Le stronzate di Pulcinella

Gli omicidi italiani piu' famosi degli ultimi anni

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view post Posted on 30/3/2020, 19:26
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La storia della cronaca nera del nostro paese soprattutto quella compresa tra gli anni Settanta e Duemila, è macchiata dal sangue di vittime innocenti, che hanno avuto la sfortuna di incontrare sulla loro strada personaggi malefici, in grado di uccidere con freddezza e senza rimpianti.
Ecco alcuni delitti che hanno fatto epoca.

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Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, erano due diciottenni militanti del Centro sociale Leoncavallo di Milano. Nel 1978 stavano raccogliendo materiale per un’inchiesta di controinformazione sul traffico d’eroina che coinvolgeva l’estrema destra milanese e la malavita organizzata. Furono uccisi. Questo omicidio politico fu rivendicato subito dalla destra eversiva. Dapprima furono indiziati Valerio Fioravanti, Mario Corsi e Guido Zappavigna; successivamente Massimo Carminati (Banda della Magliana, quello dei 100 giorni di Mafia Capitale), Claudio Bracci e Mario Corsi. Il caso fu archiviato nel 2000.


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L'omicidio di Giorgiana Masi, una studentessa italiana il cui vero nome era Giorgina Masi, venne commesso a Roma il 12 maggio 1977 durante una manifestazione. Quel giorno si trovava insieme al fidanzato Gianfranco Papini nel centro storico dove erano scoppiati violenti scontri tra dimostranti e forze dell'ordine, in seguito a una manifestazione pacifica del Partito Radicale, a cui si erano uniti membri della sinistra extraparlamentare e in particolare dell'Autonomia Operaia, questi ultimi armati.
Alle ore 19:55 i due erano in piazza Giuseppe Gioachino Belli quando un proiettile calibro 22 colpì Giorgiana all'addome;[2] subito soccorsa, fu trasportata in ospedale, dove ne fu constatato il decesso.
Le ipotesi accreditate, seppur mai verificate, rimasero due: il «fuoco amico», come sostenne
'allora Ministro dell'Interno Francesco Cossiga, addossandone la responsabilità a frange di Autonomi, o le forze dell'ordine in borghese, che fecero fuoco con una pistola non d'ordinanza, mai individuata, secondo l'avvocato di parte civile, la sinistra e i radicali.
L’inchiesta venne chiusa nel 1981 e nessuno seppe mai da dove partì quel colpo.


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Passato alla cronaca come il delitto di via Carlo Poma fu l'assassinio di Simonetta Cesaroni commesso il 7 agosto 1990 in un appartamento al terzo piano del complesso di via Carlo Poma n. 2 a Roma; il caso non è stato mai risolto nonostante oltre vent'anni di indagini. Nel corso degli anni furono svolte varie indagini e ipotizzate varie piste investigative con diverse persone accusate del delitto tra il 1990 e il 2011:dapprima Pietrino Vanacore, portiere dello stabile dove avvenne l'omicidio, poi Salvatore Volponi, il datore di lavoro della vittima, poi Federico Valle, il cui padre aveva uno studio nello stabile, e infine Raniero Busco, fidanzato della vittima; vennero tutte scagionate dalle accuse. Il caso attirò un grande interesse dell'opinione pubblica e ad esso sono stati dedicati libri, numerose trasmissioni televisive di approfondimento e nel 2011 un lungometraggio televisivo.
Il 26 gennaio 2011, al termine del processo di primo grado, Raniero Busco viene riconosciuto colpevole dell'omicidio di Simonetta Cesaroni e condannato a 24 anni di reclusione.
Il 27 aprile 2012, al termine del processo di secondo grado, Busco viene assolto dall'accusa del delitto Cesaroni per non aver commesso il fatto; le tracce di DNA vengono ritenute circostanziali e compatibili con residui che avrebbero potuto resistere a un lavaggio blando della biancheria (la madre di Simonetta dichiarò di lavare soprattutto a mano con sapone da bucato), mentre il morso si rivela essere un livido di altro tipo. Viene inoltre confermato l'alibi di Busco, che si trovava al lavoro..
A seguito di ricorso in Cassazione della Procura, viene fissata la prima udienza del processo di legittimità il 26 febbraio 2014, data in cui le toghe del terzo grado di giudizio hanno definitivamente assolto Busco. «Sette anni della mia vita sono stati distrutti - ha detto l'uomo al termine della lettura della sentenza - Posso capire cosa prova la famiglia, che dopo 24 anni non c'è un colpevole. Ma tutti dovrebbero comprendere anche il mio dramma. Adesso voglio essere lasciato in pace». Il delitto, dunque, resta senza colpevoli.





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Quello che è passato alla storia come il delitto di Novi Ligure risale al 21 febbraio 2001. Fu un caso di cronaca nera italiana che sconvolse l’opinione pubblica di tutto il paese, non solo della città in provincia di Alessandria, teatro del crimine. Ad uccidere la 41enne Susanna Cassini, detta “Susy” e il figlio undicenne Gianluca De Nardo furono Erika De Nardo, figlia sedicenne della donna e sorella della piccola vittima, e il suo fidanzato dell’epoca Mauro ‘Omar’ Favaro, di un anno più grande. Il padre di Erika, Francesco De Nardo, sarebbe sfuggito alla morte per puro caso. Erika De Nardo e Omar Favaro vengono condannati in via definitiva nel 2003 a 16 e 14 anni di reclusione. Ma il 3 marzo 2010 Omar viene scarcerato con l’indulto e grazie a sconti per buona condotta, e il 5 dicembre 2011 anche Erika, che nel frattempo si laurea in filosofia, viene scarcerata. Pronti entrambi per una nuova vita, anche se non più insieme.


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Il delitto di Cogne fu un infanticidio commesso il 30 gennaio 2002 in una villetta di Montroz, frazione di Cogne in Valle d'Aosta. Vittima un bambino di tre anni, Samuele Lorenzi. Nel 2008 la Corte di Cassazione ha riconosciuto colpevole del delitto la madre, Annamaria Franzoni. Questa ha scontato 6 anni di carcere e 5 di detenzione domiciliare, estinguendo la pena il 7 febbraio 2019.
Il caso ebbe grande rilevanza mediatica dopo il delitto anche grazie all'uso del mezzo televisivo e nelle prime fasi processuali divise l'opinione pubblica.


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La strage di Erba è stato un omicidio multiplo commesso a Erba, in provincia di Como, l'11 dicembre 2006.
La strage fu compiuta dai coniugi Olindo Romano (Albaredo per San Marco, 10 febbraio 1962) e Angela Rosa Bazzi (Erba, 12 settembre 1963 che uccisero a colpi di coltello e spranga Raffaella Castagna, il figlio Youssef Marzouk, la madre Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini. Il marito di quest'ultima, Mario Frigerio, colpito con un fendente alla gola e creduto morto dagli assalitori, riuscì a salvarsi grazie ad una malformazione congenita alla carotide. La strage avvenne nell'abitazione di Raffaella Castagna, in una corte ristrutturata nel centro della cittadina. L'appartamento fu dato alle fiamme subito dopo l'esecuzione del delitto.

Il 3 maggio 2011, la Corte Suprema di Cassazione di Roma ha reso definitiva la sentenza che ha riconosciuto come autori della strage i coniugi Romano, già condannati all'ergastolo con isolamento diurno per tre anni il 26 novembre 2008 dalla Corte d'Assise di Como, e il 20 aprile 2010 dalla Corte d'Assise d'Appello di Milano che confermò la medesima condanna.


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Il delitto di Garlasco è un caso di omicidio avvenuto a Garlasco, in provincia di Pavia, il mattino del 13 agosto 2007 ai danni di Chiara Poggi (Vigevano, 31 marzo 1981), impiegata ventiseienne laureata in Economia. Il caso ha avuto una grande rilevanza mediatica in Italia, con un susseguirsi di interviste e programmi televisivi dedicati a questo caso.
Il 12 dicembre 2015 la Corte di Cassazione riconobbe definitivamente come colpevole del delitto il fidanzato della vittima, Alberto Stasi, ex studente di economia e poi commercialista.


1_1706Altro caso di cronaca nera famoso in Italia è l’omicidio di Meredith Kercher, altrimenti conosciuto come il delitto di Perugia.
Meredith Kercher era una studentessa inglese in Italia nell'ambito del progetto Erasmus presso l'Università di Perugia; venne ritrovata priva di vita con la gola tagliata nella propria camera da letto, all'interno della casa che condivideva con altri studenti.
Il processo si conclude con una pena per l’ivoriano Rudy Guede, giudicato colpevole in concorso di omicidio, mentre gli altri due sospettati del delitto, Raffaele Sollecito e Amanda Knox, escono di scena, assolti in via definitiva dalla Suprema Corte di Cassazione per non aver commesso il fatto.


1_1707Il delitto di Avetrana è un omicidio commesso il 26 agosto 2010 ad Avetrana in provincia di Taranto a danno di una giovane ragazza, Sarah Scazzi]. La vicenda ha avuto un grande rilievo mediatico in Italia, culminato nell'annuncio del ritrovamento del cadavere della vittima in diretta sul programma Rai Chi l'ha visto? dove era ospite, in collegamento, la madre di Sarah.

Il 21 febbraio 2017 la Corte suprema di cassazione ha definitivamente riconosciuto colpevoli e condannato all'ergastolo per concorso in omicidio volontario aggravato dalla premeditazione[3] Sabrina Misseri e Cosima Serrano (figlia e madre), rispettivamente cugina e zia della vittima, confermando la condanna già inflitta in primo grado e in appello dalla Corte d'assise di Taranto; Michele Misseri, padre di Sabrina e marito di Cosima, è stato condannato alla pena di 8 anni di reclusione per soppressione di cadavere e inquinamento delle prove (il furto del cellulare di Sarah); è stato condannato in via definitiva a 4 anni e 11 mesi di reclusione per concorso in occultamento di cadavere con Michele Misseri anche suo fratello Carmine Misseri. Confermata, infine, dalla Cassazione la condanna a un anno e quattro mesi per favoreggiamento personale per Vito Russo Jr., ex legale di Sabrina, e Giuseppe Nigro.


1_1708L'omicidio di Yara Gambirasio è un caso di cronaca nera che ha visto vittima Yara Gambirasio (21 maggio 1997 – 26 novembre 2010), all'epoca dei fatti di 13 anni, scomparsa nella serata del 26 novembre 2010.
Il caso ha assunto una grande rilevanza mediatica, oltre che per la giovane età della vittima, anche per l'efferatezza del crimine e per diversi avvenimenti peculiari verificatisi nel corso delle indagini, come l'arresto e il successivo proscioglimento di un primo sospettato, le circostanze del ritrovamento del corpo e le complesse modalità per l'individuazione dell'omicida. Il relativo procedimento giudiziario si è concluso il 12 ottobre 2018 con la definitiva condanna all'ergastolo pronunciata nei confronti di Massimo Giuseppe Bossetti, riconosciuto come unico colpevole .


1_1709Il delitto di Santa Croce Camerina è un caso di infanticidio commesso il 29 novembre 2014 nel comune di Santa Croce Camerina, in provincia di Ragusa, che ha visto coinvolto Lorys Andrea Stival, un bambino di 8 anni nato il 18 giugno 2006.
L'unica imputata del reato di omicidio e occultamento di cadavere fu la madre del bambino, Veronica Panarello che si è dichiarata innocente, usando i mass media per difendersi. Il caso è stato equiparato a quello di Cogne, avvenuto nel 2002. Veronica Panarello è stata ritenuta colpevole dell'omicidio e condannata a trenta anni di carcere.


 
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Omicidio di Pamela Mastropietro





L'omicidio di Pamela Mastropietro è un fatto di cronaca nera avvenuto il 30 gennaio 2018 a Macerata.
Pamela Mastropietro nacque a Roma, nel quartiere San Giovanni,il 23 agosto 1999. La giovane soffriva di un disturbo di personalità borderline ed era dipendente da droghe. Il 18 ottobre 2017, all'età di 18 anni, Pamela si trasferì nella comunità di recupero per tossicodipendenza di Corridonia, in provincia di Macerata.
Sua madre dichiarò che la ragazza aveva iniziato ad abusare di droghe dopo aver frequentato un uomo rumeno e che, al momento della morte, stava frequentando una comunità di recupero.
Seguita da uno psichiatra nella comunità, Pamela dichiarò di abusare di alcol dall'età di 12 anni e di altre droghe dai 14 anni.Il 29 gennaio 2018 [4]Pamela fuggì volontariamente dalla comunità ed un uomo la accompagnò in auto alla stazione di Corridonia-Mogliano in cambio di un rapporto sessuale. Lì la ragazza avrebbe voluto prendere un treno per ritornare nel suo luogo di origine, ma lo perse ed accettò l'offerta di un passaggio da parte di un tassista locale. Pamela consumò un rapporto sessuale con il tassista e dormì nella sua casa. Il giorno dopo cercò di procurarsi della droga presso i giardini Diaz di Macerata, frequentati da numerosi tossicodipendenti, dove incontrò Innocent Oseghale, un pusher nigeriano
Tra il 30 e il 31 gennaio 2018 un passante notò la presenza di due valigie abbandonate in un piccolo fossato non lontano dal cancello di una villetta in Via dell'Industria, tra Casette Verdini e Pollenza, a pochi chilometri da Macerata. All'interno fu trovato il corpo della ragazza mutilato. L'esatta causa della morte alla data del febbraio 2018 non era chiara,ma il proseguire delle indagini portò la polizia al ritrovo dei vestiti macchiati di sangue di Pamela nella casa di Innocent Oseghale, un nigeriano in Italia dal 2014 il quale, cacciato da un programma di assistenza ai rifugiati, si dedicava allo spaccio di droga
Insieme a Oseghale, la polizia arrestò Desmond Lucky e Lucky Awelima. L'omicidio causò indignazione pubblica, rabbia e sentimenti razzisti e xenofobi a Macerata e venne considerato la principale motivazione dell'attentato commesso cinque giorni dopo nella stessa città da Luca Traini, il quale esplose diversi colpi di pistola contro persone immigrate dalla sua auto in movimento. Inizialmente si diffuse la notizia, poi smentita, che Traini conoscesse Pamela ed avesse effettuato la sparatoria per vendetta. Traini dichiarò che la sue intenzione iniziale era quella di recarsi al tribunale ed uccidere Oseghale, per poi cambiare il suo piano e rivolgerlo contro le persone di colore in generale.
Per la testimonianza di Oseghale, Pamela sarebbe morta di overdose dopo aver assunto una dose di eroina nella sua casa, mentre secondo quella dell'accusa, dopo averle venduto la dose, lo spacciatore l'avrebbe trattenuta a casa sua con la forza, stuprata, accoltellata e smembrata. Secondo l'autopsia, il processo di smembramento del corpo sarebbe iniziato mentre Pamela era ancora in vita, con un lavaggio effettuato in candeggina per eliminare i residui organici. Il DNA di Oseghale sarebbe quindi rimasto nonostante il lavaggio con il prodotto chimico sulle mani e sotto le unghie di Pamela.
Le accuse contestate furono omicidio e violenza sessuale contro una vittima in condizioni di inferiorità, occultamento e distruzione del cadavere. Il processo si tenne con la presenza di Vincenzo Marino, ex boss della 'Ndrangheta, compagno di cella di Oseghale. Marino riferì ciò che gli avrebbe confessato in cella, ovvero di aver accoltellato Pamela e di aver cominciato a tagliarne il corpo, partendo da una gamba, mentre la ragazza era ancora in vita.
Il processo si concluse con la condanna dell'imputato all'ergastolo e a diciotto mesi di isolamento. La condanna è stata confermata dalla corte d'assise d'appello del tribunale di Ancona il 16 ottobre 2020. Oseghale continua a dichiararsi innocente riguardo alla morte della ragazza, come in una sua precedente confessione in cui dichiarava di essere stato lui a smembrarne il corpo ma non ad ucciderla, dicendo nuovamente che la ragazza sia morta per un'overdose di eroina.
Il 7 giugno 2018 il magistrato di Macerata Giovanni Maria Manzoni revocò agli altri due nigeriani arrestati per concorrenza con Innocent Oseghale la custodia in carcere per omicidio, diffamazione, distruzione e occultamento di cadavere; i due rimasero poi in prigione per spaccio di eroina.
 
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Il Caso Carretta

Ferdinando_Carretta



Il caso Carretta è un episodio italiano di parricidio avvenuto il 4 agosto 1989 a Parma. Ferdinando Carretta, all'epoca del fatto ventisettenne, uccise nella casa di famiglia i propri genitori e il fratello minore e successivamente riparò nel Regno Unito. L'esecutore confessò in pubblico il suo reato durante un'intervista televisiva nel novembre 1998.
Dal 1989, infatti, non si era piu' parlato della famiglia Carretta improvvisamente scomparsa da Parma.
. A riportarlo di attualità era stato qualche tempo fa il programma di RaiTre "Chi l'ha visto?", con una clamorosa intervista all'unico superstite di quella famiglia, il figlio maggiore Ferdinando, scomparso dall'estate dell'89 e ritrovato a Londra. Rientrato in Italia per partecipare alla trasmissione televisiva, il giovane era stato accolto a Fiumicino da un ordine di cattura. Dopo un interrogatorio durato tutta la notte a Parma, Ferdinando Carretta aveva confessato il triplice omicidio, indicando i luoghi nei quali avrebbe nascosto i cadaveri che, pero', non sono stati mai ritrovati.

Il giallo del camper della famiglia Carretta inizia nella notte fra il 4 e il 5 agosto '89 quando Giuseppe Carretta, cassiere in una fabbrica vetraria, la moglie Marta Chezzi, casalinga, e il secondogenito Nicola, con problemi di tossicodipendenza, partono ufficialmente per le ferie. Ferdinando, un ragazzo definito schivo dai vicini, non va con i familiari: rimane a Parma e si presenta in banca per cambiare due assegni, uno del padre e uno del fratello. Le firme di entrambi risultano false, ma riesce ugualmente a farsi consegnare una somma di 4 milioni. Poi, l'8 agosto, fa perdere le proprie tracce. Pochi mesi prima, in febbraio, aveva acquistato una pistola calibro 6.35 a Reggio Emilia.

Dopo il massacro della famiglia, Ferdinando Carretta avrebbe trascorso la sua vita da barbone a Londra. La sua identificazione, avvenuta per un controllo stradale da parte della polizia londinese, e la sua confessione avvengono solo pochi mesi prima della dichiarazione di morte presunta, che sarebbe scattata nell'agosto del '99, dieci anni dalla loro scomparsa. In quella data il patrimonio dei Carretta, valutato in un miliardo (due appartamenti, la liquidazione del padre Giuseppe, titoli per 300 milioni) sarebbe andata al figlio superstite.

Riconosciuto incapace di intendere e di volere al momento del delitto, Carretta fu condannato alla detenzione in un carcere psichiatrico giudiziario; in semilibertà dal 2004, è tornato in libertà completa nel 2015.
 
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L'assassinio di Suor Maria Laura Mainetti,
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Suor Laura (Colico, 20 agosto 1939 – Chiavenna, 6 giugno 2000), La sera del 6 giugno 2000, verso le 22, uscì dal convento per aiutare una ragazza che le aveva telefonato dicendole di essere rimasta incinta dopo aver subito uno stupro. Tuttavia era solo una scusa inventata dalla ragazza, Ambra Gianasso, diciassettenne, per poter incontrare la religiosa in un luogo isolato, il parco delle Marmitte dei Giganti, raramente frequentato la sera, e poterla così offrire, insieme alle amiche Veronica Pietrobelli e Milena De Giambattista (rispettivamente 16 e 17 anni), come sacrificio a Satana. Secondo quanto confessarono le ragazze, la vittima inizialmente designata sarebbe stato l'allora parroco del paese (monsignor Ambrogio Balatti), successivamente scartato per la sua corporatura robusta che avrebbe reso difficile l'omicidio; per cui la scelta venne spostata sulla Mainetti, dal fisico esile e giudicata quindi più facilmente assassinabile.

Le tre ragazze accompagnarono la religiosa lungo un viottolo poco illuminato, la colpirono inizialmente con una mattonella e finirono per ucciderla con 19 coltellate, una in più rispetto al previsto, in quanto sarebbero dovute essere sei a testa per ognuna delle tre ragazze, per un totale di diciotto. Le giovani confessarono, durante gli interrogatori nel corso delle indagini, che, mentre veniva colpita ormai inginocchiata al suolo, suor Maria Laura chiese a Dio di perdonare le ragazze. Le indagini sull'omicidio esclusero la partecipazione diretta o indiretta di una persona adulta, che avrebbe potuto suggestionare le ragazze, mentre vennero rinvenuti quaderni delle ragazze con scritte sataniche e risultò che, nei mesi precedenti, queste avevano compiuto un giuramento di sangue che le avrebbe legate fra loro indissolubilmente.
Il 25 ottobre 2005 l'allora vescovo della diocesi di Como Alessandro Maggiolini aprì il Processo Diocesano per la beatificazione di suor Maria Laura, conclusosi il 30 maggio 2006. Successivamente, nel 2008 la Santa Sede ha approvato la richiesta per l'inizio del processo di beatificazione.

Il 19 giugno 2020 papa Francesco ha autorizzato la Congregazione delle cause dei santi alla promulgazione del decreto che ne riconosce il martirio, in quanto compiuto "In odium fidei". La cerimonia di beatificazione ha avuto luogo a Chiavenna il 6 giugno 2021.
Le ragazze, tutte minorenni all’epoca, una di 16 anni, due diciassettenni hanno conosciuto il carcere ma ora sono libere.
Da quel giorno di 21 anni fa le loro esistenze sono profondamente cambiate, a cominciare dall’identità. Hanno studiato, si sono sposate e sono diventate madri, la loro vita continua lontana da Chiavenna, in altre città e regioni. In particolare Veronica Pietrobelli, colei che chiamò suor Mainetti convincendola a scendere in strada per incontrarla, fu condannata a otto anni scontando metà delle pena, così da uscire nel 2004.

Sorte simile per Milena De Giambattista, libera anche lei dopo quattro anni, che intraprese un itinerario di recupero frequentando anche la comunità di don Antonio Mazzi. Ambra Gianasso, infine, considerata la mente dell’agguato, fu condannata a 12 anni e quattro mesi. Riconosciuta parzialmente incapace di intendere e volere, dopo alcuni anni è passata al regime di semilibertà per poi lasciare definitivamente la reclusione. Nel frattempo si era iscritta all’università, facoltà di giurisprudenza.
 
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L'omicidio dell'americana Ashley Olsen a Firenze

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Quello di Firenze nel gennaio 2016 fu un omicidio che fece alquanto scalpore.
Ashley Olsen, 35enne americana, originaria della Florida, viene trovata strangolata nel suo appartamento del centro storico di Firenze sabato 9 gennaio.
L’americana venne trovata cadavere dal fidanzato, Federico Fiorentini, nel suo appartamentino di via Santa Monaca, in Santo Spirito.
Il "giallo" dura poche ore, fino al fermo del 28enne senegalese Cheik Diaw, arrivato in Italia da pochi mesi e diventato presto un habitue' della movida cittadina.

L’indagine della squadra mobile ha ricostruito che Ashley e Diaw si conobbero al «Montecarla» e da lì decisero di avviarsi, a piedi, a casa di lei per concludere assieme la serata. Contro Cheik, prove granitiche: il dna su un profilattico e cicche di sigarette rinvenute nel monolocale e pure la sua scheda sim immessa nel telefono della vittima, portato via dall’appartamento.
La Cassazione ha respinto il ricorso della difesa, confermando nei suoi confronti la condanna inflitta in appello a 30 anni di reclusione per l'omicidio.



l'assassinio di Gloria Rosboch
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Era la fine di gennaio 2016 quando la Procura di Ivrea decideva di aprire un’inchiesta per omicidio, a carico di ignoti, a seguito della scomparsa di Gloria Rosboch, professoressa quasi 50enne residente a Castellamonte, piccolo comune del Canavese, a cinquanta chilometri da Torino. La donna, che viveva assieme ai genitori anziani, era stata vista per l’ultima volta il 13 gennaio e, da quel giorno, aveva fatto perdere qualsiasi traccia di sé. Allertate dalla famiglia, le forze dell’ordine, affiancate dalle unità cinofile, avevano iniziato a battere in lungo e in largo tutto il territorio, compresi i corsi d’acqua. Operazioni finite, ben presto, con un nulla di fatto. Mentre tutto sembrava tacere, tra gli archivi degli inquirenti faceva la sua comparsa un documento importante: nel settembre 2015, infatti, la docente aveva presentato una denuncia per truffa nei confronti di un suo ex allievo, Gabriele Defilippi. Il giovane, promettendole un futuro insieme in Costa Azzurra, si era fatto consegnare tutti i risparmi di una vita, per un ammontare di 187mila euro.
Il 16 febbraio 2016 Defilippi veniva convocato al comando provinciale dei carabinieri di Torino. Ad accompagnarlo anche la madre, Caterina Abbattista, infermiera presso l’ospedale di Ivrea. Dopo qualche giorno, la più tragica delle scoperte. Il cadavere di Rosboch veniva rinvenuto in un pozzo, in mezzo a una discarica abbandonata, a pochi chilometri dalla sua abitazione. Dagli interrogatori di Defilippi, fermato subito dopo il ritrovamento, iniziarono ad emergere particolari e dettagli sempre più precisi, fino ad arrivare a un nome, quello di un complice potenzialmente coinvolto nel delitto. Si trattava del 53enne Roberto Obert, un amico di famiglia che, ai carabinieri, confessò di essere l’amante del ragazzo, di essere al corrente della truffa e, soprattutto, di come quella denuncia fosse stata la miccia che aveva scatenato la furia omicida del giovane.
Con l’autopsia, i medici legali confermarono la morte per strangolamento. Ad uccidere Rosboch era stato un foulard o, comunque, un tessuto morbido che non aveva lasciato segni visibili sul collo. Intanto, i carabinieri fermarono anche la madre di Defilippi, sospettata di essere coinvolta nell’assassinio. Nella notte tra il 19 e il 20 febbraio, incalzato dagli inquirenti, Defilippi confessò di aver preso parte all’omicidio dell’insegnante ma, nel suo racconto, additava come esecutore materiale Obert. Che, invece, aveva raccontato esattamente l’opposto, scaricando su di lui tutta la responsabilità materiale. Il misfatto era stato pianificato nei minimi dettagli. Secondo una prima ricostruzione, il 13 gennaio Rosboch era salita volontariamente in auto con Obert e Defilippi. I due, probabilmente, avevano tentato di convincerla a ritirare la denuncia e, davanti al rifiuto della donna, l’avevano uccisa, scaricandone il corpo nelle vicinanze della discarica. A inchiodare i killer un particolare: qualche giorno prima, si erano recati proprio in quel luogo, segno che avevano ponderato ogni singola mossa. Possedevano, addirittura, telefoni cellulari con sim apposite, utilizzati per discutere del delitto. I due continuarono per lungo tempo a puntarsi il dito a vicenda, accusati entrambi di omicidio premeditato e occultamento di cadavere. Più complicata sembrava, invece, la posizione di Caterina Abbattista, accusata di concorso in omicidio perché le celle telefoniche l’avevano localizzata in un posto diverso da quello in cui aveva detto di trovarsi al momento del fatto. Fu solo dopo l’ultimo esame autoptico che Defilippi decise di vuotare il sacco, descrivendo con inquietante freddezza tutti i passaggi che avevano portato alla morte della 49enne. Spogliata di tuti i suoi indumenti, Rosboch sarebbe stata gettata viva nella cisterna. Una versione che, tuttavia, non coincideva coi risultati medici, che parlavano di soffocamento e, successivamente, di abbandono del corpo nel pozzo.
A inizio dicembre, la Procura di Ivrea chiuse le indagini e, un mese dopo, il procuratore Ferrando firmò le richieste di rinvio a giudizio per Gabriele Defilippi, Roberto Obert.
Obert e Defilippi, furono condannati rispettivamente a 18 e 30 anni di reclusione, come deciso in appello.
 
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La storia terribile del piccolo Di Matteo, sciolto nell’acido



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Giuseppe Di Matteo, nato a Palermo il 19 gennaio 1981, fu rapito il pomeriggio del 23 novembre 1993, all’età di 12 anni, in un maneggio di Piana degli Albanesi, da un gruppo di mafiosi che agivano su ordine di Giovanni Brusca, allora latitante e boss di San Giuseppe Jato. Il rapimento venne architettato il 14 novembre del 1993, quando Matteo Messina Denaro, Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano e Giovanni Brusca si incontrarono in una fabbrica di calce a Misilmeri. Bagarella, Graviano e Messina Denaro rimproverano Giovanni Brusca di non aver preso provvedimenti riguardo all'inusitata quantità di uomini appartenenti al commando della strage di Capaci che stava collaborando con la giustizia: parlando dei pentiti, dopo aver scartato qualche nome poiché utile a Giovanni Brusca, Giuseppe Graviano propone di uccidere il piccolo Di Matteo. Giovanni Brusca propone di sequestrarlo al posto di ucciderlo subito. Graviano, Bagarella e Messina Denaro danno il loro assenso, così Graviano si offre di organizzare il rapimento. Secondo le deposizioni di Gaspare Spatuzza, uomo di fiducia di Graviano che prese parte al rapimento, i sequestratori si travestirono da poliziotti della DIA ingannando facilmente il ragazzo, che credeva di poter rivedere il padre, in quel periodo sotto protezione lontano dalla Sicilia. Spatuzza raccontò anche che: "Agli occhi del ragazzo siamo apparsi degli angeli, ma in realtà eravamo dei lupi. (...) Lui era felice, diceva 'Papà mio, amore mio' " Il ragazzo fu legato e lasciato nel cassone di un furgoncino Fiat Fiorino, chiuso in un magazzino a Lascari, prima di essere consegnato ai suoi carcerieri.
Il ragazzino fu strangolato e sciolto nell’acido dopo 25 mesi dal giorno del sequestro.
Ci furono vari processi per la morte di Giuseppe Di Matteo, che hanno portato a numerose condanne.

Nel 1997 si aprì il primo processo nei confronti di 32 persone accusate a vario titolo di aver partecipato al sequestro, alla prigionia e all'uccisione del piccolo Di Matteo; pubblico ministero fu il magistrato Alfonso Sabella, che si era occupato in prima persona delle indagini, e si costituirono parti civili il padre Santino Di Matteo insieme alla madre Francesca Castellese e all'altro figlio, prima volta nella storia processuale che un collaboratore di giustizia si costituiva parte civile in un dibattimento.
Durante un'udienza del processo della strage di Capaci, Giovanni Brusca, sentito come collaboratore di giustizia, chiese pubblicamente "perdono" ai familiari del piccolo Giuseppe ma nel 1998, nel corso di un confronto nell'udienza del processo "Borsellino bis", Santino Di Matteo scagliò un microfono contro Brusca minacciando di ucciderlo: "Animale non sei degno di stare in quest'aula. Ti dovrei staccare la testa!". Nel 1999 la Corte d'Assise di Palermo condannò Giovanni Brusca a trent'anni di carcere, il fratello Enzo a ventotto anni mentre Vincenzo Chiodo ebbe ventisette anni e a Giuseppe Monticciolo e a Salvatore Grigoli (uno dei partecipanti reo confessi del rapimento nel 1993) vennero inflitti 20 anni di carcere: per tutti vennero riconosciute le attenuanti e lo sconto di pena per la collaborazione con la giustizia mentre per gli altri imputati vennero comminati trenta ergastoli, per questo delitto e per altri commessi nel palermitano.
 
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L’assassinio di Melania Rea



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È il 18 aprile 2011 quando la mamma 29enne Carmela Rea, nota Melania, scompare misteriosamente in provincia di Ascoli. Sarà il marito, il militare Salvatore Parisi, ad avvisare le autorità, raccontando come la moglie non abbia più fatto ritorno dopo essere andata in bagno in uno chalet.
Nessuno però, si apprenderà in seguito, l’ha mai vista entrare.
Fu lo stesso marito di Melania, trascorsi una ventina di minuti, a dare l’allarme: Parolisi, non vedendo rientrare la moglie, chiamò i soccorsi e fece scattare le ricerche. Il corpo fu poi ritrovato due giorni dopo dopo una segnalazione anonima ai Carabinieri
Due giorni dopo il corpo di Melania viene ritrovato in un bosco di Ripe di Civitella, nel teramano, completamente martoriato .
L’autopsia, eseguita dal medico Adriano Tagliabracci, appurerà che Melania è stata uccisa con 35 coltellate, ma non vengono trovati segni di strangolamento e nemmeno di violenza sessuale.
Accanto al corpo di Melania venne trovato il suo cellulare con la batteria scarica. Poi venne ritrovata anche un’altra sim card. Il segnale del cellulare sarebbe stato attivo fino alle 19 circa. Poi, non si hanno più segnali. Parolisi non venne da subito iscritto nel registro degli indagati. L’avviso di garanzia gli venne notificato il 29 giugno 2011, a più di due mesi dall’omicidio della moglie Melania.
I sospetti si concentrarono da subito su Salvatore Parolisi, dal momento che, in sede di indagini, venne fuori anche una relazione che l’uomo stava intrattenendo da tempo con un collega, Ludovica, alla quale aveva promesso che avrebbe lasciato la moglie per iniziare insieme una nuova vita.
Un movente del delitto sarebbe quindi il conflitto con la moglie che non intendeva lasciare, ma dalla quale desiderava essere libero.
Melania era percepita come ostacolo anche alla sua carriera da quando aveva minacciato l’amante Ludovica di “rovinarli” con le sue conoscenze nel mondo militare.
In primo grado Salvatore Parolisi è stato condannato all’ergastolo con il rito abbreviato.



La Corte d’assise in Appello all’Aquila il 30 settembre 2013 ridusse la pena trent’anni e, successivamente al ricorso in Cassazione dov’è stata rivista la condanna eliminando l’aggravante della crudeltà, a venti dai giudici della Corte d’appello di Perugia a cui la Suprema Corte aveva rinviato gli atti.

Secondo i supremi giudici, l’uccisione di Melania è avvenuta “in termini di ‘occasionalità’ (dolo d’impeto, non essendo stata mai ipotizzata la premeditazione) dovuta ad una esplosione di ira ricollegabile ad un litigio tra i due coniugi, le cui ragioni fondanti si apprezzano nella conclamata infedeltà coniugale del Parolisi”.

La relazione extraconiugale che Salvatore Parolisi viveva non va considerata “movente in senso tipico” dell’omicidio della moglie Melania Rea, ma piuttosto un “antecedente logico e storico di un profondo disagio personale che nel determinare una ‘strettoia emotiva’ ben può aver determinato quelle particolari condizioni di aggressività slatentizzatesi nel momento del delitto”.
 
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IL MOSTRO DI PADOVA



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Per il suo aspetto sempre impeccabile ed elegante era chiamato "il professore", ma dietro quella maschera si celava un criminale.
Si chiamava Michele Profeta che, da Palermo dove era nato il 3 ottobre 1947 si era traferito in Veneto e che qui lavorava per una società finanziaria. Coniugato con Concetta Mordino, con la quale aveva avuto due figli, viveva ad Adria due giorni a settimana. I restanti cinque li trascorreva a Mestre, in compagnia di un’altra donna, Antonia Gemmati.
In seguito alla contrazione di diversi debiti dovuti forse alla passione per il gioco d'azzardo, in preda ad un probabile delirio di onnipotenza, il 10 gennaio 2001 scrisse alla Questura di Milano che avrebbe commesso omicidi a caso qualora gli fossero stati negati i 12 miliardi di lire che richiedeva.
E cosi' comincio' ad essere un omicida.
Il 29 gennaio 2001 venne ritrovato a Padova un taxi fermo con a bordo il cadavere del proprietario, Pierpaolo Lissandron, ucciso da un colpo alla nuca con una pistola Iver Johnson calibro .. Subito si pensò ad una rapina finita male, ma l'ipotesi venne smentita il 1º febbraio, quando alla questura di Milano arrivò una lettera in cui il serial killer rivendicava l'omicidio del tassista.

L'11 febbraio, all'interno di un appartamento, fu scoperto il cadavere dell'agente immobiliare Walter Boscolo, anche questo freddato con un proiettile alla nuca. Sul posto vennero trovate due carte da gioco e una lettera scritta col normografo dal serial killer, nella quale si chiedeva di contattare il questore di Milano. Le indagini stabiliranno che quella mattina Boscolo aveva un appuntamento con un tale "signor Pertini".
Il 18 gennaio, con lo stesso falso nome, aveva avuto un appuntamento con un altro agente immobiliare, il quale riconobbe il volto del "signor Pertini" nella foto segnaletica di Michele Profeta. Si arrivò al suo nome perché aveva utilizzato la stessa scheda telefonica per telefonare all'agenzia immobiliare di Boscolo e ai conoscenti, tra cui la convivente. La sera del 16 febbraio 2001 venne arrestato a Padova mentre rincasava con la sua Škoda Felicia dopo un colloquio di lavoro: nella perquisizione in automobile vennero trovati una carta da gioco (un re di fiori), il normografo con cui aveva composto le precedenti lettere rinvenute dagli inquirenti e una pistola.
Nel 2002 la Corte di Assise di Padova lo condannò all'ergastolo per gli omicidi di Pierpaolo Lissandron e Walter Boscolo, avvenuti a distanza di 12 giorni, rispettivamente il 29 gennaio ed il 10 febbraio del 2001. Scontò la pena inizialmente nel carcere di Padova ma dopo il tentativo di evasione messo in atto nel luglio 2001, venne trasferito nel penitenziario di Voghera, in provincia di Pavia.
Cardiopatico, il 16 luglio 2004 morì a Milano, stroncato da un infarto nella sala degli avvocati del carcere di San Vittore, mentre sosteneva il suo primo esame universitario in Storia della filosofia per l'Università degli Studi di Milano.
 
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L’omicidio del piccolo Tommaso Onofri



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Erano le 21.00 del 2 marzo 2006, quando in casa Onofri, a Casalbaroncolo, a pochi minuti da Parma, la quotidianità venne interrotta da alcuni sconosciuti che dopo aver immobilizzato con del nastro adesivo la famiglia – il padre Paolo, la mamma Paola e Sebastiano, il più ‘grande’ di casa spettatore di una tragedia quasi impossibile da superare – rapiscono il piccolo Tommaso Onofri e fuggono via con il bambino di 17 mesi e 150 euro che i genitori hanno racimolato in un disperato tentativo di allontanare l’attenzione dei criminali dalla loro famiglia.
L’allarme è scattato dieci minuti dopo l’irruzione, quando la mamma del piccolo che era stato portato via con la forza è riuscita a liberarsi e trovare la forza per chiedere aiuto.
Senza perdere tempo sono scattate le ricerche, ogni minuto poteva essere prezioso, ma Tommy era sparita nel nulla. Un silenzio interrotto solo dagli appelli disperati a liberare il bambino.
I giorni passano, niente viene lasciato al caso. Anche la strada indicata da una sensitiva milanese che aveva affermato che il corpo del piccolo era stato gettato nelle acque del fiume Magra, non lontano da Pontremoli, venne battuta, ma i sommozzatori dei Vigili del Fuoco di Livorno non trovarono nulla. La donna sarà indagata per falso, mentre le polemiche non si placavano.
La svolta arrivò quando venne isolata un’impronta digitale sul nastro adesivo usato per immobilizzare i familiari. Sullo scotch utilizzato per chiudere la bocca di Paolo Onofri, il papà di Tommaso, la sera del sequestro, c’era la prova regina. In caserma finisce Mario Alessi, un muratore che aveva effettuato alcuni lavori di ristrutturazione in casa Onofri.

Dopo aver recitato per un mese la parte dell’uomo ingiustamente sospettato, Alessi confessa l’omicidio del piccolo di appena 17 mesi il 1º aprile, facendo i nomi dei suoi complici: Antonella Conserva, sua compagna, e Salvatore Raimondi, pregiudicato a cui appartiene l’impronta. La sera del 2 aprile, l’uomo conduce gli investigatori a San Prospero Parmense, sulle rive del torrente Enza, sul luogo dove aveva nascosto il corpo del bambino. Era in un casolare abbandonato, sotto terra, vicino a un covone di paglia. Sepolto in mezzo al nulla.
Alessi – pregiudicato finito agli arresti domiciliari per aver violentato una ragazza davanti al fidanzato – ha raccontato di aver rapito il bimbo per ottenere un riscatto di 5 milioni di euro, che gli sarebbe servito a pagare dei debiti, ma di averlo ucciso venti minuti dopo il sequestro perché dava fastidio. Tommaso muore suon di pugni e botte. «L’ho ucciso io, non lo sopportavo perché piangeva» avrebbe detto. Non era questo il piano. I rapitori si erano procurati scorte per due mesi di Tegretol, il farmaco necessario a Tommaso per tenere sotto controllo l’epilessia di cui soffriva.

Affetto da seri problemi al cuore, dopo sei anni di ricovero in clinica in seguito a un arresto cardiaco Paolo Onofri – finito sotto i riflettori – muore il 15 gennaio 2014.
Il processo ha inizio a marzo 2007. L'avvocato di Mario Alessi afferma la completa estraneità dei fatti da parte del muratore e che il tutto è stato opera di Salvatore Raimondi. I giudici rinviano a giudizio gli imputati. Alla fine del processo gli imputati vengono condannati: ergastolo a Mario Alessi, ventiquattro anni per Antonella Conserva e venti per Salvatore Raimond
 
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Roma San Lorenzo: il delitto del cianuro



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Stiamo parlando del 20 febbraio del 2000 , quando Francesca Moretti (nella foto), viene ricoverata con lancinanti dolori al ventre.
Poco dopo morirà in ospedale.
Comincia cosi' un fatto di cronaca che per mesi farà parlare tutti i media nazionali.
Francesca conduceva una vita semplice, fatta di amicizie , studio (sociologia), impegno sociale.
Originaria di Pesaro, si trasferisce nella Capitale e convive in un appartamento, in zona Tor San Lorenzo, con altre due ragazze: Mirela Nistor, una giovane cameriera di origini rumene e Daniela Stuto, studentessa in psicologia.
Francesca Moretti è molto attiva nel sociale: trova lavoro presso il campo nomadi “ Casilino ‘900”. In questo ambiente conosce un ragazzo. Si chiama Graziano Halilovic ed è il figlio VajrO Halilovic, capo della comunità dei Rom. I due si innamorano, ma la loro relazione non sarà affatto semplice da portare avanti. Graziano è sposato ed ha cinque figli. La moglie di Graziano scopre tutto e minaccia di morte la giovane. Graziano rassicura Francesca dicendole che sin quando nel campo comandava suo padre lei non avrebbe potuto temere nulla.
Per i due innamorati incontrarsi diventa sempre più difficile tanto che la coppia decide di andarsene da Roma. Ma ogni volta che Francesca sollecita la partenza, Graziano ritarda con mille scuse. La sociologa intuendo forse che il fidanzato non se la sentisse di lasciare moglie e figli decideva di ritornarsene nella sua Pesaro da sola ma, nel frattempo, il 21 febbraio del 2000 moriva Vajro Halilovic, il capo del campo rom.
Ma il giorno dopo il 22 febbraio, nella casa che Francesca divide con le sue coinquiline, la ragazza si sente male.
accusa forti dolori alla schiena. Dolori da lombo-sciatalgia che costringono Francesca ad usare analgesici e antinfiammatori. La giovane è come intontita e per pranzo mangerà una minestrina vegetale condita con un formaggino preparata da Daniela Stuto. Subito dopo pranzo Francesca urla dal dolore ma non per il mal di schiena, Stavolta è lo stomaco a farla gridare per le forti contrazioni agli intestini. La giovane diventa paonazza e il suo corpo si riempie di macchie rosse. Sono le 16 del pomeriggio è in casa c’è soltanto Mirela Nistor appena rientrata mentre Daniela Stuto è uscita per fare la spesa. Alle 17 Francesca pare non dare più segni di vita tanto che la cameriera rumena chiama al telefono il suo fidanzato poliziotto che darà l’allarme al 113. Alle 17.20 arriveranno i soccorritori ma Francesca Moretti morirà all’ospedale San Giovanni due ore dopo una breve ma terribile agonia.
La Procura capitolina apre un’inchiesta e i risultati dell’autopsia saranno molto chiari: morte per avvelenamento da cianuro. Le indagini faranno luce su diversi particolari: pochi giorni prima di morire Francesca aveva confidato alle amiche di aver visto un’ombra muoversi nell’appartamento. Nello stesso periodo qualcuno ruberà la borsa di Mirela Nistor che conteneva le chiavi di casa mentre pare che la madre della vittima distruggerà il suo diario per difendere la privacy della figlia. La stessa sorella della vittima dichiarerà agli inquirenti di aver notato sotto il letto di Francesca una fiala che subito dopo la morte della sociologa sarebbe scomparsa.
A finire sotto inchiesta sarà Daniela Stuto che verrà accusata di aver ucciso Francesca per gelosia poiché innamorata, non corrisposta, della povera dottoressa di Pesaro. La studentessa verrà sbattuta in galera ma riuscirà a dimostrare la sua innocenza con tanto di risarcimento per ingiusta detenzione. Mentre nulla sarebbe stato addebitato alla cameriera rumena che scompariva di scena assieme a Graziano Halilovic, nel frattempo diventato capo dei rom. Dunque nessun colpevole? Si ancora oggi è cosi!…
 
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il 20 agosto 1997 :il delitto del Morrone



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Fu un evento che ebbe grande eco mediatica anche a causa della natura estremamente barbara del crimine, perpetrato dal pastore macedone Halivebi Hasani ai danni di Diana Olivetti, Silvia Olivetti (unica sopravvissuta) e Tamara Gobbo, tre giovani originarie del padovano.
Tre ragazze pensando di aver smarrito la strada, alla vista di quel pastore che in sella al suo cavallo governava il gregge, si erano fermate per chiedergli quale fosse il sentiero per arrivare alla vetta del Monte Morrone.
Lui, con fare gentile, indicò di seguirlo fino a condurle nel bosco di Mandra Castrata dove estrasse la pistola e sparò tre colpi su Silvia Olivetti e Tamara Gobbo. Pensando di averle uccise prese con violenza la terza ragazza, Diana Olivetti e dopo aver tentato di violentarla le sparò un colpo al cuore.
Le indagini si risolsero in poche ore proprio grazie alla testimonianza di Silvia Olivetti, sopravvissuta al massacro solamente dopo essersi finta morta .con una pallottola nel fianco, riuscì a dare l’allarme.
L'omicida non si preoccupò di scappare, né tantomeno di nascondere le prove che l'avrebbero poi inchiodato agli efferati crimini da lui commessi. Fu trovato nella serata del 20 agosto 1997 proprio nei pressi dello stazzo indipendente di Capoposto, dove viveva in profonda solitudine e precarie condizioni igienico-sanitarie. L'ultima perlustrazione dell'area fece giungere nelle mani degli inquirenti gli abiti indossati al momento del delitto e le armi possedute dall'aggressore, nella fattispecie una pistola automatica e due a tamburo. Alì stesso dichiarò che le pistole appartenevano al suo "padrone", Mario Iacobucci.
L'uomo, dopo qualche tentativo di giustificazione, confessò i due delitti e il tentato omicidio di Silvia, negando però lo stupro
Fu condannato all’ergastolo e dopo di aver scontato una decina d’anni nelle carceri italiane, tra cui quello di Padova, il pastore Alivebi Hasani è stato riportato stranamente in Macedonia per scontare il resto della pena. Una decisione che per molti è parsa come un segno di clemenza nei confronti di una persona che si è macchiata di un duplice omicidio.
 
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L'assassinio della piccola Fortuna :stuprata e poi gettata nel vuoto


Tutto comincia il 24 giugno del 2014. Dall'ottavo piano dell’isolato numero tre, al Parco Verde di Caivano, precipita una bambina di 6 anni, Fortuna Loffredo. Finisce sul selciato dopo un volo di dieci metri: uno schianto fatale. Salvatore Mucci, un abitante dello stabile, si affretta ad aiutarla trasportandola presso il vicino ospedale con la propria auto. Ma è già troppo tardi. Le prime indagini sull'accaduto ipotizzano un incidente domestico: forse Fortuna si è sporta troppo, ha perso l'equilibrio ed è finita di sotto. Forse è scivolata. Ma c'è qualcosa che non torna nella ricostruzione della presunta caduta accidentale. Sin da subito la zia e i nonni della bambina si mostrano dubbiosi. Lo è anche la mamma di Chicca, Mimma Guardato che, desiderosa di stabilire la verità sulla morte prematura e sospetta della figlioletta, reclama giustizia. La Procura di Napoli Nord delega l’indagine ai carabinieri e, per i primi tempi, l’ipotesi resta quella dell’incidente domestico. Ma l'esito dell'autopsia sulla salma della piccina fuga ogni dubbio: Fortuna Loffredo è stata vittima di abusi sessuali.

Le indagini

Le indagini fanno emergere un retroscena a dir poco agghiacciante. Un anno prima della morte di Fortuna, il 27 giugno 2013, un altro bambino, Antonio, è precipitato dal settimo piano di quello stesso palazzo. Per la terribile vicenda la madre del bimbo, Marianna Fabozzi, è finita nel mirino dalla Procura di Napoli con l'ipotesi di reato per omicidio colposo: il figlioletto si sarebbe messo a giocare vicino una serranda semi-alzata finendo per cadere nel vuoto. Una strana convergenza, molto più che una tragica fatalità, accomuna la drammatica sorte di Fortuna e Antonio. Forse bisogna scavare più a fondo. Forse bisognare guardare oltre quel muro di omertà che avvolge, come le cinta di un fortino, i palazzoni del Parco Verde. Il sospetto che in quel labirinto di cemento avvengano "cose strane" è forte. Così vengono piazzate microspie e interrogati tutti i residenti: nessuno sa nulla. Ma c'è qualcosa che proprio non quadra al capo dell'ufficio inquirente, Francesco Greco. A segnare una svolta decisiva nell'inchiesta sono i disegni di alcuni bambini: quei disegni parlano. E raccontano di barbarie inenarrabili. Tra tutti vi sono quelli dell'amichetta di Fortuna, figlia di Marianna Fabozzi - sposata con Raimondo Caputo - e sorella di Antonio. La sua testimonianza sarà decisiva per incastrare il 44enne Raimondo Caputo.
L'amichetta di Chicca ricostruisce tutto ciò che ha visto e che le è accaduto. Ad ascoltarla ci sono gli inquirenti e una psicologa.
La bambina racconta e descrive, con dovizia dei particolari, le ultime ore di vita di Fortuna Loffredo: il tentativo di violenza, la reazione della piccola e il volo dall’ottavo piano del palazzo. Per il gip le sue dichiarazioni, e gli elementi che vengono riferiti, sono da ritenersi "assolutamente illuminanti ed inoppugnabili". Il 7 luglio del 2017, Raimondo Caputo viene condannato all’ergastolo dalla quinta sezione della Corte d’Assise per l’omicidio di Fortuna Loffredo. Caputo era accusato anche di aver abusato sessualmente della stessa Chicca e di due delle tre figlie minori della ex compagna, Mariana Fabozzi.
Quest’ultima, imputata per non aver impedito gli abusi, riceve una condanna a 10 anni di reclusione.

fonte il Giornale .it
 
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ELENA CESTE:una morte atroce ed un marito colpevole



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Elena Ceste, 37 anni e quattro figli in data 24 gennaio 2014 scompare da Costigliole d’Asti, comune di poco più di 6.000 anime in provincia di Asti, sud del Piemonte.
Comincia cosi' una storia che sarà al centro della cronaca italiana per mesi.
Un mistero fitto che non si riesce a diradare malgrado i tentativi delle forze dell’ordine che da indagavano cercando tracce attendibili: della donna non vi è alcuna notizia
Subito dopo la scomparsa viene interrogato il marito Michele Buoninconti il quale sostiene di esser uscito di prima mattina per portare i figli a scuola e di non aver più trovato la moglie al suo rientro. L’ultima persona ad aver visto la donna è una vicina di casa la quale afferma che: “ero in macchina e l’ho vista in cortile. Aveva una maglia e un paio di pantaloni chiari”. Tutto questo sarebbe avvenuto intorno alle 8.15 di mattina.
Tornando alla ricostruzione del marito questi afferma che, non avendo trovato la moglie in casa, si rivolge subito ai vicini per chiedere informazioni e quindi inizia a girare con la propria auto nei dintorni dell ‘abitazione alla ricerca di Elena. Ricerca senza esito, naturalmente.
Tra le piste seguite dagli inquirenti, una porta al noto social network Facebook: lo stesso marito parlerà di ricatti che la donna aveva subito in quel contesto e che avrebbero potuto spingerla ad allontanarsi da casa.
Si vocifera di una relazione parallela nata proprio su Facebook, una frequentazione che sarebbe sfociata in un tradimento: a raccontarlo è proprio il marito di Elena il quale aggiunge che a seguito di quella relazione ‘segreta’, qualcuno aveva iniziato a ricattarlo minacciandola di mettere in piazza tutto andando così ad infamarla.
La stessa Elena prima di scomparire confiderà al marito dell’esistenza di un uomo nella sua vita e della comparsa improvvisa di una terza persona che avrebbe registrato l’incontro con l’amante. Tutta questa storia avrebbe gettato la donna in uno stato di depressione che potrebbe essere alla base della scomparsa; gli inquirenti non escludono ancora la pista del suicidio.
Intanto Michele Buoninconti, vigile del fuoco, continua ad essere al centro dell'attenzione mediatica:a suo dire, la donna doveva essere uscita di casa completamente nuda.
Il caso di Elena Ceste diventa cosi' una delle pagine più drammatiche della cronaca italiana. fino a quando il 18 ottobre 2014, in un canale, avvolto nel fango viene ritrovato il cadavere di una donna in avanzato stato di decomposizione:la donna rinvenuta è Elena Ceste .
Nonostante Michele Buoninconti abbia parlato fin dall’inizio di un allontanamento volontario, i sospetti degli inquirenti si sono subito concentrati su di lui. Diversi sono stati gli elementi che da subito non hanno convinto chi indagava: le cimici messe in casa Buoninconti rivelano che l’uomo ha un carattere aggressivo ed oppressivo con i figli, al punto di minacciarli e dire loro che verranno portati via da lui se racconteranno a qualcuno dei litigi furiosi che c’erano spesso tra marito e moglie.
Al contempo, l’uomo non pare devastato dalla scomparsa della moglie, tanto che intrattiene nei mesi di ricerca del corpo rapporti telefonici con altre donne.
Dalle analisi sul corpo appare evidente che Elena è stata strangolata e gli inquirenti cominciano a ricostruire i fatti: Michele Buoninconti avrebbe ucciso Elena Ceste la mattina, dopo aver portato i figli a scuola, in preda ad un attacco di rabbia: poi avrebbe caricato il corpo in macchina insieme ai vestiti trovati sul letto (Elena si era appena fatta la doccia al momento dell’omicidio).
Durante il tragitto Buoninconti ha commesso un errore: ha fatto squillare più volte il cellulare della moglie probabilmente per trovarlo, per poi scoprire che era tra i vestiti della donna. In questo modo gli inquirenti hanno ricostruito il percorso del telefono (che si è agganciato a diverse celle telefoniche) e così il percorso fatto dal corpo di Elena.

Michele Buoninconti, dopo il ritrovamento del corpo, è stato arrestato con l’accusa di omicidio premeditato ed occultamento di cadavere.
Michele Buoninconti non ha mai ammesso l’omicidio della moglie: nel 2015 è stato condannato a 30 anni di carcere, poi confermati in appello. Buoninconti ha anche perso la patria potestà dei suoi 4 figli, che sono stati affidati ai nonni.
 
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suor Maria Angela Farè e Eva Sacconago: una storia tragica

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Quelle che vedete nella foto sono suor Maria Angela Farè e Eva Sacconago e saranno le protagoniste della storia che andremo a raccontare.
Tutto comincio' nel 1998 , quando Eva, una ragazzina di quasi 13 anni, per sua sventura incontra Maria Angela Farè di 50 anni , suora della congregazione delle Figlie di Maria Ausiliatrice e responsabile del Centro Primavera dell'oratorio di Busto Arsizio.
L'affetto che la religiosa mostra verso la ragazzina diventa sempre piu' morboso , tanto che la piccola comincia a dimagrire e decide
di non frequentare piu' l'oratorio.
Sua madre, nota il repentino cambiamento e decide di controllare il diario della figlia, per scoprire quello che, evidentemente, la ragazzina non trova le parole per dirle.
Con suo grande rammarico, trova biglietti e lettere a firma di suor Maria Angela dove si rivolge alla ragazzina chiamandola “amore” e facendo riferimento a “baci sulle labbra”.
La signora si ribella e chiede spiegazioni prima alla monaca e poi ai suoi superiori che trasferiscono la religiosa a Catania.
Finisce qui? Nemmeno per sogno!
La suora è ossessionata da quella ragazza e intensifica i contatti anche in futuro.
Sms telefonate e lettere e nel 2006 suor Farè le trova addirittura un lavoro come segretaria presso l’Istituto di Pavia dove svolge la sua attività. Eva accetta. La sua vita sembra essere tranquilla e appagata, quando, una sera di giugno del 2011, dice alla sua amica di voler lasciare l’oratorio, dove i parrocchiani sono malevoli e pettegoli, tanto da aver messo in giro brutte voci su di lei e su don Alessandro. Per l’amica è il segno di un grande cambiamento, forse Eva sta lasciando andare demoni che l’hanno tormentata fin dall’adolescenza. Qualche giorno dopo, invece, la notizia del suicidio. A ventisette anni la bella Eva si è tolta la vita .
Dopo la sua morte, i genitori trovano molte lettere che inchiodano la suora alla sue responsabilità
"Non ci deve essere nessuno di più importante di me, sento che non è così ma non lo accetto. Combatterò con tutte le mie forze per portarti via. Tu sei tutto quello che avrei voluto essere io, legata all’oratorio ma libera di scegliere. Io ho scelto troppo in fretta una vita che mi ha legata troppo."
"Ѐ lo stesso motore della gelosia. Impazzisco al pensiero che tu stia vicino al don, ho paura che lui possa portarti via da me. Impazzisco quando fai la vita comune perché so che tu ti spendi fino all’ultimo con i ragazzi, con il don, con i tuoi amici e invece vorrei essere lì io con te a raccogliere tutte quelle energie che hai per loro e che non usi con me’.
A questo punto i genitori denunciano Maria Angela Farè per stalking e abusi.
Nel 2012 suor Farè viene arrestata con l’accusa di violenza sessuale, stalking e violenza privata.
Al processo saranno sentiti molti testimoni tra cui le amiche della ragazza, qualcuna delle quali afferma che Eva le ha confidato di essere perseguitata dalla suora e di aver subito rapporti sessuali ‘sotto costrizione
Nove anni è la richiesta di condanna per il pm, che si traduce, in sentenza, in una condanna a tre anni per la sola accusa di violenza sessuale su minore. Lo stalking, per i giudici, non sussiste.



L'omicidio di un uomo per bene

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Milano dieci ottobre 2010 , il tassista Luca Massari viene massacrato per aver investito accidentalmente un cagnolino che portavano a spasso senza guinzaglio e che era fuggito sulla strada.
Dopo l’incidente il taxista, 45 anni, si e’ fermato ed e’ sceso per scusarsi ma, spinto a terra, ha sbattuto la testa e perso i sensi dove sara' poi massacrato.
Il poveretto morirà per le lesioni dopo un mese di agonia.
Verranno ritenuto colpevoli del brutale pestaggio i fratelli Pietro e Stefania Citterio, nonchè un terzo complice, Morris Ciavarella che dopo i tre gradi di processo saranno cosi' condannati:
per Pietro e Stefania Citterio (14 anni al primo e dieci mesi alla seconda). Ciavarella - fidanzato della Citterio, condannato con rito abbreviato a 16 anni)
 
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quello di Massimo Iorio detto Max: un delitto risolto dopo anni

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Era il 20 marzo del 1997 quando il corpo senza di vita di Massimo Iorio, 38enne impiegato all'ufficio informazione del Comune di Rimini, venne rinvenuto nell'appartamento in vicolo Santa Chiara. Lì Max viveva da solo da due anni, dopo aver interrotto una precedente convivenza con un uomo.
Una persona perbene, appassionata al suo lavoro, riservata, tanto che in ufficio non sapevano fosse omosessuale, e amante degli animali. Max infatti teneva in casa con sé una boccia con tre pesciolini rossi, accuditi con cura.
Il giorno prima della sua morte, mercoledì 19 marzo, Massimo era andato a pranzo a casa della madre dove, intorno alle 15.30, aveva ricevuto una telefonata. Da chi non lo si saprà mai. Ma quella sera Max uscì per recarsi a un appuntamento con il suo ex compagno. Invece che arrivare da solo però si presentò in compagnia di un altro ragazzo, che chiamò Michele, come testimonierà l'ex convivente, e si allontanò con lui.
Il giorno successivo, giovedì 20 marzo, Massimo Iorio non andò al lavoro. "Siccome ultimamente Massimo a volte tardava, pensavo fosse in ritardo" disse una sua collega.
. Preoccupati per il silenzio di Iorio anche gli amici. Così quel giorno l'ex convivente andò a casa di Max e, vedendo dalle finestre la luce accesa, provò a suonare il campanello. Nessuna risposta. Allora l'uomo provò a chiamare Massimo al telefono. Niente. A quel punto recuperò la chiave di riserva nascosta ed entrò nell'appartamento. Lì gli si presentò di fronte uno strano scenario: oltre alla mancanza dello stereo, che era sparito dal mobile sopra cui era solitamente appoggiato, sul pavimento della camera da letto era sparso un mucchio di vestiti, vicino al tavolino che aveva una gamba rotta. E lì trovò il cadavere di Massimo Iorio.
Il corpo di Max giaceva in una pozza di sangue e acqua. Attorno a lui un disordine fuori dal comune: vestiti sparsi a terra, il tavolino rovesciato con una gamba rotta e la boccia dei pesci rossi poco lontano dal corpo. L'acqua era stata versata a terra e i pesciolini morti. Uno era stato buttato nella spazzatura della cucina, mentre gli altri due si trovavano sul pavimento della camera da letto, uccisi dalla stessa mano che aveva colpito Max.
Ma come era finita la boccia dei pesci in camera da letto? Secondo la ricostruzione fatta nel 1998 dal vicebrigadiere della Scientifica di Bologna, Silio Bozzi, il primo pesciolino sarebbe stato ucciso durante un diverbio che Max e il suo assassino avrebbero avuto in cucina. Nel corso della lite, il killer avrebbe preso uno dei pesciolini dalla boccia e, dopo averlo schiacciato e calpestato, lo avrebbe buttato nella spazzatura. Dopo la morte di Iorio, l'assassino avrebbe preso la boccia con i due pesci restanti e la avrebbe rovesciata addosso alla vittima, uccidendo poi anche i piccoli animali. Si ipotizzò anche che la brocca potesse essere stata usata per tramortire Max, prima del delitto.
Per questo si iniziò a indagare sulle frequentazioni della vittima e, in particolare, sul suo ex fidanzato, che però venne scagionato, mentre dalla cerchia di amici di Massimo non emerse nulla di rilevante.
Di rilevante, invece, risulto' in fatto che max era stato trovato vestito da donna , con con indumenti femminili indossati evidentemente a forza, compreso un paio di scarpe con tacchi a spillo di tre numeri più piccole.
Le indagini vanno avanti a stento. Max è un ragazzo tranquillo, conosciuto e ben voluto da tutti, senza un nemico al mondo. L’ampia cerchia di amici viene setacciata, ma non emerge nulla.
Bisogna arrivare al 2011, quando il sostituto procuratore Paolo Gengarelli pensa di passare al vaglio i reperti con le nuove tecnologie del dna, che nel frattempo hanno fatto passi da gigante. Fra questi reperti ci sono delle gocce di sangue trovate sul mobiletto dello stereo, che è anche l’unico oggetto mancante dalla casa. E poi cinque sigarette che giacevano nel portacenere. C’erano anche tre bicchieri portati all’epoca alla Polizia Scientifica di Bologna, ma non c’è più modo di rintracciarli.
Si prelevano dunque campioni di dna a nove persone, quelle che in un primo tempo erano state vagliate più a fondo. Ma il responso chiude ancora una volta tutte le porte: il dna non è di nessuno di loro. Si riesce ad appurare solo delle cinque sigarette, tre sono state fumate da Iorio, una da uno sconosciuto e la quinta da entrambi. L’assassino è proprio quello sconosciuto, perché suo è anche il dna della goccia di sangue.

Sembra che l’omicidio di Max debba finire fra quelli irrisolti. E invece il 23 gennaio del 2012 arriva il colpo di scena: l’assassino è Zoran Ahmetovic, bosniaco di 37 anni. È detenuto per altri reati ed ha confessato.
Ma come si è arrivati a lui? La Procura di Rimini aveva le perizie della polizia scientifica al Ris di Parma, dove ci si è resi conto che uno di quei profili genetici poteva essere attribuibile a nomadi della famiglia Ahmetovic, all’epoca dei fatti era presenti a Rimini. Andando per esclusione si è arrivati a Zoran.
Quella sera lui e Max avevano avuto in incontro occasionale. Max lo aveva anche presentato al suo ex fidanzato come “Michele”. E Michele era uno dei tanti nomi usati dall’Ahmetovic. Questi racconta di una serata folle, con alcol e droga, alla fine della quale sarebbe stato colto da una sorta di raptus. Zoran aveva strangolato Max, infierito su di lui con sei coltellate, colpito con il vaso dei pesci rossi buttato all’aria la casa. Non voleva nemmeno rubare, si era portato via solo quello stereo, lasciando cadere una sua gocciolina di sangue sul mobiletto.
 
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41 replies since 30/3/2020, 19:26   17239 views
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