Le stronzate di Pulcinella

Mia cara Napoli ti scrivo : curiosità, tradizioni, parole e musica

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view post Posted on 14/4/2020, 10:22
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La musica è da sempre patrimonio culturale della città di Napoli è parte integrante del costume di vita del popolo napoletano.
Noi, oggi, cominciamo un viaggio, collegando la musica ai costumi e alle tradizioni del popolo partenopeo.
Cominciamo con quello che per Napoli, come ebbe a dire Luciano De Crescenzo, fu la voce del del popolo :il pianino.

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Inventato nel Settecento dal modenese Giovanni Barberi, Il pianino funzionava grazie a un ingranaggio a manovella: al suo interno c’era un cilindro ricoperto di punte metalliche sparse apparentemente a casaccio. Quando il cilindro ruotava, la pressione delle punte su delle piccole leve determinava il movimento delle corde e la riproduzione del suono desiderato. Veniva posizionato su dei carretti, spesso trainati da ciucciarielli, che attraversavano i vicoli e le strade di Napoli .
Quasi sempre sul pianino venivano appese le cosidette copielle , cioè le prime partiture musicali, contenenti il testo e la parte per piano delle canzoni in voga nel periodo.
Le “Copielle” venivano stampate direttamente dalle case editrici per meglio pubblicizzare i loro successi. Questa vecchia tradizione e questo binomio pianino/copiella è terminata negli anni 50.
Il suonatore non fu mai considerato “questuante” ma “venditore” di musica, ed era tenuto in massima stima da autori ed editori, per la preziosissima collaborazione divulgativa che compiva.
Noi ora vi proponiamo una bella canzone del 1957 , "SUNATORE ‘E PIANINO" di (Ruccione-Bonagura/Cutolo) cantata da un giovane Giacomo Rondinella

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'O Pazzariello
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Era un mestiere ambulante, quasi sempre saltuario, l’esercitava chi senza un lavoro, pur di guadagnare quel poco per vivere o per arrotondare, si vestiva bizzarramente con abiti del tipo da Generale Borbonico, (ossia indossava una marsina con bordi argentati, una camicia con svolazzi nascosta da un panciotto di color rosso fuoco, da brache colorate a strisce bianche e nere, che a mezza gamba poggiavano su calzettoni, color rosa, sgargianti, calzava, poi, scarpe con ghette e per copricapo portava una feluca inghirlandata e per darsi un po’ di tono sul petto della marsina aveva appuntato patacche senza valore, come fregi.)
O Pazzariello, accompagnato da suonatori improvvisati, si presentava in pubblico impugnando in una mano un bastone dorato e nell’altra, bene in vista, un fiasco di vino, o altri prodotti di prima necessità (pane, pasta) che andava pubblicizzando per conto di una nuova “Cantina” (Osteria) o di una nuova "Puteca" (negozio alimentare).
Ed eccovi O pazzariello (Raffaele Cardone - Federico Albin) - cantata da Salvatore Cafiero (Napoli, 8 agosto 1882 – Napoli, 29 gennaio 1965) un attore teatrale, commediografo e comico napoletano che primo a portare in scena e al successo il genere della "Sceneggiata" di cui parleremo prossimamente.

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'O Rammaro
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Tra i numerosi mestieri di un tempo oggi scomparsi, c’era il ramaio,Originariamente ‘o rammaro fu il venditore porta a porta delle stoviglie di rame; quando poi - con l’avvento dell’alluminio - non si vendettero più.
In origine ‘o rammaro era colui che lavorava, produceva e vendeva al minuto sia in una propria bottega, sia molto spesso a domicilio utensili di rame (pentole, padelle, vasellame etc.) per i bisogni quotidiani; ed era tale medesimo artiere, quando facesse anche le funzioni dello stagnino, che con cadenza settimanale al grido: Stagnàteve ‘a ramma!
Non era raro, all'epoca, veder girare il cosiddetto "rammariello", cioè un giovincello a cui i vecchi produttori di pentole in rame affidavano la loro merce per venderla di porta in porta o giovani che in cambio di vecchie pentole di rame vendevano a buon prezzo biancheria e coperte .
A questi dedichiamo la splendida canzone 'O RAMMARIELLO(L. Cioffi, G. Cioffi – 1952) cantata da Sergio Bruni

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'O CAFE' per i napoletani:un rituale a cui non si puo' rinunciare.


Per i napoletani non è una semplice bevanda da consumare a prima mattina, dopo pranzo o al bar in compagnia. Il caffè a Napoli è un rituale, rappresenta un vero e proprio culto. E rifiutarlo, se offerto, equivale quasi a un’offesa, non solo ma capitare che magari, anche per scherzo, tu dica ad un napoletano: “Ma che sarà mai? In fondo il caffè e l’acqua di Napoli sono uguali a tutti gli altri”. Madornale errore. Non solo offenderai il napoletano che è particolarmente sensibile su riti e tradizioni, ma soprattutto dirai una cosa inesatta poiché l’acqua ed il caffè napoletano hanno davvero un sapore ed un aroma diverso.
Diverso sara' anche usufruire del caffe' dalla macchinetta da ufficio a gettone. Per un napoletano verace quello è tutto tranne che un caffè, per cui evitate di invitarlo a prendere in questa maniera. 'A tazzulella 'e cafe' deve essere presa assolutamente al bar , preceduta necessariamente da un bicchiere d'acqua e bevuto in una tazzina di ceramica, oppure per chi ha gusti un po’ più particolari in un bicchiere di vetro. Ma mai, e dico mai, offrire il caffè ad un napoletano in un bicchierino di plastica.

Degna di nota è anche la tradizione del caffe' sospeso, è stata un'usanza viva nella società napoletana per diversi anni, ma poi ha conosciuto un declino, anche se con enorme piacere e soddisfazione vediamo riesumata negli ultimi tempi.
Ma cos'è? E' solo un gesto di solidarietà.
Il barista che riceve l’ordine incassa l’importo per due (o più) caffè, ne serve uno al cliente e annota il resto come offerta per i bisognosi. Chi non può permettersi un caffè ha così la possibilità di entrare in un bar, chiedere se c’è un “caffè sospeso” e riceverlo gratuitamente.
Quest’usanza ebbe origine a Napoli, città del caffè per eccellenza, e risale agli inizi del XX secolo. In un’epoca di ristrettezze economiche, coloro che potevano permetterselo presero l’abitudine di consumare un caffè pagandone due, lasciando così un caffè “sospeso”, già pagato, per chi non aveva la possibilità di concederselo.
A questa preziosa bevanda due illustri autori e cantanti hanno dedicato due splendide canzoni.

'O CCAFE'
(Pazzaglia, Modugno – 1958)


Qui la sentiamo in una bella interpretazione di Nino Taranto

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Anche Pino Daniele nel 1977 in compagnia di Claudio Mattone scrisse e porto' al successo NA TAZZULELLA 'E CAFE

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LA POSTEGGIA
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I posteggiatori sono figure inscindibili dalla storia e dalla cultura di Napoli: per sette secoli menestrelli, musici e cantori hanno vissuto tra il Vesuvio e il mare, spesso viaggiando in paesi lontani per poi tornare ricchi di bei ricordi ma sempre poveri di risorse economiche. Le origini e lo sviluppo della canzone napoletana sono legati a filo doppio con l'arte "di strada" dei posteggiatori, umili e sconosciuti propagatori di poesie e melodie non di rado destinate all'immortalità.La loro arte ha punteggiato i secoli d'oro della canzone di Napoli .Certo i posteggiatori napoletani furono gli strenui rappresentanti di una tradizione che ha un posto incancellabile nella storia delle espressioni poetiche e musicali della cultura popolare dell'Europa mediterranea.Questi cantori girovaghi si organizzarono spontaneamente tra il Vesuvio e Posillipo già intorno al settecento dando vita alla mobilissima quanto poverissima arte della Posteggia.
Dalle taverne del seicento alle osterie e poi le trattorie ed ai ristoranti ed ai salotti privati per proporre i pezzi classici del repertorio di canzoni napoletane, comprese le divertenti “canzoni di macchietta”.
A muovere questi suonatori erano certamente la passione unita alla necessità, in quanto si trattava di un mestiere poverissimo ed a volte anche con risvolti amari.
Molti dei più illustri compositori ed artisti napoletani facevano i posteggiatori: basti pensare a Giovanni Capurro, autore nel 1883 di “O sole mio”. che qui ascoltiamo da Enrico Caruso:

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I Posteggiatori quindi, pur esercitando questo “mestiere” per pochi spiccioli, rappresentano strenuamente una tradizione popolare che ha un suo posto incancellabile nella storia della musica e della poesia dell’Europa Mediterranea.
A Napoli e nel golfo, entrando in qualche vecchia trattoria, vi può capitare ancora oggi di imbattervi in un posteggiatore che, avvicinandosi al vostro tavolo, dedicherà qualche dolce melodia napoletana alla vostra signora e vi intratterrà per un po’ di tempo… chiamatelo maestro: lo avrete fatto felice!
A questo “pubblico esercizio” è stato dato il nome di Posteggia al quale, i suonatori di tradizione, sono stati sempre avversi: avrebbero senz’altro preferito essere indicati con –i professori-, come fece generosamente Giovanni Gaeta (E.A.Mario) nella sua famosissima canzone “Dduje paravise”.che qui ascoltiamo da Roberto Murolo:

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Un singolare rappresentante della categoria fu Eugenio PRAGLIOLA (1907–1989) detto “cucciariello” od anche “Eugenio cu ‘e llente”. Intratteneva il pubblico sugli autobus della provincia, e con fisarmonica e megafono.

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Il suo intervento iniziava con questa “entrata” :

Signurì buongiorno eccellenze
Con insistenza, all’ apparire della mia presenza
Addò nisciuno me penza,
faccio appello alla vostra indulgenza
E dimostratemi ‘nu poco ‘e benevolenza.

Eseguiva qualche canzone allegra e concludeva la sua esibizione con una esilarante e provocatoria richiesta di pagamento:
Signure e signurine, ledi e milòrd,
aggiate pacienza cacciate ‘nu sòrd,
pe chi nun tene na lira ‘e spicce:
ci’hanna ascì ‘e bbolle ‘ncopp’’o sasiccio!


I Vicoli di Napoli
1_1833Se vuoi vivere la vera esperienza di Napoli, non puoi non recarti nei piccoli vicoli della città partenopea, perché è là che si trova la vera anima di questa città con i suoi suoni e le mille sfaccettature dell’anima genuina di questa grande metropoli.
Qui avrai anche la possibilità di fermarti a pranzo in una di quelle trattorie che magari non avranno nomi stellati ma che hanno dalla loro le ricette tradizionali fatte a regola d’arte.
Il primo tra ivicoli di Napoli da tenere in grande attenzione è il Vico Scassacocchi.
Questo vicolo si trov nel centro storico di Napoli (tra Via dei Tribunali e Spaccanapoli)ed ha una storia molto importante nella Napoli antica, perché qui venivano rottamate le carrozze che poi venivano vendute a pezzi. Altri invece credono che il nome derivi dall’impossibilità di far passare le carrozze a causa della strada troppo piccola.
A questa località cosi' particolare fu dedicata la canzone Giulietta e Romeo (Versi di Umberto Martucci - Musica di Salvatore Mazzocco) che qui ascoltiamo da Vittorio Marsiglia:

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Questo vico fu anche immortalato in un'altra canzone di Nino Oliviero testo Stefano Canzio – 1956: GIUVANNE CU 'A CHITARRAportata al successo da Renato Carosone

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MARECHIARO:NON SOLO IL PICCOLO BORGO DI PESCATORI

marechiaro
Il nome del Borgo pare derivi dal latino mare planum (dove il mare e’calmo) che tradotto in napoletano diventa mare chianu e da cui l’odierno appellativo Marechiare. Ma il particolare che più ha contribuito alla mitizzazione di questo luogo è la cosiddetta Fenestrella.
La leggenda narra che il poeta e scrittore napoletano Salvatore di Giacomo, guardando una fenestrella sul mare, trasse ispirazione per la celebre canzone napoletana Marechiare. Tutt’oggi la finestra esiste, e c’è sempre un garofano fresco sul davanzale, oltre ad una lapide celebrativa in marmo bianco con sopra inciso lo spartito della canzone e il nome del suo autore (morto nell’aprile del 1934).
Ascoltiamo la canzone da Lina Sastri :

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Ma c'è anche un'altra splendida canzone canzone dedicata a questo borgo è MARECHIARO, MARECHIARO
(versi di Roberto Murolo e musica di Renato Forlani) vincitore del Festival di Napoli del 1962 con le voci di Sergio Bruni e Gloria Christian:

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Ma quella che piace di piu' a chi vi scrive è SUONNO A MARECHIAROMusica: Antonio Vian e Versi: Renato Fiore.del 1958 portata al successo da Mario Abbate eccola:

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I CAMALDOLI
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La Collina dei Camaldoli, con i suoi 457 metri sul livello del mare (secondo dati IGM), è il rilievo più alto della città di Napoli.
La sua origine viene fatta risalire a circa 35.000 anni fa, in seguito a violente eruzioni che colpirono tutta l'area vulcanica dei Campi Flegrei.
Dalla sommità sul lato che dà sul quartiere di Soccavo si gode una splendida ed ampia vista su gran parte della Campania, che abbraccia i golfi di Napoli, Pozzuoli e Gaeta, il Vesuvio, la penisola sorrentina, la lunga dorsale di Capo Posillipo che si prolunga in mare con l'isola di Nisida, fino al Circeo, il massiccio di Roccamonfina, l'arcipelago delle isole ponziane, l'altopiano del Matese e alle spalle della collina dei Camaldoli, troviamo la cittadina di Marano di Napoli. Sul punto più alto della collina è stato fondato nel 1585 l'edificio dell'Eremo dei Camaldoli che attualmente ospita le suore brigidine.
A questa amena collina sono state dedicate molte canzoni, forse la piu' famosa è Tarantelluccia che nasce nel 1907, musicata dal maestro Rodolfo Falvo con testo del grande Ernesto Murolo, quello stesso che aveva organizzato nel 1932 il primo Festival canoro a San Remo. Illustre poeta napoletano nonché papà del più famoso Roberto, Ernesto Murolo è riuscito a condensare già solo nel ritornello di questa canzone la vera essenza dei napoletani: il fatalismo e i valori legati alla famiglia.
Insomma, Tarantelluccia è un vero e proprio inno ai buoni sentimenti e alla sacralità del focolare domestico.
Difficile trovare un artista napoletano che non si sia cimentato in questa canzone. A cominciare, ovviamente, dal figlio dell’autore: Roberto Murolo di cui ascoltiamo qui la voce:

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'NCOPP' 'E CAMALDULE è invece un'altra meravigliosa canzone del 1953 (di De Lutio, Cioffi) che qui ascolteremo da Sergio Bruni.:

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POSILLIPO (Pusilleco in napoletano)
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Eccoci arrivato al quartiere residenziale collinare della città di Napoli, frazione fino al 1925 e solo da allora integrato amministrativamente come quartiere cittadino.
E' una delle zone più eleganti e prestigiose della città. Il nome deriva dal greco Pausilypon che significa “tregua da un pericolo” o “che elimina il dolore“, questo nome rassicurante ben rappresenta la sensazione che provano gli abitanti di Posillipo e i turisti che vi si recano in visita.
Numerose sono le canzoni dedicate a questo meraviglioso posto , ascoltiamone alcune:
PUSILLECO 'NSENTIMENTO (De Lutio, Cioffi – 1950)cantata da Alberto Amato

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Degna di grande rilievo è anche Pusilleco addiruso (Gambardella-Murolo) 1904 che qui ascoltiamo dal maestro Sergio Bruni

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IL BORGO DI SANTA LUCIA
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E' uno storico rione di Napoli. Esso sorge nel quartiere San Ferdinando, attorno all'omonima via che prende il nome dal santuario parrocchiale di Santa Lucia a Mare, la cui presenza è attestata sul litorale fin dal IX secolo, sebbene la leggenda la voglia fondata da una nipote di Costantino. I suoi abitanti sono chiamati lucìani.
La storia di Santa Lucia si identifica con la storia di Napoli. Parthènope fu fondata sul Monte Echia dai Cumani nell'VIII secolo a.C.
La località divenne meta rinomata del turismo d'élite organizzato nel cosiddetto Grand Tour, e nel corso del settecento i principi di Francavilla vi costruirono un casino fra il mare e via Chiatamone, di cui furono ospiti molti personaggi celebri (fra cui Giacomo Casanova) e che poi passò prima in proprietà della famiglia reale e, poi, di Alessandro Dumas; dell'antico luogo di delizie, tanto apprezzato dalla regina Maria Carolina, è oggi visibile solo un'ala superstite che si erge ancora alle spalle del centro congressi universitario.
Tra le tante tradizioni Santa Lucia vanta una particolare usanza oggi quasi dimenticata: La festa detta della “Nzegna”:

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Durante questa festa si potevano notare le espressioni più antiche del folklore napoletano .
Il carattere pregnante di ogni festa napoletana, oltre al puro divertimento è l’occasione di dimenticare le preoccupazioni quotidiane ed illudersi di un domani migliore. Fino al 1953 (edizione che fu funestata da un grave incidente) l’ultima domenica di agosto era la data di una curiosa quanto divertente manifestazione detta la ‘Nzegna (consegna), una festa marinaresca collegata alle celebrazioni in onore della Madonna della Catena, che si svolgevano nell’omonima chiesa a Santa Lucia, da dove si formava un pittoresco corteo composto da un popolano travestito da Ferdinando II, mentre un altro assumeva le vesti del pazzariello e da uno sciame di scugnizzi. L’allegra combriccola, dopo aver attraversato la strada si portavano davanti allo specchio di mare davanti Castel dell’Ovo e si trasferiva su piccole imbarcazioni. Chiunque si fosse trovato a passare da quelle parti veniva gettato a mare per poi essere ripescato dagli astanti. e nuovamente issati a bordo di addobati gozzi (per il tramite di robuste funi), gozzi sui quali erano inalberate festose bandiere e variopinte insegne donde il termine 'nzegna.

E secondo voi potevano mancare canzoni dedicate a questo Borgo? Assolutamente no!
Cominciamo con Santa Luciauna canzone napoletana, scritta da Teodoro Cottrau e pubblicata come barcarola a Napoli nel 1849. Lo stesso Cottrau la tradusse in italiano durante la prima fase del Risorgimento, facendola diventare la prima canzone napoletana tradotta nella lingua di Dante. I versi del brano celebrano il pittoresco aspetto del rione marinaro di Santa Lucia, sul golfo di Napoli, cantato da un barcaiolo che invita a fare un giro sulla sua barca, per meglio godere il fresco della sera. La canzone divenne immediatamente un successo nazionale, conoscendo un trionfo che la proiettò fuori della penisola e che ancora la conserva in tutti i repertori di musica italiana interpretati al mondo dai migliori cantanti, sia lirici che leggeri. Ascoltiamola da Andrea Bocelli

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Santa Lucia luntana è invece una canzone una canzone scritta da E. A. Mario nel 1919.
E' dedicata ai tantissimi emigranti partenopei che partivano dal porto di Napoli alla volta di terre lontane (quasi sempre alla volta delle Americhe); le parole del brano sono appunto ispirate ai sentimenti che questi provavano allontanandosi dalla terraferma, fissando il pittoresco panorama del borgo di Santa Lucia, ultimo scorcio della loro terra che riuscivano a vedere, sempre più piccolo, all'orizzonte.
La canzone divenne subito un successo non solo popolare e fu molto importante a livello sociale perché portava alla luce la realtà dell'emigrazione, fenomeno fino ad allora misconosciuto dalla cultura ufficiale.
Ascoltiamola da Pavarotti e Giorgia :

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Lo scugnizzo, un altro antico simbolo della napoletanità

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E’ il 1895 quando la parola “scugnizzo” compare per la prima volta in alcuni scritti di Ferdinando Russo, poeta napoletano, chiarendo che la parola circolava nell’ambiente della malavita, o almeno in origine, infatti il termine ha una storia lunga e complessa, che affonda le radici nell’Italia postunitaria.
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Tra l'altro il termine è anche entrato nell'uso anche dell'italiano ed indica il «monello di strada» .
Il Russo ne diede questa configurazione:"In gergo, questi ragazzi, che si avviano spensieratamente per la strada delle carceri e del domicilio coatto, vengono denominati scugnizzi». Le origini del termine vengono fatte risalire però ai periodi successivi all'unificazione d'Italia a Torino.

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Secondo altre teorie, il termine "scugnizzo" poteva derivare dal verbo latino excuneare , rompere con forza, specialmente quando si giocava lo strummolo , una trottola di legno terminante in un chiodo di metallo, e in una funicella usata per lanciarlo.
Sono moltissime le canzoni dedicate a questa figura prettamente partenopea, ci piace ricordarne alcune.
Cominciamo con 'a Rumba de scugnizze che è una delle canzoni più amate dal popolo napoletano. Scritta nel 1932 da Raffaele Viviani, attore teatrale, commediografo, compositore, poeta e scrittore di Castellammare di Stabia, conserva da tantissimi anni un fascino intramontabile.
Oggetto di numerose reinterpretazioni, una delle più famose è sicuramente quella di della Nuova compagnia di canto popolare:

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Un altro bellissimo pezzo è 'o scugnizzo" scritto poeta Gaetano Amendola e musicata da E. Barrucci, portato al successo da Peppino Gagliardi nel 17mo festival di Napoli del 1969:

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Pescatori o Marenari
1_1842Nella nostra amata città il pescatore e 'o marenaro sono sinonimo , anche se c'è qualcuno che fa notare che una differenza sostanziale c'è : 'O piscatore è colui che pesca il pesce e poi lo vende per strada e viene anche chiamato ‘O PISCIAVINNOLO, mentre 'o marenaro è colui che va in mare e vende il pescato alle pescherie o ai ristoranti con i quali ha gia' concordato.
Comunque, nonostante il progresso tecnologico, ” e’ ancora in grado di suscitare rispetto e curiosità “, rivelando “sapori e gesti antichi che si tramandano di padre in figlio, da vecchio a giovane. da centinaia a centinaia di anni lungo il ciclo del tempo”( cosi' sito “Fresco Pesce magazine”).
Questi uomini, induriti da un mestiere logorante e , in passato, pericoloso, chiamano le loro barche per nome, come fossero delle fedeli compagne e “in quei nomi spesso si celano storie, segreti, aneddoti che hanno segnato una vita. E allora ci sembra doveroso a questo punto ascoltare E ddoje Lucie din G Marotta e L Ricciardif portata al successo nel 1961 da Mario Abbate:

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E veniamo alla famosissima " O marenariello"
non sarebbe diventata un grande successo, se Salvatore Gambardella non avesse deciso di cambiarne i versi. Meglio, il loro autore. Inizialmente, infatti, il brano si intitolava ‘O mare e ba su testo di Diodato Del Gaizo. Non ottenne nessun riscontro. Gambardella,nel 1893 allora, passò il brano ad un autore appena ventenne, Gennaro Ottaviano. Cambiarono i versi, cambiò il titolo e cambiò il destino della canzone. Si racconta che nel 1893, presso quella bottega di Piazza del Mercato, Gambardella incontrò il poeta Gennaro Ottaviano (1874-1936) entrato per chiedere al De Chiara una musica adatta ai versi che aveva scritto. Pare che Gambardella avesse composto su due piedi una melodia ad un tempo gioiosa e malinconica di ispirazione belliniana: 'O marenariello. La canzone fu presentata al maestro Raimondo Rossi, direttore dell'Orchestra del Teatro Nuovo Politeama e cantata quella sera stessa da Emilia Persico. Ancora oggi tra le più note al mondo.
Ascoltiamola dalla splendida voce di Andrea Bocelli:

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"Piscatore 'e Pusilleco" è una canzone classica napoletana scritta nel 1925 dal poeta Ernesto Murolo, e musicata da Ernesto Tagliaferri.
E' diventato un “classico” della canzone napoletana, fu interpretato dal tenore Tito Schipa che la incise nel 1926, rendendolo molto popolare. Nel 1943 il brano, nell'interpretazione di Beniamino Gigli, fece parte della colonna sonora del film Silenzio, si gira! di Carlo Campogalliani. Nel 1954 da questo testo fu tratto il film omonimo, diretto da Giorgio Capitani e interpretato da Giacomo Rondinella.
Ascoltiamola da Luciano Pavarotti:

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Guappo, guapparia e guappo 'e cartone
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Il guappo è una figura tipica dell'universo e della cultura napoletana.
Il termine è di etimologia incerta e deriva quasi sicuramente dallo spagnolo "guapo" (it.: bello), che tra altre accezioni significa anche “uomo rissoso e millantatore”.
Il guappo si è sempre distinto per l'abbigliamento curato ed eccessivo, una postura particolare tesa all'ostentazione di se stesso e una cura puntigliosa del proprio fisico e del proprio volto. Il guappo si poteva distinguere in "semplice" o "signorile" a seconda degli abiti indossati: il primo preferiva abiti stravaganti e ostentativi mentre il secondo amava vestirsi con abiti delle migliori sartorie di Napoli.
Il guappo era anche considerato l'eroe del quartiere, colui che proteggeva ed aiutava i bisognosi, che occasionalmente fungeva da paciere ed era sempre pronto a dirimere le controversie tra le persone e a convincere i giovanotti che avevano messo incinta qualche ragazza a mettere la testa a posto e a sposarla, chi sgarrava pero'ne doveva subire le conseguenze.
Naturalmente il guappo apparteneva a ad una consorteria che riuniva tutti i guappi dei quartieri , che in senso molto lato potremmo definire "guapparia".
A questa consorteria è ispirata la celebre canzone "Guapparia" scritta nel 1914 da Libero Bovio e musicata da Rodolfo Falvo. È un classico brano della canzone napoletana ed una delle più note canzoni di giacca. Parla di un guappo che per amore della sua donna (Margherita), ha perso il suo onore di uomo malavitoso. È formata da tre strofe, formate a loro volta da due quartine e un verso singolo.
Ascoltiamola qui da Peppino Brio che ne fa una versione godibilissima :

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Accanto alla figura del guappo troviamo anche '0 guappo 'e cartone, cioè colui che chi si dà delle arie e fa le cose come fosse un “boss”, credendo di essere chissà chi, quando in realtà non è che tutta apparenza, “una sagoma di cartone”.
A questa figura sono state dedicate varie macchiette.
Noi qui ne abbiamo scelte due di Raffaele Viviani "‘O guappo ‘nnammurato un brano del 1910 e 'o Malamente . Il personaggio principale del guappo innamorato corrisponde totalmente al cliché del perfetto guappo. Il nostro “eroe”, infatti, «n'ommo 'e lignammo» temuto e rispettato da tutti, è stato un vero e proprio Don Giovanni finché non si è perdutamente innamorato di una donna tanto bella quanto crudele e che non ha alcuna pietà per i sentimenti del suo devoto spasimante. E così, sminuito e umiliato dagli spietati maltrattamenti verso il suo povero cuore da parte della gentil donzella, che rischiano di fargli perdere il dovuto rispetto dei suoi sottomessi, il malavitoso minaccia di farle seriamente del male se lei non si ridimensionerà, essendosi ridotto ad uno zimbello
Ascoltiamo Nino Taranto:

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'O malamente è stata scritta da Viviani nel 1914, ascoltiamola da Peppe Barra:

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IL VESUVIO PER I NAPOLETANI
1_1844No, non è il vulcano pronto ad esplodere, pur rimanendo il pericolo numero uno, è per i napoletani il simbolo di Napoli: una presenza discreta, familiare, quasi amica. In fondo se Napoli è considerata una delle città più belle al mondo è anche grazie a lui. Il vesuvio fa riconoscere le immagini di Napoli, Capri, Ischia e Sorrento in tutto il mondo.
Un napoletano quando parte e poi torna la prima cosa che si chiede è “ma quann’ sponta ‘o Vesuvio?”, no la Luna a Marechiaro. Quando finalmente lo vede in lontananza dall’auto, dal treno o dall’aereo, si sente a casa sua.
Chi ci vede da fuori pensa sia solo incoscienza, non sa invece quanto amore c’è dentro quel gesto voluto di vivere attaccato alle proprie radici.
Un napoletano un po’ se ne fotte, un po’ si preoccupa. Un napoletano prega in maniera un po’ pagana pure il Vesuvio e nel caso che succeda quella cosa, dirà al Santo di alzare la mano e di fermare tutto.
Per lui il Vesuvio non è un vulcano è solo :" 'a muntagna".
E, naturalmente, non potevano mancare le canzoni .
Ascoltiamo ora 'O VESUVIO di Gigli -Modugno 1967, dalla voce di Aurelio Fierro:

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Il Vesuvio fa da coreografia anche alla storia di un uomo innamorato che descrive la sua delusione mentre la fidanzata, a dispetto, non dà peso al suo dolore. Aspettando di vederla affacciarsi, mentre tutti, per la tarda ora, dormono, descrive il paesaggio che lo circonda: una notte silenziosa sulla quale si impongono le figure della Luna ( 'e chesta luna janca) e del Vulcano Monte ( 'a muntagna).
Stiamo parlando di Tu ca nun chiagne, scritta da Libero Bovio e musicata da Ernesto De Curtis, la canzone fu presentata per la prima volta nel 1915, durante i primi periodi dell'entrata dell'Italia nella Prima guerra mondiale.
ascoltiamola nella versione di Enrico Caruso:

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Il Vesuvio in qualche modo c'entra anche con la celeberrima Funiculì funiculàscritta nel 1880 dal giornalista Giuseppe Turco e musicata da Luigi Denza.
Il testo fu ispirato dall'inaugurazione della prima funicolare del Vesuvio, costruita nel 1879, per raggiungere la cima del Vesuvio.
La canzone è stata cantata per la prima volta nella Reggia di Quisisana a Castellammare di Stabia. Fu presentata da Turco e Denza alla festa di Piedigrotta, durante lo stesso anno e divenne immensamente popolare in Italia e all'estero. Il brano descrive quindi ai napoletani e soprattutto ai turisti i vantaggi offerti dal nuovo mezzo di trasporto, che permette di salire senza fatica, ammirando il panorama. Ascoltiamola dal maestro Pavarottii:

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Edited by Pulcinella291 - 17/4/2020, 08:28
 
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I café-concert a Napoli e i finti nomi francesi

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Sul finire del XIX secolo, quando Parigi divenne il simbolo del divertimento e della vita spensierata, i café-chantant valicarono le Alpi per essere importati anche in Italia. La novità esplose a Napoli, dove l'epoca d'oro del caffè-concerto coincise con quella della canzone napoletana. Nel 1890 venne infatti inaugurato l'elegante Salone Margherita, incastonato nella Galleria Umberto I, per merito dei fratelli Marino, che capirono l'importanza di un'attività commerciale redditizia da unire al fascino della rappresentazione del vivo.

L'idea fu vincente e ricalcò totalmente il modello francese, persino nella lingua utilizzata: non solo i cartelloni erano scritti in francese, ma anche i contratti degli artisti e il menu. I camerieri in livrea parlavano sempre in francese, così come gli spettatori: gli artisti, poi, fintamente d'oltralpe, ricalcavano i nomi d'arte in onore ai divi e alle vedettes parigine. È chiaro come la clientela che affollasse il Salone Margherita non fosse gente del popolino: in ogni caso, per i più disparati gusti, sorsero altri café-concert come l'elegante Gambrinus, l'Eden, il Rossini, l'Alambra, l'Eldorado, il Partenope, la Sala Napoli ed altri ancora che ricalcavano spesso, anche nel nome, i café-chantant parigini. Anche altri bar di Napoli, che in passato non presentavano spettacoli, si adattarono al gusto del momento presentando numeri di varietà misti a canzoni.
Importanti e famosi artisti che iniziarono la loro carriera proprio nei caffè-concerto furono Anna Fougez, Lina Cavalieri, Lydia Johnson, Leopoldo Fregoli, Ettore Petrolini, Raffaele Viviani. A Napoli le dive del Caffè concerto vengono chiamate sciantose, termine derivato dal francese chanteuse (cantante). Nel 1875 Luigi Stellato lancia l’idea dello spogliarello attraverso la sua famosa A cammesella. Da questo momento il Caffè concerto italiano si differenzia da quello francese, pieno di fascino e raffinatezza, diventando un “luogo di perdizione” dove il pubblico si reca alla ricerca di atmosfere maliziose e dove si iniziano a utilizzare canzoni dal soggetto audace e con doppi sensi.
Per rendere, poi, il concerto piu' internazionale , molte sciantose assunsero nomi francesi.
Al riguardo ascoltiamoci qualche pezzo:Lilì Kangy di Capurro - Gambardella 1905, cantato da Angela Luce

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Sempre da Angela Luce : A Frangesadi M. P. Costa.
L'autore ne scrisse versi e musica sul tavolo della birreria "Strasburgo" a Napoli nel 1894 in onore della diva del varietà Amanda Henry e la canzone fu portata al successo dalla cantante tarantina Anna Fougez. Era un periodo di crisi e moltissimi italiani emigravano all'estero in cerca di lavoro. La 'macchietta' di Costa volle mettere in risalto questa situazione di crisi.

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Un'altra canzone famosissima è Nini'Tirabusciò di di Salvatore Gambardella e di Aniello Califano. Liberamente ispirato alla vita di Maria Campi, la diva di varietà, nota per aver inventato il celebre movimento d'anca chiamato "mossa".
Ascoltiamo da Serena Autieri:

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Il varietà e il teatro macchiettistico napoletano
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Il varietà, così come l'avanspettacolo nasce a Napoli verso la fine dell'Ottocento e l'inizio del xx secolo, più semplicemente chiamato Café-chantant, era il periodo della "Belle-epoque" in cui Napoli e Parigi erano le capitali culturali dell'Europa. Chiamato così perché l'esibizioni degli artisti avvenivano nei caffè e sale da tè, il famosissimo "Caflish", poi cominciò ad ampliarsi come spettacolo teatrale vero e proprio, passando non distante dal caffè, alla bomboniera di via Chiaia il " Teatro Sannazaro". Lo spettacolo era suddiviso in due tempi e vari quadri, a secondo dell'esibizioni, nel primo si esibivano ballerine, cantanti, illusionisti e guitti. Nel secondo le vedette più attese le sciantose e soprattutto "le macchiette". In pratica erano degli attori che cantavano in modo caricaturale.

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La prima macchietta in assoluto fu il napoletanissimo Nicola Maldacea, celebre attore e canzonettista, il quale si esibì nelle prime riuscite macchiette al "Salone Margherita" con notevole successo, dando alle canzoni un'impressione efficace con la massima spontaneità caricaturale, creando così l'attore che canta
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Due assi della melodiosa canzone e della macchietta, furono senz'altro Pasquariello e Gill. Gennaro Pasquariello si dedicò anima e corpo al "Caffè-concerto" e, quindi al varietà di gran classe affermandosi nei primi anni del novecento al "Salone Margherita". Le sue interpretazioni erano caratterizzate da una tecnica sicurissima e da una sopraffina sensibilità vocale. Armando Gill, nome d'arte di Michele Testa, pur non avendo una voce estesa e una non perfetta intonazione, suppliva a questo con le doti di fine dicitore che ritornelli e finali, caricava di toni comunicativi e pieni di sentimentalismo, strappando applausi a scena aperta.
Altro grande interprete del genere, sempre ad inizio secolo, fu Gustavo De Marco cui Totò si ispirò.
Successivamente vennero alla ribalta altri bravi caratteristi tipo, Pietro De Vico, Franco Sportelli, Ugo D'Alessio ed Enzo Turco e una citazione va fatta anche per altri meno popolari e fortunati, ma altrettanto bravi, i vari Peppino Villani, Nino Milano, Rino Genovese, Marchitiello, Maghizzano, Fregolino, Leo Brandi e Trottolino. Fino a tempi più recenti, ovvero: Rino Marcelli, Giacomo Rizzo, Tommaso Bianco e Vittorio Marsiglia.

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Ma su tutti questi spicca il nome del più grande in questo genere: Nino Taranto.
Potremmo postare centinaia di macchiette , ma per motivi di opportunità ne abbiamo scelto solo alcune.
Cominciamo con Il bel Ciccillo i versi sono di Arturo Trusiano, la musica di Salvatore Capaldo e fu una creazione dell'artista Giovanni Mongelluzzo, Napoli, Bideri, 1917.
Divenne un cavallo di battaglia degli spettacoli di Gustavo De Marco al teatro Jovinelli in cui si esibiva anche il giovane Totò. Quando un giorno De Marco non poté presenziare per indisposizione Totò lo sostituì proponendo a sua volta la macchietta "Il bel Ciccillo", imitando lo stile "marionettistico" di De Marco; il successo di quella serata ("sei meglio di De Marco" si dice urlassero dal pubblico) fece pian piano scalzare De Marco e Totò divenne titolare del numero:
ascoltiamola da Toto':

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Un duo famoso, autori di grandi macchiette furono Pisano e Cioffi, ascoltiamone alcune :

Maria Dal Monte ci canta Non mi posso ribassà

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E non sta bene - Nino Taranto
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Concettina Cascia - Nino Taranto
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Arcangelo Bottiglia - Vittorio Marsiglia
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Napoli e la tarantella



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Se parliamo di tarantella parliamo di Napoli .Secondo le credenze popolari, serviva a liberare dal veleno iniettato dal morso della tarantola. Considerata a tutti gli effetti come una forma di "danza", si distingueva dalle altre per la sua forma ritmica gioiosa e di evidente allusività erotica che ne hanno fatto per secoli il ballo più popolare del mondo. Anche se il ternine deriva con ogni probabilità, dalla tarantella ballata nelle Puglie. La tarantella napoletana mantiene inalterata la presenza dei vari tipi di strumenti, (a fiato, a corda e a percussione), ma attribuisce il predominio a quelli a corda e a percussione ( il calascione e il tamburello), il tamburello è stato sin dall'inizio lo strumento fondamentale del ballo, esso è sempre presente, il tamburello per la sua forma e per la sua qualità di rinchiudere uno spazio vuoto, è ancora un oggetto simbolo del genitale femminile, e per questo che nessun uomo lo suona mai, è suonato soltanto da donne o, al più da bambini. Introduce inoltre strumenti popolari come il "puti-pu", pentola di terracotta, coperta da una pelle di tamburo con un buco in mezzo. Si mette sotto l'ascella sinistra e, col braccio destro si fa andare su e giù una bacchetta, lo "scetavajasse" formato da una canna spaccata che fa da cassa e da un'altra che fa da archetto, alcune volte porta dei sonagli, o il "siscariello" specie di flauto formata da canna bucata per finire con il "triccabballacco" in legno composto da tre bastoncini di forma cilindrica uguali, il mediano immobile, i laterali articolati, in modo da avvicinarsi ed ad allontanarsi da quello centrale. Alla cima di ciascun bastoncino sta trasversalmente un martello, a due bocche il mediano, a una i laterali.
Sono in molti a confondere la tammurriata con la tarantella , forse perchè si usavano suppergiu' gli stessi strumenti, ma anche perchè, come vedremo molte canzoni contenenti nel titolo la parola tammurriata sono delle vere e proprie tarantelle.
E' il caso di tammuriata palazzola di(Russo, Falvo – 1914) che ascoltiamo da Valentina Stella:

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Famosissima nel mondo è la Tarantella napoletana di Rossini

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Ascoltiamo ora Tarantella Luciana da Nino Taranto:

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Tutta la filosofia del popolo napoletano
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Diciamoci la verità, noi napoletani siamo riconoscibilissimi, non solo perchè anche quando ci cimentiamo nella lingua italiana abbiamo sempre una inflessione difficilmente delebile, ma proprio' perchè il nostro carattere, la mentalità , il modo di fare, di vivere e pensare ne rappresentano l’identità.
Attenzione, di difetti ne abbiamo tantissimi ma conserviamo comunque caratteristiche che rendono il popolo napoletano talvolta unico e “diverso” dagli altri.
Partiamo dal presupposto che il napoletano ha un carattere forte perché abituato (storicamente) a trovarsi di fronte a problemi da risolvere, quindi ha ereditato la tendenza ad avere la forza di sopravvivere a tutto.
Per risollevarsi dai problemi il napoletano sa benissimo che non bisogna scoraggiarsi, quindi usa il “sorriso” e l’ironia per trarre la forza e la consapevolezza necessarie per reagire.
Ci sono due canzoni che possono spiegarci la mentalità, la filosofia e il carattere.
Una di queste è QUI FU NAPOLI di del MUROLO - TAGLIAFERRI del 1924 che ascoltiamo da Sergio Bruni

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l'altra è Totonno ‘e Quagliarella scritta nel 1919 da Giovanni Capurro .
In questa canzone c’è una filosofia un po’ amara e realistica sull’ esistenza umana, ma tuttavia si avverte in essa una morale positiva e un’energia vitale. Il protagonista Totonno, un ubriaco filosofo che sebbene ha vissuto diverse sventure non si abbatte, ma si accontenta di quel poco che la vita gli offre e di fronte alle innumerevole difficoltà, lui adotta la tecnica “dell’arrangiarsi”, che poi è una concezione di vita tipicamente napoletana.
Ascoltiamola da Nino Taranto in una versione dal vivo:

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"Scarparo, Solachianiello e Carzularo "
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Potrebbero sembrare dei sinonimi, ebbene no!
Mentre la lingua italiana definisce "Calzolaio" quell'artigiano che ripara le calzature.- Con questo termine si identifica tutta la categoria.- A Napoli vi è qualche diversità: Il termine Calzolaio viene usato principalmente dai signori (molto tempo fa) residenti al Vomero, zona alta della città di Napoli, sotto la collina dei Camaldoli.- Se però vi spostate in Napoli centro ovvero nella zona compresa tra i Quartieri Spagnoli ed il Porto ed in senso longitudinale, tra Porta Capuana e la collina di Posillipo, allora dovrete fare attenzione al vocabolo da usare.- Il tutto dipende da che riparazione vi serve; esempio, se dovete riportare la suola ad una o entrambe le scarpe, allora vi dovrete rivolgere al Solachianiello .- Costui è l'artigiano specializzato nella riparazione di suole e tacchi, ma ignora completamente qualsiasi altro intervento manutentivo alle vostre calzature e non ve le lustra neanche.-

Un secondo termine è "Scarparo".- Questo classifica lo stesso artigiano il quale pensa che è in grado di effettuare qualsiasi intervento di riparazione; al contrario, è un improvvisato per cui , se affidate le vostre calzature ad un simile artigiano, correte il rischio di non poterle più usare.- E' anche usato come termine dispregiativo nei confronti di coloro che operano in altri settori con molta approssimazione.- Questo termine è comunemente adottato per qualificare un Medico in cui riporre poca fisucia se ci tenete alla salute.-
Vi è poi 'O Carzularo che qualifica colui il quale è anche in grado di fornirvi un comodo paio di scarpe su misura e del tipo a voi più consono.- Di costui vi potete fidare.

Mi piace qui ricordare "'o scarpariello" una canzone del 1954 , composta da Luigi e Giuseppe Cioffi, che ebbe un buon successo discografico nella incisione di Sergio Bruni e fu inserita anche nel repertorio di Alberto Amato. Qui la ascoltiamo nella versione di Nicola Turco:

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IL GAGA' napoletano ecco chi era



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A dirvi la verita' se dovessi paragonare il personaggio del gaga' ad alcuni giovani di oggi l'accosterei a quello che comunemente vengono chiamati "chiattilli", cioè quei giovincelli che con i soldi di papa' si muovono in giro per i baretti tra Chiaia e San Pasquale, gustando gli aperitivi di vicoletto Belledonne, piazza dei Martiri, vinerie e localini di ogni tipo, per una movida ogni notte.
Ci si concede solo qualche minuto prima di passare al locale successivo. Un cocktail, qualcosa da bere, l’allure molto formale e camicia inamidata.
Il gaga', a dirla come la Treccani, era un giovanotto intellettualmente e moralmente poco serio che ostentava un’affettata eleganza nel parlare, nel comportarsi e nel vestire, atteggiandosi a gran signore, spesso senza averne i mezzi . Per farvi un esempio il Toto' "in Signori si nasce" :vestito elegante, erre decisamente moscia o alla francese movenze forzatamente sofisticate.
La canzone napoletana non poteva lasciarsi scappare un tale personaggio e allora ascoltiamoci due pezzi.
Il primo è una canzone del 1954 " SCI SCI PIAZZA DEI MARTIRI versi PEPPINO FIORELLI Musica FURIO RENDINE, ascoltiamola da Fausto Cigliano:

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Il secondo pezzo èTutti vogliono Gagà una macchietta di Gigliati - Valente che Nino Taranto incise nel 1946:

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La donna nei brani un po' comici ed un po' satirici ,ironici, talvolta maliziosi
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La maggior parte delle canzoni napoletane hanno un solo comune denominatore ,sono dedicate alle donna in tutte le sue sfumature più seducenti. Una donna corteggiata, desiderosa e desiderata, bugiarda quando occorre, a volte ingannevole e pronta a schernire e "sfottere" il proprio uomo, il quale, un po' artefice ed un po' vittima, indosserà, brano dopo brano, i panni di corteggiatore, compagno, amante.
Noi qui ci dedicheremo a quelle canzoni in cui l'uomo e la donna diventano, così, personaggi curiosi, talvolta grotteschi.
Comincerei con Attenti alle donne di Armando Gill – 1927 cantata da Nino Taranto

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Molti uomini dicono donne e motori :gioie e dolori, altri invece donna al volante pericolo costante.
Ebbene c'è una canzone del 1927 che forse rende meglio l'idea si tratta di "LA DONNA AL VOLANTE di ARMANDO GILL, che qui ascoltiamo da un grandissimo Roberto Murolo:

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C'è poi la donna cocotte che vuole approfittare di un giovane che ella ritiene sempliciotto di perferia . ma ha fatto i conti senza l'oste. E' quanto viene descritto nella canzone che segue: e allora sempre di Armando Gill che ascoltiamo da Vittorio Marsiglia :

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Poi c'è la donna traditrice con il marito credulone o cornuto contento, questo lo giudicherete voi una volta ascoltata Rea confessa del 1938 testo GIGI PISANO musica GIUSEPPE CIOFFI ascoltiamola da Nino Taranto:

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Poi c'è il figliolo, che avendo conosciuto la vera natura della madre è alla ricerca del suo padre naturale è quello che ascolterete in Mammà chi e' papa' del 1947 (Versi di Arturo Gigliati - Musica di Enzo Barile). sempre da Nino Taranto:

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Napoli e il mese di maggio
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Si è sempre detto che Maggio è il mese delle rose e dell'amore, lo si è sempre detto anche dalle nostre parti e come vedremo sono tantissime le canzoni dedicate a questo bel periodo dell'anno .
Ma a Napoli non è stato sempre un bel mese poichè il 4 maggio era il giorno degli sfratti di casa : è una curiosita di cui vale la pena parlare.
Nella nostra citta' il quattro maggio è sinonimo di traslochi in quanto gli stessi avvenivano tutti in questo giorno.
In realtà prima ancora era uso fra i meridionali compiere tale operazione il 10 di agosto, a mano a mano, però per le proteste dei facchini che dovevano sobbarcarsi il gravoso compito dei traslochi, costretti a lavorare con il gran caldo agostano la consuetudine venne meno e i traslochi, a seguito di una prammatica emessa nel 1587 dal viceré Juan de Zunica conte di Morales furono spostati al 1° di maggio festività dei santi Filippo e Giacomo , ma i napoletani, devoti dei due santi e soprattutto legati ad una tradizionale festa con processione , legata alla festività dei cennati santi non accettarono di traslocare in detta data e cominciarono a traslocare a loro piacimento , fino a che nel 1611 un nuovo viceré Pedro Fernandez de Castro conte di Lemos stabili' definitivamente che traslochi e sfratti si tenessero ai quattro di maggio giorno dal quale decorreva altresì il pagamento del canone mensile di locazione detto in napoletano mesata o più esattamente 'o pesone. Oggi per indicare che un amore è quasi finito si suole dire:" me stai priparanno o quatte e maggio??"
In altre parole le canzoni napoletane di maggio sono così tante che nemmeno vale la pena chiedersi qual è il mese più musicale. Maggio, per l’appunto. È un’impresa ardua provare a fare una stima dei brani dedicati a quello che è, per definizione, il mese dell’amore. Addirittura, impossibile se si cercano riferimenti anche nei versi.
E proprio col 4 di maggio che cominciamo la carrellata musicale.
Ascoltiamo infatti da Peppino Brio 'E QUATT' 'E MAGGIOuna canzone del 1918 scritta da Armando Gill:

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Una piacevole ritmo possiede anche Rusella e maggio una canzone del 1939 di Trusiano - Cannio. ascoltiamola da Mauro Nardi:

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Era de maggio (1885) una delle canzoni napoletane di maggio più famose, probabilmente anche la più bella. Sicuramente quella che vanta il maggior numero di interpretazioni, più di cento. Basata sui versi di una poesia del 1885 di Salvatore Di Giacomo e messa in musica da Mario Pasquale Costa ascoltiamola da Sergio Bruni :

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Torna maggio (1900) di Vincenzo Russo ed Eduardo Di Capua la ascolteremo da grande, grandissima Giulietta Sacco:

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Maggio sì tu del 1913 (E. A. Mario) la ascolteremo invece da Franco Ricci:

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E concluderei con 'Na sera 'e maggio scritta nel 1937 dalla coppia Pisano-Cioffi rispettivamente autori del testo e della musica; fu l’ultimo grande successo che si diffuse da Napoli prima dello scoppio della seconda guerra mondiale.
Il testo racconta la storia di un addio, con l’innamorato che non si capacita della fine di un amore nato durante una sera di maggio.
Ascoltiamola dal tenore Placido Domingo:

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La superstizione e i maluocchie per i napoletani

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La superstizione. “Non è vero, ma ci credo”. In una frase, un concetto e il suo contrario. Napoli è una fioritura di maghi, veggenti che leggono le carte, la mano, la pianta del piede se occorre; e poi malocchio e contro malocchio, fatture e contro fatture, amuleti contro tutto, amuleti secondo necessità: quando occorre il ferro di cavallo, o il cornetto semplice, o il gobbetto, o la manina che fa le corna. Il Napoletano sa bene che ogni amuleto annulla l’altro, che tutti insieme si annullano a vicenda, e che la vita non subisce modifiche se ci “affatturano”. Però, nel dubbio… non è vero, ma ci credo.
In altre parole i napoletani invece hanno fatto della superstizione un loro tratto distintivo.

Tra le superstizioni napoletane, una delle più significative e radicata è il cosiddetto “malocchio”, una superstizione, precisiamo, presente e diffusa anche in moltissimi altri luoghi, non solo a Napoli.
La civetta è per noi l'uccello del malaugurio, "sciò sciò" si usa anche in italiano corrente... ciucciué è la civetta, che da noi, al sud, non porta bene (non è che ci credo tanto a ste cose poi...) contrariamente agli usi ed ai costumi del nord... tié si accompagna ad un cattivissimo gesto, poco signorile ed educato... spero di essere stata abbastanza chiara... più di così si muore

Ascoltiamoci ora Nino Taranto in Sciò sciò ciucciuè

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L'amicizia per i napoletani

Ci sono vari detti napoletani che fanno capire il concetto dell'amicizia per i napoletani per esempio:L'amico è comme 'o mellone se canosce alla prova(lla prova si conoscono i veri amici), A' avutata d' 'o vico, addio l'amico (Quando un'amicizia non è profonda basta la lontananza perché si dissolva).
Questo ci fa capire che il miglior amico di un Napoletano è solo se stesso. A parole, tutti i suoi conoscenti sono amici, e così li chiama, e li decanta come tali, esagerandone spesso i meriti; in realtà non si fida di nessuno, l’amico vero non esiste. E, se ce l’ha, non lo chiama mai “amico”, e non lo vanta di fronte a nessuno, per paura che glielo rubino. Ma della parola “amico” ne fa un grande uso, pur consapevole che non risponde al vero.
Poi c'è un altro detto :"pure cu ll'amici 'a vrachetta nun cunosce rispetto(In amore l'uomo non rispetta gli amici). E di questo si è accorto anche il protagonista della canzone di (Bovio, Albano) 1928 'O Meglio Amicoche ascoltiamo da Nino Taranto:

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L'ottimismo per i Napoletani
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A prima vista, il Napoletano è la quintessenza dell’ottimismo; gioviale, pronto ad incoraggiare con una parola ed una pacca sulla spalla chi ha bisogno, e si accontenta di poco: “tenimm ‘o sole, tenimm ‘o mare, ‘o ciel’ blu…”. Da un lato fa l’ottimista, quando asserisce “scuordammece ‘o passat’, nun ce penzamm cchiù”, ed inoltre sopporta l’oggi, perché sa che c’è un domani, nel quale spera; un domani nel quale, a ben vedere, però, non ha fiducia. Perché in fondo è un pessimista, un vero Pulcinella che, quando ha la maschera sul viso, diffonde facondie, frizzi e lazzi; poi, solleva la maschera sulla fronte, tirandola su per il lungo naso e affronta la realtà con una vena di pessimismo che emerge sempre più, mentre lentamente, parlando, china il capo sotto il peso della vita; poi, all’improvviso, tira giù di nuovo la maschera e va via dal palcoscenico, ancora tra frizzi e lazzi. Un ottimo pessimista, o, se preferite, un pessimo ottimista.
A tale proposito ci andremo ad ascoltare Simme e Napule paisà : una canzone che riscosse un successo internazionale.
Una canzone di Peppino Fiorelli e musicata da da Nicola Valente, nel 1944 quando i bombardamenti non risparmiarono certo la città che porterà per sempre i segni dell’atroce odio distruttore di quegli anni. Napoli era sommersa dalle macerie e molte famiglie erano disperate, trovandosi ben presto senza cibo, lavoro e soldi.
Ecco che ce la canta Massimo Ranieri:

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La canzone a fronna e limone
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La "fronna 'e limone" è una particolare forma di canto a distesa eseguita senza accompagnamento strumentale ancora praticato in alcune aree della provincia di Napoli, Caserta e Salerno. L'espressione "fronn' e limone" intonata all'inizio del canto, può essere a volte sostituita da altre formule stereotipe quali "albrero 'e noce" ,"mar'e arena", "si bella 'e viso", "simpaticona". Metricamente simili, tali espressioni svolgono principalmente la funzione di preparare le assonanze con i versi seguenti. I testi provengono da un vasto repertorio di "fronne" che, sebbene formalizzate, offrono all'esecutore a seconda delle circostanze una larga possibilità di variazione e di improvvisazione. Durante l'esecuzione, due o più cantatori possono spesso intrecciare una sorta di dialogo rispondendosi "a fronna" l"uno con l’altro.
Per la peculiarità di impiego, essa veniva talvolta utilizzata come forma comunicativa a distanza. Infatti, in passato, un tipo particolare di "fronna" veniva cantata sotto le mura delle carceri da amici o parenti che in tal modo riuscivano a comunicare coi reclusi.
Sotto l’aspetto melodico la "fronna" è uno stile di canto particolarmente complesso. Essa infatti presenta una caratteristica sillabazione ricca di fioriture melodiche e di micro intervalli e spesso si articola su diverse modalità nello stesso tempo. La tessitura del canto è molto acuta e l’attacco melodico avviene quasi sempre sul quinto grado, che dopo una cadenza al terzo dal quinto grado ridiscende al primo. L’ambito melodico varia da una sesta, per le "fronne" più comuni, a quello di una ottava per altri tipi di "fronne", come avviene per alcune "fronne di carcere".
C'è da aggiungere che in alcune aree della Campania quali Pomigliano d'Arco (NA) e Pagani (SA), fino ad alcuni anni fa, la "fronn' e limone" veniva impiegata anche come modello di lamentazione funebre.
da apostrofo.com
Possiamo senz'altro affermare che “fronna ‘e limone” è un modo di dire napoletano, che significa fare musica così come ti viene: urlando, agitando liberamente le tammorre, cioè quei tamburi con pelle molto lenta che danno un suono profondo capace di penetrare nelle viscere della coscienza, rumoreggiando a colpi di cucchiaio, di piatti, di qualsiasi oggetto che ti capita in mano ed articolando versi e motivi con la massima libertà.
Ascoltiamone alcune fronne 'e limone quella che segue è cantata da Domenico Silvestre, alias Menecone, un venditore ambulante :

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Questa è invece cantata da Tony Bruni (Versi di Alberto Sciotti - Musica di Tony Iglio).

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il “canto a ffigliola”

Era un canto intonato, generalmente, per le feste dedicate alla Madonna, soprattutto quelle organizzate per la Madonna di Montevergine, la Madonna Nera e la Madonna di Castello. Gli esecutori potevano autonomamente anche inventarsi i versi a seconda delle occasioni.
Era solitamente intonato, senza musica, dal capo-paranza e nella parte finale si aggiungeva il coro. Questo genere poteva essere cantato anche dall’innamorato che, nel mese di maggio, regalava alla donna amata una “perticella”, ossia un ramo tagliato al quale erano appesi vari doni e su cui era sempre messa un’immagine della Madonna. Una volta, specialmente a Napoli, il “canto a ffigliola” era anche tipico e rappresentativo della malavita locale e veniva utilizzato come campo di battaglia per i cantatori che si sfidavano dopo il pellegrinaggio a Montevergine. La competizione solitamente si faceva a Nola.
Oggi però, quasi scomparso con tale funzione rappresentativa, il canto 'a ffigliola' resta essenzialmente legato al solo culto della Madonna nera ( Mamma Schiavona), e alla funzione della 'perticella'.

ascoltiamo ora il canto a figliola dedicato Madonna delle Galline che si venera in Pagani (Sa), la voce è del compianto Franco Tiano :
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ecco ora il canto Alla Madonna Di Montevergine :

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Sempre alla Madonna di Montevergine è dedicato il brano cantato dal già citato Menecone:
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I nomi femminili piu' comuni a Napoli



Sappiamo che, una volta, prima che anche da noi proliferasse l'esotismo proveniente da paesi stranieri, i nomi piu' comuni erano Maria, Anna, Teresa, Filomena, Cramela, Rosa ecc. e all'universo femminile erano dedicate canzoni d'amore e non.
Insomma la donna era la musa che ha ispirato grandi autori.