Le stronzate di Pulcinella

IN CINA, AL TEMPO DELLE FAVOLE… (“TURANDOT”, CARACALLA,. 2006)

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view post Posted on 29/1/2016, 12:45
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Capo della Corporazione del Vascello, a lui tutti devono fiducia, lealtà, ma soprattutto rispetto. A lui spetta l’intrattenimento delle Sirene e delle altre Creature del Mare, nonché di tutti i Fantasmi e le Fantasmine d’Autore.

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Molti luoghi.. nessuno dei quali, in fondo, mi è poi tanto lontano!:-)

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Poster_Turandot

(mi scuso per la scarsa qualità del video, ma purtroppo di quella rappresentazione non ho trovato altro di meglio.. Spero che dia comunque la sensazione di una edizione molto particolare)




Cari amici Cartastoriani, mi piace riproporre l’articolo che ebbi a redigere in occasione della bella serata romana di cui fu protagonista Turandot.
Bene, senza por tempo in mezzo, lo ripubblico un poco riveduto e corretto, sperando di fare cosa gradita ai melomani e non solo.
Andy

Mi fa molto piacere recensire una magnifica seppur particolarissima mise en scene della mitica “Turandot”, una delle più belle opere del grande Maestro Puccini ed una tra le opere a me più care.… Chi mi conosce sa che sono un appassionato melomane, ma non un tecnico o un finissimo orecchio, ergo contentatevi delle mie povere note, scritte forse con la Sapientia (poca) cordis ma non certo con la scienza dell’intenditore.

La trama dell’opera è molto conosciuta, ma forse gioverà a qualcuno meno addentrato nel mondo della Lirica sentirsela raccontare. Magari la sunteggerò per quanto possibile brevemente, al fine di non tediare chi invece la conosce a menadito; in fondo si tratta sempre di una meravigliosa favola e, credo, noi tutti abbiamo bisogno di credere ancora nelle favole!

Siamo appunto in Cina, “al Tempo delle favole”, come recita il libretto, a firma dei poeti Adami e Simonini che, come ogni librettista che avesse collaborato con lui, divennero amatissime vittime del capriccioso ed affettuosamente burbero Genio di Torre del Lago.

Davanti al Palazzo Imperiale di Pechino, la folla è radunata in attesa. Un Mandarino annuncia l’Editto Imperiale che stabilisce come, chiunque di sangue regio voglia impalmare la principessa Turandot, figlia dell’Imperatore, dovrà sottoporsi ad una terribile prova, consistente nello sciogliere tre enigmi difficilissimi… Laddove egli non riesca nell’impresa, “Porga alla scure la superba testa!”

Il dignitario annuncia che il principe di Persia è stato sfortunato, sicché al sorgere della Luna, egli morrà.
Tra grandi movimenti di folla, ecco apparire una giovane schiava che sorregge un vecchio cieco. Costui, urtato dalle masse, cade e la povera ragazza chiede aiuto. Naturalmente ecco farsi avanti un aitante giovinotto. Nell’accostarsi alla coppia egli trasecola: il vecchio altri non è che Timur, sovrano spodestato e padre del detto giovane!
Il Nostro è in effetti il Principe Calaf, che si nasconde sotto un anonima veste di borghese, per timore di essere arrestato dai propri nemici, ancora in caccia del vecchio re e del suo figliolo.
A questo punto, le guardie si presentano con il povero condannato affinché la Principessa possa, laddove lo volesse, concedere la grazia. Tale è la bellezza del giovane, e tale la sua grazia, che persino coloro che erano accorsi per assistere all’esecuzione, si commuovono ed impetrano clemenza. Anche Calaf, colpito, chiede a gran voce che il poveretto sia risparmiato, maledicendo la crudeltà della despota… In quel momento Turandot appare e, con gesto imperiosamente silente, nega la grazia!

Calaf, invece di montare in collera, è colto da un vero e proprio coup de foudre per la Principessa… Non più in sé, egli si lancia verso il fatale gong che, se colpito per tre volte, annunzia il nuovo dramma: egli vuole infatti proporsi come solutore degli enigmi.
Gli si parano davanti i simpatici ministri del Sovrano, Ping, Pang e Pong, i quali cercano di trattenerlo, coadiuvati dal povero Timur, che cerca in ogni modo di far avvicinare Liù, la dolce schiava che lo accompagna fedelmente al proprio figlio, ormai perso nel profumo finissimo ma letale della bella Turandot.
A nulla valgono le note meravigliose del canto di Liù, che nell’aria “Signore ascoltami” spiega al proprio signore come ella sia stata tanto forte e coraggiosa nel tempo dell’aspro esilio, perché sorretta da un sorriso del giovanissimo principe che egli le aveva rivolto in un lontano giorno nel giardino del palazzo di Timur.
Nulla può però ormai fermare il destino. Il dramma si compirà.
Calaf, sfuggendo alla presa dei ministri, si lancia sul gong, urlando al cielo il nome di Turandot. Questa scena conclude il Primo Atto.

Nel Secondo Atto, troviamo Ping, Pang e Pong che rievocano il tempo cui la Cina era serenamente “Gonfia dei suoi settantamila secoli” ; in quel tempo loro erano davvero ministri del sovrano e non.. “Ministri del boia”, come essi si ripetono l’un l’altro, lamentandosi affranti e ripensando con dolce poesia alle loro residenze fuori Pechino. Ma non è il tempo per i ricordi, ché già bisogna apprestare per le nozze... o per il seppellimento, chissà?

Calaf si presenta davanti al vecchio Imperatore (annunciato sempre da una possente corale che augura “Diecimila anni al nostro Imperatore”, un tema questo che non posso non ricordare qui, seppur senza entrare nella descrizione di tutta la sublime musica pucciniana, peraltro impossibile da descrivere adeguatamente a parole. Basterà ascoltarla e.. Provare per credere, come diceva, qualcuno!) , il quale lo implora di rinunciare, perché egli non vuole altro sangue a sporcare lo Scettro, già grondante quello dei predecessori del Principe Ignoto, sconfitti nel terribile cimento enigmistico.
Il giovane non cede e per ben tre volte chiede al Figlio del Cielo di affrontare la prova.. Sconfitto, l’Imperatore acconsente, legato com’è da un fosco giuramento che lo costringe a tanto dolorosa decisione.

A questo punto ecco apparire la gelida Turandot che, prima di proporre gli enigmi, spiega come ella senta di essere la reincarnazione di una antica Antenata, resa schiava e violentata da orde barbare conquistatrici. Turandot, facendo uccidere i pretendenti alla sua mano, vendica lo spirito indomito della povera principessa, ormai certo polvere, ma ancora viva nell’algido animo della donna di cui ormai Calaf è perdutamente innamorato.
A questo punto il dado è tratto: il Principe ignoto reitera anche a lei la sua volontà di sottoporsi alla prova. Lei lo minaccia, facendogli notare che se tre son gli enigmi, la morte è una. Ma Calaf, pieno di passione, risponde che sì, tre sono gli enigmi, ma una è la vita!

In un’atmosfera cupa e solenne, il primo indovinello viene proposto Calaf lo svela senza incertezze: è la Speranza!
Turandot non si perde d’animo, e, con gesti melodrammatici, propone il secondo. Calaf è in dubbio e la gente lo incita… Finalmente ecco anche la seconda risposta, ovviamente esatta. Stavolta si tratta del Sangue!

Allora, tagliente e furiosa, la Principessa pone il terzo ed ultimo enigma.. Saprà Calaf dare la risposta?
Naturalmente sì, perché la soluzione altro non è che il nome della stessa Turandot!
La folla esulta: finalmente la cupa cappa di sanguinaria violenza è rotta e la Cina avrà un nuovo erede al Trono del Drago!

Ma le cose non sono tanto semplici, perché Turandot è recalcitrante e, seppur sconfitta, si rivolge all’augusto Genitore affinché non la getti nelle braccia dell’ignoto straniero.
L’Imperatore però è inamovibile: un giuramento è sacro e Turandot, volente o nolente, sposerà colui che ha superato la prova.

Allora Calaf risponde che egli vuole un amore vero, non solo una sposa formale, fredda e scostante… Turandot gli ha proposto tre enigmi? Molto bene, uno ed uno soltanto egli le proporrà; se all’alba Turandot non sarà ancora venuta a conoscenza del suo nome, si sposeranno, altrimenti egli andrà serenamente a morire. L’Imperatore acconsente, formulando il desiderio che la nuova alba gli porti un figliolo nella persona del giovane e coraggioso Principe. Fine del Secondo Atto.

Terzo Atto. Siamo nel giardino del Palazzo, è notte e la luna splende alta nel cielo. Calaf ode in lontananza la voce del solito Mandarino che invita la gente di Pechino a non dormire, affinché ogni suddito si adoperi per scoprire il nome dell’Ignoto.
Mentre guarda le stelle, Calaf si abbandona ad una romanza tra le più celebri in tutto il mondo, ossia quel “Nessun dorma” che in tanti conoscono solo con la parola che la conclude ossia come “Vincerò!” Non credo di doverla illustrare, tanto essa è nota, quasi un inno nazionale… Soprattutto durante i Campionati del Mondo di calcio. A buon intenditor!...

Ma per tornare a noi, dirò che dopo questa meravigliosa romanza, nel giardino appaiono i tre ministri che cercano di blandire il povero Calaf con donne e ricchezze, al fine di farlo fuggire dal Regno, perché Turandot ha promesso e minacciato di fare fuoco e fiamme se non si dovesse venire a conoscenza del tanto agognato nome. Ma Calaf è innamorato come uno studentello e quindi rifiuta ogni blandizia: egli non cederà, poiché, cascasse il mondo, vuole per sé Turandot!
Proprio allora ecco irrompere alcune persone che trascinano Timur e Liù: li hanno catturati avendoli visti parlare il giorno prima con l’ignoto spasimante.

La scena si fa drammatica, e viene chiamata la stessa Turandot, che non esita ad ordinare di torturare Timur. Liù allora si fa avanti e confessa di conoscere solo lei quel nome... Tuttavia le è “Suprema delizia tenerlo celato in fondo al cuore”.
Calaf la insulta, dice che è una schiava, che essa nulla sa, ma la Principessa comprende che Liù deve essere effettivamente a conoscenza del segreto.
Liù viene maltrattata e percossa, ma non cede, tanto che la stessa Turandot ordina essa sia liberata e la interroga su chi le abbia messo nel cuore tanto coraggio. La risposta è dolce e semplice come solo nelle favole avviene: “Principessa… l’amore!”

Allora, in un susseguirsi di arie ed azioni veloci e taglienti come colpi di rasoio, scandite dalla dolcissima “Tu che di gel sei cinta”, sussurrata più che cantata dalla soprano Liù, si giunge alla inevitabile conclusione: la fanciulla, ormai allo stremo e temendo di non reggere allo strazio della tortura, strappa un pugnale ad una guardia (nell’edizione di cui parliamo, ruba un pettine appuntito dall’acconciatura della stessa Turandot) e, sotto gli occhi degli astanti, si uccide!

E’ difficile e commovente raccontare come il grande Maestro, minato da un terribile e fatale cancro alla gola, sopportasse stoicamente le sofferenze che il male gli imponeva, riuscendo, contro ogni logica, a terminare la partitura della morte di Liù, che per lui è il vero canto del cigno.
Vi riuscì, imponendo continue riscritture ai due poveri poeti e librettisti convocati a Bruxelles ove il Maestro era ricoverato, perché egli voleva che la gente piangesse per davvero, quando la povera schiava cadeva a terra, morendo per amore del suo Calaf, a lei così distante eppure così vicino!

Durante la prima rappresentazione della Turandot (che nasce ispirandosi ad una fiaba teatrale di Carlo Gozzi del 1762), avvenuta postuma alla Scala il 25 aprile del 1926, il grande Arturo Toscanini interruppe l’orchestra e, rivolgendosi al pubblico commosso, ripeté la frase che lo stesso Puccini gli aveva profeticamente chiesto di pronunciare quando l’avrebbe diretta: “E qui finisce l’opera perché a questo punto il Maestro è morto. La morte in questo caso è stata più forte dell’Arte!”
Poi, facendo alzare tutta l’orchestra e deposta la bacchetta, rivolse un applauso al grande Sor Giacomo e gridò quasi piangente: “Viva Puccini!” Tutto il teatro fu scosso da un commosso tributo, mentre il sipario calava definitivamente.

Solo a principiare dalle seguenti rappresentazioni Turandot cominciò ad andare in scena con il finale scritto dall’ottimo Franco Alfano, già allievo dello stesso Puccini e suo ammiratore.
Egli, lavorando su alcuni appunti del Maestro, confezionò un più che dignitoso finale (in realtà quello a cui in genere si assiste oggi è una seconda e più breve versione, scritta dallo stesso Alfano in un secondo tempo. A mio modesto parere, questa seconda rivisitazione è decisamente più pregevole e piacevole della prima... pare che tutti o quasi i maestri concertatori concordino con me, ergo mi sento a posto nell’esprimere questo giudizio! Eheh!), in cui l’amore trionfa e Turandot, vinta da quella fiamma inestinguibile, si concede alla vita ed alla gioia, tanto che alla fine grida all’Imperatore: “Padre augusto io so il suo nome!.. il suo nome è Amore!” e qui davvero si conclude l’Opera.

Ora, dovendo parlare della mise en scene di cui in parola, non si può non rivelare che tanto io quanto gli amici convenuti con me, fossimo all’inizio vagamente interdetti per una coreografia piuttosto bizzarra. C’erano sedie, carretti del gelato (sic!) e vari ammennicoli, mentre il centro del palcoscenico era una specie di carrozzone da circo che prometteva ben poco di buono!
Già pronto a fare fuoco e fiamme, mi accomodavo sulle scomodissime seggioline che il Teatro dell’Opera passa nella straordinaria cornice delle Terme di Caracalla (finalmente riconsegnate al Bel Canto... era ora, signor Sindaco, grazie!) . Fin dalle prime mosse però, tendevo a ricredermi.

Infatti, il regista Henning Brockhaus ha creato uno spettacolo inconsueto, non dico di no, ma in fondo assai rispettoso della tradizione. Non si tratta delle solite.. “Sperimentazioni artistiche”, che ci pongono di fronte a Gianni Schicchi che paiono usciti dalle pagine de “Il Corriere dei Piccoli”, come tanti Pampurio caricaturali, o Mimì in calzamaglia minimalista, degna di una piéce esistenziale di Sartre.
Nossignore, qui certamente ci troviamo di fronte ad una edizione particolare, non certamente facile da ingoiare di primo acchito, ma certamente di ottimo livello filologico e di bella spettacolarità.

Le comparse si muovono in un tripudio di giocolieri e persino un paio di: udite, udite!.. Clown!
La gente si presenta vestita con abiti poveri, quasi popolareschi, da serata provinciale (magari siamo proprio a Torre del Lago, chissà?), con qualche accenno a costumi di primo Novecento.

Passata la sorpresa, eccoti le masse che, mentre già la musica monta lenta e solenne, con il Mandarino (una specie di Phineas Barnum in marsina rossa e cilindro) che avvisa la folla della prossima esecuzione, indossano abiti diversi, decisamente più consoni all’ambientazione a cui siamo abituati. Ecco allora apparire, scanditi da delicati numeri di saltimbanchi vagamente orientali, i protagonisti che indossano le vesti della rappresentazione e intanto, tra una citazione felliniana e l’altra, il Maestro Alain Lombard dà il via alla sublime musica e la mente segue con facilità l’occhio e le innumerevoli trouvailles, che se certo sono talora un filo audaci, non disturbano mai ed anzi sono (quasi tutte.. Ma io sono pignolo e scassa marroni, come ben sanno i miei amici!) sempre garbate e deliziosamente poetiche.

Ci sono momenti davvero egregi, come quando mentre Ping, Pang e Pong raccontano degli ormai trapassati predecessori di Calaf, vengono spiegati dei labari che ritraggono antiche maschere tratte dalla tradizione orientale, o quel bellissimo Drago che, mosso da alcuni ballerini, danza sul palcoscenico.
Piacevolissimi i bimbi che, durante l’invocazione alla Luna, reggono sul capo delle piccole fiaccole accese… insomma, davvero una Turandot non comune, ma una Turandot che mi sento di consigliare, certo che nessuno verrà a dirmene quattro.
Se poi fosse, sono sempre pronto al dialogo ed al confronto, ce lo sapete, no?

E adesso, anche se lo spazio che mi impongo non mi concede troppe divagazioni, permettetemi di fare un paio di accenni che credo importanti.

Prima di tutto, i cantanti.. BRAVISSIMI!
Il tenore, signor Antonello Palombi, ha saputo concedere al suo personaggio momenti notevoli e ha retto il palcoscenico senza particolari eccellenze, ma con una dignitosissima presenza.

Dolce ed esile come si conviene la ormai nota signora Mina Tasca-Yamazaki, che ha saputo infondere alla sua Liù quella magia, sia vocale che scenica è indefettibilmente richiesta a questo personaggio.. Una Liù che non si dimentica tanto facilmente!

Bravo, proprio bravo Michail Ryssov, ottimo basso ed ottimo Timur.

Credibilissimo l’Imperatore Altoum, portato in scena dal tenore signor Fernando Cordeiro Opa.

Davvero bravi tutti, insomma, ma lasciatemi dire che davvero eccezionale era la soprano, signora Giovanna Casolla, che ha saputo offrirci una rara interpretazione dell’algida Principessa, tenendo una presenza scenica non comune! Davvero una grande cantante ed una grande attrice. Potrei dire con Tosca “...Ecco un’artista!” Complimenti vivissimi, Madame Turandot!

Ed ecco ancora due brevissime considerazioni: mi risulta che la trovata del Regista di far sì che, alla morte di Liù tutti si spoglino dei loro costumi per tornare alle precedenti mises di cui ho detto, sia stata molto criticata... ebbene, io non concordo manco un po’ con tale pur comprensibile riflessione!

Non mi dilungo in questa sede, ma credo sia stato un bellissimo omaggio a Puccini, in quanto il Maestro ha lasciato incompiuta l’opera, come abbiamo già detto e quindi forse è giusto spezzare con un gesto artisticamente forte, le due parti della rappresentazione.
Inoltre io ci ho letto anche una ossequiosa citazione del fatto, innegabile, che Puccini rappresenta il trait d’union tra quel romanticismo possente e conturbante del grande Verdi e il Verismo dei Mascagni e dei Leoncavallo, tanto per citare solo questi due famosissimi compositori.
Pensate un poco al dualismo scenico di Pagliacci e poi mi saprete dire se ho torto!
Non aggiungo altro, ma sarò sempre lieto di disquisire con voi.

Ultima notazione… Ho trovato un pubblico visibilmente soddisfatto della serata ma poco caloroso e tutto sommato poco cosciente di cosa era andato a vedere.
Non voglio tirar giù paragoni tra un concerto rock ed un’opera lirica o una partita di calcio, per fare un esempio, ma insomma: se io andassi allo stadio, magari cercherei di informarmi, di capire, di essere messo un poco al corrente di cosa potrà avvenire e quindi di poter apprezzare meglio lo spettacolo, mi pare evidente.
Allora mi chiedo: perché mai, andando all’Opera, la gente non impara che esiste un tempo per gli applausi a scena aperta ed uno in cui… un bel tacer non fu mai scritto?
E perché, terminata la rappresentazione, paiono quasi vergognarsi di urlare “Braviiii!” ai cantanti, se poi sono capaci di truculente bestemmie all’indirizzo dei loro beniamini sul campo di calcio, e se sono fantasiosissimi nell’ immaginare le più indegne professioni per le madri degli arbitri?
Un cantante lirico è un artista, e come tale lo si può fischiare, o magari portare in trionfo, ma applaudire nel bel mezzo di una scena che prevede, subito dopo un’aria, un duetto serrato o concedere soltanto plausi scialbetti alla fine dell’opera, non va mica bene, lasciate che ve lo dica.

L’Opera è passione, e il tiepido amore non va bene, non le si attaglia. Forse è vero che i loggionisti del Regio di Parma sono perfidamente subdoli e in quanto tali temutissimi dai cantanti, ma sono davvero appassionatissimi cultori del Bel Canto e quando tributano il loro amore a un riuscito Rigoletto o ad una Mimì che muore bene, il teatro viene giù sul serio e credo che questo sia dovuto, nel bene e nel male... Meditiamo, gente, meditiamo!

E adesso, in conclusione di queste povere ma appassionate note, vi regalo il pensiero che ieri sera mi ha accompagnato nell’attraversare quelle vestigia imperiali onuste di Storia che avevano fino a poco prima riecheggiato delle note di questa bellissima Favola.
Io credo che il Sor Giacomo, da Lassù dove si trova, non abbia rinunciato ad ascoltare la sua ennesima Turandot.
Ebbene, perduto tra una nuvola di grasso fumo di Toscano, e con un pensiero al prossimo passo di germani su Torre del lago, penso che gli sia scappato un sorriso compiaciuto sotto i baffi ed egli abbia in cuor suo applaudito…

Sissignore, ora e sempre….EVVIVA PUCCINI!

Dedicata con affetto a mia Nonna Clara, che mi raccontava, cantandole, le opere come se fossero davvero favole… Nonna, sei proprio una favola!

Andy





Video

(per farmi.. “perdonare” del video di cui sopra, ecco l’opera nella sue interezza, in una magnifica edizione “classica”, con la regia del grandissimo Maestro Franco Zeffirelli, all’Arena di Verona.. Buona visione!)
 
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