proporzioni, espansione dell'economia Italiana.

Il patrimonio edilizio in Italia aumentò vertiginosamente nel dopoguerra. Nel 1951 erano stati costruiti 10,7 milioni di abitazioni che erano quasi raddoppiate nel 1991 raggiungendo la cifra di 19,7 milioni di unità. (Fonte Censis).

I motivi specifici di tale sviluppo sono essenzialmente da individuarsi:

La diversa distribuzione geografica della popolazione: tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta più di 10 milioni di italiani si spostarono dal Mezzogiorno e dalle regioni del Triveneto verso le aree più ricche e industrializzate del paese, dalle zone povere a quelle ricche, dall'agricoltura all'industria.
La rapida crescita demografica legata alle migliorate condizioni economiche e sociali.
L'aumento del reddito per abitante che raddoppiò quasi, passando da 577 dollari USA nel 1952 a 970 nel 1963; nel frattempo la disoccupazione era scesa sotto la soglia, definita economicamente “frizionale”, del 3% nel 1962, dato che corrispondeva in pratica al raggiungimento della piena occupazione.
I bassi tassi d'interesse che consentirono a molti l'accesso al credito ed ai mutui fondiari ed edilizi.
L'edilizia economica e popolare denominata INA-Casa, che ebbe con tutti i suoi limiti, una funzione di traino al progredire del settore delle costruzioni e delle cooperative edili.

Ma il boom edilizio ha il suo rovescio della medaglia, ovvero la speculazione edilizia

Ogni crescita veloce ed inattesa conduce alla nascita di nuovi squilibri ed il boom edilizio degli anni sessanta in Italia non fu da meno, viste anche le condizioni di arretratezza del paese e soprattutto la rapidità con il quale questo si sviluppò.

La speculazione edilizia: le città soprattutto del nord crescono rapidamente, ma è tutto il territorio nazionale a mutare fisionomia, da un paese essenzialmente rurale ed agricolo l'Italia si trasforma in una estensione di grandi sobborghi urbani ed industriali dove il cemento è il nuovo comune denominatore. Non vengono risparmiate nemmeno le coste ed i piccoli villaggi, che si trasformano in centri balneari o turistici per far fronte alle nuove domande (seconde case, alberghi ecc.), che la nuova società industriale ed urbana impone.
La prima e tra le più gravi conseguenze, quindi, dello sviluppo incontrollato delle città fu la speculazione edilizia. La superficie Italiana si trasformò in una gigantesca lottizzazione. Una ricerca del Ministero dei lavori pubblici dei primi anni sessanta rilevava dati incredibili: dall'esame di una parte ancora ristretta dei comuni Italiani, (un quarto, corrispondente a circa a 2000 municipalità), veniva riscontrato che erano state autorizzate lottizzazioni per una superficie di circa 115.000 ettari. Il dato era impressionante perché corrispondeva a ben 18.000.000 di vani, che statisticamente potevano essere commisurati alle necessità nazionali fino al 1980.
Non è mia intenzione dilungarmi su questo argomento, ben conosciuto ai più, ma solo registrarne l'esistenza e la genesi.

Il punto più debole dell'economia italiana era quello rappresentato dall'agricoltura.

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Le aziende caratterizzate da una scarsa produttività o ai margini di un'economia di sussistenza erano quasi il 60% del totale e le piccole imprese familiari avevano continuato ad ampliare la loro presenza senza dar luogo ad adeguate forme associative nella produzione e nel collegamento con i mercati. In pratica, circa l'80% della superficie coltivata era distribuita fra 2 milioni e mezzo di unità aziendali, di cui 2 milioni con dimensioni inferiori ai 5 ettari.

A rendere quanto mai precaria la situazione della nostra agricoltura stava poi il fatto che le terre più fertili riguardavano poco più di un terzo della superficie coltivata ed erano prevalentemente concentrate in Val Padana, mentre quelle povere o mediocri rappresentavano un carico variabile tra il 60% e il 65% della popolazione agricola attiva e si dividevano un reddito equivalente a non più del 33% della popolazione nazionale.

Fatto sta che soltanto tra il 1960 e il 1962 si cominciò a affermare, in sede politica, l'esigenza di introdurre dei correttivi, di attuare alcuni provvedimenti che evitassero un peggioramento del divario fra Nord e Sud, assecondassero l'ammodernamento dell'agricoltura per sanare il deficit della bilancia agro-alimentare e ponessero un freno alle speculazioni immobiliari cresciute a dismisura nelle principali aree urbane in seguito alla forte domanda di alloggi da parte degli immigrati; e, non da ultimo, rimuovessero posizioni ormai intollerabili di dominanza oligopolistica nel settore elettrico e in vari servizi di interesse collettivo.

Il divario tra nord e sud



La prevalente concentrazione industriale e delle condizioni di maggiore produttività agricola e terziaria nel Nord del paese continuava, però, ad alimentare situazioni di forte divario territoriale, cariche di implicazioni sociali oltre che economiche. Durante il decennio cinquanta il tasso annuo di crescita dei redditi pro capite era stato pari al 5,3% nell'Italia centrosettentrionale e al 3,2% nel Mezzogiorno. In presenza di un basso livello di industrializzazione, lo sviluppo del settore terziario in Meridione discendeva dall'eccesso di forza lavoro, generalmente senza alcuna qualificazione, che dava luogo ad un moltiplicarsi di attività precarie e scarsamente produttive e determinava una lievitazione delle cifre relative al prodotto delle attività terziarie, cui non corrispondeva però un effettivo stabile sviluppo dei servizi necessari al funzionamento di una società industrialmente avanzata.

Anche l'integrazione sui mercati internazionali aveva finito col rafforzare i caratteri del divario territoriale perché gli sforzi volti ad acquisire una maggiore competitività avevano interessato soprattutto le aziende proiettate sui mercati internazionali e concentrate prevalentemente nel Nord del paese. Inoltre, le particolari dinamiche occupazionali avevano comportato che i redditi da lavoro crescessero nell'industria più che negli altri settori di attività e che la loro distribuzione geografica presentasse caratteristiche di forte concentrazione solo in parte giustificate dalla diversa consistenza demografica.
Da qui la forte emigrazione verso i centri industriali ed il progressivo abbandono delle campagne e dei centri montani.

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Genova, perché io posso parlare solo di una realtà che ho visto, con Ansaldo (nelle svariate branche), cantieri navali ed Italsider, ricevette molti emigrati, soprattutto dal sud. Non posso dire che non ci fossero atteggiamenti antipatici nei confronti dei nuovi arrivati, ma Genova era ancora una città concreta e gli italiani, generalmente, sono sempre stati grandi e buoni lavoratori. Non c'era il problema "vengono a rubarci il lavoro" perché ce ne era per tutti ed in abbondanza. Per cui i nuovi si integrarono perfettamente con rapidità.
Per i per questi nuovi arrivi vennero costruiti quartieri di case popolari. Visto quelle edificate in seguito, verso la fine degli anni settanta, posso affermare che le prime erano dignitose, fatte con una discreta cura. Sotto i palazzi avevano già previsto degli spazi per le auto ed erano circondate da spazi con panchine, aiuole e giochi per i bambini. Almeno, questo nella "Corea" di Sestri.
Ricordo che, soprattutto in estate, mia zia accompagnava me e Massimo, il mio vicino di casa, coetaneo e amico, a giocare proprio in quei giardinetti, mentre lei si concedeva lunghe chiacchierate con altre donne lì presenti a badare ad altri bambini. Era un buon punto di aggregazione, il passo successivo sarebbe stato il parco poco distante, una delle tante ville storiche, molto più ampio e con maggiori possibilità di gioco. Ma attorno ai primi anni delle elementari gli scivolini e i castelli di tubi da scalare erano già una belle attrattiva e la compagnia non mancava. E nessuno si poneva il problema di accenti diversi, l'importante era giocare assieme.
Sembra impossibile, ma non sono riuscita a trovare neppure un'immagine di quei giochi, scivolo giostrina, arco, castello. E non posso neppure andare a fotografarli perché non ci sono più sostituiti da un parcheggio abbastanza sgangherato. Ma, in effetti, oggi si gioca ancora per strada?
E poi, mah, vedremo un po' se è il caso di parlare di scuola...
 
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view post Posted on 31/5/2019, 21:13
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La scuola

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Iniziamo con un po' di storia, tanto per inquadrare la situazione

L'antefatto:
Ministro dal 1946 al 1951, Gonella promuove una grande inchiesta che sfocia in un progetto di riforma.
Il governo introduce, in via amministrativa, la “scuola post-elementare”, che avrebbe mantenuto il sistema duale, dove un canale non permette ulteriori sbocchi. Nella seconda metà degli anni cinquanta matura la consapevolezza che il processo di sviluppo economico richiede una sempre maggiore quantità di forza lavoro qualificata.
I senatori Ambrogio Donini e Cesare Luporinidel PCI propongono un progetto di legge (il 359 del 21 gennaio 1959) che prevede l'istituzione di una scuola media unica con l'obbligo dall'età di sei anni fino ai quattordici.

Il ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Medici elabora nello stesso anno il “Piano per lo sviluppo della scuola”, con la medesima proposta di innalzamento dell'obbligo dell'età fino ai quattordici anni.



Dopo lunghe trattative tra DC e PSI, viene approvata la legge n.1859 del 31 dicembre 1962. Essa prevede sia l'abolizione della scuola di Avviamento al lavoro e sia di altre scuole particolari, con la creazione di una sola tipologia di scuola media unificata che permetta l'accesso a tutte le scuole superiori. Nello stesso periodo vengono aumentate in Italia le classi miste maschili e femminili, che progressivamente sostituiranno le classi composte esclusivamente da elementi del medesimo sesso. Permane comunque un'ambiguità sulla questione “Latino”, di cui in II Media si studiano obbligatoriamente "Elementi" insieme all'Italiano, mentre diventa materia facoltativa nell'ultimo (terzo) anno, ma necessaria per l'accesso al liceo; non è invece richiesto lo studio di nessuna materia specifica per accedere agli istituti tecnici e professionali. Questa ambiguità verrà superata solo a distanza di quindici anni, con l'abolizione dello studio del latino nelle scuole medie.

Nel '68-'69 nasce la scuola materna statale e sempre nel' 69, anche sotto la spinta di una rilevante stagione di movimenti studenteschi, vengono approvate norme che liberalizzano l'accesso agli studi universitari (fino ad allora, infatti, solo con il diploma di liceo classico si poteva accedere a tutte le facoltà), e che modificano l'esame di maturità strutturandolo con due prove scritte (una fissa di italiano, ed una specifica in funzione del tipo di istituto) ed una prova orale che verteva su due materie scelte (una dallo studente ed una dal gruppo di professori) fra un gruppo di quattro indicate anticipatamente dal ministero della pubblica istruzione, gruppo di materie diverso per ogni tipo di istituto scolastico. La Commissione d'esami (cioè il gruppo di docenti che deve giudicare ogni classe) risulta composta da docenti esterni all'istituto, salvo uno proveniente dal gruppo di insegnanti della classe. La struttura di questo esame venne definita provvisoria, sperimentale, tuttavia rimarrà in corso immutata per quasi trent'anni.

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La scuola dell'obbligo di allora era una faccenda piuttosto seria. In ogni parte d'Italia la lingua nazionale era meno usata del dialetto e, quindi, meno conosciuta.
L'italiano non è una lingua facilissima, ha tante particolarità e per arrivare a padroneggiarla con una certa abilità è bene sviluppare buone basi fin dall'inizio dell'apprendimento, in modo che diventi una questione automatica, di abitudine al suono ed all'armonia della frase.
Ecco, questo, nella mia scuola, è stato preso decisamente sul serio. Guai ad usare nomi dialettali. Ricordo un mio compagno di classe che scrisse in un temino "ho posato la cartella sulla carega". Poveretto, è stato abbondantemente deriso dall'insegnante, una suora che di femminile aveva ben poco e di dolcezza materna anche meno. Lo avesse messo alla gogna sarebbe stata una cosa più leggere.
Inoltre, questa Radetzky in sottanone, ogni giorno che il destino mandava sulla terra, pensava bene di mettersi sulla soglia della classe quattro volte al giorno e, per poter entrare o uscire, ogni bambino doveva dimostrare la propria padronanza dei verbi. Formulava domande tipo
Terza persona singolare condizionale presente del verbo...
Se rispondevi correttamente bene, o entravi per andare al banco, posare magari la cartella che aveva un certo peso, oppure uscivi per andare a pranzo o a casa. Ma se la risposta era sbagliata tornavi in fondo finché non ne azzeccavi uno.
Stessa cosa, in alternativa, con le tabelline.
A scuola era obbligatorio indossare un grembiule. Alla statale mi pare che fossero neri per i maschietti e bianco per le bimbe. Dalle suore tutti neri. In pratica un'allegra compagnia di corvetti in mezzo a dei corvoni.
Niente calcolatrici, penne inizialmente con pennino ed inchiostro, immancabile la carta assorbente.

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Ehi, vi sento che ridete. Sembra fantasia, ma vi assicuro che era così. E si ubbidiva. Tanto per cominciare la parola dell'insegnante era legge. Se venivi sgridato o castigato era inutile la lamentazione a casa, anzi, rischiavi di prendere gli interessi.
Però qualcosa nelle zucche lo hanno infilato se, ancor oggi, tutti quegli imperfetti al posto dei congiuntivi ci suonano stridenti.

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>*<



Ma c'era un altro problema non da poco, l'analfabetismo di molti adulti.
Ed ecco che alla scolarizzazione venne in soccorso la tv, che ormai era entrata nelle case.
Nel 1960 fino al 1968 la Rai mise in onda il programma
"NON È MAI TROPPO TARDI" a cura del maestro Alberto Manzi.


Non è mai troppo tardi.



Corso di istruzione popolare per il recupero dell'adulto analfabetaera un programma televisivo curato da Oreste Gasperini, Alberto Manzi e Carlo Piantoni, che nella sua più conosciuta edizione, dal 1960 al 1968, la RAI ha mandato in onda dal lunedì al venerdì, prima sul Programma Nazionale e poi sul Secondo Programma. La trasmissione era organizzata con il sostegno del Ministero della pubblica istruzione.

Il programma era condotto dal maestro e pedagogo Alberto Manzi e aveva il fine di insegnare a leggere e a scrivere agli italiani che non ne erano ancora in grado pur avendo superato l'età scolare. Si trattava di autentiche lezioni, tenute da Manzi a classi formate da adulti analfabeti, nelle quali venivano utilizzate le tecniche di insegnamento moderne, oggi potremmo dire "multimediali", giacché si servivano di filmati, supporti audio, dimostrazioni pratiche, nonché della mano del maestro Manzi che, con rapidi tratti di carboncino, disegnava schizzi e bozzetti su una lavagna a grandi fogli.

La trasmissione, promossa dalla Rai in collaborazione con il ministero dell'Istruzione, ebbe inizio il 15 novembre 1960 e venne mandata in onda nella fascia preserale, anche per permettere a chi lavorava di potervi assistere. Furono realizzate 484 puntate fino al 10 maggio 1968, anno in cui poté essere sospesa grazie all'aumento della frequenza alla scuola dell'obbligo.

Alcuni anni prima, nel 1958, era già stato creato un progetto pilota, che sarebbe durato sino al 1966, intitolato Telescuola, programma a carattere «sostitutivo», cioè diretto a consentire il completamento del ciclo di istruzione obbligatoria ai ragazzi residenti in località prive di scuole secondarie. Un progetto fortemente innovativo, con 4 milioni di ascolto giornalieri, che vide Enrico Accatino innovare la didattica dell'Educazione Artistica, promuovendo la docenza della storia dell'arte e dell'educazione all'immagine nella scuola dell'obbligo.

Nel periodo 1965-1966 il maestro Ilio Guerranti di Colle di Val d'Elsa curò le trasmissioni che riguardavano le classi 3ª, 4ª e 5ª.

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Non è mai troppo tardi ebbe un importante ruolo sociale ed educativo, contribuendo all'unificazione culturale della nazione tramite l'insegnamento della lingua italiana e abbassando notevolmente il tasso di analfabetismo, particolarmente elevato nell'Italia di quegli anni. Infatti pare che, grazie a queste lezioni a distanza, quasi un milione e mezzo di persone sia riuscito a conseguire la licenza elementare. Il progetto ebbe inoltre un grande successo internazionale, in quanto fu imitato da settantadue paesi.

E fu un grande successo. Era una trasmissione molto seguita e, in questo caso, l'Italia è riuscita a "fare scuola" anche per altri paesi.

Io la ricordo molto vagamente. A scuola ci andavo già, non era proprio il caso di cercare una replica in casa. Però il maestro Manzi lo ricordo anche per un classico della letteratura per bambini Orzowei. Se non conoscete questo libro, vi invito a cercarlo, una buona biblioteca lo dovrebbe avere, altrimenti scarcatevelo on line, che di sicuro lo si trova. È molto istruttivo ed anche avvincente, a quanto ricordo.

E anche oggi ci lasciamo qua. Non so ancora di che cosa parleremo la prossima volta, ma qualcosa troverò.


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Edited by marmari - 1/6/2019, 07:32
 
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view post Posted on 2/6/2019, 21:07
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Questa volta, niente ricordi, perché inizio un argomento che proprio non mi riguarda, non avendo avuto elementi di questo tipo in casa, ne nella cerchia prossima: le moto. Quindi solo storia raccolta dai siti specifici delle case. Partiamo con gli scooter.
Dunque, in sella!


La Lambretta

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Nel 1922 Ferdinando Innocenti di Pescia diede vita ad una fabbrica di tubi d'acciaio a Roma. Nel 1931 spostò tutti i propri affari a Milano, costituendo proprio nel quartiere Lambrate la più grande fabbrica di tubazioni d'acciaio senza giunti. Durante la seconda guerra mondiale, la fabbrica fu bombardata e completamente distrutta. Innocenti, nell'attesa di riacquisire da parte degli Alleati gli stabilimenti di Milano, diede vita nella Capitale allo studio del prodotto che avrebbe costituito la riconversione post-bellica della fabbrica: infatti, prendendo ispirazione proprio dai motorscooters militari americani giunti in Italia durante la guerra, e comprendendo le nuove necessità di motorizzazione utili alla popolazione nell'immediato dopoguerra, decise di dedicarsi alla produzione del rivoluzionario scooter. Nel 1947, dopo aver concluso la fase di progettazione e dopo aver ricostruito gli stabilimenti milanesi, inizia la produzione della Lambretta. L'enorme successo non solo nazionale fece sì che la Lambretta, nei quasi 25 anni di produzione, venisse costruita su licenza anche in Argentina, Brasile, Cile, India e Spagna.

Con il boom economico esploso in Europa occidentale verso la fine degli anni '60 la richiesta degli scooters ebbe un calo,
Come la Vespa, anche la Lambretta aveva un motore a 2 tempi funzionante a miscela di benzina e olio, 3 marce, con una cilindrata che variava dai 49 ai 198 cc.
Diversamente dalla Vespa, che è stata costruita con un telaio costituito da un solo pezzo, la Lambretta aveva una struttura tubolare più rigida su cui veniva assemblata la carrozzeria. I primi modelli prodotti presentavano la caratteristica della "carrozzeria scoperta", distinguendosi quindi totalmente dalla Vespa (totalmente carenata), diventando il tipico segno di riconoscimento dello scooter milanese. Comunque i successivi modelli prodotti, esattamente dal modello C del 1950, furono presentati anche in versione carenata; proprio questo modello, criticato dalla rivale Piaggio per la somiglianza concettuale con la Vespa, ebbe un gran successo tanto che dal 1957 in poi, escludendo il modello LUI, la lambretta fu sempre prodotta con carrozzeria "chiusa".

Alla fine degli anni '50, contestualmente alla scelta di carrozzeria solo "chiusa", la Lambretta viene rivista nella meccanica e nella carrozzeria, e passando per tre versioni (le serie LI), si arrivò nel 1962 ad ottenere il modello (LI III serie, "scooterlinea") che poi, con pochissime modifiche estetiche, arrivò ad essere prodotto fino al 1972 (Lambretta DL), anno in cui la catena di montaggio fu venduta al governo indiano. Dei modelli degli anni 60, i modelli TV (Turismo Veloce) e SX (Special X) sono generalmente i più richiesti e desiderati, un successo dovuto alle loro prestazioni maggiorate e al look raffinato. Il modello TV fu il primo scooter al mondo a montare i freni a disco anteriori. Vespa e Lambretta potevano essere modificate facilmente; molti modificavano e tuttora modificano questi scooter "customizzandoli" con specchietti supplementari, elaborandoli, pitturando la carrozzeria, o personalizzandoli in altri modi. tutto ciò anche alla luce della filosofia culturale Mod's inglese nata negli anni '60 e ancora in voga presso il Regno Unito, che fece degli scooter italiani il mezzo simbolo della rivoluzione culturale giovanile di quegli anni. Oggi la Lambretta è un oggetto da collezionisti. Un'innumerevole quantità di Lambretta Club sparsi in tutto il mondo conserva ed alimenta il mito di questo storico scooter che, assieme alla Vespa , rappresenta inevitabilmente un'icona dell'Italia degli anni '50 e anni '60.

La Vespa

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Nell’aprile del 1946 questo nuovo, funzionale e innovativo mezzo di trasporto venne presentato al pubblico per la prima volta, al Golf Club di Roma. Lo stemma fu stampato in rilievo con un nuovo logo, che rimpiazzò quello precedente dei veicoli Piaggio. Vespa conseguì un successo immediato sia sui mezzi di comunicazione che tra il pubblico, suscitando sorpresa ma anche scetticismi. I primi esemplari vennero venduti attraverso un piccolo network di commercianti, con prezzi variabili dalle 55.000 Lire del modello base alle 66.000 Lire del modello deluxe.

VESPA 150
Questo modello ottenne un grande successo grazie alla sua funzionalità ed eleganza e fece il suo debutto ai giochi olimpici di Roma del 1960.

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VESPA DALÌ
1962
Nell’estate del 1962 quello che probabilmente fino a oggi è considerato uno dei modelli Vespa più validi venne usato per trasportare due studenti: Santiago Guillen e Antonio Veciana. I due giovani incontrarono il maestro del surrealismo Salvador Dalì, intento a scrivere una cronaca contemporanea; egli non smentì la sua reputazione e decise di decorare in maniera bizzarra la loro Vespa, affiggendovi la sua firma e quella di sua moglie e musa Gala. Nell’estate del 1999 a Girona (Spagna) durante “Eurovespa”, questa Vespa venne esibita alla mostra “The Art of Motorcycle”, dopodiché essa venne donata al museo Piaggio da Giovanni Alberto Agnelli

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VESPA 50
1963
Vespa divenne molto popolare fra i giovani motociclisti che la consideravano comoda e bella da un punto di vista estetico. Con l’intento di attrarre un’audience più estesa Piaggio creò la Vespa 50, che venne pubblicizzata con lo slogan “Giovane, moderna e… senza documenti”. Era una Vespa che secondo il codice della strade nel 1963 poteva essere guidata senza patente dai 14 anni senza il bisogno di esporre una targa. La Vespa 50 fu l’ultimo scooter progettato da Corradino D’Ascanio e la 50cc divenne un marchio di fabbrica per Vespa: dal 1964 a oggi ne furono prodotte oltre 3 milioni

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VESPA 90 SUPER SPRINT
1966
La Super Sprint 90 fu senza dubbio il modello più originale progettato da Vespa. Il marchio venne ridotto nelle dimensioni e il vano portaoggetti venne collocato fra la sella e il manubrio. La ruota di scorta, come nella Vespa GS 1955 venne piazzata all’interno del poggiapiedi. La 90 SS, come la Vespa 50, è uno dei modelli più apprezzati in assoluto ed è un vero oggetto da collezione.

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VESPA ALPHA
1967
Questo veicolo fu utilizzato nel film “Dick Smart, Agent 2007” con Richard Wyler, Margaret Lee e Rosanna Tapados. Questo modello è una Vespa 180 Super Sport trasformata da Piaggio e Alpha Willis. Nella finzione cinematografica questa Vespa era in grado di correre sulle strade, volare ed immergersi come un sottomarino.

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VESPA 125 PRIMAVERA

1967

Figlia della 125 VMA1, la Vespa 125 “Primavera” sin dal suo esordio raggiunse un enorme successo. Le performance, la maneggevolezza e un motore potente furono tutte caratteristiche che contribuirono a rendere la Vespa Primavera un successo negli anni ’60. La “Primavera” era pensata soprattutto per i giovani, la Piaggio decise dunque di promuoverla con lo slogan “Con una Vespa puoi essere” per il suo lancio iniziale. Questo slogan si rivolgeva a ragazzi sedicenni amanti dello sport e dell’aria aperta decisi a non perdere alcuna occasione per socializzare a causa della lentezza del traffico. La particolarità di questo modello era la lunghezza del telaio, cosa che rendeva ancor più semplice trasportare un secondo passeggero.

Vespa_125_Primavera-1967



VESPA 180 RALLY
1968
Dopo il successo della Vespa Super Sport 180 la Piaggio sviluppò un nuovo upgrade della 180cc, dotata di un motore e di un telaio completamente nuovi assieme a diverse modifiche estetiche apportate ai manubri e alla sella. La Vespa 180 resta ancora oggi uno dei modelli più celebri e venne prodotta dal 1968 al 1973 con una produzione totale di 26000 esemplari

Vespa_180_rally-_1968



Fonti: tuttolambretta.it
vespa.com
 
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view post Posted on 3/6/2019, 21:21
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Ecco il resto del capitolo delle moto. Anche di queste, nulla nei miei cassetti. Quindi scaldiamo i motori e partiamo con un bel frammento di storia.

Le moto

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Per lungo tempo le 125 sono state il sogno degli appassionati sedicenni che, dopo avere iniziato con i ciclomotori, avevano finalmente la possibilità di entrare nel mondo delle “vere” moto.
Nei vari periodi sono stati protagonisti modelli e costruttori diversi. Negli anni Cinquanta, prima che iniziasse il boom delle auto utilitarie, le moto di questa cilindrata venivano principalmente utilizzate come mezzo di trasporto. C’erano anche molti modelli di 75 e di 100 cm3, dal costo inferiore e dalle prestazioni più modeste. E naturalmente c’erano anche le 150 e, per coloro che se le potevano permettere, le 175, autentico top di gamma per diverse case.
Pochi centimetri cubi potevano fare la differenza, in una nazione che si stava risollevando dopo i disastrosi eventi bellici.

Quando è iniziata la grande crisi del mercato, per diverse case la classe 125 è diventata la più importante, e tale è rimasta per diversi anni, durante i quali le moto si sono trasformate da veicoli utilitari utilizzati per andare quotidianamente al lavoro a mezzi destinati ai soli appassionati e agli studenti che potevano permetterseli, per andare a scuola e per divertirsi nel tempo libero. Successivamente le condizioni economiche sono migliorate in misura tale che le moto sono tornate alla ribalta, ormai divenute straordinario mezzo di svago, per gli sportivi e per chi cercava emozioni forti.

Nella seconda metà degli anni Cinquanta i più importanti costruttori, vista la crescente popolarità della classe, hanno cominciato a mettere in produzione delle nuove 125. Alcune sostituivano precedenti modelli realizzati con schemi tecnici che stavano ormai diventando obsoleti (è il caso della Mondial e della Gilera) mentre altre segnavano il passaggio a più performanti e raffinati motori a quattro tempi al posto degli “umili” due tempi impiegati in precedenza.

Non tutte le nuove ottavo di litro (così chiamate perché 1000 cm3 diviso 8 = 125 cm3) hanno avuto successo.
Alcune non erano particolarmente valide, altre erano costruite da aziende di modeste dimensioni che non disponevano di una adeguata struttura commerciale. Altre ancora sono state realizzate forse senza una particolare convinzione, o in un momento nel quale la casa era già in grandi difficoltà. Insomma, c’è stata una certa selezione, che ha portato a emergere i modelli più validi, costruiti da case “solide” e in possesso di una buona rete di vendita e assistenza. Per quanto riguarda quest’ultima occorre anche osservare che, se certe moto hanno avuto più fortuna in determinate zone d’Italia e assai meno in altre, è stato fondamentalmente per via dei concessionari. In una data città era più dinamico e bravo (e magari più popolare tra gli appassionati locali) quello della casa X e in un’altra quello della casa Y e le vendite andavano di conseguenza.

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Si sono così affermate come grandi protagoniste degli anni Sessanta (e anche dell’inizio del decennio successivo) poche ma formidabili 125, il cui ricordo rimane tuttora indelebile non solo per coloro che sono stati giovani allora, ma anche in tutti i veri appassionati del motociclismo e della sua straordinaria storia.
La Morini spopolava in gran parte della nazione con il suo Corsaro. Questa moto era nata alla fine del 1958, derivata dallo Sbarazzino di 100 cm3, apparso un paio di anni prima.
Aveva una meccanica semplice ma razionale e straordinariamente efficace e una estetica che si è evoluta nel corso degli anni diventando sempre più accattivante, in particolare per i giovani. La distribuzione era ad aste e bilancieri e le due valvole erano parallele. L’alesaggio di 56 mm era abbinato a una corsa di 50 mm.

Il primo modello sportivo è stato il Corsaro Veloce, apparso nel 1962 ed evolutosi nei successivi Sport Lusso e Super Sport, presentati alla fine degli anni Sessanta e accreditati rispettivamente di 9,25 e di 10,8 cavalli alla ruota e dotati di cambio a cinque marce.
Il Corsaro è stato realizzato anche in versione di 150 cm3 (58 x 54 mm). Un grande successo agonistico hanno avuto i modelli da Regolarità, che all’inizio degli anni Settanta hanno segnato il culmine della evoluzione dei quattro tempi nel settore fuoristradistico.

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Come il Corsaro, anche il 125 della pesarese Motobi è stato a lungo uno dei migliori “ottavo di litro” della intera produzione mondiale. Il motore a cilindro orizzontale aveva una tipica conformazione a uovo. Anche in questo caso la distribuzione era ad aste e bilancieri, ma le due valvole erano inclinate, cosa che consentiva di realizzare una camera di combustione di forma emisferica.
Le misure caratteristiche erano perfettamente quadre; sia l’alesaggio che la corsa erano infatti di 54 mm. Il motore, che aveva il basamento pressofuso e ben quattro cuscinetti di banco, è stato realizzato anche in versioni di 175, 200 e infine 250 cm3.
La trasmissione primaria era a coppia di ingranaggi e il cambio (nato a quattro marce ma in seguito diventato a cinque) era del tipo con presa diretta; albero a gomito ruotava quindi all’indietro.
Nella parte ciclistica spiccava il telaio a singola trave in lamiera stampata, nel quale il motore era montato a sbalzo. Le Motobi hanno avuto una lunga e fortunata carriera agonistica e si sono imposte in vari campionati juniores e della montagna.

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La Gilera 124 5V, presentata alla fine del 1965, ha avuto una notevole fortuna tra i giovani principalmente per l’estetica davvero entusiasmante (oltre che per la capillare rete di vendita della casa). Le prestazioni erano però leggermente inferiori rispetto a quelle delle rivali Motobi e Morini.
Il motore era una versione più spinta e con cambio a cinque marce di quello apparso nel 1959 sulla Giubileo 124 (e sulla 98, di identico schema). Venivano adottate le stesse soluzioni utilizzate sul Corsaro, con albero a camme sul lato sinistro, distribuzione ad aste e bilancieri e valvole parallele; pure le misure di alesaggio e corsa erano le stesse (56 x 50 mm).
I modelli da regolarità hanno fornito risultati eccellenti e solo la comparsa delle più avanzate versioni del monocilindrico Morini ha posto fine alla loro supremazia.

Negli anni Sessanta la Guzzi produceva l’ottimo Stornello 125, ma complessivamente la sua diffusione tra i giovani non è stata di particolare rilievo. Forse ciò dipendeva dal peso elevato, dalle prestazioni non proprio al top e/o dalla estetica…
La Ducati aveva la sua 125 monoalbero, che però non sembra avere spinto più di tanto. I numeri di produzione non sono stati tanto modesti (anche grazie a considerevoli vendite all’estero) ma gli obiettivi della casa di Borgo Panigale erano più ambiziosi e ad essere privilegiati erano i modelli di cilindrata maggiore.

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Articolo di: MASSIMO CLARKE
Moto.it
 
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view post Posted on 5/6/2019, 18:56
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E ora, saltando di palo in frasca, parliamo un po' della situazione politica degli anni 60.
La Repubblica era ancora giovane, alcuni partiti di allora oggi non esistono più, la DC, partito portante ed imprescindibile nella prima Repubblica si è dissolta in altri partitini assorbiti in parte dal PD, che non è più il PCI. Dunque, voltiamoci un poco e vediamo di ricordare il quadro che poi ha portato all'evoluzione (?) di quello attuale.


La crisi dei partiti negli anni sessanta

A partire dagli anni Cinquanta, ma soprattutto dopo il BOOM economico, quasi tutti i partiti italiani - specie quelli di massa - denunciano una notevole crisi organizzativa dovuta a massicce defezioni di iscritti e all'indebolimento delle organizzazioni collaterali, con un progressivo distacco, quindi, dei vertici dei partiti dalle masse. In più si afferma, accentuandosi, il fenomeno delle correnti interne, che spesso fanno politica al di là dell'unità istituzionale dei partiti.

Lo stesso PCI, che sembrava il più ideologicamente agguerrito ed unito, subisce un notevole travaglio interno, segnato da n mutato atteggiamento verso l'URSS in seguito alla crisi ungherese del '56 e alla destalinizzazione di Kruscev e, infine, dall'accettazione di un pluralismo di partiti che fossero disposti a collaborare alla costruzione alla costruzione di una società socialista. Con il '64 e '65 anche all'interno del PCI si apriva un notevole dibattito interno e nelle riunioni del 21-23 giugno '65 il CC rilanciava ai partiti della sinistra l'invito di una nuova maggioranza democratica. La proposta rifletteva il contrasto tra le tesi di Ingrao, favorevole all'approfondimento del dialogo con la sinistra cattolica, e quella di Amendola per la formazione di un partito unico della sinistra italiana.

Il "superpartito" proposto dai comunisti risulterà nient'altro che una confederazione dei partiti di sinistra, in cui ciascuna forza politica avrebbe mantenuto la propria identità. PSI e PSDI respingeranno la proposta come un tentativo camuffato di rilanciare il Fronte Popolare, cosicché il PCI - davanti alla scelte tra le tesi di Amendola e quelle di Ingrao - finirà per seguirle tutte e due non mancando di cercare ogni possibile terreno di convergenza con la maggioranza, puntando ora sulla componente cattolica ora su quella socialista. Questa politica darà al PCI innegabili successi ma farà spazio, alla sua sinistra, a gruppi dissidenti tanto che alla fine del '66 una piccola frazione di dissidenti dava vita al PCMLI (P.C. Marxista Leninista I.).

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Il problema più pressante per la DC era quello di ritrovare l'unità interna dopo la clamorosa spaccatura in occasione della elezioni presidenziali del '64: il segretario, Rumor, cercherà di promuoverla con una direzione (febbraio '65) in cui entreranno a far parte tutti i più qualificati esponenti delle quattro correnti del partito, ma l'unità fu solo momentanea in vista ella unificazione socialista, e già il 10° Congresso dimostrerà la sua precarietà.

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Quanto ai Socialisti la quinta legislatura vedeva il processo di unificazione di PSDI e PSI, già in parte avviato quanto all'azione politica dalla comune partecipazione al Governo e dall'elezione di Saragat alla Presidenza della Repubblica. Il processo di unificazione si iniziava ufficialmente col XXVI Congresso del PSI (novembre '65), da cui usciva un preciso invito (favorito da Nenni, restrittivamente interpretato da De Martino, osteggiato da Lombardi) al PSDI di unificazione politica a livello nazionale e locale: la nuova formazione, Partito Socialista Unificato (simbolo: i due simboli rotondi in un cerchio: la bicicletta) PSU, sorgeva ufficialmente a Roma il 30 ottobre '66 con Nenni Presidente e Tanassi e De Martino Cosegretari. Ma la speranze di Nenni di una potenziale alternativa socialista a PCI e DC naufragavano dopo un anno di inutili tentativi riformistici in seno al governo e di rivalità interne tra le sue componenti, con un mezzo disastro elettorale alle Politiche del '68.

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I fatti: la nascita del centrosinistra

All’inizio degli anni ’60 ci fu l’ingresso dei socialisti nel governo.
La “svolta a sinistra” maturò in seguito ad alcuni avvenimenti drammatici.
Nel luglio del ’60 il governo di Tambroni autorizzò il MSI(Movimento Sociale Italiano) a tenere il suo congresso nazionale a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, nonostante l’opposizione dei cittadini di una città tradizionalmente operaia e antifascista.

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Per tre giorni (30 giugno-2 luglio 1960) i cittadini antifascisti si scontrarono con la polizia che cercava di garantire lo svolgimento del congresso dei neofascisti. Il governo cedette e rinviò il congresso. Ma altre manifestazioni antigovernativescoppiarono in altre città, provocando una decina di morti come a Reggio Emilia e Roma. Tambroni, sconfessato dalla DC, si dimise e con lui cadde ogni ipotesi di apertura all’estrema destra. Ma la prova di forza che si verificò nelle piazze ebbe successo perché trovò una sponda all’interno della DC. I dirigenti democristiani, infatti, fecero una scelta di campo appellandosi al loro antifascismo, pur temendo un isolamento.

L’apparente vittoria della piazza non illudeva Togliatti, che si rendeva ben conto delle sue cause contingenti. Fu sopravvalutata, invece, dagli iscritti ed entrò a far parte della tradizione mitica del PCI dando vita alla convinzione che, nei momenti decisivi, la piazza avrebbe potuto avere una funzione fondamentale

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Per superare la crisi, fu formato un governo monocolore con a capo Amintore Fanfani che aprì al centrosinistra, grazie alla spinta diAldo Moro.

Il nuovo governo del 1962 contava: DC, PSDI e PSI. Tra le riforme volute dai socialisti c’erano l’imposizione fiscale nominativa e la nazionalizzazione della industria elettrica. Nacquero l’ENEL e l’ENI di Enrico Mattei.

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Aldo Moro era convinto che il PCI non fosse l’espressione del male, ma un partito che traeva la sua forza dall’adesione di milioni di italiani, dei quali esprimeva interessi e passioni. Così cominciò a immagine un centro-sinistra che sarebbe dovuto servire ad ampliare l’alleanza governativa e a sottrarre al Pci parte della sua base sociale, ma incontrò molti ostacoli sia nella DC che nel PSI.

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Alla fine di aprile del 1963 si svolsero le nuove elezioni politiche. La DC perse voti rispetto al 1958, e ottenne il 38,3% rispetto al 42% di cinque anni prima. Sommando i voti tra il PCI e il PSI la percentuale era sostanzialmente in pareggio con la DC, benché i comunisti avessero ormai definitivamente abbandonato le posizioni rivoluzionarie, in sintonia con l’evoluzione della situazione internazionale.

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Alla fine dell’anno Aldo Moro formò il primo governo di centro-sinistra con DC, PSI, PSDI e PRI che però ebbe molte difficoltà.

Così a Moro non restò altro che dimettersi causando una crisi politica che ebbe uno svolgimento anomalo, con alcuni aspetti oscuri e mai chiariti. Fu dunque formato un nuovo governo con Moro e come vicepresidente il socialista Pietro Nenni che però ebbe scarsa azione riformistica.

Questa è situazione che c'era all'avvento del famoso sessantotto, spartiacque importante per le situazioni politiche nei vari paesi. Subito dopo si assisterà alla formazione di gruppi extra parlamentari ed in seguito, negli anni settanta, il nostro paese vivrà un periodo piuttosto buio, quello della lotta armata, gli anni di piombo. Ma noi resteremo nel periodo dei sessanta.

Fonti: stotiain.net
 
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view post Posted on 6/6/2019, 17:47
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Ed eccoci al famoso "sessantotto", l'evento che ha segnato una cesura fra il prima e il dopo.
Il periodo che da alcuni è visto come l'evento provvidenziale in cui si sono acquisiti diritti, da altri come la fine dell'ordine e l'inizio del caos. Comunque, il nostro oggi ha radici anche il quello che mi appresto ad esporvi.
Intanto partiamo con una citazione




Lo so, è uscita nel '73, ma è la traduzione italiana di una canzone francese scritta per il loro "maggio".

Il Sessantotto

Roma68



Il Sessantotto (o movimento del Sessantotto) è il fenomeno socio-culturale avvenuto negli anni a cavallo del 1968, nei quali grandi movimenti di massa socialmente eterogenei (operai, studenti e gruppi etnici minoritari), formatisi spesso per aggregazione spontanea, interessarono quasi tutti i Paesi del mondo con la loro forte carica di contestazione contro i pregiudizi socio-politici. Lo svolgersi degli eventi in un tempo relativamente ristretto contribuì a identificare il movimento col nome dell'anno in cui esso si manifestò in modo più attivo.

Il Sessantotto è stato un movimento sociale e politico che ha profondamente diviso l'opinione pubblica e i critici, tra chi sostiene sia stato uno straordinario momento di crescita civile (che ha portato ad un mondo «utopicamente» migliore) e chi sostiene invece sia stato il trionfo di una stupidità generalizzata, che rovinò la società italiana, e di un conformismo di massa in cui i figli stessi della borghesia avrebbero voluto abbattere il sistema borghese.

Il movimento studentesco

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Il 24 gennaio 1966 avvenne a Trento la prima occupazione di un'Università italiana ad opera degli studenti che occuparono la facoltà di Sociologia. L'occupazione sarà ripetuta lo stesso anno in ottobre, protestando contro il piano di studi e lo statuto (entrambi erano in fase di elaborazione) e proponendone stesure alternative. Questa occupazione si concluse a causa dell'alluvione di Firenze che interessò gran parte dell'Italia Settentrionale e Centrale. Molti studenti si mossero come volontari per portare aiuto nelle aree più colpite, e questo primo movimento ed incontro spontaneo di giovani, provenienti da tutta Italia e anche dall'estero, contribuì a far sorgere in molti di essi lo spirito di appartenenza ad una classe studentesca prima sconosciuta.

Il Sessantotto italiano ebbe inizio nel 1966: quell'anno, infatti, il giornale studentesco del Liceo Parini La zanzara pubblicò un'inchiesta-sondaggio su tematiche sessuali intitolata Un dibattito sulla posizione della donna nella nostra società, cercando di esaminare i problemi del matrimonio, del lavoro femminile e del sesso, a firma di Marco De Poli, Claudia Beltramo Ceppi e Marco Sassano. Nell'articolo c'era scritto: «Vogliamo che ognuno sia libero di fare ciò che vuole a patto che ciò non leda la libertà altrui. Per cui assoluta libertà sessuale e modifica totale della mentalità.» e «Sarebbe necessario introdurre una educazione sessuale anche nelle scuole medie in modo che il problema sessuale non sia un tabù ma venga prospettato con una certa serietà e sicurezza. La religione in campo sessuale è apportatrice di complessi di colpa».

1968scuola



I redattori della Zanzara e il preside dell'Istituto, Daniele Mattalia, furono incriminati e processati. Luigi Bianchi D'Espinosa, presidente del Tribunale di Milano, assolse tutti dicendo: «Non montatevi la testa, tornate al vostro liceo e cercate di dimenticare questa esperienza senza atteggiarvi a persone più importanti di quello che siete».

L'Università necessitava di una ventata rinnovatrice: nel 1956-1957 gli iscritti ai corsi di laurea erano circa 212.000, mentre dieci anni dopo erano saliti a quota 425.000, per cui quella che era l'Università d'elite diventò Università di massa. L'insegnamento era in mano ai «baroni», i docenti dei corsi importanti si rivolgevano a una calca di allievi che a stento ne percepivano la voce, era sottovalutata o ignorata l'esigenza di laboratori e seminari che preparassero gli studenti all'attività professionale, e molti professori erano «ferroviari» (comparivano solo per le lezioni e con i ragazzi non avevano nessun rapporto umano). Per la soluzione di questi problemi gli studenti si sarebbero dovuti battere e il governo avrebbe dovuto provvedere (con Università serie in cui gli studenti poveri e bravi fossero stipendiati ed esentati da ogni tassa, con laboratori, biblioteche e aule decenti, con collegi ordinati, e con una meritocrazia equa a vantaggio dei più meritevoli). Invece i governi che si alternarono scelsero la strada più facile e meno utile: quella del «facilismo». Le Università aprivano i battenti, per l'iscrizione, a tutti i diplomati delle scuole medie superiori (l'esame di maturità veniva svuotato di contenuti a tal punto che la quasi totalità dei candidati era promossa) – aggravando i problemi organizzativi – e un'esigua ma ben organizzata minoranza degli studenti che promuoveva la contestazione, non aveva a cuore né l'Università né le riforme efficienti (come la legge 2314, proposta dal Ministro Luigi Gui e respinta dai contestatori), bensì la demagogia e l'opportunismo, ispirandosi al «gran rifiuto» di Herbert Marcuse[4], mentre tra coloro che contestavano i «baroni» ce n'erano parecchi che aspiravano soltanto a diventare «baroncini», e che lo divennero.

Nel 1967 furono occupate, sgomberate e rioccupate la Statale di Pisa (dove si elaboravano le «Tesi della Sapienza»), Palazzo Campana a Torino, la Cattolica di Milano, e poi Architettura a Milano, Roma, Napoli. Nella facoltà di Sociologia di Trento praticamente non si riuscì a tenere nessun corso, perché i suoi locali erano permanentemente occupati.

Il movimento di contestazione creò i suoi miti e i suoi leader. Tra i più noti ci furono: Mario Capanna, Salvatore Toscano e Luca Cafiero a Milano, Luigi Bobbio e Guido Viale a Torino; Massimo Cacciari, Toni Negri ed Emilio Vescea Padova; Franco Piperno e Oreste Scalzone a Roma; Gian Mario Cazzaniga e Adriano Sofri a Pisa.

La scintilla fu determinata da due situazioni di disagio per gli studenti universitari dell'Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano e della facoltà di Architettura a Torino. Nel primo caso l'università decise di raddoppiare le tasse universitarie mentre a Torino venne deciso il trasferimento alla Mandria, una sede periferica molto disagiata. Il 15 novembre 1967 entrambe le università vennero occupate e subito sgombrate dalla polizia. I leader iniziali erano Mario Capanna e Luciano Pero in Cattolica, e Guido Viale a Torino.

Dopo tre giorni 30.000 studenti sfilavano per Milano fino all'arcivescovado e la rivolta si allargò a macchia d'olio. La presenza della polizia, con il battaglione Padova della Celere pronto a intervenire sugli studenti, finì con il costituire il propellente per la diffusione della protesta.

L'Università di Trento nacque nel 1962 come Istituto universitario superiore di Scienze Sociali, ad opera di Bruno Kessler: i democristiani avevano chiesto e ottenuto la creazione di questo ateneo, pensando di creare una fabbrica di manager. Invece i professori, pur essendo di livello, si dimostrarono tolleranti alle utopie di un giovanilismo spensierato e di un rivoluzionarismo «da salotto». Tra gli studenti ci furono Marco Boato, Margherita Cagol, Renato Curcio e Mauro Rostagno.

A Palazzo Campana Guido Viale ricordò che «la commissione delle facoltà scientifiche compiva l'estremo atto liberatorio nei confronti del Dio libro: lo squartamento dei libri in lettura per distribuirne un quinterno a ognuno dei membri», mentre i miti della contestazione italiana erano Mao Zedong (il Libretto Rosso fu diffuso in milioni di copie nelle università occidentali) Ho Chi Minh, il generale Võ Nguyên Giáp, Yasser Arafat, Che Guevara, Karl Marx, Jean-Paul Sartre, Herbert Marcuse, Rudi Dutschke e Sigmund Freud.

Ai professori veniva negato il diritto di valutare gli studenti: l'esame doveva essere un tu per tu alla pari, anche se lo studente era impreparato (a volte capitava che il docente fosse un «barone» con poca pazienza, che non aveva mai speso un po' del suo tempo per capire i dubbi e le problematiche degli alunni). La cultura veniva disprezzata, scrivendo Kultura con la «K». A Roma il rettore Pietro Agostino D'Avack, disperato e impotente contro il dilagare del disordine, si risolse infine a mettere tutto «nelle mani del potere democratico dello Stato», ossia a invocare la forza pubblica.

A Roma, si erano avute già ad inizio d'anno «azioni spettacolari come l'occupazione di più giorni della cupola di Sant'Ivo alla Sapienza, manifestazioni e la creazione di gruppi di studio caratterizzavano la mobilitazione romana». Il 1º marzo 1968, nei giardini di Valle Giulia a Roma, ci fu uno scontro tra studenti e forze dell'ordine senza precedenti, con centinaia di feriti, 228 fermi e 10 arresti. L'Unità scrisse che «la polizia è stata scatenata contro gli studenti romani», ma poi la cronaca del quotidiano comunista riferiva che «davanti alle gradinate bruciavano roghi di jeep e di pullman» senza peraltro spiegare chi avesse appiccato il fuoco. In soccorso ai dimostranti era intervenuta La Sinistra, una rivista che aveva pubblicato un manuale per la fabbricazione di bottiglie Molotov, con tanto di illustrazioni.

Commentando la battaglia di Valle Giulia Pier Paolo Pasolini scrisse: «Avete facce di figli di papà. Vi odio, come odio i vostri papà: buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo, siete pavidi, incerti, disperati. Benissimo; ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati: prerogative piccolo-borghesi, cari. Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte con i poliziotti io simpatizzavo con i poliziotti, perché i poliziotti sono figli di poveri, hanno vent'anni, la vostra età, cari e care. Siamo ovviamente d'accordo contro l'istituzione della polizia, ma prendetevela con la magistratura e vedrete! I ragazzi poliziotti che voi, per sacro teppismo, di eletta tradizione risorgimentale di figli di papà, avete bastonato, appartengono all'altra classe sociale. A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento di lotta di classe e voi, cari, benché dalla parte della ragione, eravate i ricchi; mentre i poliziotti, che erano dalla parte del torto, erano i poveri.».

I docenti universitari, in particolare quelli della facoltà di Architettura, subivano le intimidazioni studentesche: al Politecnico di Milano il preside di Architettura Paolo Portoghesi acconsentì gli esami di gruppo, l'autovalutazione e il 27 sempre garantito (gli studenti usciti da Architettura durante la sua gestione hanno dovuto ricominciare da capo, oppure si sono accontentati di lavori occasionali). Sempre a Milano, il 12 aprile 1968, il Corriere della Sera fu assalito da un gruppo di giovani che alzarono le barricate e si scontrarono contro la polizia. Nove giorni dopo Eugenio Scalfari prese posizione su L'Espresso: «Questi giovani insegnano qualcosa anche in termini operativi. L'assedio alle tipografie di Springer per bloccare l'uscita dei suoi giornali è un mezzo nuovo di lotta molto più sofisticato ed efficace delle barricate ottocentesche o degli scioperi generali. Ad un sistema "raffinato" si risponde con rappresaglie "raffinate". L'esempio è contagioso. Venerdì sera a Milano un corteo di studenti in marcia per dimostrare sotto il consolato tedesco si fermò a lungo e tumultuando sotto il palazzo del Corriere della Sera. Può essere un ammonimento per tutte quelle grandi catene giornalistiche abituate ormai da lunghissimo tempo a nascondere le informazioni e a manipolare l'opinione pubblica. Ammesso che sia mai esistita, la società ad una dimensione sta dunque facendo naufragio. Chi ama la libertà ricca e piena non può che rallegrarsene e trarne felici presagi per l'avvenire».

Il Movimento Studentesco milanese era il gruppo più organizzato e incontrastato: aveva come leader Mario Capanna, che si era iscritto alla Statale dopo essere stato espulso dalla Cattolica, e instaurò una dittatura esercitata attraverso un «servizio d'ordine» i cui membri, chiamati «katanghesi», erano armati di chiave inglese.

Nel maggio 1968 tutte le Università, esclusa la Bocconi, erano occupate: nello stesso mese la contestazione si estese, uscendo dall'ambito universitario, un centinaio di artisti, fra cui Giò Pomodoro, Arnaldo Pomodoro, Ernesto Treccani e Gianni Dova occupano per 15 giorni il Palazzo della Triennale, ove era stata appena inaugurata l'esposizione triennale, chiedendo «la gestione democratica diretta delle istituzioni culturali e dei pubblici luoghi di cultura».

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Il movimento operaio

Nel 1969 ci fu l'esplosione degli scioperi degli operai in fabbrica, che si saldò con il movimento degli studenti che contestavano i contenuti arretrati e parziali dell'istruzione, e rivendicavano l'estensione del diritto allo studio anche ai giovani di condizione economica disagiata.

Dalla contestazione studentesca che fu inizialmente sottovalutata dai politici e dalla stampa, si passò repentinamente alle rivendicazioni operaie.

La presenza di giovani operai a fianco degli studenti fu la caratteristica anche del Sessantotto italiano. In Italia la contestazione fu il risultato di un malessere sociale profondo, accumulato negli anni sessanta, dovuto al fatto che il «miracolo economico» non era stato accompagnato – né a livello governativo, né a livello imprenditoriale – da una visione lungimirante dei problemi che ne derivavano: dalle migrazioni interne all'inquinamento. Le tasse venivano pagate prevalentemente dai lavoratori dipendenti, e l'evasione era molto alta. Era necessaria una spinta riformistica vigorosa.

Alla fine di novembre del 1968 ad Avola, 3.000 braccianti scesero in piazza a scioperare contro gli agrari, chiedendo il rinnovo del contratto di lavoro. Il 2 dicembre si verificò l'eccidio di Avola: durante una manifestazione le forze dell'ordine aprirono il fuoco contro un blocco stradale. Due braccianti, Giuseppe Sibilia e Angelo Sigona, persero la vita. Altri 48 civili, tra cui una bambina di 3 anni, furono feriti dai colpi esplosi dalle forze dell'ordine.

Quattro mesi dopo, a Battipaglia, la popolazione scese in piazza per chiedere posti di lavoro, e mentre a Roma era andata una delegazione per discutere con il Ministro dell'Industria, in paese si scatenarono scontri con le forze dell'ordine in cui morirono il tipografo Carmine Citro e l'insegnante Teresa Ricciardi.

Le agitazioni presero origine per il rinnovo di 32 contratti collettivi di lavoro chiedendo, tra l'altro, l'aumento dei salari uguale per tutti, la diminuzione dell'orario. Per la prima volta il mondo dei lavoratori e quello studentesco erano uniti fin dalle prime agitazioni su molte questioni del mondo del lavoro, provocando nel Paese tensioni sempre più radicali, sfiorando in alcuni casi l'insurrezione, visti i proclami, e i fatti che accadevano in Italia.

I sindacati ufficiali furono condizionati dai Comitati unitari di base (CUB), che esigevano salari uguali per tutti gli operai in base al principio che «tutti gli stomaci sono uguali», senza differenze di merito e di compenso, concependo il profitto come una truffa, la produttività un servaggio e l'efficienza un complotto, sostenendo invece che la negligenza diventava un merito e il sabotaggio era un giusto colpo inferto alla logica capitalistica.

Nel numero del luglio 1969 dei Quaderni piacentini compariva un lungo documento che affermava: «Cosa vogliamo? Tutto. Oggi in Italia è in moto un processo rivoluzionario aperto che va al di là dello stesso grande significato del maggio francese... Per questo la battaglia contrattuale è una battaglia tutta politica».

Gli imprenditori italiani furono colti da un sentimento di paura che confinava con il panico: a Valdagno, durante una dimostrazione operaia, fu abbattuto il monumento a Gaetano Marzotto (creatore del complesso industriale), nelle fabbriche l'atmosfera diventò invivibile per dirigenti, i «capi» e «capetti», che si sentirono intimiditi e minacciati.

Aumentavano il fenomeno dell'assenteismo e gli episodi di sabotaggio, intimidazione e violenza. Uno degli episodi più significativi avvenne alla FIAT, il 29 ottobre 1969, in concomitanza all'apertura del Salone dell'Automobile, nel corso degli scioperi articolati per il nuovo contratto di lavoro. Un folto gruppo di scioperanti, armati di sbarre e bastoni, prese d'assalto lo stabilimento di Mirafiori, devastando le linee di montaggio dei modelli «600» e «850», il reparto carrozzeria e le strutture della mensa.
Quando la FIAT individuò e denunciò 122 operai responsabili delle devastazioni, si contrapposero mobilitazioni politiche e sindacali, con il Ministro del Lavoro Carlo Donat-Cattin che costrinse l'azienda a ritirare le denunce.

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La discussione dei contratti si svolse in un clima di forte tensione, con l'autunno caldo che provocò, o concorse a provocare, la fuga dei capitali, l'impennata dell'inflazione, e più in generale un decennio di recessione. Ciò fu dovuto all'aggressività eversiva in contrasto con le scelte passate di molti «padroni» che si accontentarono di mettere in salvo oltre frontiera le ricchezze accumulate negli anni precedenti.

Il 21 dicembre, con una mediazione, furono accolte quasi tutte le richieste dei sindacati e ritornò una calma apparente. Ma gli operai ottennero alcuni risultati: aumenti salariali, interventi nel sociale, pensioni, diminuzione delle ore lavorative, diritti di assemblea, consigli di fabbrica. E gettarono le basi dello Statuto dei lavoratori (siglato poi nel 1970).

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La destra e la contestazione studentesca

Nei primi momenti della contestazione studentesca gli universitari di destra sono tra i capofila del movimento. La battaglia di Valle Giulia all'Università di Roma del 1º marzo 1968 sarà l'ultima azione in cui studenti di sinistra e di destra saranno insieme, perché il 16 marzo successivo con l'assalto alla facoltà di Lettere dell'Università La Sapienza, voluta dai vertici del MSI timorosi di perdere quella definizione di «partito dell'ordine» ci sarà la frattura tra «movimentisti» e «reazionari».



Nel momento in cui il Movimento Studentesco divenne così dominato dalla sinistra, nacque da parte degli studenti di destra che non volevano seguire la linea anti-contestazione degli universitari missini del FUAN, il Movimento studentesco europeo, particolarmente attivo a Roma e Messina, lanciando il Manifesto degli studenti europei. Nel marzo 1969 a Messina, guidati di Giovanbattista Davoli, occuparono insieme ai colleghi reggini il rettorato. Nello stesso anno, il 15 aprile, scoppiò verso le 23:00 una carica esplosiva nello studio di Guido Opocher, rettore dell'Università di Padova. Per questo attentato, cinque anni dopo, il magistrato Gerardo D'Ambrosio manderà a processo Franco Freda, Giovanni Ventura e Marco Pozzan. Il 25 aprile esplose un'altra bomba, alla Fiera di Milano, distruggendo lo stand della FIAT – rimasero ferite una ventina di persone, ma il vero obiettivo era una strage – e tre ore dopo, alla Stazione Centrale, un altro ordigno danneggiò l'ufficio della Banca Nazionale delle Comunicazioni. Altre otto bombe collocate sui treni esplosero nella notte tra l'8 e il 9 agosto, provocando 12 feriti. Nello stesso mese furono compiuti altri attentati dinamitardi nell'Ufficio Istruzione del Tribunale a Milano e Torino: dieci anni dopo, per queste azioni eversive, verranno condannati i neofascisti Franco Freda e Giovanni Ventura, militanti di Ordine Nuovo.



Nel 1970 gli studenti di destra saranno tra le barricate nella rivolta di Reggio Calabria. A innescare la rivolta fu la scelta di Catanzaro come sede dell'Assemblea regionale, ma i moti avevano origini in mali antichi e in nuove contraddizioni, come la disoccupazione, la precarietà e l'esodo verso il Nord industrializzato. Inizialmente la destra missina definì i dimostranti teppisti e cialtroni, ma quando il comitato di azione locale finì sotto il controllo di Ciccio Franco, segretario provinciale della CISNAL, iniziò a sostenere la rivolta. Nacque lo slogan «Boia chi molla». Ordine Nuovo attribuì alla rivolta un ruolo storico: «È il primo passo della rivoluzione nazionale in cui si brucia questa oscena democrazia».

Leggendo abbiamo incontrato patecchi nomi che, negli anni settanta,
diventeranno o personaggi di spicco o tristemente famosi. Ma come avevo già scritto, noi ci fermiamo agli anni sessanta.


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Ed è venuto il momento di parlare di musica leggera.
Al tempo il mezzo più usato per diffondere la musica era la radio, che però privilegiava la canzone italiana. Ma già alla fine degli anni cinquanta erano venuti alla ribalta i cosiddetti urlatori, che avevano portato un'aria di rivoluzione nel mondo canoro italiano, aprendo la strada ai nuovi influssi provenienti da Inghilterra ed America.
Iniziamo a parlare di beat


Il beat

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In Inghilterra nasce il movimento beat
Il rock and roll aveva avuto un successo immediato e larghissimo e il crescente interessamento delle case discografiche l’aveva reso sempre più commerciale. All'inizio degli anni sessanta, perciò, il rock aveva in parte perso il ruolo di musica anticonformista.
Il panorama della musica leggera fu però scosso da un nuovo movimento, che si sviluppò in Inghilterra e quindi si diffuse negli Stati Uniti e in tutto il mondo: il movimento beat. I musicisti beat mettevano in discussione i valori della società borghese e proponevano una serie di atteggiamenti provocatori: portavano i capelli lunghi, vivevano in comunità, erano pacifisti e antirazzisti, si interessavano alle religioni orientali.
La musica beat recupera molte caratteristiche del rock and roll, come l’uso di ritmi afro-americani e di melodie di carattere popolare o folcloristico. Rispetto al rock, però, essa accentua l’uso di strumenti elettrici e la componente scenica e spettacolare della musica.
Al cantante solista si sostituisce il complesso, formato solitamente da quattro o cinque elementi. I complessi beat più celebri furono i Beatles e i Rolling Stones.

Il beat in Italia

Equipe84



Con il termine musica beat in Italia ci si riferisce ad una scena della musica popular italiana che emerse nei primi anni '60 per mezzo delle controculture dei paesi anglosassoni ed in particolare della British invasion con band che mescolavano il rock and roll con influenze swing, rhythm and blues, skiffle e doo-wop.

Il legame principale del beat italiano, dal punto di vista culturale, è ovviamente quello con la Beat Generation, grazie soprattutto ai cantautori: uno di essi in particolare, Gian Pieretti, ha inoltre modo di conoscere personalmente Donovan, ed è proprio il cantautore scozzese a fare il suo nome a Jack Kerouac che, dopo aver ascoltato la canzone Il vento dell'est, lo vuole accanto a sé per un breve ciclo di conferenze-happening tenute a Milano, Roma e Napoli nell'ottobre dello stesso anno. Vi sono poi gli influssi tematici nei testi: in Dio è morto Francesco Guccini fa un riferimento nei versi iniziali Ho visto la gente della mia età... a quelli con cui incomincia il poema Urlo di Allen Ginsberg, Ho visto le menti migliori della mia generazione....

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Anche nelle canzoni più leggere emergono le tematiche di fondo: in Qui e là, scritta da Aina Diversi per Patty Pravo (cover di Holy cow, scritta da Allen Toussaint e portata al successo da Lee Dorsey), ad esempio, si descrive la vita On the road:

«Oggi qui, domani là, / io vado e vivo così, / senza freni vado e vivo così. / Casa qui io non ho, ma cento case ho.... /Qui e là, / io amo la libertà / e nessuno me la toglierà mai»


Il beat in Italia scatenò un fiorire di complessi (di cui Camaleonti, I Corvi, Dik Dik, Equipe 84, I Giganti, Le Orme, Nomadi, Pooh, Quelli, I Delfini, Giuliano e i Notturni, o il riscoperto gruppo cult I tubi lungimiranti sono solo alcuni tra gli esponenti, ma se si parla dei molti gruppi beat dimenticati, non possiamo non citare I BlackJack), di solisti (Riki Maiocchi, Gian Pieretti, Rita Pavone, Patty Pravo, Caterina Caselli), e di case discografiche, portò alla nascita di riviste musicali nate espressamente per i giovani (Ciao amici, Giovani, Big), di locali dedicati espressamente alla musica beat (il Piper Club di Roma è il più noto, ma ne nacquero in ogni città, a Torino ad esempio La Perla), di concorsi musicali legati al beat (il più noto di tutti fu il Rapallo Davoli) ed al diffondersi in ogni città d'Italia di punti di aggregazione per i capelloni (tra cui, ad esempio, piazza di Spagna e piazza Navona a Roma o piazza Castello a Torino).

1964: La "Brit-It" invasion ed il beat italiano

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In Italia il beat inizia a diffondersi nel 1964, lo stesso anno in cui, anche negli Stati Uniti, si assistette al fenomeno della British invasion ed al successo dei Beatles, dei Rolling Stones e degli altri gruppi britannici. È poi questo l'anno in cui alcuni complessi come i Rokes si trasferiscono dal Regno Unito in Italia. Si diffondono così in tutta la penisola complessini di giovani che iniziano a suonare, e molte case discografiche li mettono sotto contratto, puntando sul loro successo: già nel 1964 debutta l'Equipe 84, che diventa una delle punte di diamante del beat italiano.
Un grosso contributo allo sviluppo del fenomeno viene dato dalle riviste di musica giovanili, che nascono proprio in quegli anni: Ciao amici nel 1963, Big nel 1965 ed infine nel 1966 Giovani. In molte altre città invece nascono poi riviste e fanzine a carattere locale, che servono a dare spazio ai vari complessi.

Nel febbraio 1965 l'avvocato Alberigo Crocetta inaugura a Roma il Piper Club, in via Tagliamento, al quale subito seguirono progetti analoghi e locali che gareggiavano con il Piper in una continua guerra fatta a colpi di serata di musica. Tra gli storici locali romani in cui si esibivano gli artisti del beat italiano ricordiamo il Titan Club di Massimo Bernardi, il Vun Vun, il Pit 77 e il principale rivale del Piper che fu il Kilt (anch'esso nato da un progetto dell'instancabile avvocato Crocetta): se la "ragazza del Piper" era Patty Pravo, la "ragazza del Kilt" fu Nancy Cuomo, così come gli omologhi dei Rokes del Piper furono per il Kilt I Lombrichi. Su questo esempio, in altre città d'Italia nascono simili locali rivolti specificamente ai giovani, dando la possibilità ai complessi beat di esibirsi: ricordiamo a Milano e Genova il Paip's, a Torino il Perla (ribattezzato Piperla) ed a Napoli il La Mela.

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Tra il 1965 e il 1966 il beat italiano diventa il genere dominante nelle classifiche di vendita e nei programmi televisivi, sia per l'arrivo di nuovi gruppi d'oltremanica (Bad boys, Cyan Three, Motowns, The Primitives, Renegades, The Rokes, Sopworth Camel, Sorrows), che per i nuovi gruppi che arrivano alla sala d'incisione, come i milanesi Dik Dik, I Giganti e i Camaleonti, i torinesi I Ragazzi del Sole, gli emiliani Nomadi, Pooh, I Corvi, i padovani i Delfini e I ragazzi dai capelli verdi; vi è inoltre anche una nuova generazione di cantanti solisti (soprattutto donne), come Nancy Cuomo, Rita Pavone, Caterina Caselli, Patty Pravo, e Roby Crispiano, che arrivano al successo in quel periodo.
Anche il Festival di Sanremo 1966 si apre al fenomeno beat, con la partecipazione dell'Equipe 84, dei The Renegades, degli Yardbirds, di Caterina Caselli, e di Françoise Hardy, icona dei ragazzi beat francesi. Anche gli altri festival si spostano su questo genere, e così partecipano a Un disco per l'estate 1966 la Caselli, I Giganti, Ricky Gianco, Silvana Aliotta, gli Scooters, al Festival delle Rose 1966 Mike Liddell & gli Atomi, I Ribelli, Lida Lù, Mauro Lusini, Roby Crispiano, i Pooh, Umberto, The Motowns, i Nomadi, al Festivalbar 1966 nuovamente gli Yardbirds, i Beach Boys, la Caselli e Gianco e al Cantagiro 1966, oltre a qualche solista come Gianco e Barbara Lory, moltissimi complessi come l'Equipe 84, i New Dada, i Kings, The Rokes e i Camaleonti. La manifestazione più legata al beat è il Torneo nazionale Rapallo Davoli, riservato nello specifico proprio ai giovani complessi, e da cui nel corso degli anni verranno lanciati molti nuovi gruppi come i Funamboli, i Mat 65, I Frenetici e i Gens.

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Entrano quindi ai primi posti delle classifiche canzoni come Io ho in mente te e Bang Bangdell'Equipe 84, Sognando la California dei Dik Dik, Ragazzo triste di Patty Pravo, Nessuno mi può giudicare di Caterina Caselli, e molte altre, mentre gruppi attivi addirittura dagli anni cinquanta, come i Campanino o I Ribelli, assumono le nuove sonorità.

Come spesso succede nei confronti dei fenomeni di moda, anche verso il beat nasce la parodia: cabarettisti ed umoristi scrivono canzoni in questo stile musicale ma con testi ironici e divertenti. Una delle canzoni più note la scrive Enzo Jannacci: si tratta di Lisa beat, incisa nel 1967 da Cochi & Renato, in cui si descrive una famiglia intera beat, a partire dalla figlia Lisa, e che ogni cosa che fa la fa in modo beat. Renato Rascel scrive (insieme ad Antonio Amurri) incide invece Bambino beat, dove affronta l'argomento con il suo consueto umorismo garbato; Pippo Franco invece prende di mira il beat di protesta in Vedendo la foto di Bob Dylan.

Le messe beat

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Lo sviluppo e la diffusione del beat nel mondo coincise storicamente con la grande trasformazione liturgica e rituale attuata dal Concilio Vaticano II volto ad ottenere un maggior coinvolgimento del popolo nelle celebrazioni. È in questo contesto che alcuni musicisti come Marcello Giombini e Giuseppe Scoponi iniziarono a scrivere brani a sfondo religioso dalle forti sonorità beat. Nacque così il fenomeno tipico dell'Italia delle messe beat, a cui si dedicano gruppi come Gli Amici, Angel and the Brains e I Barritas. Il fenomeno poi si diffonde così anche oltreoceano, e nel gennaio del 1968 i The Electric Prunes incidono Mass in F Minor, ispirandosi all'esperienza italiana.



Tale fenomeno culminò con la "Messa dei giovani" del 27 aprile del 1966, celebrata presso l'Aula Borrominiana dell'Oratorio di San Filippo Neri alla Vallicella, con un forte impatto mediatico e di pubblico che comprese anche la trasmissione televisiva dell'evento dalla RAI.

Tale approccio ebbe poi una diffusione anche oltre i confini nazionali.

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Della musica ne ho un ricordo nitido, anche perché la musica era parte integrante del mio habitat. Mia zia ascoltava e cantava a getto continuo le canzoni della sua epoca, la radio trasmetteva per buona parte del giorno e mio padre amava ascoltare musica e non disegnava le novità, quindi anche le nuove "canzonette", come si usava dire.
Inoltre, il sabato pomeriggio, mi veniva a prelevare a scuola e si andava da uno "zio" (in verità una famiglia di amici). Quindi la merenda si faceva al bar della villa Maria, dove era sempre in attività un juke box (ne riparleremo). Da piccolissima impazzivo per il twist, finché un ragazzo, che avrebbe potuto farsi un carro di affari suoi, vedendomi accanto al juke box ballare il twist se ne è venuto fuori con l'esclamazione "Guarda, così piccolina già balla il twist". Non aveva capito che io non pensavo affatto di essere vista ed ero molto timida. Risultato, non ho più ballato e non riesco a ballare in pubblico. Ma fosse stato zitto, caspita!
A me piaceva tanto Caterina Caselli, a livello di tifo da stadio. Poi tutti quei gruppi di tipi con quell'aria strana, tanto colorati, con i capelli lunghi, che facevano inorridire mia madre.
Musica facile, immediata, che rimaneva in testa. Ma bella, tanto che, periodicamente, viene riproposta ancora oggi.
Ma non c'era solo il beat. Dunque, in seguito, parleremo di country folk (canzoni di protesta) e dell'evoluzione del rock


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Il folk e la canzone di protesta, che in Italia si declina soprattutto nei cantautori. Credo che il sessantotto sia stato segnato soprattutto da questo tipo di canzone, per fare un nome Bob Dylan. Non è che passassero molto in RAI (le radio libere saranno realtà solo negli anni settanta, forse però già si ascoltava radio Lussemburgo, ma di questo non sono affatto sicura), solo quelli che non parlavano di cose spinose. Molti venivano censurati, alcuni proprio quasi mai trasmessi. Sembra strano, vero? Dunque partimmo dalla radice americana, il country folk


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Il country, anche detto country music, country and western o country-western, è il risultato dell'unione di forme popolari della musica americana sviluppatasi nel sud degli Stati Uniti. Viene spesso identificato come un genere musicale a sé stante.

Si sviluppa grazie agli influssi della musica tradizionale del sud (caratterizzata da violino e banjo, anche chiamata Old Time Music), dei tradizionali duos, gruppi musicali formati da fratelli (e caratterizzati dalla presenza di chitarra, mandolino e di una affascinante affinità vocale) e della musica folk degli immigrati anglo-irlandesi.

A questo punto entrano in scena personaggi armati di chitatra e, spesso armonica. Molti ricorderanno Pete Seeger ed il primo Dylan.

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La canzone di protesta (od anche canzone impegnata) è un brano musicale associato ad un movimento per un cambiamento sociale e politico. Numerose canzoni popolari possono essere considerate di protesta. Tra i movimenti sociali che hanno un gran numero di canzoni a loro legate vi sono i movimenti per i diritti civili, pacifisti, movimenti operai, controcultura, femministi, per la rivoluzione sessuale, ambientalisti, ecc. Spesso ci si riferisce alla canzone d'autore degli anni '60 e '70. Sebbene Bob Dylan sia l'artista rappresentante per quanto riguarda questo genere di canzone, egli stesso non si è mai considerato un cantante di protesta, forse è perché tale appellativo (di protesta) non ha senso di esistere. Tra gli altri artisti famosi possiamo, ad ogni modo, citare Joan Baez e gli Inti-Illimani.

Anche in Italia non sono mancati i tentativi di proporre canzoni di protesta, con tutte le cautele e le timidezze dettate dallo stretto controllo allora imperante sulla cultura e sulla radio-diffusione, e con i dubbi di rito sulla sincerità della proposta o sulla adesione alla moda del momento, tutti elementi che portavano a canzoni nelle quali l'elemento di protesta poteva essere ridotto ad un accenno o poco più.
Canzoni manifesto

Gli esempi più noti si devono ai complessi beat di maggiore seguito, Che colpa abbiamo noi dei Rokes, Come potete giudicare dei Nomadi, Manifesto beat dei Bit-Nik, brani che puntavano ad affermare il mondo dei giovani come alternativo a quello degli adulti, così come la canzone manifesto dei "capelloni", appunto I capelli lunghi di Gene Guglielmi. Sempre i Rokes di Shel Shapiro hanno proposto altri due classici del genere: E' la pioggia che va e Piangi con me (diventata anche un enorme successo in USA come Let's Live For Today). Dai Bit-Nik veniva invece più tardi un brano più concretamente di protesta, Realtà n.1. Non mancano numerosi altri tentativi in questo filone, iniziato dalla seminale Cominciamo a suonare le chitarre, della Equipe 84, come Libertà sorella del vento dei Vanguards o Capelloni dei Camaleonti o Inno dei Dik-Dik o, ancora sul tema delle chitarre e dei giramondo, Prendi la chitarra e vai dei Motowns o la eccellente Un'altra strada di Antoine.

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Gli anni '60 però avevano portato in Italia l'esperienza del beat e del rock'n'roll. L'influsso della cultura musicale americana, unito a quello degli chansonniers francesi (Georges Brassens, Jacques Brel, Léo Ferré, ecc.) si fece sentire sulla nuova leva dei cantautori più impegnati. Fatte salve poche eccezioni (Lucio Battisti, Claudio Baglioni, Riccardo Cocciante) si può constatare che la gran parte delle principali figure emerse nel periodo 1966-75 in Italia sono influenzate dall'inasprirsi della conflittualità sociale e dalla fortissima subcultura rossa che si fa sentire soprattutto nel centro-nord del Paese. Pochi però sono gli artisti politici a tutto tondo: Ivan della Mea (Cara moglie, o la famosa Creare due, tre, molti Vietnam), Claudio Lolli (Borghesia, Ho visto anche gli zingari felici), Giovanna Marini (I treni per Reggio Calabria), Giorgio Gaber (La libertà, Qualcuno era comunista) con risultati musicali onestamente non sempre entusiasmanti.

Tra i principali cantautori italiani degli anni sessanta (spesso influenzati dalla canzone d'autore francese) troviamo Umberto Bindi (solo autore delle musiche, mentre per i testi si appoggiava ad altri, primo fra tutti Giorgio Calabrese), Luigi Tenco, Gino Paoli, Sergio Endrigo, Bruno Lauzi, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci (il primo che nelle sue canzoni fa diventare protagonisti gli ultimi, dai barboni ai malati di mente, dalle prostitute ai poveri), Piero Ciampi (in realtà solo paroliere, mentre per le musiche si affidava a vari compositori come Gian Piero Reverberi o Gianni Marchetti), Fabrizio De André (anche se, in realtà, quasi tutto il suo repertorio è stato scritto insieme ad altri artisti), Nino Tristano, Silverio Pisu, Memo Remigi, Vittorio Paltrinieri, Duilio Del Prete, i quali hanno saputo riprendere le suggestioni della canzone francese e trasformarle secondo la sensibilità italiana.

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Questa prima generazione è influenzata principalmente dalla canzone francese e dalla canzone popolare italiana; a metà del decennio ad essi si affiancano altri cantautori come Lucio Dalla, Gian Pieretti, Luciano Beretta, Claudio Cavallaro, Alberto Testa, Fred Bongusto, Mino Reitano, Francesco Guccini, Mauro Lusini, Roby Crispiano, Jonathan del duo Jonathan & Michelle, Emilio Insolvibile e Tony Cucchiara, che sono invece influenzati dal beat (con il passare del tempo ed il proseguimento della carriera alcuni di loro come Guccini e Dalla svilupperanno delle caratteristiche musicali e tematiche proprie, mentre Cucchiara si dedicherà al teatro canzone).

Infine appartengono alla categoria anche alcuni come Gipo Farassino o Nanni Svampa che si sono dedicati per lo più alla canzone dialettale: Svampa forma poi nel 1964 un gruppo, I Gufi, con cui spesso incide canzoni di propria composizione in italiano, ed anche Farassino, alla fine degli anni '60, abbandona spesso il dialetto per scrivere canzoni come l'antimilitarista Ballata per un eroe («Andrò a ingrossare la nutrita schiera/di quelli che aggrappati a una bandiera/son morti bestemmiando di paura/ad occhi chiusi in una notte scura»), Remo la barca, La mia città, Il bar del mio rione, Avere un amico.
Altri, come Paolo Pietrangeli, Gualtiero Bertellied Ivan Della Mea, sono stati più legati ad una canzone strettamente politica.

Alla fine del decennio emerge un altro cantautore, Ugolino, che si distacca dal genere per avvicinarsi ad un tipo di canzone d'autore, basata su tematiche sociali che vengono espresse in maniera ironica e satirica.

Proprio in questo decennio iniziano le collaborazioni tra canzone d'autore e poesia: l'antesignano, in questo senso, è ancora una volta Domenico Modugno che mette in musica due poesie di Salvatore Quasimodo con l'autorizzazione dell'autore, Ora che sale il giorno e Le morte chitarre; così racconta l'esperienza il cantautore pugliese:

«Quando gli chiesero il permesso per questa operazione, lui rispose che non lo aveva mai concesso a nessuno, ma che per Modugno non ci sarebbero stati problemi. Poi ci siamo incontrati e conosciuti a casa sua: era una persona molto strana, chiusa, vulnerabile, che ispirava tenerezza»

Un altro intellettuale che ha frequenti collaborazioni con la canzone d'autore è Pier Paolo Pasolini, che nel 1963 autorizza Sergio Endrigo ad utilizzare alcuni versi tratti dalla raccolta La meglio gioventù; la canzone che nasce è Il soldato di Napoleone, contenuta nel primo 33 giri del cantautore istriano.

Sempre Pasolini collabora anche con Domenico Modugno, scrivendo il testo di Che cosa sono le nuvole:

«Recitai nell'episodio Cosa sono le nuvole, e dal titolo del film nacque anche una canzone, che scrivemmo insieme. È una canzone strana: mi ricordo che Pasolini realizzò il testo estrapolando una serie di parole o piccole frasi dell'Otello di Shakespeare e poi unificando il tutto»

Endrigo invece collabora con Giuseppe Ungaretti ed il poeta brasiliano Vinícius de Moraes incidendo nel 1969 l'album La vita, amico, è l'arte dell'incontro, ed in seguito mette in musica alcune poesie per bambini scritte da Gianni Rodari

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Alla fine parliamo un po' di rock. Iniziamo dalla genesi, che con l'Italia ha poco a che fare

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Il rock, o musica rock, è un genere della popular music sviluppatosi negli Stati Uniti e nel Regno Unito nel corso degli anni cinquanta e sessanta del Novecento. È un'evoluzione del rock and roll, ma trae le sue origini anche da numerose forme di musica dei decenni precedenti, come il rhythm and blues e il country, con occasionali richiami anche alla musica folk. Musicalmente il rock è incentrato sull'uso della chitarra elettrica, solitamente accompagnata dal basso elettrico e dalla batteria.

Negli anni il termine rock è diventato un termine generico utilizzato per indicare una grande varietà di sottogeneri musicali che si sono sviluppati nel corso del tempo. A partire dagli anni sessanta in poi, la musica rock si è infatti diramata in una enorme varietà di sottogeneri: si è mescolata con il blues per dar vita al blues rock e al southern rock, poi con il jazz e altre forme di musica orchestrale per creare la fusion e il rock progressivo. Allo stesso tempo, il rock ha anche incorporato influenze dal soul, dal funk e dalla musica latina. Nel corso degli anni sono nati altri generi derivati come il pop rock, l'hard rock, il rock psichedelico, il glam rock, l'heavy metal, e il punk rock.

Ovviamente questa musica così coinvolgente ha fatto presa anche in Italia, con una rilettura, giustamente, italiana.

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Il rock arriva in Italia nella seconda metà degli anni Cinquanta, con i dischi e qualche film di successo che portano scompiglio fra la gioventù, innescando un’importante frattura generazionale. In mezzo a una pletora di imitatori si fanno largo interpreti innovativi come Mina e Celentano, alla testa dei cosiddetti ‘urlatori’, che proprio dal rock ‘n’ roll partiranno per plasmare una carriera senza pari. Questi ritmi importati restano tuttavia una curiosità marginale fino alla metà degli anni Sessanta, quando esplode la moda beat e nascono i primi gruppi, il cui repertorio è costituito prevalentemente da cover di successi stranieri. E’ solo a partire dal 1969 che prende vita un rock italiano dai caratteri originali, pur se ispirato al modello del progressive rock anglosassone, che promuove il superamento della forma canzone, l’esplorazione di sonorità, ritmi e durate in totale antitesi rispetto alla canzone leggera, con una particolare attenzione a testi evocativi e alla costruzione di ‘concept album’ che esaltano il formato del disco a 33 giri. La parabola del progressive italiano, che ha contribuito a far crescere una controcultura attorno ai festival pop (ancora non si chiamava rock), si conclude a metà degli anni Settanta, quando nuove correnti soffiano sul panorama internazionale producendo una radicale frattura col passato.
Ricordiamo di seguito qualche nome di gruppo che ha almeno avuto i natali entro la fine degli anni Sessanta : i New Trolls, la Formula Tre, la Nuova Idea, le Orme, gli Stormy Six e i Quelli, da cui nacque in seguito la Premiata Forneria Marconi.

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Tipici degli anni sessanta sono stati i "festival canori". Di questi voglio ricordare i tre più noti : il festivalone di San Remo, il Cantagiro e il Disco per l'Estate

Il festival di Sanremo, ovvero il re dei festival

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Il Festival della canzone italiana, o più comunemente Festival di Sanremo o anche semplicemente Sanremo, è una manifestazione canora che ha luogo ogni anno in Italia, a Sanremo, nella provincia di Imperia, in Liguria, a partire dal 1951. Vi hanno preso parte, in veste di concorrenti, ospiti o compositori, molti dei nomi più noti della musica.

Gli anni sessanta si aprirono con l'improvvisa decisione della SIAE di vietare la partecipazione dei propri autori all'edizione del 1961, che però non fu seguita dalla maggioranza degli aderenti. Negli anni successivi, si registrò l'inizio della cosiddetta "era Bongiorno" (che presentò tutte le edizioni dal 1963 al 1967) e fecero il loro esordio sul palco gli "urlatori" come Mina (la quale, dopo la delusione per non essere nemmeno salita sul podio nel 1961, decise di non prendere mai più parte al Festival come concorrente), Adriano Celentano e Bobby Solo, i cantautori come Gino Paoli e Umberto Bindi e i gruppi beat (questi ultimi «sopportati più che supportati», anche per problemi di organizzazione). A vincere però fu perlopiù la canzone melodica: la vittoria più rilevante del periodo fu quella di Gigliola Cinquetti al Festival del 1964 con Non ho l'età, con la quale vinse anche il Gran Premio Eurovisione della Canzone dello stesso anno (anche se il record di vendite andò a Bobby Solo con Una lacrima sul viso, con oltre 1.700.000 dischi venduti).

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Sempre nel 1964, venne estesa la partecipazione anche ai cantanti stranieri, che parteciparono in forze a quell'edizione (fra i tanti Paul Anka, Gene Pitney, Ben E. King e Antonio Prieto): la nuova regola fu «pensata come confronto tra interpreti italiani e stranieri», ma soprattutto «aspirava sia ad arricchire di nuova linfa la musica leggera sia a esportare oltre i pochi consueti mercati la nostra produzione». Questa innovazione fu tuttavia abbandonata già con l'edizione del 1966.

Nel frattempo, i temi sociali e la contestazione iniziarono ad apparire sul palco del Casinò: nel 1966, Adriano Celentanopresentò Il ragazzo della via Gluck, subito eliminata dalla competizione; l'anno successivo, gli intenti "rivoluzionari" (sebbene estremamente edulcorati) dei giovani fecero capolino con La rivoluzione di Gianni Pettenatie Proposta de I Giganti. Ma il 1967 viene ricordato soprattutto per il suicidio del cantautore genovese Luigi Tenco, la cui canzone Ciao amore, ciao (cantata in coppia con Dalida e che raccontava il disagio di un Paese che, nonostante il miracolo economico, aveva «ancora sacche paurose di povertà e di indigenza») fu eliminata dalla finale. La morte di Tenco (peraltro semplicemente accennata, «tacendo persino il nome della vittima», durante il festival da Mike Bongiorno) «concluse la fase aurea del racconto di Sanremo»: aveva inizio «un convulso lungo periodo dopo il quale l'Italia non fu più la stessa e, conseguentemente, neppure la trama che il Festival ne forniva».

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Nonostante questo, l'edizione del 1968«costituì il maggiore sforzo dell'aspirazione del Festival a rappresentare sul piano della musica leggera tutto ciò che si muoveva nel paese»: presentata per la prima volta da Pippo Baudo, vide la vittoria di Sergio Endrigo (tanto a testimonianza dell'imporsi dei cantautori nel mercato musicale, quanto una sorta di "vittoria di compensazione" per quanto accaduto con Tenco). Sempre in quella edizione, esordirono anche Fausto Leali, Al Bano e Massimo Ranieri, «tutti e tre, in modi diversi, ben piantati nei caratteri eterogenei dei ragazzi di allora».

Il giro d'Italia in musica, ossia, il Cantagiro

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Il Cantagiro di Ezio Radaelli è una manifestazione canora itinerante estiva che si svolge ogni anno in Italia.

La prima edizione della manifestazione si è svolta nel 1962. Venne presentata da Nuccio Costa e dall'attrice Dany París.

La formula era presa a modello del Giro d'Italia di ciclismo, e consisteva in una carovana canora in giro per l'Italia con diversi cantanti che gareggiavano tra loro, giudicati da giurie popolari scelte tra il pubblico delle varie città.

Ogni sera veniva proclamato il vincitore di tappa, e nella tappa finale (a Fiuggi) veniva annunciato il vincitore assoluto. Per 5 edizioni consecutive (dal 1968 al 1972) la finale fu disputata a Recoaro Terme, nello scenario delle Fonti Centrali. La finale era articolata in tre serate, con la diretta tv su Rai Uno della serata conclusiva.

Gli interpreti ed i relativi brani erano divisi in sezioni: il Girone A comprendeva artisti di fama, il Girone B le "nuove proposte canore", mentre invece il Girone C introdotto negli anni 1966 e 1967 comprendeva i gruppi musicali.


Canzoni da spiaggia : un Disco per l'estate

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Un disco per l'estate è stata una manifestazione canora radiotelevisiva italiana svoltasi ininterrottamente dal 1964 al 2003.

La manifestazione nasce dall'idea dell'A.F.I. di promuovere il mercato discografico estivo con un festival che presentasse le novità delle varie etichette, allo stesso modo di quello che era il Festival di Sanremo per il mercato invernale.

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La realizzazione della prima edizione (e di quelle seguenti) fu realizzata dall'A.F.I. in collaborazione con la RAI, che si occupò della messa in onda.



Fino al 1975 la manifestazione si svolgeva annualmente sotto forma di gara suddivisa in due fasi: una prima fase eliminatoria radiofonica e una fase finale televisiva.

Limitatamente alla prima edizione, il concorso proseguì dopo le tre serate di Saint Vincent e si concluse il 24 ottobre con una classifica aggiornata con il riscontro delle vendite dei dischi. Dalla successiva edizione, la manifestazione premiava i vincitori, intorno alla metà di giugno, al termine di tre serate (due semifinali e una finale), e successivamente le canzoni finaliste tornavano in onda alla radio fino a settembre nel programma Vetrina di un disco per l'estate. Il concorso fu indetto dalla RAI su richiesta delle case discografiche per incentivare anche nel periodo estivo la vendita del 45 giri, formato che conobbe in quegli anni il massimo delle vendite di pezzi.

Allora le canzoni duravano anni interi, vincere a Sanremo o in un'altra manifestazione del genere non era solo acquistare notorietà, ma era una meta di arrivo, una specie di Grammatica Awards in salsa italiana.

Di Sanremo venivano messi in vendita nelle edicole i libricini con i testi delle canzoni dell'anno e ci si industriava a impararle a memoria.

Del Cantagiro era interessante il format itinerante, che portava in giro per l'Italia i nomi del momento permettendo incontri con i fans anche in posti "provinciali".

L'ultimo, forse, era un po' più seguito dai giovani, e da lì sono uscite canzoni come Luglio, Sei diventata nera, La mia serenata, Prima c'eri tu. Canzoni facili, appunto da spiaggia. Ma mi piacerebbe sapere quanti, anche nati fra gli anni sessanta e settanta, leggendo Luglio non hanno proseguimento con "col bene che ti voglio".
 
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view post Posted on 18/6/2019, 12:07
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E adesso parliamo di moda, che davvero ha lasciato un segno e ancor oggi, di tanto in tanto,
ritorna


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Un settore toccato da radicali trasformazioni è quello relativo all’abbigliamento. Il primo fenomeno apprezzabile da questo punto di vista è lo spostamento dall’interno (la cura dell’abbigliamento intimo, del corredo) all’esterno: la cura dell’abito che sempre più viene visto come status simbolo e non come lusso moralmente deprecabile esibito dalle classi superiori. Questo fatto produce la proletarizzazione dell’abito (vestiti in serie) con la perdita delle connotazioni di prestigio ad esso connesse e con la scomparsa della divisione classista degli stili che si accontenta di differenziazioni più sottili che non riguardano più la foggia ma la qualità e gli accessori. Tale trasformazione, a sua volta, induce un’accelerazione dei cicli della moda che, se prima della guerra duravano anche diversi anni, ora si trasformano in modo rapido con un alternarsi di modelli destinati a una breve durata: la manifestazione dello status riguarda pertanto la velocità di assorbimento del nuovo stile. A questo fenomeno si aggiunge la scomparsa della rigidità che determinava la selezione dell’abbigliamento in base all’occasione (mattino, pomeriggio, sera, festa, domenica ecc.). Essa, a sua volta è legata alla nascita dell’abbigliamento casual la cui affermazione determina il consolidamento, sul mercato, dei capi di produzione industriale, il che porterà poi all’affermazione, sempre come esigenza di status, di griffe e marche. Il casual costituisce la fusione tra abbigliamento normale e abbigliamento sportivo che si viene a creare a partire tanto dall’allargamento della fascia di tempo libero da destinare allo svago ed alla vacanza quanto dalla differenziazione tra abbigliamento adulto e abbigliamento giovane, con incursioni sempre più ampie degli utenti del primo negli stili del secondo.

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In sintesi la trasformazione più evidente è il valore non più tanto di status quanto identitario della selezione degli abiti cui si aggiungono le complesse esigenze di un’industria che deve necessariamente sollecitare desideri e creare legami tra l'apparire e l’immaginario individuale e collettivo se non vuole perdere i suoi livelli produttivi. Sparisce comunque, almeno per le classi medie, l’uso del vestito “buono” di sartoria, destinato a durare nel tempo e ad essere utilizzato in tutte le "grandi" occasioni.

Dal punto di vista dell'estetica lineare, negli anni '60 andò di moda soprattutto la linea trapezio, che venne presentata nel 1958 dal giovane Yves Saint Laurent, ancora responsabile artistico della casa Dior: vestiti a forma di sacco che ignoravano il punto vita o cappotti stretti in alto e svasati verso il basso, spesso lunghi fino al ginocchio.
I vestiti a sacco erano stati molto popolari già negli anni '20, ma allora erano molto più eleganti e signorili: lunghi almeno fini al ginocchio, avevano a volte una gonna applicata molto in basso ed erano spesso lavorati con stoffe delicate, pizzi e sete e realizzati in colori tenui. In confronto, i vestiti a sacco degli anni '60 sembrarono abiti per bambini; non avevano praticamente nessun dettaglio decorativo o tagli raffinati, ma erano quasi sempre confezionati con tessuti rigidi (sintetici), con un taglio diritto o leggermente svasato. Il loro effetto derivava dai motivi grafici o da fantasie floreali molto colorate; inoltre, erano molto più corti dei vestiti degli anni '20 e in generale ebbero abbastanza successo.

Di eleganza tradizionale o signorile non se ne poteva proprio parlare, ma questo appunto era lo scopo voluto. I nuovi vestiti e cappotti dovevano innanzitutto sembrare giovanili e poco convenzionali, divertenti e irrispettosi. L'età reale di chi li indossava non aveva alcuna importanza.

LA MINIGONNA

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Gli anni'60 furono soprattutto gli anni della minigonna.
La sua apparizione (1965), che rispondeva al crescente bisogno delle adolescenti e delle giovani di esprimersi liberamente, fece scalpore: le gambe non erano mai state così in vista! La mini fu subito considerata indecente e molti erano sdegnati: per esempio, secondo Coco Chanel il ginocchio era la parte meno attraente della donna, che pertanto sarebbe stato meglio tenere nascosta. Nonostante le critiche, negli anni '60 le sottane delle donne di qualsiasi età diventarono man mano sempre più corte, fino ad arrivare in certi casi a coprire a malapena gli slip. Alla realizzazione della mini estrema contribuì in modo non indifferente l'invenzione della calzamaglia senza cuciture.
L'inventore della minigonna è discusso: Mary Quant o Courrèges? Entrambi, infatti, presentarono, pressoché contemporaneamente, modelli con gonne molto corte.
Le minigonne di Courrèges avevano linee spigolose e futuristiche ed erano pensate per essere indossate su pantaloni attillati o con stivali a metà polpaccio.
La Quant propose scamiciati a vita lunga, con cinture all'altezza dei fianchi, gonne pieghettate o svasate che si fermavano appena sopra il ginocchio e sembravano molto più corte di quanto fossero realmente. La sua mini diventò immediatamente un must.

IL TRANSPARENT LOOK

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La voga delle minigonne e della vita scoperta presto si diffuse sfociando in una moda delle trasparenze, che nell'era delle materie plastiche si concretizzò in nuovi modelli in plastica o in tessuto di fibre sintetiche.
Yves Saint Laurent, nell'inverno del 1968, presentò un abito da sera lungo fino a terra, di mussola nera trasparente, con delle applicazioni di piume di struzzo sui fianchi che arrivavano fino a metà coscia e che doveva essere portato con nient'altro che un serpente d'oro come cintura.
Courrèges, nei tardi anni '60, creò vestiti in organza, nei cui punti più intimi erano applicati dei fiori o delle forme geometriche.
La versione più portabile di questo trend era sicuramente la linea di camicie trasparenti con rifiniture in volant sulle maniche o sulla scollatura; in commercio ne esistevano diverse varianti.
Come i pantaloni a zampa d'elefante, l'abbigliamento etnico o in PVC, anche la moda trasparente fa parte del versatile repertorio degli anni '60, dal quale i designer hanno continuato ad attingere fino agli anni '90.
L'ARTE DIVENTA MODA
Negli anni '60 anche nel campo dell'arte prevaleva la tendenza a rompere con il vecchio e a ricercare il nuovo. E infatti le diverse forme d'arte di questo periodo sono caratterizzate da un evidente desiderio di superamento e dalla netta divisione tra la cosiddetta cultura "alta" e quella "bassa".
I Beatles, nei loro arrangiamenti, utilizzavano provocatoriamente un'orchestra di violini.
Andy Warhol, l'artista Pop più discusso ma riconosciuto internazionalmente, produceva incisioni con i Velvet Underground, per i quali, come più tardi anche per i Rolling Stones, creò le copertine dei dischi. Inoltre disegnava scatole di pelati del supermercato proponendole come arte, noncurante del raccapriccio che provocava tra chi restava fedele alla cultura tradizionale. Nel 1966- 67, con il suo progetto di mini- abito leggermente svasato, manifestò in maniera duplice il suo messaggio di rappresentante della Pop Art: irritava l'osservatore elevando a opera d'arte un semplice oggetto quale una scatola di minestra e sferrava una critica contro la società occidentale dei consumi usando un materiale resistente ma estremamente infiammabile.
Produzioni in serie, come la fotolito e il retino preso dai fumetti, erano giudicati con lo stesso metro dell'arte. Il mito dell'unicità dell'opera aveva lasciato il posto a una concezione nuova dell'arte, trasformando notevolmente anche il ruolo e la funzione dell'artista: i temi e le tecniche dovevano adeguarsi ad un mondo molto cambiato.
Nacquero l'Iperealismo, che proponeva perfette imitazioni di persone e di cose, e l'Happening, una forma del tutto nuova di rappresentazione, che era nello stesso tempo attuale, antimuseale e scioccante, oltre che essere uno strumento per avvicinare importanti opere d'arte alla quotidianità.
Negli anni '60 i confini tra arte e moda divennero confusi.
Artisti come Christo, di origine bulgara, e l'americano Mimi Smith crearono abiti come fossero opere d'arte, mentre gli stilisti trovarono nuovi motivi saccheggiando la pop art e l'op art. Sia sulla tela sia sui tessuti, l'abile uso di forme come cerchi, quadrati e spirali dava l'illusione del movimento.
L'op art (o optical art, "arte ottica") divenne una moda di forte tendenza. L'artista inglese Bridget Riley fu una delle figure di spicco del movimento. I suoi cerchi, quadrati, rettangoli e zigzag bianchi e neri venivano abilmente ripetuti per creare un effetto tridimensionale: le sue creazioni sembravano arretrare, proiettarsi fuori oppure ondeggiare. L'illusione funzionava perché creava confusione a livello del nervo ottico. L'industria tessile colse al volo questa opportunità per ottenere lo stesso effetto anche con i tessuti e, in questo modo, stilisti come Ossie Clark a Londra e Y. S. Laurent a Parigi crearono modelli abbaglianti.
Y. S. Laurent, in modo particolare, faceva furore con collezioni che si ispiravano a tendenze artistiche classiche e del presente. Una famosa collezione del 1965 mostrava vestiti tagliati diritti di jersey, nei quali i vari pezzi di stoffa venivano cuciti in modo da riprodurre le fantasie geometriche dei quadri di Piet Mondrian. Secondo Saint Laurent, queste rigide forme si adeguavano perfettamente al corpo umano; effettivamente, i vestiti erano tutt'altro che informi! La serie degli abiti Pop, invece, si ispirava all'opera di Andy Warhol o Roy Liechtenstein.
Y. S. Laurent, in modo particolare, faceva furore con collezioni che si ispiravano a tendenze artistiche classiche e del presente. Una famosa collezione del 1965 mostrava vestiti tagliati diritti di jersey, nei quali i vari pezzi di stoffa venivano cuciti in modo da riprodurre le fantasie geometriche dei quadri di Piet Mondrian. Secondo Saint Laurent, queste rigide forme si adeguavano perfettamente al corpo umano; effettivamente, i vestiti erano tutt'altro che informi! La serie degli abiti Pop, invece, si ispirava all'opera di Andy Warhol o Roy Liechtenstein.
Il trompe- l'oeil era un altro metodo utilizzato per creare un effetto tridimensionale. Trasferito nel campo dalla moda venne utilizzato per inserire colli o polsini finti nel disegno di un maglione o cinture e tasche di colore contrastante su un vestito.

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view post Posted on 22/6/2019, 18:01
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E adesso andiamo per fiori. O meglio, facciamo la conoscenza con i figli dei fiori, ossia gli hippies.
Da noi erano comunemente identificati come "i capelloni" per via delle chiome fluenti. Mia madre non li sopportava, neanche fossero quella gran novità, visto che i capelli corti nei maschi non sono una cosa tanto antica. Per lei erano solo tipi disordinati e poco inclini a pratiche igieniche.

Di seguito vi propongo un articolo di Ranieri Polese scritto nel 2005 per il corriere della sera.


hipp




Quando esplose la rivoluzione dei fiori
A San Francisco, 40 anni fa, i primi hippies: pace, amore libero e (troppa) droga


Li chiamarono hippies, generazione psichedelica, Flower Children: erano i ragazzi che nel 1965 cambiarono nel mondo lo stile di vita, la musica, la cultura in generale. Centro di tutto, San Francisco, la città del Golden Gate, già culla degli scrittori della Beat Generation (Kerouac, Ginsberg e Ferlinghetti che aveva aperto lì la libreria «City Lights»). Proprio nel ’65, una variopinta tribù di nomadi fu protagonista di una nuova migrazione che andò a occupare la zona compresa fra il Golden Gate Park e l’Università di San Francisco. Al crocevia fra Ashbury Street e Haight Street, in quell’anno, si apriva il primo caffè hippie, The Blue Unicorn. I Jefferson Airplane suonavano già in un locale del quartiere, Janis Joplin era appena arrivata in città mentre la band-simbolo del movimento, i Grateful Dead, sceglieva come base il numero 710 di Ashbury Street. Intanto, già dall’anno prima, da lì partivano gli Acid Tour organizzati da Ken Kesey, lo scrittore del Nido del cuculo. L’inno dei figli dei fiori, però, fu inciso solo due anni dopo, nel 1967, da Scott McKenzie. «If you are going to San Francisco, be sure to wear some flowers in your hair» dicevano le parole che ancora oggi tutti ricordano. Ed era la foto di una generazione che credeva nell'avvento dell'Era dell'Acquario, predicava Pace Amore contro la guerra in Vietnam, faceva uso di droghe - dalla cannabis al Lsd - per motivi «psichedelici» (l’espressione era di Timothy Leary), ovvero per espandere la coscienza.
Il nome hippies aveva un senso sottilmente dispregiativo, per distinguerli cioè da hipsters, la parola con cui si definivano i Beat, quelli che sanno la vera essenza delle cose, amano il jazz, trovano illuminazioni nel buddismo e nell'alcol. E in effetti quei nipotini di Kerouac erano molto più scenografici e modaioli che profondi.

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Accanto a loro, comunque, c’era un'ala più politicizzata, gli Yippies (Youth International Party) di Abbie Hoffman, il tribuno che durante il processo per i disordini alla Convention democratica di Chicago (1968) si fece fotografare nel celebre gesto della mano con il medio puntato. Se Scott McKenzie non avrebbe più replicato il successo di San Francisco, anche il movimento hippie, toccato l'apice proprio nel 1967 (fu quella The Summer of Love), cominciò a declinare. Tanto che, già nell’ottobre, si celebrava il funerale dei figli dei fiori, divenuti ormai un’attrazione turistica. Anche lo scrittore Tom Wolfe, a San Francisco in quegli anni, disse (The Electric Kool-Aid Acid Test, 1969) che quello che nell'ultimo decennio la città aveva creato di nuovo - dai Beat agli hippies - era ormai buono solo per i tour organizzati di rappresentanti di commercio in cerca di trasgressioni. L’ondata di musica West Coast, intanto, segnava la risposta americana al predominio britannico dei Beatles, degli Stones, degli Who e di tutti gli altri.
Dalla California arrivano i Beach Boys (Good Vibrations è la canzone-manifesto del 1966), e i Mamas and Papas nello stesso anno ci regalano California Dreaming. A San Francisco, nel 1967, nasce Rolling Stone, la bibbia degli amanti di musica rock e pop. Sempre in California, sempre nel '67, si tiene il raduno di Monterey (fra gli altri, Janis Joplin, Jimi Hendrix, Jefferson Airplane e il sitarista Ravi Shankar). Mentre il cinema stenta a realizzare in tempo reale film di fiction ispirati al Flower Power (uniche eccezioni The Trip-Il serpente di fuoco, 1967, di Roger Corman, Alice's Restaurant, 1969, di Arthur Penn, e naturalmente Easy Rider, 1969, di Dennis Hopper; i migliori affreschi del periodo saranno tutti retrospettivi, da Un mercoledì da leoni, 1978, di John Milius, a Hair, il film di Milos Forman, 1979, fino a Forrest Gump, 1994, di Robert Zemeckis), c'è invece una grande esplosione nelle arti visive. In particolare la grafica, copertine di dischi, manifesti, riviste underground, in cui si mescolano suggestioni Art Nouveau con visioni psichedeliche. La musica, intanto, invade tutti i paesi. Anche l'Italia, dove i primi complessi rock spesso traducono le canzoni che vengono di là: dai Rokes, Che colpa abbiamo noi, 1966, ai Nomadi che già nel '67, in Dio è morto (testo di Guccini), citano Howl di Ginsberg, e l'anno dopo cantano Un figlio dei fiori non pensa al domani. Poi ci sono i Dik Dik, con Sognando la California, 1966, e L'isola di Wight, 1970; e i Giganti, 1967, con Mettete dei fiori nei vostri cannoni. Cantano la nuova libertà dei capelli lunghi e dell'amore senza divieti; ma soprattutto l'invito al viaggio, alla fuga da casa, l’elogio del vagabondo, che poi è la versione nostrana dell'esperienza on the road. Nel triennio 1969-71, l’America chiudeva la breve stagione dei fiori e dell’amore: se Woodstock (agosto 1969) fu un trionfo, le morti per droga di tre grandissime rockstar —Hendrix e Joplin, 1970, Jim Morrison, 1971 — fanno calare il sipario.
Ma anche da noi, in Italia, l’ondata hippie doveva durare poco. Preceduto dalle manifestazioni contro la guerra in Vietnam, irrompe il Sessantotto, tutto si politicizza, nelle canzoni ci sono sempre meno fiori e più compagni dai campi e dalle officine. L'estate dell'amore è proprio finita.

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E oggi cosa ci resta di tutto questo, droga a parte?
Ricordi di una massa di ragazzi variopinti, i libri di Kerouac, qualche film, alcune colonne sonore favolose (tipo Easy Rider), una quantità di brani (alcuni veramente belli) che restano in testa con le relative cover in italiano. Ma è stato comunque un fenomeno di quegli anni.
 
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Negli anni '60 le milanesi vincevano in Italia, in Europa e nel mondo.
 
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Preparare, presentare un'opera cosi completa, ricca di informazioni, illustrazioni merita tutta la mia e la vostra riconoscenza all'autrice di questo certosino lavoro.


G R A Z I E




Poi, galleggiando, tra i flutti, si ode la vocina di un residuo organico che disturba. La natura è grande e va accettata com'è.
 
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Grazie Nicola, detto da te è un riconoscimento importante.

Ed ora mi appresto ad entrare in un labirinto abbastanza complesso, di cui proprio Nicola è esperto. Ma io non voglio fare critica o proporre all'attenzione, intendo solo inquadrare un'epoca che ha avuto più sfaccettature di un diamante. Quindi iniziamo a parlare della settima arte: il cinema.
E, pescando a caso, cominciamo a il cammino nei meandri cinematografici parlando dei grandi maestri, che iniziano a produrre i loro indimenticabili lavori alla fine degli anni cinquanta e negli anni sessanta.


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A partire dalla metà degli anni cinquanta il cinema italiano si svincola dal neorealismoaffrontando argomenti prettamente esistenziali, filmati con stili e punti di vista differenti, spesso più introspettivi che descrittivi. Si assiste così a una nuova fioritura di cineasti che contribuisce in maniera fondamentale allo sviluppo della settima arte.

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Michelangelo Antonioni è il primo ad imporsi, divenendo un autore di riferimento per tutto il cinema contemporaneo.[

Negli anni tra il 1960 e il 1962, dirige la "trilogia dell'incomunicabilità", composta dai film L'avventura, La notte e L'eclisse. In tali pellicole (che vedono come protagonista una giovane Monica Vitti) Antonioni affronta in maniera diretta i moderni temi dell'incomunicabilità, dell'alienazione e del disagio esistenziale, dove i rapporti interpersonali sono volutamente descritti in modo oscuro e sfuggente. Il regista riesce così a rinnovare la drammaturgia filmica e a creare un forte smarrimento tra pubblico e critica, i quali accolgono queste opere con criteri e atteggiamenti contrastanti. A metà degli anni sessanta si consacra all'attenzione internazionale con Il deserto rosso (1964) e Blow-Up (1966), vincitore l'anno successivo della Palma d'oro al Festival di Cannes. Il film è una profonda riflessione sul rapporto arte-vita e sull'impossibilità del cinema di rappresentare la realtà, simbolicamente riassunta nell'ultima sequenza, dove alcuni saltimbanchi mimano ripetutamente una partita di tennis.

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Federico Fellini è l'autore che più di ogni altro ha racchiuso ogni aspetto del reale e del surreale in una dimensione poetica e favolistica.
Il suo stile altamente immaginifico viene esaltato dal felice sodalizio con gli sceneggiatori Ennio Flaiano e Tullio Pinelli e, in particolar modo, con il compositore Nino Rota. Alcune scene dei suoi film più noti assurgeranno a simboli di un'intera epoca, come la famosa sequenza di Anita Ekberg che, ne La dolce vita (1960), entra nella Fontana di Trevi divenendo, da allora, un'icona del grande cinema. L'opera (tacciata di impurità dall' Osservatore Romano) è un programmatico affresco di una Roma frivola e decadente, assolutamente priva di qualsiasi certezza morale. Ne consegue un composito viaggio nel sonno della ragione dove i disvalori della società borghese emergono in maniera autentica e viscerale.

Nel corso degli anni sessanta l'artista romagnolo inizia una periodo di sperimentazione col monumentale, onirico e visionario 8½ (1963). Il film è un'autobiografia immaginaria dello stesso regista che, con apparente svagatezza, tocca temi centrali come l'arte, la persistenza della memoria e la morte.

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Terminata l'esperienza neorealista, Luchino Visconti continuerà a regalare al cinema italiano altre prestigiose creazioni. Nel 1960 esce nelle sale Rocco e i suoi fratelli, che mette a confronto una storia di miseria meridionale con la civiltà industriale del Nord, raccontando l'afflusso migratorio delle popolazioni del Sud con lucida introspezione psicologica. Nel 1963 giunge sugli schermi Il Gattopardo, fedele illustrazione del passaggio della Sicilia dei Borboni a quella dei Sabaudi, non tradendo lo spirito scettico e amaro dell'omonimo romanzo. La sua vasta produzione continua con le opere La caduta degli dei (1969), Morte a Venezia (1971), Ludwig (1973), Gruppo di famiglia in un interno (1974) e L'innocente (1976).

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Anche Roberto Rossellini abbandona la stagione neorealista per realizzare il dramma psicologico Viaggio in Italia (1953), che anticipa i temi sull'incomunicabilità della coppia delineati dal cinema di Antonioni.
Stroncato quasi ovunque, verrà unicamente elogiato dalla critica francese, divenendo un punto di riferimento per i futuri registi della Nouvelle vague.
A seguito di vari film come Dov'è la libertà? (1954), India (1959) e Il generale Della Rovere (1959) aprirà una nuova fase della sua carriera con la sperimentazione di pellicole enciclopediche per il cinema e la televisione, dal puro scopo umanistico e didattico.

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All'inizio degli anni sessanta Vittorio De Sica porterà al successo planetario l'interprete Sophia Loren nel drammatico La ciociara (1960) e in egual misura nella commedia a episodi Ieri, oggi, domani (1963), dove l'attrice recita al fianco di Marcello Mastroianni. La pellicola varrà al regista un nuovo Oscar nella sezione miglior film straniero. La sequenza più famosa del film resta il négligé con cui la Loren si mostra nell'ultimo episodio, lasciando il segno nell'intero immaginario collettivo.

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Altro protagonista del cinema d'autore è Pier Paolo Pasolini. Attento osservatore della trasformazione della società italiana dal secondo dopoguerra sino alla metà degli anni settanta, ha suscitato forti polemiche per la radicalità e vivacità del suo pensiero; vivacità che ha saputo mettere in evidenza anche in campo cinematografico e da subito riscontrabile nel suo film d'esordio Accattone (1961). Le medesime ambientazioni le si ritrova in Mamma Roma (1962), dove il regista nobilita i suoi personaggi suburbani con richiami alla pittura rinascimentale del Mantegna. Nel Vangelo secondo Matteo (1964), l'artista racconta la vita del Cristo rinunciando agli orpelli dell'iconografia tradizionale, avvalendosi di una forma registica che alterna camera a mano a immagini proprie della pittura quattrocentesca. In Uccellacci e uccellini (1966) il suo cinema vira sull'apologo fantastico descrivendo le varie trasformazioni del proletariato.

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Un altro regista di rilievo è Valerio Zurlini: i suoi film, da Estate violenta (1959) a La ragazza con la valigia (1961), da Cronaca familiare (1962) a Il deserto dei Tartari (1976), alternano suggestive rievocazioni letterarie ad analisi psicologiche raffinate e complesse, con risultati visivi alquanto notevoli.

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Molto raffinato sul piano formale è anche il cinema di Mauro Bolognini che, pur soffrendo talora di eccessi di decadentismo e affettazione, possiede una ricchezza scenografica e letteraria di chiara derivazione viscontiana, senza dimenticare la dialettica dei conflitti sociali.[98] Tra i film più significativi: Giovani mariti (1958), La giornata balorda (1960), Il bell'Antonio (1960), La viaccia (1961), Agostino (1962) e Metello (1970).

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Ermanno Olmi esordisce con il film Il tempo si è fermato (1958), emozionante parabola sui rapporti tra uomo e natura che fa subito emergere le sue peculiari doti artistiche. La notorietà arriverà tre anni dopo con Il posto (1961), un ritratto dolce-amaro della Milano del boom economico. Nel 1963 gira l'esistenziale I fidanzati.

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Marco Ferreri si cimenta nella regia verso la fine degli anni cinquanta presentando un cinema grottesco e provocatorio, con tratti e accenti parzialmente bunueliani. Il suo umorismo nero e sferzante è già rintracciabile nelle opere El pisito (1958) e La carrozzella (1960), filmate e ambientate in terra spagnola. Anni dopo dirige l'attore Ugo Tognazzi nei film Una storia moderna: l'ape regina (1963) e La donna scimmia (1964), dove ha modo di farsi conoscere dalla critica italiana. Nel 1969 raggiunge la piena maturità artistica con Dillinger è morto, stralunato e attualissimo apologo sull'alienazione della vita moderna.

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Sempre negli anni sessanta si impone all'attenzione di pubblico e critica l'opera del giovane Marco Bellocchio che tramite pellicole apertamente in contrasto con la società e i valori borghesi anticipa il fermento generazionale del sessantotto. La sua pellicola d'esordio I pugni in tasca (1965), a causa dei suoi contenuti altamente drammatici, scuote l'opinione pubblica aprendo la strada a una prolifica serie di film.

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Bernardo Bertolucci si avvicina al cinema grazie a Pier Paolo Pasolini di cui sarà assistente sul set di Accattone. Ben presto si stacca dal mondo pasoliniano per inseguire una personale idea di cinema, basata sullo studio antropologico dell'individuo e del suo relazionarsi ai mutamenti sociali che la storia impone. Esordisce giovanissimo nel lungometraggio La commare secca (1962), e desta attenzione con Prima della rivoluzione (1964).

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I fratelli Paolo e Vittorio Taviani, appassionati fin da giovanissimi al cinema, conoscono un primo discreto successo con Un uomo da bruciare (1962) e I sovversivi (1967), che vede come primo interprete il cantautore Lucio Dalla, a cui seguono Sotto il segno dello scorpione (1969) e il film sulla restaurazione Allonsanfàn (1974).

Franco-Zeffirelli



Come allievo di Visconti si mette in luce il regista fiorentino Franco Zeffirelli, autore, per molti decenni, di una feconda produzione teatrale. Tra le sue opere cinematografiche più note vi sono le trasposizioni shakespeariane de La bisbetica domata (1967) e Romeo e Giulietta (1968). Nello stesso tempo si afferma Liliana Cavani, che conosce notorietà con le opere Francesco d'Assisi (1966).

Per adesso ci fermiamo qui, che c'è già parecchio materiale, ma ci resta ancora la commedia, i filmetti musicali, in cui l'azione, di punto in bianco, veniva interrotta dal signor personaggio principale che si metteva a cantare una canzone.
E poi il film sociale è, perché no, l'animazione, che anche in Italia si son fatti cartoni animati. Allora, alla prossima :#wel:
 
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